Razza e Costituzione: verso il superamento della diversità
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Luana Leo
Il contributo pone in luce l´urgenza di prendere una posizione in merito alla proposta di abrogazione della parola ”razza” dalla Costituzione. L´indifferenza mostrata sulla tematica e la palese difficoltà da parte del legislatore al riguardo ostacolano la risoluzione del caso e di conseguenza la possibilità di pervenire ad un´idonea soluzione. A prescindere dal significato e dal senso che intende conferire, quel che rileva è la sua capacità di rimembrare un passato contrassegnato da odio, violenza e discriminazione.
Sommario: 1. Premessa. Il punto di vista della scienza sulla parola “razza”. 2. A difesa della razza: persecuzione fascista e odio antisemita. 3. L’abolizione delle Leggi Razziali e “l’apparente” soppressione della razza. 4. La parola “razza” al centro dei lavori dell’Assemblea Costituente. 4.1 Brevi riflessioni sul divieto di discriminazione per razza (art. 3 comma 1 Cost.). 5. La parola “razza” nelle Costituzioni storiche. 6. Sulla proposta di eliminazione della parola “razza” dalla Costituzione italiana. 6.1 Le differenti posizioni degli Stati europei: interventi e reazioni. 7. Conclusioni: tra la volontà di voltare pagina e la paura di cambiare c’è la necessità di mettere chiarezza.
1. Premessa. Il punto di vista della scienza sulla “razza”
Negli ultimi secoli, e specialmente nel XX secolo, si è cercato in tutti i modi di conferire dignità scientifica al termine “razza”. Nel linguaggio comune la “razza” indica un insieme di persone accumunate da una determinata caratteristica fisica: il colore. Di fronte ai primi contatti tra popoli distinti sotto numerosi punti di vista, gli scienziati si posero il problema di procedere ad una classificazione. Il medico svedese Carlo Linneo introdusse il sistema di classificazione delle specie vegetali e animali, compreso l’uomo. Quest’ultimo, intento a riprendere il progetto aristotelico, colloca il genere umano nell’ordine dei primati, a sua volta costituito da due specie: Homo sapiens e Homo troglodytes. Mentre nella seconda specie rientrano le scimmie antropomorfe, la specie sapiens è ripartibile in differenti sottogruppi, o meglio razze, corrispondenti alle quattro parti della terra e ai quattro colori: la razza rossa (americana), quella gialla (asiatica), quella nera (africana), quella bianca (europea)[1]. Sebbene l’ideologia di Linneo fornì contributi di notevole rilievo alla scienza, si deve al naturalista francese George-Louis Leclerc Buffon il merito di aver introdotto una classificazione del genere umana accolta in varie parti del mondo. A differenza dei suoi predecessori, Buffon non si limita a classificare le differenze sulla base di criteri più o meno oggettivi, ma delinea anche una precisa gerarchia di civiltà e bellezza. Alla luce di tale gerarchia “i bianchi rappresentano il raggruppamento umano nel quale la bellezza si esprime al suo massimo livello, mentre i neri invece sono così brutti che talvolta si fatica a distinguerli dagli animali”[2]. Nel 1775 Johann Friedrich Blumenback, in occasione della laurea in medicina conseguita presso l’Università di Bologna, traccia una nuova e pericolosa prospettiva in materia. Secondo Blumenback, le razze costituiscono un dato naturale tale da non richiedere alcuna verifica scientifica[3]. A partire da detta visione, alcuni pensatori come Voltaire e David Hume avanzano la tesi che vede discendere la razza bianca da Adamo e le altre, come gli indios, da coppie preadamitiche. In tal contesto, appare opportuno sottolineare come la “diversità” tra i popoli non si traduca ancora nel razzismo. A tal proposito, la forzata interpretazione del darwinismo sociale (non accolta da Darwin) sembra conferire portata scientifica al razzismo con il principio della selezione, incentrato sulla sopravvivenza del più forte e l’eliminazione del più debole, e al contempo, a esaltare l’idea della superiorità dei popoli bianche rispetto agli altri. Tuttavia, le idee razziste presero piede agli inizi dell’Ottocento con la formazione dei primi grandi Stati nazionali. Il conte francese Joseph Arthur Gobineau ritenne che, senza la razza bianca, nessuna civiltà avrebbe mai potuto nascere o durare. Egli, altresì, sostenne la dipendenza della stessa dalla famiglia ariana. Tali idee furono riprese e approfondite dall’inglese Houston Steward Chamberlain, che subordinò l’esistenza della civiltà moderna a tre elementi: la cultura greca, il diritto romano e la personalità di Cristo tramandati da tre comunità etniche: gli ebrei, i tedeschi ed i latini[4]. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento tutti gli studi antropologici, psicologici e linguistici sulla razza finiscono per formare un sapere organico. In particolare, al termine dell’Ottocento, i discorsi sulla razza nati nell’ambito di discipline settoriali
“entrano in qualche modo in contatto e producono una sorta di corto circuito che imprime al discorso razziale un ruolo retorico: la razza, le differenze di razza, non sono più (solo) il tema di una disciplina specialistica, ma costituiscono (anche) un principio esplicativo di portata generale e per questo vengono a incidere sulla rappresentanza del soggetto e della comunità politica”[5].
Al contrario dei convinti pensatori di un tempo, più di recente sia la genetica che l’antropologia hanno esplicitamente negato la sussistenza di una razza umana. L’evoluzione degli studi di genetica, fondati sul sequenziamento del genoma umano, ha permesso di comprovare l’impossibilità di ripartire l’umanità biologicamente in razze. In un manifesto sottoscritto il 22 gennaio 2018 dai delegati delle società scientifiche in cui si accorpano gli antropologi italiani, si denuncia
“qualsiasi uso strumentale di categorie che sono al tempo stesso prive di fondatezza dal punto di vista genetico e potenzialmente discriminatorie, quali le “razze umane” o le “culture essenzializzate” (ovvero intese come unità definite e rigide), nel discorso scientifico, in quello pubblico e nelle pratiche sociali”[6].
2. A difesa della razza: persecuzione fascista e odio antisemita
Nel 1936 Benito Mussolini decise di intraprendere una campagna propagandistica da cui ne scaturì “l’antisemitismo di Stato”. Tale scelta discese non soltanto dalla volontà di non creare contrasti ideologici con l’alleato tedesco, ma anche dalla forte esigenza di gettare le basi per la costituzione di uno Stato totalitario intollerante di fronte a qualunque diversità. L’adesione ufficiale del fascismo al razzismo e la sua fusione con l’antisemitismo avvenne con il Manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato sul Giornale d’Italia nel 1938. A tale evento seguì poi la pubblicazione de La difesa della razza. Quest’ultima raccolse tutti i pregiudizi e gli stereotipi riservati dai fascisti agli ebrei. In particolare, in numerose pagine della rivista si scorgeva la rappresentazione dell’ebreo come essere perverso e sessualmente corrotto. Tale concezione venne ripresa anche da Otto Weininger che, nella sua opera Sesso e carattere, sottolineava l’ambiguità sessuale della la razza ebrea. L’odio antisemita trovò terreno fertile grazie alla rivista “Il Mulo”, avente alla guida un ebreo convertito. In codesto settimanale vennero tracciate una serie di accuse nei confronti degli ebrei: il deicidio, la loro presunta identità di “razza straniera” alla “nazione italiana”, la loro natura “approfittatrice”, che li avrebbe portati nel corso del tempo ad arricchirsi sulle disgrazie degli altri, la loro avarizia, l’alleanza giudaico-massonica ed infine, la loro eccessiva vicinanza ai partiti bolscevichi[7]. Nell’autunno del 1938, il governo di Roma approvò una serie di decreti – comunemente noti sotto l’appellativo di Legge Razziali – che intensificò la cultura dell’odio nel territorio nazionale. Il primo provvedimento della legislazione antiebraica escluse docenti e studenti di razza ebraica dall’ambito scolastico[8]. Un successivo provvedimento ribadì le previsioni contenute nel precedente r.d.l. con qualche allentamento. Si concedette, infatti, agli alunni di razza ebraica professanti la religione cattolica la facoltà di iscriversi nelle “scuole elementari e medie dipendenti dalle autorità ecclesiastiche”[9]. Così come l’istruzione, anche la cultura giuridica fu vittima dell’odio antisemita. Il regime fascista vietò agli ebrei l’esercizio della professione di avvocato, procuratore e patrocinatore legale[10]. Oltre a detti soggetti, anche i magistrati onorari e il personale del Ministero (cancellieri e segretari) furono dispensati dal servizio. Si vietò, altresì, alle amministrazioni civili dello Stato l’assunzione di persone appartenenti alla razza ebraica[11]. Il secondo r.d.l. del 1938 colpì i matrimoni: si proibirono le nozze del “cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza”.
L’osservanza di tale divieto fu assicurata da un lato, obbligando l’Ufficiale dello Stato Civile a verificare, “indipendentemente dalle dichiarazioni delle parti”, “la razza e lo stato di cittadinanza di entrambi i richiedenti”, dall’altro, statuendo l’improduttività di effetti delle nozze celebrate in violazione del suddetto divieto e di conseguenza la mancata trascrizione del medesimo nei registri dello Stato civile. Tuttavia, quel che contraddistinse il secondo r.d.l. rispetto al primo fu la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” racchiusa nell’art. 8[12].
Un ulteriore r.d.l. investì i beni delle vittime[13]. Una legge del 1939[14] riconobbe al Ministero dell’Interno “la facoltà di dichiarare la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile”, su conforme parere di una data Commissione, in seguito conosciuta come “Tribunale della razza”. Tale commissione si distinse da quella insediata in virtù del precedente r.d.l. Mentre quest’ultima si espresse sulla c.d. “arianizzazione”, la seconda fu chiamata a valutare la titolarità di “eccezionali benemerenze”. Essendo abilitato ad adottare provvedimenti definitivi sulla base di procedure non pubbliche e non rivedibili in sede di gravame, il Tribunale può essere qualificato alla stregua di una giurisdizione speciale deputata ad assolvere un compito di rilievo[15]. Alle legge, poi, si accostarono talune disposizioni amministrative che accentuarono notevolmente la persecuzione (ad esempio, si pensi all' Ordinanza di polizia n. 5 con cui si disponeva che tutti gli ebrei venivano inviati in appositi campi di concentramento). Occorre sottolineare che l'Italia assumeva come parametro di riferimento la Germania, da tempo modello cruciale del regime totalitario. L'ideologia nazista si incentrava sull'antisemitismo e sulla persecuzione degli ebrei. Per quanto concerne il primo, la sua definitiva legalizzazione avvenne nel settembre del 1935 con le Leggi di Norimberga: la prima prevedeva che il cittadino del Reich, quale unico titolare dei diritti politici, doveva godere di "sangue tedesco o affine"; la seconda, invece, introduceva limitazioni in campo domestico e matrimoniale. Esse vennero precedute da una serie infinita di provvedimenti caratterizzati da uno stile analogo. Nel 1933 venne promulgata l’Ordinanza del Presidente del Reich per la portezione del Popolo e dello Stato, che arrestava quanto garantito dalla Costituzione di Weimar in materia di libertà personali. Nell'ambito scolastico, si assistette all'emanazione della Legge contro l’invasione dell’elemento straniero delle scuole e delle università tedesche, la quale privava il cittadino avente discendenza ebrea della possibilità di partecipare a qualsiasi attività artisitica e culturale. In virtù della Legge sulla cittadinanza del Reich, il soggetto ebreo perse la qualifica di cittadino ebreo ma rimase parte ingrante dello Stato: egli, dunque, risultava carente di un'identità giuridica. Infine, lo svilimento della razza ariana venne consacrato con la Legge sulla prevenzione della nascita di elementi ereditariamente malati, che arginò fortemente i diritti fondamentali delle categorie più deboli. Da un raffronto tra la normativa italiana e quella tedesca emerge (e stupisce) la rapidità con cui i provvedimenti antiebraici si addattarono nel territorio tedesco, sintomo di una politica arida.
3. L’abolizione delle Leggi Razziali e “l’apparente” soppressione della razza
La fine del fascismo e della persecuzione tedesca consentì agli ebrei di riprendere in mano la propria vita, fino a quel momento messa a dura prova dall’adozione delle leggi razziali. L’armistizio siglato tra il governo Badoglio e le forze armate anglo-americana racchiudeva una serie di clausole, tra le quali quella avente ad oggetto l’abrogazione delle leggi razziali. Tuttavia, la natura politica di tale dichiarazione rendeva necessario l’intervento dello Stato e della pubblica amministrazione nei settori toccati dal potere fascista[16]. A causa della totale inattività delle forze politiche, si dovette attendere un notevole lasso di tempo (20 gennaio 1944) affinché il Governo italiano adottasse il primo provvedimento abrogativo generale. Quest’ultimo dispose la nullità dei provvedimenti di revoca della cittadinanza, il rientro in servizio per i dipendenti dello Stato e degli enti locali, nonché la riammissione in ulteriori amministrazioni pubbliche, l’estinzione dei processi penali in corso, la cancellazione delle condanne[17]. Contemporaneamente a tale provvedimento, fu adottata una seconda[18] misura mirante alla reintegrazione dei diritti patrimoniali.
Nel complesso, l’azione legislativa volta ad abrogare i provvedimenti antiebraici e a colmare le gravi conseguenze materiali e morali scaturite dagli stessi si configurò come punto di partenza per l’avvio di un nuovo periodo storico[19]. L’incidenza storica delle leggi razziali gravò sulla legislazione successiva alla fine del fascismo e sulla formulazione di taluni principi incardinati nella Legge Fondamentale del 1948. Un alto numero di quei testi legislativi ricorse all’espressione “cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica”, con l’intento di sottolineare la distanza verso le affermazioni attinenti all’attribuzione di una determinata razza ad un individuo[20]. Nel decreto legislativo[21] del 29 maggio 1947, n. 526, si delinearono le modalità per l’erogazione dei fondi occorrenti ai fini della gestione dei “beni appartenenti a cittadini di razza ebraica”. A tal proposito, appare opportuno marcare che, sotto il profilo giuridico, quest’ultimi potevano essere definiti nei suddetti termini soltanto in virtù delle leggi razziali che li consideravano tali[22]. Spostando il discorso alla Costituzione Repubblicana del 1948, le discriminazioni verso gli ebrei furono ritenute dalla Corte Costituzionale[23] “lesive dei diritti fondamentali e della dignità della persona”[24].
In epoca fascista, un ruolo peculiare fu rivestito dai giuristi italiani. Essi, infatti, non rimasero immuni dall’assumere iniziative esplicitamente antisemite. Tra queste, il primo Congresso internazionale di criminologia organizzato dalla Società internazionale di criminologia nel 1938 o il Convegno razzista italo-germanico del 1939 a cui prese parte una delegazione italiana. I silenzi che accompagnarono l’attuazione della prima legge razzista furono tradotti da Piero Calamandrei in occasione del ricordo di un suo amico e collega:
“fu come se il mondo crollasse sotto di lui: quella brusca conversione manovrata che la viltà di certi benpensanti disciplinati eseguì a comando, passando, dall’ammirazione con cui per tutta la vita lo avevano blandito, all’isolamento e all’abbandono di quell’ultimo anno, lo stordì. Certi conoscenti di ieri non lo conoscevano più, anzi addirittura non lo vedevano più: era come se, da una settimana all’altra, egli, per una misteriosa maledizione, fosse diventato invisibile agli occhi della gente”[25].
4. La parola “razza” al centro dei lavori dell’Assemblea Costituente
Vanificando le aspettative, il significato della parola “razza” non fu definito in Assemblea Costituente. Il dibattito, infatti, si concentrò sulla sua non sovrapponibilità al concetto di stirpe. Nel contesto dei lavori della Prima Sottocommissione, l’On. Lucifero sottopose ai propri colleghi un emendamento al testo dell’allora art. 7 (attuale art. 3) avente ad oggetto la sostituzione della parola razza con quella di stirpe, in quanto congrua alla dignità umana.
La proposta di emendamento del monarchico Lucifero fu rigettata sulla base di due aspetti fondamentali. Il primo attenne alla palese differenza di significato intercorrente tra le due nozioni. Sul punto, le critiche furono varie[26]. In particolare, l’on. Cervellotto affermò che “la parola ‘stirpe’ esprime un concetto diverso dalla parola ‘razza’, che, d’altra parte, è entrata nell’uso comune da quando fu impostata dal fascismo la questione razziale”.
Il secondo profilo, invece, fu tradotto con l’acuto intervento dell’on. Togliatti, secondo il quale “la parola ‘razza’ dovrebbe essere usata appunto per dimostrare che si vuole ripudiare quella politica razziale che il fascismo aveva instaurato”. Occorre marcare come, nel corso dei lavori preparatori, non fu mai suggerito l’impiego di un vocabolo frequente nelle Carte dei diritti, ossia quello di etnia o di origine etnica, così come non si accennò mai al “colore della pelle”[27]. Nonostante gli innumerevoli attacchi, la suddetta proposta di emendamento fu riproposta in Assemblea Costituente da parte dell’on. Cingolani. Tale condotta fu concepita come
“un atto di doverosa cortesia verso le comunità israelitiche italiane, che hanno fatto conoscere a parecchi di noi - avrete quasi tutti ricevuto le circolari - che sarebbe loro desiderio che alla parola ‘razza’ sia sostituita la parola ‘stirpe’. Essendo gli israeliti italiani stati vittime della campagna razzista fatta dal nazifascismo, a me sembra che accogliere il loro desiderio corrisponda anche ad un riconoscimento della loro ripresa di una perfetta posizione di uguaglianza fra tutti i cittadini italiani”[28].
Nel dibattito sull’art. 7 del progetto di Costituzione si rivelarono accattivanti anche le osservazioni mosse dall’on. Targetti, il quale invitò a non tenere conto della nozione di razza quale fattore di discriminazione, ricorrendo piuttosto al sistema penale per mettere al bando la propaganda antirazziale. Tornando alla proposta dell’on. Cingolani, appare opportuno richiamare le posizioni ostili degli onorevoli Laconi e Ruini. Il primo appoggiò l’impiego del termine razza giacchè
“non significa che essa debba avere alcun significato spregiativo per coloro che fanno parte di razze differenti da quella italiana. Basta aprire un qualsiasi libro di geografia per trovare che gli uomini si suddividono in quattro o cinque razze: e questa suddivisione non ha mai comportato, per se stessa, alcun significato spregiativo. Il fatto che si mantenga questo termine per negare il concetto che vi è legato, e affermare l’eguaglianza assoluta di tutti i cittadini, mi pare sia positivo e non negativo”[29].
Diverse furono le ragioni che spinsero l’on. Ruini ad appoggiare il termine. Secondo l’onorevole, l’impiego del suddetto avrebbe consentito di “reagire a quanto è avvenuto nei regimi nazifascisti, per negare nettamente ogni diseguaglianza che si leghi in qualche modo alla razza ed alle funeste teoriche fabbricate al riguardo”[30]. Come noto, trionfò la categoria trainata dall’on. Togliatti. Il Presidente Ruini avallò la volontà di incardinare il termine “razza” all’interno del testo costituzionale, marcando il valore storico della stessa. Cosciente della delicatezza della questione, l’on. Ruini non rimase indifferente innanzi alla delusione di molti. Egli, infatti, dichiarò:
“Si potrebbe apprezzare la parola ‘stirpe’ e preferirla a quella di ‘razza’, per quanto anche razza abbia un significato ed un uso scientifico, oltreché di linguaggio comune. Comprendo che vi sia chi desideri liberarsi da questa parola maledetta, da questo razzismo che sembra una postuma persecuzione verbale; ma è proprio per reagire a quanto è avvenuto nei regimi nazifascisti, per negare nettamente ogni diseguaglianza che si leghi in qualche modo alla razza ed alle funeste teoriche fabbricate al riguardo, è per questo - che anche con significato di contingenza storica -vogliamo affermare la parità umana e civile delle razze”[31].
Alla luce di tale realtà, il termine “razza”, trapiantato nell’art. 3 comma 1 della Costituzione Repubblicana, fu elevato quale vincolo antirazziale. Infine, occorre segnalare un altro dato teso a orientare la scelta dei costituenti: i Trattati di Parigi del 1947. Ai sensi dell’art. 15 del predetto Trattato
“L'Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, di godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ivi compresa la libertà d'espressione, di stampa e di diffusione, di culto, di opinione politica e di pubblica riunione”.
4.1 Brevi riflessioni sul divieto di discriminazione per razza (art. 3 comma 1 Cost.)
La Costituzione Repubblicana del 1948 non cita esplicitamente tra i principi costituzionali quello di non discriminazione, al contrario del diritto europeo, nonché di quello pattizio[32]. Nell’ordinamento giuridico nazionale, infatti, un divieto di porre in essere comportamenti discriminatori viene ricavato indirettamente dall’art. 3 Cost comma 1[33], ai sensi del quale “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Occorre marcare come la proclamazione generale di eguaglianza contenuta nel suddetto articolo non preveda quali destinatari gli uomini, e dunque un insieme di persone che abbraccia cittadini, stranieri ed apolidi, bensì si rivolga ai soli cittadini. La formulazione finale dell’articolo in esame non corrisponde a quella delineata dalla prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, che aveva approvato un testo invocante l’eguaglianza di “tutti gli uomini”. La correzione, apportata dal comitato di redazione (o comitato dei diciotto), tocca seppur indirettamente la tematica del divieto di discriminazione per la razza. Si ricordi che, per mezzo delle leggi razziali, gli ebrei subirono la revoca della cittadinanza, poi restituita al termine del secondo conflitto mondiale (R.D.L. 20 gennaio 1944, n. 25). Tuttavia, nel corso degli anni, si sono verificati non pochi casi in cui taluni connazionali di origine ebraica emigrati in Paesi esteri durante gli anni della persecuzione antisemita, hanno manifestato titubanze in ordine al riconoscimento o meno della cittadinanza italiana. Con la circolare del 15 giugno 2019 n. 33, il Ministero dell’Interno ha spazzato via ogni perplessità:
“poiché nel loro comportamento non può ravvisarsi una scelta volontaria e consapevole di rinuncia alla cittadinanza italiana, non si ritiene in tali casi concretizzata l’ipotesi di perdita prevista dall’art. 8 della l. n. 555/1912, salva l’espressa manifestazione di volontà in tal senso. Pertanto si esprime l’avviso che costoro, ove non abbiano all’epoca espresso la volontà di perdere la cittadinanza italiana, l’abbiano conseguentemente trasmessa ai loro discendenti”.
Una volta assodato codesto aspetto, appare opportuno analizzare l’articolo in discussione. Sebbene l’art. 3 comma 1 Cost. vieti trattamenti differenziati in base alla razza e all’etnia, occorre segnalare che in concreto la disposizione si riferisce esclusivamente alla razza[34]. Il dubbio sulla portata non estesa del divieto di discriminazione per razza discende dalla normativa comunitaria, che nel corso degli anni ha “ingrossato” l’elenco dei fattori di discriminazione espressamente vietati: si è passati dai due tradizionali (vietate erano – e sono tuttora le differenze sulla base della nazionalità e quella tra produttori e consumatori nell’ambito del mercato agricolo) ai dieci ottenuti in seguito al Trattato di Amsterdam del 1997 (furono aggregati il sesso, la razza e l’origine etnica, la religione, gli handicap, l’età, le convinzioni personali e le tendenze sessuali), ai diciannove fattori inclusi nell’art. 21 della Carta UE del 2000-2007 (spiccano la menzione del colore della pelle, dell’origine sociale, delle caratteristiche genetiche, dell’appartenenza ad una minoranza sociale). L’aggiunta di nuovi elementi induce a ipotizzare che taluni non fossero compresi nell’elenco originario. Dottrina[35] e giurisprudenza, invece, sostengono che i divieti costituzionali attengano anche le distinzioni “etniche”. Infine, il vincolo antirazziale dell’art. 3 comma 1 necessita di essere letto alla luce dignità umana, giacchè quest’ultimo “in realtà non è un “principio” al pari degli altri che pure sono a fondamento dell’ordine repubblicano; semmai, è il principio, come ciò che sta appunto all’inizio, e a un tempo, alla fine del percorso costituzionale che con esso si apre e in esso circolarmente si chiude, perfezionandosi e da sé medesimo giustificandosi[36]. Da qualche anno a questa parte, anche la giurisprudenza penale ha sottolineato con fermezza l’importanza di tale fusione[37].
5. La parola “razza” nelle Costituzioni storiche
Sebbene la parola “razza” assuma rilevanza nel drammatico contesto dell’Olocausto, negli anni precedenti si riscontra l’esistenza di un documento costituzionale relativo ai diritti di libertà richiamante la medesima: il XV emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti[38]. Le disposizioni in esso contenute proibiscono al governo degli Stati Uniti e ai governi dei singoli Stati di impedire a un cittadino di votare discriminandolo sulla base della razza, del colore della pelle umana o di una precedente condizione di schiavitù. Tale emendamento, introdotto con il proposito di garantire il diritto di voto agli ex schiavi del Sud[39], dispiegò i propri effetti in tutti gli Stati soltanto con l'approvazione del Voting Rights Act[40] del 1965.
A seguito del primo conflitto mondiale, la parola “razza” inizia ad emergere con maggior costanza in documenti di rango costituzionale. Il Trattato di Saint-Germain-en-Laye, che nel 1919 decretò il disgregamento dell’Impero austro-ungarico e la conseguente insorgenza di nuovi Stati sovrani, introduce il godimento dei diritti politici e civili senza distinzione di razza, di lingua o di religione. Diversamente dalla Costituzione di Weimar del 1919, che si limita a puntualizzare il principio di eguaglianza con riferimento all’abolizione dei privilegi o delle incapacità di diritto pubblico relative alla nascita o all’appartenenza a ceti, nel 1936 la Costituzione sovietica dichiara con audacia “l’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza”, anche se il dato nazionale predomina su quello razziale. Gli esempi testuali sopracitati, senza alcun dubbio, presentano un tratto comune: la paura di spingersi oltre. Come già accennato in precedenza, la parola “razza” compare prepotentemente sulla scena in ragione della persecuzione tedesca contro gli ebrei. Di qui ne discende la presenza della parola “razza” in tutte le nuovi Costituzioni, come risposta all’abolizione della discriminazione razziale. In particolare, i Trattati di Parigi del 1947 (c.d. Trattati di Pace) obbligano i Paesi sconfitti (compresa l’Italia) di stilare misure a garanzia del godimento dei diritti e delle libertà fondamentali “senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”, in particolare facendo riferimento alla abrogazione di tutta la legislazione discriminatoria “in ragione dell’origine razziale”.
Di gran spessore è la Costituzione polacca del 1952 che, ai sensi dell’art. 69 comma 2, statuisce che “è proibito fomentare l’odio o il disprezzo, seminare la discordia o umiliare un uomo a causa della diversa nazionalità, razza o confessione”. Ancora più determinante è l’art. 13 della conseguente Costituzione postcomunista del 1997[41], per il quale “è vietata l’esistenza di partiti politici e altre organizzazioni che si richiamano nei propri programmi ai metodi ed alle pratiche totalitaristiche nazista, fascista o comunista, nonché quelli i cui programmi presuppongono o ammettono l’odio razziale e nazionale”.
Benché la parola “razza” al giorno d’oggi sia oggetto di accesi dibattiti in termini di tutela, sussistono ancora Costituzioni in cui la parola in esame non compare. Nello scenario europeo, si segnala la Costituzione belga e quella finlandese. A tal proposito, occorre prendere atto del fatto che la nascita dei suddetti testi nel periodo storico precedente alla persecuzione antisemita non possa giustificare l’assenza della parola “razza”, giacchè entrambi sono stati oggetto di recenti revisioni, senza che si sia percepita l’urgenza di dedicare alla stessa una previsione normativa in chiave antidiscriminatoria[42]. Emblematica è la Costituzione del Sudafrica che solo[43] nel 1997 ha provveduto a enunciare l’intento antirazzista sotto forma di limitazione del pensiero laddove si configuri “l’apologia dell’odio razziale, etnico, di genere o religioso” (art. 16 comma 2 lett. c).
6. Sulla proposta di eliminazione della parola “razza” dalla Costituzione italiana
Pur accettando, senza opposizione, l’idea di soppressione della parola “razza” dalla nostra Costituzione, non si potrebbe rimanere inerti innanzi alle conseguenze che deriverebbero dalla predetta operazione. Certamente, non vi è alcun dubbio in merito alla tragicità della discriminazione razziale. L’ampia definizione rilasciata dalla Convenzione internazionale dell’ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale aiuta a comprendere l’effettiva dimensione del fenomeno in discussione:
“Nella presente Convenzione, l’espressione “discriminazione razziale” sta a indicare ogni distinzione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica” (art. 1, comma 1, Parte I).
Tale definizione ricomprende sia le discriminazioni in cui è riscontrabile un’intenzione, sia quelle che si concretizzano in via indiretta a partire da disuguaglianze iniziali. Alla luce di ciò, non sarebbe assurdo pensare ad un’intensificazione del contrasto al razzismo, più che all’abrogazione della parola “razza”. La presenza di tale termine nel testo costituzionale deve essere vista da due prospettive differenti. Da un lato, essa rinnova la validità dello stesso concetto di razza. Dall’altro, permette di consolidare il rilevante principio secondo cui la diversità tra popoli o gruppi non deve essere motivo di discriminazione. L’Istituto Italiano di Antropologia[44], reputando opportuna l’introduzione di termini alternativi in grado di esprimere il concetto di diversità nel rispetto delle diverse declinazioni, ha avanzato nel 2014 una proposta di modifica dell’articolo 3 Cost.:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di aspetto fisico e tradizioni culturali, di genere, di lingua, di religione, di opinioni pubbliche, di condizioni personali e sociali. La Repubblica non riconosce l’esistenza di presunte razze umane e combatte ogni forma di razzismo e xenofobia”.
Lasciando da parte tale proposta, che implica una modifica sostanziale della norma costituzionale, nel corso degli anni non sono mancate ulteriori (ed allettanti) idee. Di recente, Pietro Grassi (2017) ha invitato a sostituire la parola “razza” con la locuzione “provenienza geografica”, in quanto essa “non solleva alcun problema semantico e, nel medesimo tempo, non mina la forza e la nobiltà di questo articolo costituzionale”. Tuttavia, detta proposta, pur intrigante, escluderebbe talune situazioni sociali legate a casi di puro razzismo, tra cui, ad esempio le discriminazioni contro i figli adottati da Paesi stranieri. In tal senso, la proposta avanzata da Bisol e Danubio appare perfetta. Secondo questi ultimi, l’art. 3 Cost. dovrebbe essere modificato nel seguente modo: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di aspetto fisico e tradizioni culturali, di genere, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La forza di quest’ultima proposta[45] risiede nel “pescare” tutte quelle fattispecie di discriminazione razzista che ancora oggi tartagliano l’Italia. In tale formulazione, infatti, il termine “razza” è sostituito da due concetti distinti, quello di “aspetto fisico” e quello di “tradizioni culturali”, marcando così la duplice natura del concetto di razza, come nozione culturale e come riferimento a caratteristiche fisiche tipiche di talune popolazioni. Una parte della dottrina, invece, ha suggerito di depennare la parola “razza” dall’art. 3 del testo costituzionale e al contempo di integrarlo con la parola “genoma”, che oltre a rimpiazzare la prima, consente l’ingresso di nuove discriminazioni[46]. Tale proposta trova sostegno in una serie di atti e documenti internazionali richiamanti la discriminazione razziale. La Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani, adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1997, all’art. 5, segnala il problema in esame dichiarando espressamente che “nessuno deve essere oggetto di discriminazioni basate sulle proprie caratteristiche genetiche che intenzionalmente o quale conseguenza producano una lesione dei diritti individuali, delle libertà fondamentali e della dignità umana”. La Dichiarazione internazionale sui dati genetici umani, adottata dalla Conferenza generale dell’UNESCO nel 2003 espande i contenuti della precedente Dichiarazione e rimarca con fermezza la necessità di precludere le discriminazioni in esame. Essa, infatti, all’art. 3 afferma che “Ogni individuo ha uno specifico corredo genetico. Tuttavia, l’identità personale non dovrebbe essere ridotta alle sole caratteristiche genetiche poiché essa ricomprende complessi fattori che attengono alla formazione, all’ambiente e al singolo individuo nonché legami emotivi, sociali, spirituali e culturali con altre persone e implica una dimensione di libertà”[47]. In linea con tali atti internazionali, la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, accolta ad Oviedo nel 1997[48], all’art. 11 prevede che “Ogni forma di discriminazione nei confronti di una persona in ragione del suo patrimonio genetico è vietata”. Oltre ai documenti e alle risoluzioni adottate in seguito alla Dichiarazione sul genoma umano e alla Convenzione di Oviedo, appare opportuno marcare che anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea all’art. 21 comma 1, riporta le “caratteristiche genetiche” tra le forme di discriminazione. La costante presenza dell’Italia sulla scena internazionale accresce la possibilità di recepire la proposta avanzata dalla più recente dottrina, nonché quella di abrogare la parola “razza” dalla Costituzione e integrare il testo con la parola “genoma”. Lasciando da parte codesta opzione, occorre tener conto del fatto che la salvaguardia contro le discriminazioni non è appoggiata, direttamente ed esclusivamente, dal parametro della razza. La protezione dei soggetti deboli, infatti, deve essere assicurata dalle puntuali disposizioni normative dirette a contrastare le discriminazioni. A differenza degli altri criteri contemplati nell’art. 3 Cost. – sesso, lingua, religione e opinioni politiche – che trovano specifica copertura in ulteriori disposizioni costituzionali[49], la razza risulta protetta in virtù dell’ampio divieto di porre in essere disparità ingiustificate contemplato nell’art. 3 della Costituzione Repubblicana[50].
6.1 Le differenti posizioni degli Stati europei: interventi e reazioni
Nell’ottobre del 2014 Gianfranco Biondi e Olga Rickards, due celebri antropologici, hanno rivolto un appello al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere e al Presidente del Consiglio affinché si provvedesse a sopprimere il termine “razza” dalla Costituzione. Secondo gli antropologici, la predetta parola è inidonea a definire le differenze biologiche tra gli esseri umani.
Alla luce di ciò, essi invitavano ad abbandonare tale termine prendendo come esempio la vicina Francia. La situazione francese è piuttosto singolare. Il 16 maggio 2013 l’Assemblea Nazionale approva una proposta di legge che prevede la sostituzione in svariati testi normativi del sostantivo “razza” o dell’aggettivo “razziale” con le espressioni “razzismo” e “razzista”[51]. Il suddetto procedimento legislativo subì un tempestivo arresto, anche in ragione della ferma volontà manifestata pochi mesi prima dal candidato François Hollande, in occasione della campagna elettorale, di eliminare il termine “razza” dall’art. 1 comma 2 della Costituzione. La cancellazione della parola in questione è stata interpretata da molti alla stregua di un “trucco” politico[52], o quale atto di idealismo repubblicano nella tradizione del giacobinismo linguistico. Per taluni giuristi e studiosi, invece, l’intento di tale mossa consisteva nell’abolire uno strumento fondamentale nella lotta contro il razzismo. Certamente, non sono mancati i commenti favorevoli. Alcuni studiosi hanno colto in detta manovra un approccio positivista che, sulla base della arbitrarietà scientifica della nozione di razza, ne decreta la non esistenza e quindi l’eliminabilità[53]. A prescindere dal progetto di legge arenato nel 2013 in Senato, qualche passo in avanti è stato compiuto. Si pensi, ad esempio, alla legge 27 gennaio 2017, n. 87, con la quale è stato modificato l’art. 132-76 del codice penale. In particolare, si prevede un’aggravante per i reati preceduti, accompagnati o seguiti da immagini, scritti, nonché atti di qualsiasi natura finalizzati a offendere l’onore o la reputazione di una persona appartenente ad una supposta razza, un’etnia, una nazione o una religione specifica. Un altro prezioso risultato si è avuto con il Decreto del 3 agosto 2017, n. 1230[54], avente ad oggetto la modifica dell’art. 625-7 del Codice Penale. Da codesti interventi ne discende un cambio di rotta: la parola “razza”, fino ad allora accostata al triste periodo fascista e avvolta da incertezze, viene finalmente impiegata in maniera puntuale e coscienziosa.
La proposta di abrogazione della parola in questione dal primo articolo della Costituzione è stata approvata a unanimità. Nel caso in cui la nuova formulazione dovesse essere approvata in via definitiva l’art. 1 della Costituzione francese rivestirebbe la seguente forma:
“La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale. Elle assure l’égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction de sexe, d’origine ou de religion”.
Sebbene la manovra persegua valide intenzioni, occorre sottolineare anche talune pecche. In primo luogo, non deve trascurarsi la permanenza della parola “razza” nel preambolo della Costituzione del 1946, che in qualche modo smantella i buoni propositi francesi. In secondo luogo, non è stata studiata con attenzione l’opportunità di convertire al plurale la parola “origine”, che consentirebbe di racchiudere tutti i tipi di discriminazione[55]. Recentemente, la volontà di lottare contro la discriminazione razziale si è consolidata anche in Germania[56], nonostante le varie opposizioni[57].
In un editoriale sul quotidiano berlinese Der Tagesspiegel, il leader dei Verdi Robert Habeck, assieme alla la vice-presidente del Parlamento regionale dello Schleswig-Hollstein Aminata Touré, propose di sostituire il termine “razza” con quello di “attribuzioni razziste”, in ragione del fatto che la predetta parola “implica una sotto-ripartizione degli esseri umani in categorie, che è in aperta contraddizione con lo spirito e le ambizioni della nostra Costituzione”. A tale proposta, poi, ne sono seguite delle ulteriori: il segretario dei deputati liberali Marco Buschmann suggeriva di sostituire il termine “razza” con quello di “origine etnica”, mentre il responsabile dell’Ufficio federale anti-discriminazione Bernhard Franke invitava a tenere presente il modello adottato dalle Costituzioni di alcuni Land federali che prevedevano la locuzione “discriminazione razziale”. Al contrario di Francia e Germania, il nostro Paese si è contraddistinto per il mancato dialogo. Gli interventi sul tema si sono rivelati scarni e poco convincenti. Tra i pochi, si ricorda quello di Annamaria Rivera, oratore della giornata di studio su “Usi e abusi del concetto di Razza” organizzata dall’Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali (ANNUAC) nel 2015, che criticò pesantemente l’impiego della razza come categoria analitica[58].
Al contrario, la cancellazione della parola “razza” dalla Costituzione del 1948 non fu ben vista da coloro i quali invitavano a riflettere sul fatto che ogni termine del testo costituzionale fosse stato scrupolosamente scardinato dai Padri Costituenti.
Tale linea di pensiero appare analoga a quella seguita dall’Accademia della Crusca. Quest’ultima, dopo aver invitato linguisti, costituzionalisti ed antropologi a discutere sul reale senso della parola in esame, è pervenuta ad una conclusione: la parola “razza” deve restare nella Costituzione Repubblicana. In particolare, secondo il Presidente dell’Accademia Claudio Marazzini, nella Costituzione (e dunque nell’art. 3)
“la razza svolge la funzione di parola monito rispetto agli orrori del passato e non ha certo il valore di un vocabolo da intendere in senso scientifico, visto che la scienza, con la genetica, ne ha da tempo chiarito l’inconsistenza di fondamento sotto questo profilo. In questo contesto schiude un concetto illuminato dalla storia, permeato di contenuti sociali e politici”.
Una visione ben lontana dal pensiero di Lino Leonardi, direttore dell’Opera del vocabolario italiano, per il quale “le parole hanno un peso, che dipende dalla loro storia, e nel ‘900 questa è diventata simbolo di disuguaglianza e prevaricazione”. Di qui la volontà di abolirne l’impiego “se non dalla lingua [...], dagli atti della pubblica amministrazione che ancora la usano (per esempio il modulo di una Asl toscana), e di sicuro dalla Costituzione, che la nomina per negarla, ma in fondo riconoscendola”[59].
7. Conclusioni: tra la volontà di voltare pagina e la paura di cambiare c’è la necessità di mettere chiarezza
Come noto, nel corso degli anni, la parola “razza” è stata oggetto di mutamento: da fattore biologico di divisione tra individui ad emblema di uno “scomodo” passato da dimenticare.
A tal proposito, sono di grande aiuto le riflessioni di Luca Cavalli Sforza che, nel suo Storia e geografia dei geni umani, spegneva l’accesa discussione sull’esistenza di razze umane diverse, ponendo a raffronto il significato scientifico di razza e quello conferito alla stessa in ambito politico e socio-economico.
Stando alle considerazioni dello scienziato
“come era già chiaro a Darwin, il tentativo di classificare le razze è stato in realtà uno sforzo futile: le razze umane sono entità ancora molto instabili nelle mani dei tassonomisti moderni, che ne definiscono da 3 a 60 o più, diverse. Non vi è dubbio che la specie umana sia una sola”[60].
Le considerazioni di Cavalli Sforza[61 consentono di spostare l’attenzione su di un aspetto fino ad ora trascurato: l’utilità della parola “razza”. Si osserva che, in taluni casi, la razza presenta carattere recessivo. Essa viene richiamata in virtù di un ulteriore aggettivo[62]. È il caso della Legge 9 ottobre 1967, n. 962, che definisce il genocidio sulla base della distruzione di “un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” e la Legge 13 ottobre 1975, n. 675, che condanna prima la propaganda di idee fondate “sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico” e poi l’istigazione della violenza “per motivi razziali, etnici, nazionali”. Il tentativo di precludere un isolamento del termine emerge anche da un’attenta analisi della giurisprudenza costituzionale.
Nella maggior parte delle pronunce della Corte Costituzionale, la parola “razza” viene menzionata solo per il tramite dell’art. 3 Cost.[63. Si prenda, ad esempio, in considerazione la sentenza 30 luglio del 1984, n. 239, nella cui motivazione si legge
“palese è il contrasto della norma in esame con il fondamentale principio sancito dall'art. 3 della Costituzione, che assevera l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, “senza distinzione”, fra l'altro, “di razza” e “di religione” .
Talvolta, il legislatore italiano entra in difficoltà nel definire il parametro della discriminazione. Tale realtà affiora apertamente dall’esame dell’art. 43, D. lgs. n. 286/1998, dove il primo ed il secondo richiamano fattori di discriminazioni tra loro non perfettamente sovrapponibili[64]. Sebbene la dottrina abbia formulato un giudizio favorevole in ordine alla particolare ampiezza della clausola ex art. 43,
“tale ricostruzione, in mancanza di definizioni precise e univoche dei singoli fattori di discriminazione contemplati, omette, però, di considerare come la tecnica legislativa impiegata si appalesi foriera del rischio di determinare situazioni oscillanti, nonché un’eccessiva discrezionalità in fase di interpretazione e di applicazione della normativa da parte dei giudici”[65].
In presenza di un legislatore incapace di concedere una definizione di “razza” chiara e puntuale, qualsiasi questione appare improbabile da risolvere, compresa quella relativa ad un’eventuale eliminazione dalla parola in discussione dalla Costituzione.
Piuttosto, sarebbe cosa buona e giusta riflettere attentamente sulla valenza simbolica che Padri Costituenti decisero di conferire alla parola “razza”. L’oggetto della ricerca, dunque, non consiste nell’individuazione del significato della parola, bensì nella preservazione della sua idoneità a non essere mai più motivo di discriminazione.
[1] Tale ripartizione fu poi accolta da Blumenbach, il primo a tentare di approfondire lo studio della razza avvalendosi dell’autonomia comparativa, e da Kant. Essi aggiunsero una quinta razza, quella olivastra, volta a rappresentare i Malesi.
[2] D. Petrosino, Razzismi, Mondadori, Milano, 1999, p. 5.
[3] Al riguardo, occorre ricordare che tale errore oggi giorno non sarebbe ammesso in ambito scientifico, in quanto il processo moderno prevede l’osservanza dei seguenti punti: la formulazione dell’ipotesi, la verifica sperimentale e, a seconda del risultato, l’accettazione o il rifiuto della stessa.
[4] In seguito le idee di Chamberlain si semplificarono: gli ebrei sono una razza “negativa” e “bastarda” e Cristo “non era un ebreo”. Cristo è venuto nel mondo per diventare “il Dio dei giovani popoli indoeuropei esuberanti di vita” e soprattutto il Dio dei teutoni “perché nessun altro popolo era meglio dotato di quello teutonico per ascoltare la sua voce divina” (b. chiarelli, Razza: la fallacia di un concetto, in Il valore della Diversità, Altravista, Firenze, 2012, p. 15).
[5] P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. La civiltà liberale, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 411.
[6] Razza e dintorni: la voce unita degli antropologi italiani, in anpia.it.
[7] B. Costamagna, “Una gente senza eroi”. Gli ebrei e la persecuzione vista da “La difesa della razza”, in Acta Histriae, 2012.
[8] R.d.l. 5 settembre 1938 n. 1390 – “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista” – convertito senza modifiche nella legge 5 gennaio 1939, n. 99.
[9] Art. 3 comma 2, r.d.l. 15 novembre 1838, n. 1779.
[10] Tale divieto fu introdotto un anno dopo con la legge 29 giugno 1939 n. 1054 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 179 del 2 agosto 1939).
[11] Art. 13 r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728.
[12] Ai sensi dell’art. 8 r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728, “è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre ebraica qualora sia ignoto il padre; è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto a una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazione di ebraismo”.
[13] R.d.l. 9 febbraio 1939 n. 126
[14] L. 13 luglio 1939, n. 1024
[15] Secondo M. D’Amico, La continuità tra regime fascista e avvento della Costituzione Repubblicana, in L’Italia ai tempi del ventennio fascista, M. D'Amico, a. De Francesco, C. Siccardi, (a cura di), FrancoAngeli, Milano, 2019, pp. 224-225 “alla luce di quello che il Tribunale della razza era abilitato a fare, ma soprattutto in considerazione della circostanza che si trattava di un istituto che creava un’eccezione all’interno dell’applicazione delle leggi razziali, un istituto che si è trasformato in un ulteriore strumento di discriminazione, chi l’ha presieduto e chi ne ha fatto parte non solo condivideva l’ideologia fascista, non solo si prestava ad annientare il principio di uguaglianza, ma riteneva anche giusto all’interno di questa ideologia terribile introdurre un ulteriore strumento di discriminazione e di corruzione”.
[16] L’abrogazione automatica delle leggi razziali fu in buona parte riservata ai principi generali; essa si risolse già prima dell’abrogazione formale soprattutto nella pratica di cessazione dell’applicazione delle leggi; ma nella più parte dei casi, dove si trattasse di ripristinare diritti che erano stati negati e dove fossero in gioco reintegrazioni patrimoniali, la reale abolizione degli effetti delle discriminazioni poté avvenire semplicemente con nuove procedure che restituivano ai soggetti che ne erano stati privati diritti, prerogative e attribuzioni anche patrimoniali (in e. collotti, Il fascismo e gli ebrei: Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2006).
[17] R.d.l. 20 gennaio 1944 n. 25.
[18] R.d.l. 20 gennaio 1944 n. 26.
[19] Numerosi motivi spingono in questa direzione: l’esigenza di una attenta valutazione del significato e delle conseguenze della legislazione razziale fascista rispetto alla precedente e successiva storia del paese; l’importanza di una puntuale considerazione del trauma subito dall’ebraismo italiano e delle modalità del suo reinserimento nel tessuto del Paese attraverso le esperienze dell’antifascismo, della Resistenza, della nascita della Repubblica; la necessità di raccordare la legislazione abrogatrice e restitutoria alle vicende politiche, sociali, culturali dell’Italia postbellica, che impone anche una riflessione sulla capacità di mediazione sociale e di trasmissione culturale dell’intensa attività legislativa svolta, da parte di una classe politica proveniente in larga misura dall’antifascismo e dall’esperienza unitaria della Resistenza (in m. sarfatti, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze, 1998, pp. 60-61).
[20] È questo il tenore del primo provvedimento con cui si procedette all’abrogazione delle leggi razziali e altresì all’abrogazione di “tutte quelle disposizioni, che, per qualsiasi atto o rapporto richiedono accertamento o menzione di razza, nonché ogni altra disposizione o norma, emanata sotto qualsiasi forma, che sia di carattere razziale o comunque contraria al presente decreto o con esso incompatibile” (art. 1 comma 2, r.d.l. 20 gennaio 1944, n. 25).
[21] Il decreto è stato abrogato dal Decreto legge 22 dicembre 2008, n. 200.
[22] Sul punto, Sacco, Senza distinzioni. Per il superamento della parola razza, in Nomos-Le attualità del diritto, n. 2, 2018, p. 10, secondo il quale “la prudenza (o la complessità del problema) si evidenzia anche per un profilo secondario ma comunque significativo. Il R.d.l. n. 26 del 20 gennaio 1944 per il ripristino dei diritti patrimoniali fu pubblicato soltanto in un secondo momento con il decreto legislativo luogotenenziale del 5 ottobre 1944, n. 25237. Furono fatti trascorre, quindi, più di otto mesi dalla data dell’approvazione, probabilmente nel timore di un effetto controproducente per la vita quotidiana degli ebrei (già alle prese con le delazioni e le deportazioni) che risiedevano nella parte dell’Italia non ancora liberata”.
[23] Corte Cost. 17 luglio 1998, n.268.
[24] Premesso che, in questo contesto normativo, la discriminazione razziale si è manifestata con caratteristiche peculiari, sia per la generalità dell'attività persecutoria, rivolta contro un'intera comunità di minoranza, sia per la determinazione dei destinatari, individuati come appartenenti alla razza ebraica secondo criteri legislativamente stabiliti (art. 8 del r.d.l. n. 1728 del 1938), sia per le finalità perseguite, del tutto peculiari e diverse da quelle che hanno caratterizzato gli atti di persecuzione politica, la legislazione antiebraica – secondo il Giudice delle leggi – individua una comunità di minoranza, che colpisce con la “persecuzione dei diritti”, sulla quale si innesterà, poi, la “persecuzione delle vite” (G. Canzio, Le leggi razziali e il ceto dei giuristi, in Diritto Penale Contemporaneo, 2018, p. 6).
[25] P. Calamandrei, Federico Cammeo (nel decennale della sua morte), in Riv. It. per le Scienze giuridiche, 1949, p. 358 ss.
[26] Tra gli altri oppositori, si ricordi l’on. Mancini “la stirpe riguarda il ceppo familiare mentre l’espressione ‘razza’ riguarda, in genere, la razza vera e propria” e l’on. Merlin “a parola “razza” del resto “è stata adottata anche in altre legislazioni”.
[27] Secondo Nardocci, Dall’invenzione della razza alle leggi della vergogna: lo sguardo del diritto costituzionale, in Italian Review of Legal History, n. 5, 2019, p. 516 “l’omesso richiamo del fattore “colore della pelle” non stupisce in considerazione dell’approccio storicistico dei Costituenti, incentrato sulla storia dello Stato italiano e sulla politica antisemita del regime fascista”.
[28] Assemblea Costituente, seduta pomeridiana, 24 marzo 1947, LXXIV, 2422.
[29] On. Laconi, Assemblea Costituente, seduta pomeridiana, 24 marzo 1947.
[30] On. Ruini, Assemblea Costituente, seduta pomeridiana, 24 marzo 1947.
[31] On. Ruini, Assemblea Costituente, seduta pomeridiana, 24 marzo 1947.
[32] La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali dedica al divieto di discriminazioni l’art. 14 prescrivendo che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nel capo dedicato all’Uguaglianza inserisce un articolo specifico, l’art. 21, che attiene espressamente alla non discriminazione: “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. 2. Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi”.
[33] È legittimo chiedersi se la mancata previsione espressa della tutela discriminatoria nel nostro ordinamento costituzionale, rispetto alla esplicita considerazione che di essa si fa, invece, nelle diverse altre Carte fondamentali, abbia un significato per così dire solo storico-politico o se ciò si traduca in una minore considerazione anche giuridica delle situazioni discriminatorie; analogamente, è legittimo chiedersi se la tutela costituzionale del diritto fondamentale all’eguaglianza di cui all’art. Cost., nelle diverse accezioni, possa dirsi arricchita di contenuti nuovi e specificata dalle previsioni della Convenzione europea e della Carta dei diritti (in B. Checchini, Discriminazione contrattuale e tutela della persona, Giappichelli, Torino, 2016, p. 19).
[34] Per “razza” si dovrebbe intendere “un insieme di popolazioni di una specie che condividono caratteristiche morfologiche, genetiche, ecologiche o fisiologiche differenti da quelle di altre popolazioni della stessa specie” (in Vocabolario Treccani, voce Razza).
[35] Sul tema, si veda a. ambrosi, La discriminazione razziale ed etnica: norme costituzionali e strumenti di tutela, in Le discriminazioni razziali ed etniche, D. Tega (a cura di), Armando Editore, Roma, 2011, pp. 19-21.
[36] a. ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in aa. vv., Scritti in onore di Gaetano Silvestri, II, Torino, 2016, 2084
[37] Corte di Cass., sez. I penale, sent. n. 47894/2012.
[38] Ai sensi del suddetto emendamento, adottato nel 1870 durante la presidenza di Ulysses S. Grant, “il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato né misconosciuto dagli Stati Uniti, né da alcuno Stato, per ragioni di razza, colore o precedente condizione di schiavitù”.
[39] Si ricordi che, nella civiltà statunitense del periodo antecedente l’emanazione del XVI emendamento si assistette ad un mutamento del concetto di razza. Da sempre la parola razza era stata usata non tanto diversamente da “popolo” o “nazione” e non soltanto per indicare pigmentazioni diverse. Certamente, era consuetudine ritenere che un popolo, una nazione o una “razza” bianca fosse “superiore” a un popolo, nazione o “razza” non bianca. Ma questo è il momento storico in cui si investe esplicitamente quella “superiorità” di valenze biologiche. Se si era geneticamente ritenuto che il nero o il “pellerossa” o l’asiatico potessero essere un giorno “come noi”, ora si replicava che sarebbe stato per sempre impossibile, se non attraverso una assimilazione biologica che anche la maggior parte degli abolizionisti rifiutava. Lo schiavo pertanto diventa più alieno che mai, proprio nel momento in cui l’abolizione della schiavitù assurge a tema politico serio (in l. Valtz Mannucci, La genesi della potenza americana. Da Jefferson a Wilson, Mondadori, Milano, 2007, p. 46).
[40] Il Voting Rights Act è una legge considerata come punto di riferimento della legislazione federale negli Stati Uniti che proibisce la discriminazione razziale nel voto. La legge è stata firmata il 6 agosto 1965 dall'allora Presidente Lyndon B. Johnson, e il Congresso ha successivamente modificato la legge cinque volte per ampliare le sue protezioni.
[41] Per un approfondimento sul costituzionalismo polacco nel periodo dei conflitti mondiali, si veda S. Ceccanti, Il costituzionalismo polacco dal 1791 ad oggi, www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2006.
[42] Secondo a. gratteri, Senza distinzioni. Per il superamento della parola razza, in Nomos-Le attualità del diritto, n. 2, 2018, vi è un secondo motivo “L’assenza di un rinvio testuale alla parola razza, nel contesto di una comunque solida affermazione del principio di eguaglianza, non solo non ha menomato gli orientamenti antidiscriminatori ma non ha impedito che le scelte etico-politiche in direzione del contrasto ai pregiudizi razziali, all’antisemitismo, alla xenofobia si traducessero in puntuali tutele giuridiche. La Costituzione belga addirittura prevede (a proposito di una norma relativa ad aspetti di esercizio della funzione giurisdizionale da parte della Corte d’Assise, art. 15067) che: “La giuria è istituita per tutte le cause penali e per i reati politici e a mezzo stampa, ad eccezione dei reati a mezzo stampa ispirati da razzismo o xenofobia”. In questa Carta, quindi, non compare la parola razza ma compare la parola razzismo”.
[43] Si ricordi che, la Costituzione del Sudafrica del 1961 consentiva la permanenza delle leggi anteriori alla sua entrata in vigore, tra cui quelle che aveva legalizzato il regime dell’apartheid.
[44] L' Istituto Italiano di Antropologia (ISItA) è un'istituzione scientifica con sede a Roma. È la continuazione della Società Romana di Antropologia, fondata da Giuseppe Sergi nel 1893. Ogni tre anni i membri dell'Istituto eleggono il consiglio ISItA che comprende un presidente, un segretario, due vicepresidenti, due vice segretari, otto consiglieri e un tesoriere. L'obiettivo dell'Istituto Italiano di Antropologia è promuovere un approccio interdisciplinare all'antropologia che racchiuda una sintesi degli aspetti biologici, sociali e culturali dell'evoluzione umana.
[45] Secondo m. e. danubio, G. D. Bisol, Demistificare un mito, in Addio alla razza. Una parola pericolosa che per la scienza non ha senso, Egea, Milano, 2016, p. 31, “rimuovere ogni riferimento a una visione della diversità razziale dal documento che ispira il nostro vivere civile sarebbe importante, oltre che per la sua valenza simbolica, anche e soprattutto, per le finalità che tale atto aiuterebbe a perseguire: togliere forza all’uso di un termine che inevitabilmente evoca pregiudizi e falsi concetti alla base di alcune delle maggiori tragedie dell’umanità; dare maggiore sostegno ad azioni culturali e formative che facciano comprendere i motivi e la reale dimensione della nostra diversità”.
[46] Sul punto, C. Caporale e M. Annoni, Alcune riflessioni etiche a partire dalla proposta di eliminare la parola “razza” dall’art.3 della Costituzione italiana, in No razza, sì cittadinanza (a cura di c. a redi, m. monti), Ibis, 2017, i quali nell’argomentare la suddetta proposta affermano che “se da un lato il concetto di “razza umana” è stato sconfessato dalle nuove conoscenze della genetica e dell’antropologia biologica, dall’altro queste stesse discipline ci hanno permesso di comprendere la variabilità genetica esistente tra gli individui. Variabilità che pur non dando luogo a differenze tassonomiche rigide e tali da giustificare l’utilizzo del concetto di “razza”, può egualmente essere fonte di discriminazioni, minando così la pari dignità sociale di alcuni cittadini e compromettendone l’eguaglianza davanti allo Stato e alla legge secondo il principio affermato dall’art. 3 della Costituzione”.
[47] Più avanti, essa prescrive all’art. 7 lett. a) e b) che “Ogni sforzo andrebbe fatto al fine di assicurare che i dati genetici e proteomici umani non vengano utilizzati per scopi discriminatori tali da configurare, intenzionalmente o quale conseguenza, una lesione dei diritti individuali, delle libertà fondamentali e della dignità umana, oppure per scopi che possano condurre alla stigmatizzazione di individui, famiglie, gruppi o comunità. A tal riguardo, adeguata attenzione andrebbe posta sui risultati delle ricerche di genetica delle popolazioni e di genetica del comportamento e alla loro interpretazione”.
[48] In Italia, la Convenzione risulta priva di efficacia in carenza del successivo deposito dello strumento di ratifica in seno al Consiglio d’Europa.
[49] Si pensi, ad esempio, all’art. 37 sulla donna lavoratrice; all’art. 51 sull’accesso alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza; agli artt. 19 e 20 sulla libertà di religione; all’art. 6 sulla tutela delle minoranze linguistiche.
[50] Sul punto, si veda C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, Padova, 1954, p. 48.
[51] L’art. 1 del testo approvato in Assemblea Nazionale nel 2013 sancisce che: “La République française condamne le racisme, l’antisémitisme et la xénophobie. Elle ne reconnaît l’existence d’aucune prétendue race”.
[52] A. Scacchi, Nodi e questioni intorno al “parlare di razza”, in European South, n. 1, 2016, p. 65.
[53] Id., op. cit., p. 65.
[54] Décret n° 2017-1230 du 3 août 2017 relatif aux provocations, diffamations et injures non publiques présentant un caractère raciste ou discriminatoire.
[55] A tal proposito, si ricorda quanto sostenuto in Assemblea Nazionale dalla deputata Hélène Vainqueur-Cristophe: “Credo che ci sia un consenso generale sulla rimozione della parola “razza”. Su tutti i livelli politici, siamo tutti d'accordo su questo principio. Per rassicurare chi pensa che questa cancellazione porterà a una rivoluzione nella lotta al razzismo, abbiamo voluto aggiungere “origini”. Ciò consentirebbe di prendere in considerazione ogni tipo di discriminazione, in particolare quelle legate all'origine etnica - quindi al colore della pelle - genetica, culturale, territoriale e geografica”.
[56] L’articolo 3 del Grundgesetz afferma che “nessuno può essere discriminato o privilegiato a causa del suo sesso, la sua discendenza, la sua razza, la sua lingua, il suo Paese, la sua origine o le sue convinzioni religiose e politiche”.
[57] La ministra socialdemocratica della Giustizia, Christine Lambrecht, difende il testo costituzionale sostenendo che “chiaramente non indica l’esistenza di diverse razze umane o alcuna accettazione di questa visione”. Sempre secondo quest’ultima “I padri e le madri della Costituzione erano interessati a mandare un segnale forte contro l’ossessione razziale che fu propria del nazismo. Il termine ‘razza’ costituisce la radice linguistica del termine razzismo contro il quale vogliamo agire con chiarezza”.
[58] In un intervento sul Corriere delle migrazioni, Annamaria Rivera ha illustrato le ragioni dell’appello nel seguente modo: “Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma della razza, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per ‘razza’. A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori antirazzisti, per di più colti; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione”.
[59] L. Leonardi, in Razza, che fare? "Meglio toglierla dalla Costituzione è discriminante", int. a cura di m. c. carratù, La Repubblica, 2018.
[60] L. C. Sforza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, 1997, p. 33.
[61] Entrando nel vivo della questione, il genetista sottolinea che “il concetto di razza nella specie umana non ha ottenuto alcun consenso dal punto di vista scientifico, e non è probabilmente destinato ad averne, poiché la variazione esistente nella specie umana è graduale. Si potrebbe obiettare che gli stereotipi razziali hanno una certa consistenza, tale da permettere anche all’uomo comune di classificare gli individui. Tuttavia, gli stereotipi più diffusi, tutti basati sul colore della pelle, sul colore e sull’aspetto dei capelli e sui tratti facciali, riflettono differenze superficiali che non sono confermate da analisi più appropriate fatte su caratteri genetici (molto più attendibili); l’origine di tali differenze è relativamente recente ed è dovuta soprattutto all’effetto del clima e forse della selezione sessuale. [...]. In molte parti del mondo e in alcuni ceti sociali, la parola ‘razza’ è associata a pregiudizi, incomprensioni e problemi sociali: la xenofobia, gli interessi politici e un insieme di motivi totalmente estranei alla scienza sono alla base del razzismo, la convinzione che alcune razze siano biologicamente superiori alle altre e abbiano quindi un diritto innato al predominio. [...] Non sorprende il fatto che il razzismo sia spesso associato a pregiudizi di casta e sia stato invocato come motivazione per assolvere la schiavitù e persino il genocidio. Non ha basi scientifiche una supposta ‘superiorità’ genetica di una popolazione rispetto ad un’altra. [...] Nessuna delle nostre ricerche conferma che la rivendicazione della superiorità di una popolazione nei confronti di un’altra abbia basi genetiche: la superiorità è un concetto politico e socioeconomico, legato agli eventi della recente storia politica, militare ed economica e alle tradizioni di determinate nazioni e gruppi sociali. Lo storia insegna che questa superiorità è del tutto transitoria, mentre il genotipo cambia molto lentamente. Tuttavia, il pregiudizio razziale ha una tradizione con radici lontane nel tempo e non è facile da sradicare”. (in l. c. sforza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, 1997, p. 33).
[62] Solo in un unico caso, ovvero nella Legge 1 aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, il legislatore ricorre esclusivamente al parametro della razza. In particolare, l’art. 7 comma 2 afferma che: “è vietato raccogliere informazioni e dati sui cittadini per il solo fatto della loro razza, fede religiosa od opinione politica”.
[64]Si pensi anche alla sentenza n.15/1960, dove la Corte Costituzionale dichiara il mancato contrasto con l'art. 3 Cost. ma al contempo associa la razza al principio di uguaglianza.
[65] In particolare, il primo comma richiama il colore, l’ascendenza o l’origine razziale, le convinzioni e le pratiche religiose; il secondo comma, invece, prende in considerazione le confessioni religiose e l’appartenenza ad un gruppo linguistico.
[66] C. Narducci, Razza ed etnia, in Le discriminazioni etnico-razziali nel sistema multilivello di tutela dei diritti, 2013-2014, cit., p. 121
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