Pubbl. Gio, 7 Gen 2021
Il reato di truffa commessa attraverso la prospettazione di un male immaginario e il reato di estorsione: un distinguo
Modifica paginaLa distinzione tra il reato di truffa, consumata attraverso la prospettazione di un pericolo immaginario, ed il reato di estorsione deve essere effettuata valutando la concreta modalità della condotta. Si verte nell´ipotesi estorsiva quando il male prospettato si presenta incontrastabilmente derivato dalla volontà potestativa dell´agente e coarta la volontà della vittima, rappresentando un evento di danno futuro in ipotesi realizzabile dallo stesso agente; si verte invece nell´ipotesi della truffa quando la minaccia del pericolo irrealizzabile, per la sua intrinseca consistenza, non ha capacità coercitiva, ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso l´induzione in errore
Sommario: 1 Introduzione; 2 Il reato di truffa e l’ipotesi aggravata, ex art. 640 comma 2 n. 2; 3 Il reato di estorsione; 4 Il giudizio in Cassazione; 4.1 I motivi di ricorso; 4.2 Le argomentazioni della Suprema Corte e il principio di diritto affermato; 5 Conclusioni
1. Introduzione
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 31433/2020, depositata il 10.11.2020, ha puntualmente delineato la distinzione tra la fattispecie criminosa di truffa aggravata, ex art. 640 comma 2 n. 2 c.p, e quella di estorsione, ex art. 629 c.p.
In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato le diverse connotazioni e specificazioni dell’ipotesi criminosa di truffa aggravata, commessa ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, in raffronto al differente delitto di estorsione.
Pima di analizzare il dictum appena citato, è necessaria una breve disamina circa gli elementi costitutivi delle due ipotesi delittuose citate.
2. Il reato di truffa e l’ipotesi aggravata, ex art. 640 comma 2 n. 2
Partendo dalla qualificazione del delitto di truffa, ex art. 640 c.p., tale fattispecie criminosa punisce «chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno».
Il secondo comma della disposizione, rilevante ai fini del presente commento, prevede le seguenti ipotesi aggravate, ove la condotta fraudolenta sia realizzata alternativamente attraverso una delle seguenti modalità:
1) «il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o dell’Unione europea o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare»;
2) «il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità»;
2 bis) «il fatto è commesso in presenza della circostanza di cui all’articolo 61, numero 5 c.p.», ossia di avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa.
La truffa è, dunque, qualificabile come reato comune, attuato mediante la necessaria cooperazione artificiosa della vittima, e come “reato in contratto”, sulla base di seguenti rilievi.
Quanto alla prima qualificazione, la truffa è un delitto contro il patrimonio realizzato per mezzo della cooperazione artificiosa della vittima, nel senso che l’azione delittuosa del soggetto attivo si svolge attraverso modalità tali da condurre il soggetto passivo stesso a concorrere alla produzione del medesimo; inoltre, il delitto de quo è annoverabile tra i cd. “reati in contratto”, in quanto l’ordinamento non vieta ex se l’accordo intervenuto tra le parti (che ben potrebbe essere lecito), ma la modalità ingannatoria adoperata dal soggetto attivo, attuata in modo da carpire illecitamente il consenso della vittima attraverso la sua induzione in errore.
Quanto al bene giuridico tutelato dalla norma, si riconosce alla fattispecie natura di reato plurioffensivo, in quanto contestualmente lesivo del patrimonio e della libertà di autodeterminazione della vittima.
Orbene, venendo all’ipotesi criminosa interessata dalla sentenza commentata, ossia quella prevista dall’art. 640 comma 2 n. 2 c.p., si prevede che il soggetto attivo sia più severamente punito laddove l’azione fraudolenta sia commessa ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità.
Nell’ipotesi connotata dall’aver ingenerato nella vittima un “pericolo immaginario”, in particolare, il soggetto attivo realizza la condotta criminosa con modalità tali da far percepire come reale un pericolo inesistente, a cagione del quale la vittima, manipolata nel proprio processo decisionale, si risolve a cooperare.
Dunque, la condotta ingannatoria posta alla base dell’aggravante in oggetto assume pregnante disvalore per le modalità particolarmente insidiose e subdole adoperate nei confronti della vittima, spinta dal timore di incorrere in un pericolo, in realtà in alcun modo sussistente, ad assecondare il proposito del soggetto agente.
A riguardo, a mero titolo di esempio giurisprudenziale, può citarsi il dictum della Cassazione[1], in cui si rileva che «integra il reato di truffa aggravata il comportamento di colui che, sfruttando la fama di mago, chiromante, occultista o guaritore, ingeneri nelle persone offese la convinzione dell'esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o sui loro familiari e, facendo loro credere di poter scongiurare i prospettati pericoli con i rituali magici da lui praticati, le induca in errore, così procurandosi l'ingiusto profitto consistente nell'incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo danno per le medesime».
3. Il delitto di estorsione
L’art. 629 c.p. dispone la punibilità di «chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno».
Sono ictu oculi evidenti i punti di contatto tra tale fattispecie e quella di truffa: come per l’ipotesi ex art. 640 c.p., anche in questo caso siamo di fronte ad un reato comune, plurioffensivo (in quanto lesivo del patrimonio e della libertà e/o integrità psico fisica della vittima) e attuato mediante la necessaria cooperazione artificiosa della stessa, la quale, per mezzo della violenza o minaccia, viene costretta a fare od omettere qualche cosa.
Come il delitto di truffa, inoltre, la fattispecie criminosa di estorsione mira in ultima analisi a procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
Ben diverse, tuttavia, sono le modalità realizzative impiegate per giungere a tale risultato: a differenza della truffa, in cui il soggetto agente attua artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, nell’estorsione l’agente adopera violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o omettere qualcosa.
È palese dunque, il particolare maggior disvalore dell’ipotesi estorsiva, conseguentemente punita con pene più severe, in quanto più allarmante e pericolosa per l’ordinamento, sia per le modalità realizzative, contrassegnate dall'impiego di violenza o minaccia, che per l’azione esercitata sul soggetto, il quale viene coartato nella propria libera autoderminazione e costretto a tenere o non tenere un certo contegno.
Le differenze di cui si è appena detto, nitide ove si consideri il raffronto tra l’estorsione e la truffa, nella forma non aggravata, sfumano nell'ipotesi dei rapporti tra estorsione e truffa commessa ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, ex art. 640, comma 2 n. 2, c.p.
In particolare, il caso in cui l’azione ingannatoria sia realizzata prospettando un pericolo immaginario evidenzierebbe, all’apparenza, punti di contatto con la condotta estorsiva attuata attraverso un’azione minatoria.
In entrambi i casi, infatti, la vittima si risolve a collaborare con il soggetto agente sulla base della prospettazione di un certo tipo di conseguenze negative a proprio carico, ove la stessa non assecondi le pretese economiche avanzate.
A tal riguardo, allora, la valutazione dell’interprete deve essere orientata a verificare se il male prospettato sia qualificabile come immaginario o come effettivamente attuabile sulla base di un atto di volontà dell’agente, avendo riguardo alle concrete modalità dell’azione delittuosa.
Inoltre, come si evidenzierà in seguito, si rivelerà fondamentale per l’interprete divisare se la prospettazione del male assuma connotazioni e modalità tali da coartare la volontà della vittima (e dunque annullare in concreto il processo decisionale) o si limiti soltanto ad indurre in errore la stessa circa l’esistenza di un male immaginario e la spinga dunque alla cooperazione.
È possibile, introdotti i termini della questione, presentare il caso giuridico in oggetto e i canoni interpretativi impiegati dalla Suprema Corte al fine di operare la citata distinzione.
4. Il giudizio in Cassazione
Il caso giurisprudenziale di cui si offre commento attiene alla seguente vicenda giudiziaria: un soggetto, condannato in primo grado e in appello per il delitto di estorsione, ricorreva in Cassazione, lamentando l'errata qualificazione giuridica dei fatti nell'alveo applicativo di tale delitto anzichè in quello di truffa commessa ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario.
La Suprema Corte, nel dirimere la questione, ha compiutamente evidenziato le differenze tra le ipotesi criminose considerate analizzando, in particolare, i tratti distintivi tra condotte propriamente minatorie e condotte volte ad ingenerare il timore per un pericolo immaginario, non idonee a costituire una vera e propria coartazione della volontà.
4.1. I motivi di ricorso
In data 7 giugno 2016, Il Tribunale di Biella condannava l’imputato per concorso nel delitto di estorsione, aggravata dall’aver commesso il fatto mediante più persone riunite, e la Corte d’Appello di Torino, in seguito adita, confermava la decisione del primo grado.
Avverso la predetta sentenza ricorreva l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, sulla base dei seguenti motivi: in primo luogo, ad avviso del ricorrente, la sentenza d’appello sarebbe stata inficiata dal vizio di violazione della legge penale, sostanziale e processuale, e dal vizio di motivazione, avendo la Corte illogicamente argomentato il convincimento relativo alla qualificazione giuridica del fatto operata nel giudizio di primo grado.
In particolare, la Corte avrebbe errato nel ritenere corretta la qualificazione giuridica del fatto nell’alveo applicativo dell’estorsione operata dal tribunale di prime cure, anziché in quella della truffa aggravata dalla circostanza di aver ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, ex art. 640 c.p., comma 2, n. 2.
A tal proposito, sarebbe stato valorizzato inopinatamente l’effetto suscitato dalla condotta tenuta sulla vittima, laddove il criterio distintivo tra le due fattispecie non avrebbe dovuto tener conto, secondo il ricorrente, degli effetti determinati dalla condotta.
In via susseguente, i medesimi vizi contenuti nella prospettazione operata in primo grado avrebbero dunque afflitto la sentenza d’appello, avendo l'organo giudicante erroneamente confermato la predetta qualificazione giuridica senza apprezzare che la condotta contestata sia stata connotata dalla palese prospettazione di un male immaginario.
4.2. Le argomentazioni della Suprema Corte e il principio di diritto affermato
La Cassazione ha valutato il ricorso infondato, sulla base delle seguenti argomentazioni.
Sotto tale profilo, la Suprema Corte ha rilevato che l’asserito difetto di logicità della sentenza impugnata circa la qualificazione giuridica del fatto debba essere ritenuto infondato e che, al contrario, nella pronuncia di appello sia rinvenibile un preciso e coerente inquadramento della fattispecie criminosa addebitata al ricorrente nell’alveo applicativo dell’estorsione, e non della truffa aggravata, come dallo stesso auspicato.
Sul punto, confermando la valutazione giuridica operata nella sentenza de quo, la Suprema Corte ha chiarito con precisione i tratti distintivi delle fattispecie criminose appena citate.
Secondo gli Ermellini, la differenza tra tali ipotesi criminose andrebbe accertata risolvendo i seguenti interrogativi: se il male minacciato sia prospettato come reale o immaginario; se la prospettazione del male produca, in concreto, una manipolazione della volontà riconducibile all' induzione in errore o ad una vera e propria coazione della volontà.
Per quanto attiene al secondo interrogativo, analizzato in via prioritaria dalla Corte, si rileva che è fondamentale arguire se la reazione della vittima volta a evitare il male prospettato sia generata da una condotta ingannatoria del soggetto attivo, piuttosto che da un'irresistibile coartazione.
Invero, bisogna compiutamente valutare se la volontà della vittima sia stata oggetto di una mera manipolazione o se invece la stessa sia stata irresistibilmente coartata.[2]
Sul punto, la Suprema Corte ha chiarito che, nonostante entrambe le condotte siano idonee a modificare il fisiologico sviluppo dei processi volitivi della vittima, solo in caso di una vera e propria coartazione della volontà l’azione illecita può qualificarsi come irresistibile; al contrario, nell’induzione in errore, la volontà del soggetto non può definirsi come definitivamente coartata, ma solo manipolata.
Sul punto, rileva plasticamente la Corte che «la condotta induttiva, anche quando si manifesta con la esposizione di pericoli inesistenti, si differenzia dalla condotta estorsiva proprio nella misura in cui la volontà risulta "diretta" e "manipolata", ma non irresistibilmente "piegata". La idoneità della rappresentazione del male a "dirigere" piuttosto che "piegare" la volontà non può essere stabilita in astratto, ma necessita di uno scrutinio che verifichi in concreto la consistenza della azione minatoria, anche rispetto alla effettiva resistenza della vittima».
Orbene, l’indagine da operare secondo quanto appena riferito deve necessariamente svolgersi avendo riguardo all’idoneità coercitiva della minaccia nel momento in cui la stessa è rivolta alla vittima, senza che assuma rilievo alcuno che il male prospettato si riveli in seguito irrealizzabile[3].
A tal proposito, si riferisce che il suddetto accertamento, tenendo conto delle circostanze concrete della stessa, ossia la potenza oggettiva della minaccia e la sua soggettiva incidenza sulla specifica vittima, e la qualificazione giuridica da ciò scaturita, vada sviluppata nel giudizio di merito e, se congruamente e logicamente motivata dal giudice di merito, non sia nuovamente sindacabile nel giudizio di legittimità̀.[4]
Per quanto invece attiene al primo interrogativo sopra citato, attinente alla concreta individuazione del pericolo immaginario, si rileva che lo stesso vada inevitabilmente individuato in un pericolo obiettivamente inesistente e, per tal via, che quest'ultimo sia naturalisticamente rappresentabile solo grazie all’impiego di artifizi o raggiri idonei a indurre in errore la vittima.
In altre parole, il pericolo immaginario ingenerato nella vittima non può in alcun modo essere prodotto da una condotta materialmente costrittiva della volontà, ma solo da una azione costituita da artifizi o raggiri, e, dunque, fraudolenta.
A conclusione di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto:
«La distinzione tra il reato di truffa, consumata attraverso la prospettazione di un pericolo rappresentato dalla minaccia alla libertà personale e di iniziativa economica della vittima, ed il reato di estorsione deve essere effettuata valutando la concreta modalità della condotta, dovendosi ritenere che si verte nella ipotesi estorsiva quando il male prospettato si presenta incontrastabilmente derivato dalla volontà potestativa dell’agente e coarta la volontà della vittima, rappresentando un evento di danno futuro in ipotesi realizzabile dallo stesso agente; si verte invece nell’ipotesi della truffa quando la minaccia del pericolo irrealizzabile, per la sua intrinseca consistenza, non ha capacità coercitiva, ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore (similmente Sez. 2, n. 52121, del 25/11/2014, Rv. 261328; Sez. 2, n, 46084 del 21/10/2015, Rv. 265362; da ultimo: Sez. 2, n. 24624 del 17/07/2020, Rv. 279492). La valutazione della efficacia coercitiva, piuttosto che semplicemente manipolativa della minaccia deve essere svolta con apprezzamento di merito da effettuarsi ex ante, che se adeguatamente argomentato in fatto non è censurabile nel giudizio di legittimità».
5. Conclusioni
Sulla base di tali rilievi, si è dunque ritenuto che la Corte territoriale abbia correttamente applicato i principi appena citati, confermando la corretta qualificazione giuridica del fatto criminoso nell'alveo applicativo del delitto di estorsione; in particolare, sarebbe stato ampiamente e coerentemente evidenziato che l’azione delittuosa realizzata dal soggetto agente abbia integrato una minaccia credibile dotata di effetto coercitivo, pienamente idonea a costituire una forma di intimidazione e in tal senso percepita dalla vittima.
Per tali ragioni, la Suprema Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto e condannato il ricorrente alle spese processuali.