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Pubbl. Sab, 8 Ago 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

Per una ri-fondazione dell´istituto della prescrizione del reato a partire dal suo (vero) fondamento

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Giovanni Russo



I risultati pressoché insoddisfacenti cui hanno condotto tanto le proposte di riforma diffusamente avanzate dalla dottrina, quanto quelle attuate anche di recente dal Legislatore, esortano a prendere parte alla discussione, ormai permanentemente aperta, in materia di prescrizione del reato. Per quanto il tentativo si rivelerà modesto, l´obiettivo deve essere ambizioso: provare a ri-fondare l´istituto della prescrizione, a partire dal suo “vero” fondamento. Spogliato, cioè, tanto dei discorsi metagiuridici ed extra giuridici, quanto dei pregiudizi politici, siano essi di matrice “giustizialista” ovvero di falso “garantismo”, che fatalmente sembrano ammantarlo.


ENG It´s merely due to the quite unsatisfactory results, on the recent reform proposals suggested by both the literature and the lawmakers, that urged me to take part in the permanently open debate on the limitation. Despite being fully aware of this humble attempt´s potential ineffectiveness, we do have an ambitious intent: try to re-found this legal device starting from its ”real” foundations. Our main purpose is to circumvent both the juridically irrelevant aspects and, more importantly, all the political prejudices that adorn and embellish the topic without tangibly contributing to this debate.

Sommario: 1. Perché parlare (ancora) di prescrizione? – 2.  Breve premessa metodologica. – 3. Funzione della prescrizione del reato: prospettive tradizionali. – 3.1. (segue): prospettive più recenti, prescrizione e ragionevole durata del processo. – 4. La funzione della prescrizione colta nella sua "essenza". – 5. Il frequente “funzionamento” dell’istituto causa del suo disfunzionamento. – 6. La prescrizione come garanzia della ragionevole durata del processo? – 7. La prescrizione come sanzione alla irragionevole durata del processo? – 8. (Oltre) La questione sulla natura giuridica dell’istituto. – 9. La legge n. 3 del 2019: inediti profili di possibile incostituzionalità. – 10. De jure condendo. 11. Breve sguardo comparatistico: quale utilità?

1. Perché parlare (ancora) di prescrizione?

Da ormai quasi un ventennio la prescrizione del reato è tornata ad occupare ciclicamente le riflessioni di penalisti e processual-penalisti e ad essere al centro di dispute dottrinali e dibattiti in sede normativa. Al riguardo, si pensi ai molteplici interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo[1], da ultimo la riforma introdotta con legge n. 3 del 2019 (c.d. Bonafede), le numerosissime proposte di legge avanzate in materia, gli innumerevoli convegni organizzati sull’argomento, l’importanza sempre crescente che l’istituto ha assunto, anche e soprattutto di recente, nel dibattito politico odierno.

In questo contesto, in cui tutto (o quasi) è stato detto e ridetto, parlare ancora di prescrizione può risultare sovrabbondante, superfluo, per certi versi stucchevole. E invece alla disputa, ancora in corso, pare non ci si debba sottrarre, purché lo si faccia con il proposito (in questo caso modesto) di chiarire gli aspetti decisivi della discussione a partire dai quali tentare una rifondazione dell’istituto sul piano concettuale, prima ancora che su quello normativo, secondo un approccio metodologico in parte diverso rispetto a quello comunemente seguito e che ha finora condotto a risultati pressoché insoddisfacenti, già sul piano della coerenza logico-sistematica, delle innumerevoli, alcune solo avanzate, altre attuate, proposte di riforma.

A fronte dell’incessante attività legislativa e del permanente dibattito dottrinale in materia di prescrizione del reato, dunque, corre l’obbligo per il giurista di valutare la correttezza delle direzioni intraprese, guardando in radice l’istituto, quelle che sono (o dovrebbero essere) le sue funzioni e la sua natura giuridica, la compatibilità del dato normativo rispetto ad esse, l’opportunità di dover riconsiderare quest’ultime per adeguarle al corpus normativo o viceversa, ovvero pensare, appunto, ad una possibile rifondazione dell’istituto.

A questo scopo è necessario che, in via preliminare, si proceda – come si tenterà di fare –  ad una breve riepilogazione dello stato dell’arte esistente, provando, in tal maniera, soltanto dopo, a confutare quanto oggi generalmente sostenuto, secondo un approccio più radicale, privato cioè di ogni superfetazione  metagiuridica o extra-giuridica, in cui pare restino impelagate la maggior parte delle posizioni teoriche elaborate in subiecta materia.

2. Breve premessa metodologica

In via preliminare, occorre sottolineare, per una migliore intellegibilità di quanto verrà detto, che – secondo chi scrive – l’unico approccio metodologico in grado di restituire una qualche utilità ai fini della comprensione e della ricostruzione dell’istituto della prescrizione del reato, della sua funzione, della sua ratio e, solo secondariamente, della sua natura giuridica, sia quello che, nell’analisi dell’istituto de quo, muova imprescindibilmente dal dato normativo e dagli effetti che il suo concreto ‘operare’ comporta.

Tale avvertimento non sembra affatto superfluo se si considera la metodologia generalmente seguita, volta, per un verso, a "criticare" il dato normativo in considerazione della ritenuta funzione dell’istituto (e non viceversa); per un altro verso, ad eccedere in direzione di considerazioni metagiuridiche o comunque extra-giuridiche, trascurando la circostanza secondo cui la prescrizione del reato, anche al di là della questione sulla sua natura giuridica, si inserisca in una dimensione primariamente processuale e solo secondariamente (sul piano sia logico, sia cronologico) sostanziale.

Il puctum dolens di questo tipo di approccio si rinviene, da un lato, nella petitio principii in cui esso fondamentalmente risulta coinvolto, dall’altro, nella frammentazione delle soluzioni al problema della prescrizione, in modo che queste, divenendo tutte apparentemente giustificabili sul piano della mera opportunità politica, finiscono con il privare l’istituto di un vero fondamento[2].

Tanto premesso, non dovrà tuttavia meravigliare il fatto che nel prosieguo del lavoro si ometterà, in parte, di considerare l’incidenza, profonda, che l’ultima riforma ha avuto sulla ratio dell’istituto della prescrizione, il quale, ridimensionato nella sua applicazione, sembra avere oggi una portata concettuale, in verità,  pressoché trascurabile. Affatto trascurabili, invece, restano i risvolti problematici che tanto la “vecchia” quanto la “nuova” prescrizione presenterebbero sul piano pratico-giuridico, se è vero che, tra l’altro, gli effetti della nuova riforma potranno essere apprezzati soltanto a distanza di anni dalla sua approvazione.

Le ragioni di tale omissione vanno individuate nel fatto che, chi scrive, è d’accordo con quanti sostengono la incostituzionalità della più recente riforma anche per motivi, invero, non ancora del tutto esplorati in sede dottrinale. Pertanto, non ci si sottrarrà all’indicazione di tali motivi e delle perplessità che l’ultimo intervento in materia ha suscitato e continua a suscitare, su più fronti. E infatti, non si  trascura che la recente riforma, pure ridimensionando la portata applicativa e teorica dell’istituto, non ha sopito alcune delle questioni di fondo ad esso sottese. Né tantomeno si ignora la precarietà su cui si regge l’ultima innovazione normativa, non soltanto se si considera il contesto politico che già preme per il suo superamento, ma soprattutto per la sua presunta insostenibilità, in assenza di una riforma sistematica del diritto penale sostanziale e processuale.

Quando, dunque, il superamento dell’ultima riforma costituirà uno dei futuri compiti del legislatore, ci si porrà il problema di un sostanziale ripristino della vecchia disciplina, che, a quel punto, dovrà essere emendata di tutte, o gran parte, di quelle contraddizioni, alcune solo apparenti, che sembravano e sembrano tutt’ora contrassegnarla.

3. Funzione della prescrizione del reato: prospettive tradizionali

Per una più agevole comprensione del fondamento ordinamentale ovvero politico-criminale dell’istituto della prescrizione,  appare imprescindibile prendere le mosse dalle funzioni e dalle finalità che a questo si è ritenuto, di volta in volta, doversi attribuire.

Sinteticamente, la questione sulla funzione della prescrizione, stando alla concezione tradizionale[3], sembra potersi articolare in questi termini: posto che la prescrizione consiste in una rinuncia dello Stato alla possibilità di far valere e di esercitare in concreto la sua stessa pretesa punitiva, in considerazione del tempo ormai già trascorso dall’accadimento del fatto – condizione questa che giustificherebbe l’opportunità di una tale rinuncia –, deve chiarirsi quale sia l’interesse che l’ordinamento giuridico possa avere  a che un reato, se pure a certe condizioni, non sia (più) punito ovvero la tutela di quale interesse può rendere “tollerabile” una tale circostanza.

Si dice “tollerabile” giacché, si badi, la peculiarità dell’istituto della prescrizione sta nel fatto che essa, secondo la concezione corrente, fa sì che l’ordinamento giuridico, nel farsi interprete della “funzione coscienziale” del tempo[4], rinunci non ad una sua funzione qualsiasi, ma proprio al perseguimento di quelle finalità – consistenti nell'individuare e punire i trasgressori della legge – cui è stato delegato, secondo il fondamento contrattualistico su cui si regge il rapporto tra  Stato moderno e singoli consociati, in nome di una società più efficiente e più sicura.

Pertanto, al centro di ogni speculazione dottrinale in materia, non poteva non esservi l’elemento oggettivo del decorso temporale e le influenze che esso esercita sugli scopi del diritto penale, ad alcuni dei quali, attraverso l’intervento della prescrizione, ogni volta lo Stato abdicherebbe. Decisive in ogni discorso sono pure queste stesse finalità che il diritto penale storicamente persegue attraverso la sanzione penale, sua caratteristica preminente.

Tenendo conto di ciò, era inevitabile che la valorizzazione degli interessi toccati dall’operatività della causa estintiva oscillasse, nelle elaborazioni dottrinali, costantemente tra almeno due estremi: l’esaltazione di una prospettiva ora statualistica, ora individualistica ovvero di una prospettiva ora general-preventiva, ora special-preventiva, come noto anime compresenti e confliggenti del diritto penale.

Si comprende, dunque, come la prescrizione sia stata tradizionalmente intesa quale particolare espressione proprio di questa «doppia natura»[5] del diritto penale. In altre parole, la sua operatività, legata al decorso di un certo lasso di tempo dal tempus commissi delicti, renderebbe palese, a seconda dei casi, l’affievolimento delle esigenze sottostanti all’esercizio del magistero punitivo (sicché non sarebbe più utile per lo Stato continuare ad avanzare la sua pretesa punitiva), ovvero la prevalente esigenza di tutela del singolo e dei suoi diritti.

Secondo la prima prospettiva, la ratio dell’istituto della prescrizione riposerebbe sul fatto che lo scorrere del tempo affievolisca la memoria sociale del delitto e che con essa venga meno, di conseguenza, anche l’esigenza statualistica, o general-preventiva, di difesa sociale.

Secondo una diversa concezione, invece, la sua ratio risiederebbe nel fatto che l’eccessivo scorrere del tempo pregiudicherebbe, a un certo punto, alcuni dei diritti fondamentali del reo, come quello di difesa processuale, considerata la maggiore difficoltà di reperire i mezzi di prova a distanza considerevole dal fatto, ovvero il diritto a non subire una pena ingiusta, quale sarebbe quella comminata nei confronti di un soggetto ad irragionevole distanza di tempo dalla commissione del reato.

Dunque, se ci poniamo in un’ottica personalistica/individualistica ovvero specialpreventiva, sostenendo sostanzialmente che la prescrizione sia posta a tutela del prevenuto, non ci si dovrebbe “scandalizzare” della sua applicazione, sia pure frequente. La collettività dovrebbe essere rassicurata dal fatto che un istituto di garanzia, nel ricevere attuazione, abbia svolto la sua funzione di tutela: ad un individuo sarà risparmiata un’afflizione ingiusta, fosse anche la sola attesa del giudizio o la sua eventuale ulteriore prosecuzione.

Se, invece, ci poniamo in un’ottica statualistica/utilitaristica ovvero generalpreventiva, ritenendo che la prescrizione sia prevista nell’ interesse dello Stato il quale, nel farsi interprete della coscienza collettiva, ritenga legittimo o anche solo conveniente che di un fatto (di reato) ci si possa disinteressare, anche in questo caso non vi sarebbe alcun motivo di scandalo nell’applicazione dell’istituto. La collettività dovrebbe essere rassicurata, ancora una volta, dal fatto che, non il reo, ma lo Stato, sintesi ed interprete della comunità, abbia deciso in tal senso: ad essa lo Stato ha ritenuto di dover risparmiare una ormai inutile intimidazione.

La suddetta ricostruzione teorica non sembrerebbe convincente. Il problema di fondo, espressione delle più insolubili ambiguità, non deriva soltanto dall’applicazione in sé della prescrizione, quanto dal fatto che essa intervenga nel corso di un processo già cominciato. Questa circostanza che anche da sola parrebbe in grado di mettere in crisi, già sul piano concettuale, la razionalità dell’istituto è aggravata, se possibile, allorché il meccanismo prescrittivo trovi frequente operatività nel corso di processi penali già ampiamente avviati e per i quali si siano profuse significative energie[6].

In altre parole, se la prescrizione consiste in una rinuncia dello Stato all’esercizio della sua pretesa punitiva, quello che si ha difficoltà a giustificare è perché l’inizio di un processo non sia idoneo ad interrompere il decorso dei termini prescrizionali.

Questa evenienza appare insensata in quanto riesce sia a mettere in crisi la giustificazione statuale/utilitaristica dell’istituto, sia ad alterarne il fondamento umanitaristico e di garanzia. Per quanto concerne il primo aspetto, non si comprende perché lo Stato dichiari di non avere interesse a punire proprio mentre è in corso il processo che di quell’interesse ne è chiara ed evidente manifestazione (sempre che il processo sia iniziato prima della scadenza dei termini prescrizionali). Per quanto concerne il secondo aspetto, da una parte, gli imputati pur di evitare il rischio di rimanere “incastrati” dalla giustizia, hanno convenienza ad accettare la prescrizione, anche quando innocenti, rinunciando al diritto di provare la loro estraneità dalle accuse. In tal senso qualora non sia provata allo stato degli atti la sua innocenza, l’imputato vedrà concludersi il processo a suo carico per prescrizione di un reato di cui probabilmente non ne è l’autore; sotto un diverso profilo, nonostante il principio di non colpevolezza e di presunzione di innocenza, c’è il rischio che la prescrizione divenga o comunque sia percepita, come per lo più è oggi già percepita, unicamente quale vittoria dei “delinquenti”, in quanto traguardo facilmente raggiungibile attraverso apposite strategie dilatorie.

Alla luce di tali considerazioni, risulterebbe evidente l’incoerenza della disciplina e dell’operatività dell’istituto rispetto alle funzioni e alla ratio che tradizionalmente le si attribuiscono. Si tratterà, allora, di constatare la fondatezza di tali perplessità o, viceversa, l'ammissibilità dei presupposti a partire dai quali tali dubbi acquisiscano rilevanza giuridica (v. par. 4).

3.1. (segue): prospettive più recenti, prescrizione e ragionevole durata del processo

Prima di procedere oltre, non può essere ignorata quella che oggi sembra essere diventata – secondo molti – la vera funzione dell’istituto, ossia uno strumento al servizio del principio costituzionale e sovranazionale della «ragionevole durata» del processo. Tale convincimento, in verità, origina dall'ambiguità della disciplina vigente, resa maggiormente equivoca dall’ultimo intervento normativo in materia. La prescrizione, nel suo operare, si innesta fatalmente nella vicenda processuale al punto tale che quest'ultima non solo ne risulta influenzata in maniera decisiva, trovando in tale istituto un suo termine per così dire forzato e “innaturale”; ma è la vicenda processuale stessa ad incidere sul decorrere dei termini prescrizionali che ne risultano, per forza di cose, dilatati, sia pure entro un certo limite massimo: essi saranno sospesi o interrotti in funzione, a seconda dei casi, di inerzie processuali o di determinati atti del processo (ad es., gli artt. 159 e 160 c.p.).

Ne deriva una sovrapposizione tra il tempo del processo, funzionale all’accertamento, e il tempo storico, funzionale al maturare dei termini prescrizionali, che può indurre l'interprete a collegare questi ultimi ad una esplicita opzione normativa fondata sulla delimitazione temporale del processo.

La più recente riforma, intervenuta con l. n. 3 del 2019, in verità, ha inteso spezzare questo legame dopo la pronuncia della sentenza di primo grado che, lungi dal costituire una nuova causa di sospensione, come normativamente denominata, costituisce invero un nuovo dies ad quem dei termini di prescrizione. La logica che ha ispirato il suddetto apparato normativo, confortata dai dati empirici, talora preoccupanti, in ordine all’altissima incidenza della prescrizione quale precoce causa di definizione del procedimento penale, sembra ricusare ogni valida funzione di garanzia dell’istituto, riaffermando piuttosto il principio per il quale lo svolgimento del processo, specie se giunto a parziale conclusione, costituisca manifestazione attuale di quell’interesse a “punire”, che il maturare della prescrizione pretenderebbe, invece, di estinguere.

A prescindere dal merito della riforma – alla cui valutazione, di seguito (v. par. 9), pure non ci si sottrarrà –, quello che fin d’ora può obiettarsi al legislatore è che anche in materia di prescrizione abbia scelto di intervenire sulla scorta di un populismo penale che, al processo penale "reale", preferisce quello virtuale dei mass-media, scegliendo deliberatamente di abdicare ad una più meditata analisi, la quale avrebbe invece valorizzato una semplice constatazione: mentre l’esigenza di modificare la disciplina prescrizionale indica anomalie processuali che si trovano altrove, non si agisce su tali aporie, ma sull’indicatore delle medesime (cioè sulla prescrizione), con la conseguenza che, non intervenendo sulle cause, non si eliminano i problemi segnalati, anzi si riducono le utilità e le garanzie connesse all’istituto, la cui unica colpa è quella di evidenziare l’esistenza di detti problemi.

Ad ogni modo, è certo che la citata riforma non si ponga l’obiettivo, né sortirà l’effetto, di risolvere il problema, comunque urgente, della irragionevole durata dei processi. Anzi, al di là degli intenti dichiarati, bisognerà vedere se tale provvedimento legislativo nel prendere di mira un problema, ossia ridurre il numero dei procedimenti penali definiti con la declaratoria della prescrizione del reato, non ne crei invece degli altri in termini, soprattutto, di efficienza del processo e, appunto, della sua (ulteriore) irragionevole durata.

Della funzionalità, quantomeno di fatto, dell’istituto, volto a garantire un processo dai tempi ragionevoli dà conto una parte della dottrina[7] e ve ne è chiara traccia, ad esempio, anche nella relazione alla recente, ma non ultima, proposta di riforma formulata dalla c.d. Commissione Fiorella, che in buona parte sta alla base delle modifiche apportate in materia dalla l. 103/2017[8], nella passata legislatura.

Tale impostazione si regge su un convincimento esposto sostanzialmente come segue: nel contemperamento tra esigenze diverse di cui il principio della ragionevole durata del processo vorrebbe essere espressione, rientra pure un’istanza sostanziale comune anche alla prescrizione, ossia quella della prontezza della risposta sanzionatoria. Sottesa tanto alla necessità di contenere i tempi processuali, quanto al riconoscimento dell'effetto estintivo del decorso del tempo sul reato, sta infatti la considerazione dell’inutilità, quando non della dannosità, di una reazione statuale eccessivamente tardiva.

Questa comunanza di ratio, sembrerebbe corroborare l'idea della sovrapponibilità tra tempo prescrizionale e tempo processuale ragionevole, facendo propendere per una definizione della relazione tra i due termini considerati in «rapporto di continenza»: il tempo del processo è contenuto nel tempo prescrizionale ed è ragionevole in quanto in esso confinato, dal momento che tale decorso temporale segna il limite massimo della distanza che può essere posta tra il reato e la risposta di giustizia, affinché questa esplichi le proprie funzionalità. Dunque, quale logico sviluppo di questa premessa, sembrerebbe possibile affermare che la prescrizione può fungere da limite, e in questo senso da garanzia, alla ragionevole durata dei processi e, di contro, da rimedio alla loro irragionevole durata.

Di seguito, invece, si tenterà di mostrare la parziale inesattezza anche di tale convincimento teorico (v. par. 6 e 7).

4. La funzione della prescrizione colta nella sua "essenza"

Quando si vuole indagare sul significato di un istituto, in generale, sembra debba valere una regola: il suo significato è determinato dallo scopo, e quindi dalla finalità, che esso persegue, nel senso che se quella stessa categoria dogmatica fosse orientata al perseguimento di una finalità diversa, ovvero, più precisamente, se non fosse diretta al perseguimento anche e prima di tutto di quella specifica finalità, non sarebbe, o non potrebbe dirsi essere, più la medesima, in quanto non avrebbe più lo stesso significato.

Ne deriva che la finalità a cui deve farsi riferimento per comprenderne il significato (e quindi la ratio) non è e non può essere una finalità astratta o indiretta o solo ipotetica,  cioè una possibile tra altre pure possibili, bensì va riferita a quegli scopi direttamente perseguiti dall'istituto. 

Se proviamo a riportare questo discorso al tema della prescrizione, che qui ci occupa, dobbiamo constatare che, a causa del decorso del tempo, la “possibilità di punire”, ma anche quella di non punire, cessa, a sua volta, come conseguenza del verificarsi di un dato oggettivo che si presenta invece come “certezza”: l’interruzione dell’attività di accertamento giudiziale all’interno di un processo già avviato. E infatti, se non può veramente parlarsi di prescrizione fintantoché questa non sia dichiarata nel corso di un procedimento/processo, deve ammettersi che gli "effetti" derivanti da tale dichiarazione agiscano non tanto o non solo, o comunque non direttamente, sulla realtà 'naturale' del fatto costituente reato, ma su quella giuridica del processo. E prima ancora che la sanzione, è lo stesso processo di valutazione dell'organo giudicante ad essere inibito dal sopraggiungere del termine prescrizionale.

Da questo punto di vista, quando ricorre l’istituto della prescrizione, quello che si riscontra è che un processo in corso deve essere “fermato” e concluso (v. art 129 c.p.p.): è chiaro che intanto un processo deve però essere già iniziato[9].

L’effetto estintivo dipendente dalla prescrizione è, dunque, intrinsecamente processuale: a ben vedere, una prescrizione sostanziale non pare nemmeno esistere, poiché il reato non può dirsi prescritto in assenza dell’attivazione, da parte di un giudice, di un procedimento che accerti il fatto, la sua qualificazione astratta, ergo che sia prescritto o meno l'illecito penale. Invece, la causa di estinzione del reato di cui si sta trattando per operare non richiede necessariamente la sussistenza di un reato, essendo sufficiente la sussistenza in ipotesi di un qualunque fatto criminoso rispetto al quale un processo penale sia stato avviato[10].

Se, allora, attraverso la prescrizione l’ordinamento rinuncia, di regola, a definire nel merito un processo, si comprende meglio che l’oggetto di tale rinuncia non è da ricercarsi sul piano del diritto penale sostanziale e delle sue finalità (come generalmente è stato fatto, v. supra par. 3), quanto piuttosto sul piano del diritto processuale penale, per mezzo del quale quelle finalità possono essere concretamente perseguite. È in una prospettiva processuale, infatti, che si possono apprezzare le conseguenze della lesione di quei precetti astratti di diritto sostanziale che, in quanto tali, prima o in assenza di una loro violazione o di un procedimento penale, si limitano ad avere, sulle condotte future dei consociati verso cui si rivolgono, una portata soltanto orientativa, per quanto non necessariamente orientante in senso effettivo.  Ed è nel processo che le norme penali da precetti indirizzanti le condotte future dei consociati, diventano precetti assunti a parametro per la valutazione di comportamenti criminosi che, in ipotesi, si presumono già posti in essere dagli indagati/imputati.

Per questo il processo non può dirsi essere propriamente il luogo di attuazione della legge repressiva[11], nella misura in cui non lo sia necessariamente. Più precisamente, dovrebbe dirsi che il processo sia anche il luogo di attuazione della legge repressiva, essendo, nondimeno, locus della non-attuazione della legge repressiva (in senso lato). Ma rimanere – ancora una volta – sul campo degli scopi solo possibili non restituisce il senso essenziale delle cose, il quale si rinviene nella loro finalità immediata, diretta e concreta che, nel caso del (nostro) processo penale, è l’accertamento dei fatti ipotizzati come reati dall’accusa e ascritti agli imputati.

Se assumiamo per corretto il ragionamento fin qui esposto, dobbiamo concludere che il sistema penale attraverso la prescrizione rinunci al conseguimento delle finalità proprie del processo. E gli scopi che, nel suo complesso, il nostro processo penale tende a conseguire sono (o dovrebbero essere!) essenzialmente di “neutro” accertamento (che può portare tanto alla condanna, quanto al proscioglimento dell’imputato).

Dunque, l’ordinamento giuridico, in ragione del tempo trascorso, perde interesse a che sia fatta chiarezza o si continui a fare chiarezza attorno alla commissione di un fatto che, fatta salva la presunzione d'innocenza, sia qualificato come reato, per quanto esso (l’ordinamento), nell’attivazione di certi suoi meccanismi, si sia già messo in moto per adempiervi attraverso un procedimento/processo in parte già avviato o concluso in certe sue fasi. Il tempo trascorso diventa perciò quell' elemento che giustifica la rinuncia a compiere in modo pieno la finalità accertativa del processo.

La rinuncia alle conseguenze dell’esito di quell’accertamento, che potranno coincidere con la condanna ovvero con il proscioglimento, invece, si colloca su un piano sia logico che cronologico successivo.

In questo quadro, il tempo funzionale al maturare della prescrizione del reato individuato a partire dalla sua gravità, ossia dalla pena edittale prevista nel massimo dalla legge, è soltanto strumentale all’operatività dell’istituto, come lo sarebbe qualsiasi altro diverso criterio, ma nulla dice in merito all’oggetto della rinuncia cui l’ordinamento cede attraverso di esso: tale oggetto non è, immediatamente, né la sanzione, né la mera possibilità di applicarla[12].

Questa prima conclusione – che dà conto di quanto la prescrizione del reato sia, in realtà, più affine «alle finalità perseguite dal processo penale, che non a quelle cui tende la pena»[13] o, in generale, il diritto penale sostanziale – impone di impostare correttamente il problema che, erratamente analizzato, è stato risolto giungendo alle fuorvianti contraddizioni di cui – si ritiene – la prescrizione sarebbe rivelatrice.

Una di queste fallaci ipotesi – lo si accennava sopra – è quella per cui si sostiene che l’evenienza in cui la prescrizione maturi nel corso di un processo già avviato negherebbe la sua stessa ratio. A proposito, si sostiene che se da un lato, con essa lo Stato dovrebbe certificare il suo disinteresse “a punire”, dall’altro, è proprio l’esistenza di un processo in corso a rendere ancora attuale la sussistenza di quell’interesse[14].

Il punto è che con la prescrizione lo Stato non rinuncia solo a ‘punire’, perché non è l'applicazione della sanzione l’unica finalità cui il processo è direzionato, bensì anche e prima di tutto ad ‘accertare’.

Inoltre, se la prescrizione è sempre dichiarata giudizialmente, il fatto che tale dichiarazione sopraggiunga nel corso di un processo, sia pure avviato già da tempo, sta nella fisiologia della disciplina: la funzione della prescrizione, lo si è già detto, consiste proprio nell’arrestare anticipatamente lo svolgimento di un processo che non sia stato instaurato e/o non sia riuscito a concludersi entro un lasso di tempo che l’ordinamento ha preventivamente e presuntivamente ritenuto idoneo a consentire che ciò si verificasse.

Dunque, il problema va impostato in questi termini: non ci si deve chiedere quale sia l’interesse che l’ordinamento può avere a che un reato non sia (più) punito o punibile, piuttosto occorrerebbe chiarire quale sia l’interesse che l’ordinamento può avere a che un processo non sia portato alla sua "naturale" conclusione.

La risposta che sembra possa essere data è la seguente: se l’ordinamento non contemplasse (al suo interno) la possibilità di rinunciare alla prosecuzione di un processo già iniziato a distanza di un considerevole lasso di tempo dal fatto di reato che ne costituisce l’oggetto, ammetterebbe, di contro, che un processo possa essere iniziato o continuato sempre o che un processo possa essere celebrato sine die. Ma questa evenienza, che si potrebbe verificare in assenza dell’istituto prescrittivo, sarebbe intollerabile non solo per ragioni di natura costituzionale o comunque di garanzia, su cui pure secondariamente si può riflettere, ma innanzitutto perché essa non sarebbe sostenibile per il (buon e/o effettivo) funzionamento del diritto stesso.

Infatti, se si verificasse la circostanza che un processo iniziasse o si concludesse a distanza di molto tempo dal fatto di reato o che si celebrasse senza la prospettiva di essere concluso, si potrebbe ben dire che il sistema (penale-processuale) “non funzioni” o non abbia “funzionato”.

Perciò può dirsi che l’istituto, più alla radice, sia previsto innanzitutto nell’interesse del sistema ordinamentale stesso che per funzionare deve poter restare efficace (ed effettivo) quando, per altri versi e per altri motivi, non è riuscito ad esserlo[15].

Messa in questi termini,  la prescrizione si rivela quale ammissione’ di mancato funzionamento che però “serve” al sistema ordinamentale per poter continuare ad operare ugualmente. D'altra parte, il diritto riesce ad avere una sua logica giustificatrice se è dotato, oltre che di validità, di un certo grado di efficacia-effettività. Riassumendo, si potrebbe dire che la prescrizione consiste sì nella «presa d’atto di una defaillance del sistema» (un processo non si conclude come normalmente dovrebbe concludersi)[16], ma rappresenta anche una sorta di reazione autoimmune del medesimo, che lo preserva dai rischi di collasso derivanti da un eventuale carico giudiziale eccessivo.

Dunque, agendo da possibile valvola deflattiva di un sistema ipertrofico, la prescrizione fa sì che la macchina della giustizia penale non prosegua nella sua attività proprio a causa del carattere tardivo del suo intervento[17].

A voler prendere in considerazione questo essenziale punto di vista, pur senza negare la possibilità che la prescrizione sia posta, più o meno indirettamente, a tutela di garanzie ed esigenze personalistiche e/o utilitaristiche, può sostenersi che essa, colta nella sua radicalità, trovi fondamento in quei principi di ragione[18] o di necessità logica i quali, anche se non enunciati in modo espresso, possono ritenersi nondimeno operanti, in quanto costituenti valori intrinseci del diritto. Alla base dell’istituto prescrittivo deve pertanto rinvenirsi un necessario principio di logica giuridica, avente matrice ordinamentale.

Si badi, tuttavia, che con ciò non si sta affermando che i principi di “efficienza” siano superiori ai limiti di giustizia, ma che anzi questi possano talvolta coincidere. Ciò induce a ritenere che l’assenza o l’espulsione dell’istituto prescrittivo dal sistema normativo non necessariamente implicherebbe la violazione di un qualche principio costituzionale, qualora alla disciplina prevista per tale rimedio se ne sostituisca un’altra che, per quanto diversa, risulti compensatoria sul piano delle finalità perseguite, se storicamente v’è necessità che tali fini debbano essere assolti, e ciò coinciderà con la corretta salvaguardia del sistema penale-processuale.

Si tratta poi di capire – ma questo è un altro discorso – se l’istituto e il meccanismo prescrizionale, non solo per come è pensato, ma soprattutto per come riceve applicazione, costituisca effettivamente uno strumento che, avendo l’intento (innanzitutto) di salvaguardare l'operatività di una parte del sistema (processuale-penale), lasci impregiudicata ogni altra inevitabile questione sulla effettività dei suoi intenti ‘efficacizzanti’ e sulla sua rispondenza ad altre esigenze di rilievo costituzionale, su cui la prescrizione, nei suoi risvolti applicativi, comunque è destinata ad incidere (giusto processo e ragionevole durata, diritto di difesa processuale, finalità rieducativa della pena, etc.).

5.  Il frequente “funzionamento” dell’istituto causa del suo disfunzionamento

Qualunque sia il fondamento giustificativo della prescrizione del reato e la funzione attribuitagli, affinché l’istituto possa dirsi “funzionante”, è necessario, innanzitutto, che esso riceva applicazione entro un lasso ragionevole di tempo dal fatto.

Da questo punto di vista, l’aggancio dei termini prescrizionali alla gravità del reato, e quindi al massimo edittale stabilito per ciascuna fattispecie delittuosa, come previsto nel nostro sistema, per quanto emendabile, è comprensibile nella sua impostazione di fondo[19]. Al riguardo, però, non si ignora che un tale criterio di fissazione dei termini di prescrizione, facendo dipendere questi ultimi dalla contingente molteplicità e varietà dei massimi di pena, sortisca l'effetto che qualsiasi modifica dei secondi divenga un fattore di instabilità anche dei primi. In tempi di uso populistico della legislazione penale[20] per finalità di autorappresentazione politica che tende a sostenere indirizzi legislativi di escalation punitiva, la disciplina attuale costituisce un vincolo pesante su riforme che intendano, ad esempio, andare in direzione di un abbassamento di massimi edittali cui corrisponderebbe automaticamente una riduzione del tempo di prescrizione: un risultato difficilmente spendibile nella distorta dialettica del mondo politico[21]. Sicché spesso, al contrario, si tende ad incrementare i massimi edittali di pena, non tanto in funzione delle finalità che la sanzione penale è chiamata costituzionalmente ad assolvere, quanto in virtù proprio della procrastinazione dei termini prescrizionali.

Ancora più indispensabile, però, è che l’istituto in esame riceva una applicazione soltanto eccezionale. Esso può essere ritenuto tollerabile e tollerato dalla comunità, ma ancora prima giustificabile e giustificato sul piano logico-giuridico, nella misura in cui sia vissuto come soltanto una deroga alla regola generale secondo la quale alla commissione di un reato debba intervenire, ex lege, una punizione, se si accoglie una più tradizionale impostazione[22]; o meglio, secondo una visione più laica qui sostenuta, all'assunto secondo il quale all’instaurazione di un processo penale consegua la sua regolare conclusione, consistente (prima) nell’accertamento dei fatti, (e poi) nell’ascrizione delle eventuali responsabilità e nell’ irrogazione della pena nei confronti di chi sia riconosciuto colpevole.

Quando il meccanismo prescrittivo, all’opposto della sua intrinseca ‘natura’, da eccezione diventa regola, finisce con l’essere sintomo (e causa allo stesso tempo)[23] di un certo grado di inefficacia/ineffettività del sistema (penale-processuale) che lo prevede.

In proposito, posto che l’opportunità di ammettere una qualche efficacia estintiva del decorso del tempo, al di là delle sfumature, è pacificamente condivisa nell’ambito della scienza penalistica, si tratta di dover assicurare il carattere assolutamente eccezionale della prescrizione. Invero, in maniera del tutto condivisibile, secondo autorevole dottrina «la prescrizione è un istituto che è giusto prevedere, ma che un sistema efficiente dovrebbe saper evitare di applicare»[24]. È su come fare in modo che questo accada che, in generale, bisognerebbe ragionare, se non si vuole, come pare non si debba, rinunciare in toto all’istituto.

6. La prescrizione come garanzia della ragionevole durata del processo?

È stato accennato poc’anzi (par. 3.1.) come, più di recente, si tenda generalmente a ritenere che la funzione della prescrizione sia diventata quella di garantire la ragionevolezza della durata dei processi. L’assunto di fondo, da cui tale convincimento prende le mosse, è quello per il quale il tempo del processo, contenuto nel tempo prescrizionale, è ragionevole fintanto che resti in esso confinato. Pertanto, se ne conclude che la prescrizione funga da limite alla ragionevole durata dei processi. 

Contro questa asserzione, si potrebbe esibire già l'argomento «troppo facile, ma inespugnabile»[25], dei reati imprescrittibili.  E infatti, se la prescrizione avesse questa funzione, se ne dovrebbe far discendere la incostituzionalità, per violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost., delle norme che prevedono l'imprescrittibilità di questi reati (segnatamente l'art. 157, ult. comma, c.p., ma si pensi anche ai reati “di fatto” imprescrittibili)[26]. Viceversa, data l'assenza di qualsivoglia termine prescrizionale, dovrebbe derivarne la legittimità – per quelle fattispecie delittuose – di processi eterni. Entrambe le ipotesi non sarebbero sostenibili.

A ben vedere, a sollevare le perplessità maggiori è la stessa considerazione posta a fondamento del convincimento di cui sopra. L' assunta comunanza di ratio, da cui esso prende le mosse, rinvenibile nelle istanze di prontezza e immediatezza, ritenute affini tanto alla prescrizione quanto al canone costituzionale della ragionevole durata, si rivela, infatti, parziale non appena si consideri il diverso rilievo che esse assumano se valutate entro la prospettiva propria della causa estintiva de qua, ovvero entro quella delineata dal principio sancito dalla nostra Carta fondamentale.

In quest’ultimo caso, tali istanze vanno sempre affiancate alle esigenze di completezza e accuratezza dell’accertamento, nel rispetto della regola generale del giusto processo. Il principio della ragionevole durata, infatti, accoglie in sé un’idea di efficienza processuale nella quale il bisogno di celerità è da intendersi in rapporto con tutte le garanzie costituzionali che contribuiscono a definire «giusto» il modello di processo penale costituzionalmente orientato.

A diverse considerazioni si perviene, invece, quando si valuti il bisogno di prontezza della risposta sanzionatoria nella prospettiva della prescrizione del reato. Qui, la prontezza assume valore di un imperativo perseguito attraverso la definizione di un tempo massimo complessivo dell'intero iter che prende avvio dalla commissione del reato fino al suo accertamento definitivo (almeno prima della riforma Bonafede): un tempo, quello del tempori cedere, nell'ambito del quale il processo è valutato alla stregua di una delle sue componenti. Dunque, l’aspetto dell'accuratezza e della completezza dell’accertamento nel rispetto delle garanzie processuali, mentre assume valore decisivo in riferimento alla ragionevoli durata del processo, assume più scarsa rilevanza in riferimento alla fissazione dei termini prescrizionali. 

Si consideri anche, a questo proposito, che se è vero che la ragionevole durata del processo va misurata sul tempo necessario e sufficiente per l'espletamento delle garanzie giurisdizionali, non avrebbe molto senso allora collegarne la commisurazione alla sola gravità del reato, come prevede l’attuale disciplina della prescrizione: un reato dall’agevole accertamento, anche se gravissimo, non può giustificare un processo lunghissimo; per contro, uno di estrema complessità probatoria, ancorché di modesta entità, ben potrebbe legittimare un processo più lungo[27] .

Inoltre, anche a voler trascurare tale osservazione, contro il convincimento secondo cui la prescrizione costituirebbe una garanzia per la ragionevole durata dei processi, resta il fatto che i termini prescrizionali decorrono dal giorno della consumazione del reato, a prescindere dal momento, più o meno prossimo alla commissione del fatto, in cui le autorità predisposte si attivano sul piano investigativo e processuale. Ne consegue che il tempo disponibile per l'accertamento, ossia quel che residua  prima del prodursi dell’effetto estintivo, risulta fortemente condizionato dalla maggiore o minore sollecitudine nell’avvio del procedimento penale e, di conseguenza, a quel punto, la durata ragionevole di un processo, nella prospettiva che qui si sta confutando, andrebbe a coincidere con un termine fisso, quindi non dilatabile in considerazione delle esigenze probatorie e della complessità della causa, la cui definizione resterebbe connotata da un elevato tasso di aleatorietà.

Difatti, quando il procedimento penale viene attivato al limite della scadenza dei termini prescrizionali, «il processo nasce già con un piede nella fossa»[28], in quanto la sua durata sarà inevitabilmente confinata entro l'ultima frazione del tempo complessivo definito dalla prescrizione. In questi casi la valutazione di ciò che accade all'interno del procedimento rileva solo in parte: o determinando una parentesi sospensiva nel decorso dei termini, oppure, con il compimento di un atto interruttivo, contribuendo a definire una volta per tutte il c.d. «tetto massimo» di aumento del termine, raggiunto il quale, l'effetto estintivo opera a prescindere dai reali bisogni di tempo della vicenda processuale appena inaugurata.

Come si capisce, un processo irragionevolmente lungo potrebbe non essere “sanzionato” dalla prescrizione qualora sia iniziato a ridosso del tempus commissi delicti; mentre un giudizio assai celere può ben essere interrotto dalla prescrizione se instaurato a notevole distanza dalla commissione del reato[29].

Allo stesso modo, non si può seriamente asserire né che sia sempre ragionevole la durata del processo che si inscriva nei termini prescrizionali, né che sia sempre irragionevole quella che li travalichi[30].

In sintesi: la prescrizione prende in considerazione l'intero percorso che va dalla commissione del reato fino alla sentenza definitiva (oggi, per i reati commessi dopo il primo gennaio 2020, sino alla sentenza di primo grado), stabilendo il tempo massimo entro il quale la risposta della giustizia (anche solo parziale e non definitiva, dopo la l. n. 3 del 2019) debba concretizzarsi. In questo arco temporale, la porzione riservata al processo può essere consistente, quando attivato tempestivamente, ovvero essere decisamente esigua. Di contro, il canone costituzionale della ragionevole durata si interessa proprio della sola porzione del processo penale e dei bisogni di tempo propri del contesto processuale.

«La prescrizione, dunque, non funziona e non può funzionare come strumento che assicuri la «ragionevole durata del processo». Al contrario, è la ragionevole durata del processo che dovrebbe evitare la scadenza dei termini di prescrizione»[31], almeno  nelle ipotesi in cui il processo sia stato instaurato tempestivamente e/o risulti ragionevole o ampiamente possibile che si concluda entro i già impostati termini prescrizionali.

7. La prescrizione come sanzione alla irragionevole durata del processo?

Come si è visto, può escludersi che, sul piano concettuale, l'istituto della prescrizione possa essere considerato uno strumento posto a garanzia del principio della ragionevole durata del processo, nel senso per cui la declaratoria di prescrizione interverrebbe a concludere un processo che se si continuasse a celebrare sarebbe irragionevole con riferimento alla durata.

Difatti – è stato detto – non si può asserire che sia sempre ragionevole la durata del processo che si inscriva nei termini prescrizionali, né che sia sempre irragionevole quella che li travalichi. Si pensi ad un processo iniziato a breve distanza dal tempus commissi delicti e che si sia protratto entro termini spropositati di tempo, senza comunque superare quelli prescrizionali; ovvero un processo iniziato a distanza di molto tempo dalla commissione del fatto, che avrebbe potuto naturalmente concludersi entro un tempo ragionevole, ma che deve essere interrotto prematuramente ed inevitabilmente per sopraggiunta prescrizione del reato.

Resta, però, da vedere se la prescrizione, nei fatti[32], possa comunque operare come “sanzione” per il caso in cui si violasse il principio della ragionevole durata del processo.

In effetti, sembra che in un solo caso il sopraggiungere della prescrizione possa essere ritenuto uno strumento idoneo ad evitare, e in questo senso “sanzionare”, il prosieguo di un processo che, altrimenti, nel caso in cui non lo fosse già, certamente sarebbe di irragionevole durata.

Ci si riferisce all’ipotesi in cui un processo inizi tempestivamente, ma si protragga oltremodo fino al sopraggiungere della prescrizione del reato. In questo caso la prescrizione, che già nei fatti assume la funzione di limite "biologico" o limite legale alla durata del processo, assume anche la funzione di ‘sanzione’ alla sua irragionevole durata, la quale, se mai fosse già tale, certamente lo sarebbe qualora si superassero i limiti prescrizionali. Al riguardo, si consideri altresì che la durata ragionevole del processo è fissata, ai fini della Legge Pinto, in sei anni (art. 2, commi 2-bis e 2-ter, l. 24 marzo 2001, n. 89) e che in sei anni è fissato anche il termine minimo di prescrizione dei delitti puniti con pena massima edittale inferiore (art. 157, comma 1, c.p.).

D’altronde, se lo Stato presume, attraverso la fissazione dei termini prescrizionali, un certo lasso di tempo, decorrente dalla commissione del fatto, superato il quale perde interesse all’accertamento del fatto di reato, ha implicitamente ritenuto plausibile che, entro quel periodo di tempo, un processo possa non soltanto essere avviato, ma anche essere concluso. Tale presunzione ha senso, va ribadito, soltanto qualora il procedimento/processo (che già di per sé deve tendere alla durata ragionevole) sia stato instaurato tempestivamente, a ridosso cioè del tempus commissi delicti.

Fuori da questa ipotesi varrebbero le obiezioni di cui sopra, rappresentando la prescrizione, piuttosto, una “sanzione” non alla irragionevolezza della durata del processo, quanto alla irragionevolezza del processo stesso o perché instaurato “fuori tempo” (quando la prescrizione sia già maturata), o perché celebrato “fuori tempo” (quando la prescrizione sia maturata nel corso del suo svolgimento).

In altre parole, in considerazione dell'arresto anticipato dello svolgimento di un processo che non sia stato instaurato e/o non si sia riuscito a concludere entro un lasso di tempo che l’ordinamento ha preventivamente e presuntivamente ritenuto idoneo a consentire (imporre) che ciò si verificasse,  si potrebbe dire che la prescrizione “sanzioni” non la irragionevolezza della durata del processo, quanto invece la irragionevolezza del suo stesso celebrarsi, oltre un dato lasso di tempo dalla commissione (anche solo asserita) del fatto di reato che di quel processo ne costituisce l’ oggetto.

In questo senso, può dirsi in definitiva che la prescrizione costituisca, per definizione, l’esito di un processo che si è protratto ad irragionevole distanza temporale dal reato (non necessariamente per l’eccessiva sua lunghezza): l’effetto estintivo è un esito indesiderabile che viene previsto e accettato, per l’appunto, in conseguenza dell’eccessivo lasso temporale trascorso dal commesso reato alla decisione.

8. (Oltre) La questione sulla natura giuridica dell’istituto.

Tradizionalmente, affrontare la vexata questio sulla natura giuridica, sostanziale o processuale, della prescrizione del reato ha significato decidere il problema concernente il regime giuridico intertemporale ad essa applicabile: quello maggiormente garantista messo a punto dall’art. 25, secondo comma, Cost. e dall’art. 2 c.p., in luogo di quello  offerto dal principio del tempus regit actum, che governa la materia processuale[33].

La questione, per quanto sia stata e resti ancora dibattuta, invero, non affascina più di tanto. Anche perché la risoluzione della controversia, in un senso piuttosto che in un altro, non dovrebbe influire sugli esiti che ne dovrebbero in ogni caso discendere in termini di sottoposizione dell’istituto alle maggiori garanzie fornite dal principio di legalità in materia penale e, quindi, dal principio di irretroattività sfavorevole, come si tenterà di indicare.

Senza volere, in  questa sede, ripercorrere la trama articolata di un dibattito[34], tra i più accesi in ambito accademico, tanto che autorevole dottrina lo ha definito «irrisolvibile con il gioco dei concetti»[35], sembra sufficiente, più pragmaticamente, rammentare che la giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, pressoché unanimemente concorda sulla natura sostanziale dell’istituto[36].

Di recente, la questione ha assunto rilevanza perfino sovranazionale, a seguito della ormai celeberrima "saga Taricco", che ha visto avvicendarsi un interessane confronto(/scontro) tra la Corte di Giustizia della UE e Corte costituzionale italiana, oggetto di numerosi e puntuali approfondimenti che qui sembra superfluo riproporre. Basti rammentare, però, che all’esito di tale vicenda, il Giudice delle leggi, sollecitato dalle Corti territoriali[37] all’utilizzo dei c.d. “controlimiti” (teorizzati nella sentenza Granital) a difesa del diritto nazionale, ed optando tuttavia per una più dialogica ma efficace soluzione interlocutoria (ord. n. 24 del 2017), ha riaffermato convintamente la natura sostanziale della prescrizione, messa in discussione dai giudici convenzionali, e la sua sottoposizione alla garanzia costituzionale espressa dal principio di legalità (sub specie di riserva di legge e di irretroattività della legge penale sfavorevole), sotto la cui egida non rientrerebbero solo le norme incriminatrici e quelle sanzionatorie, ma anche quelle relative ai limiti temporali della punibilità.

La Corte di Giustizia, con la successiva sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17 (c.d. Taricco II) –  contro ogni pronostico –  ha accolto le ragioni dell’istante, tornando, di fatto, sui propri passi, sicché anche in ambito euro-convenzionale è stata riconosciuta la facoltà di ciascun ordinamento – come nel caso di quello italiano –  di attribuire rilevanza sostanziale a istituti come la prescrizione.  

Ad ogni modo, quello che qui preme evidenziare è che la discussione sulla qualificazione giuridica delle norme non consente di andare "oltre", e cioè di affrontare il tema decisivo dei rapporti tra il principio di legalità penale sostanziale e quello di legalità penale processuale. Su questo fronte, la stessa vicenda Taricco non sembrerebbe fornire risposte incoraggianti.

Affermare la valenza di un più forte principio di legalità anche in ambito processuale avrebbe consentito al giudice nazionale, ancorché avesse inteso seguire i primi insegnamenti della Corte di Giustizia, secondo i quali la prescrizione avrebbe natura processuale (non sostanziale), di  estendere anche al piano processuale le garanzie apprestate dall’art. 25, secondo comma, Cost., in considerazione degli effetti tendenzialmente favorevoli che il sopraggiungere della prescrizione comporta per l’imputato.

In verità, da ultimo, nel solco di una progressiva rilettura, di matrice euro-unitaria (CEDU), in termini effettuali e sostanziali, non soltanto formali, del principio di legalità, sembra stia facendosi strada l’idea di una differenziazione tra norme formalmente processuali, ma sostanzialmente penali, in considerazione degli effetti afflittivi che, al di là delle etichette di legge, la loro applicazione in concreto comporta  ai danni del reo-imputato.

L’affermazione di tale distinzione si rinviene in una recente pronuncia della Consulta, la sent. n. 32 del 2020, che ha dichiarato l' incostituzionalità della l. n. 3 del 2019, censurando la riforma nella misura in cui le modifiche da essa apportate all’art. 4-bis ord. penit., in materia di accesso condizionato a benefici penitenziari, debbano ritenersi applicabili anche agli imputati o ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore. La citata sentenza costituisce un rovesciamento radicale delle posizioni da sempre diffuse nell'ambito del diritto vivente nazionale, secondo cui la natura processuale delle norme in questione (ordinamento penitenziario) consegnava le stesse al regime imposto dal principio tempus regit actum.

E invece, l’innovativo approdo ermeneutico investe direttamente il criterio di qualificazione giuridica delle norme: la natura, sostanziale o processuale, delle singole disposizioni, con i risvolti che ne conseguono anche sotto il profilo del regime temporale applicabile, dev’essere stabilita sulla base non semplicemente del nomen iuris assegnatogli dal legislatore, quanto degli effetti, afflittivi o meno, che da esse discendono sulla libertà personale dei singoli.

In definitiva, posto che ci sarebbero buone ragioni, sul piano teorico-speculativo, per ritenere la prescrizione un istituto tanto di diritto sostanziale, quanto di diritto processuale, e posto che – secondo chi scrive – l’operatività dell’istituto si collochi primariamente sul piano giuridico del processo  e non direttamente del reato, qualunque sia la natura giuridica che le compete, resta il fatto che l’effetto sfavorevole che in concreto discenderebbe da una modifica peggiorativa dell’istituto rende quest’ultimo sottoposto, in ogni caso, allo statuto di garanzie di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.

Parafrasando la Consulta (sent. n. 32 del 2020, pag. 30) si potrebbe dire, in riferimento alla prescrizione, che la differenza tra il “fuori” e il “dentro” il processo «è radicale», essendo in questione la possibilità, per l’imputato, di subire o meno una sanzione penale. Tanto dovrebbe bastare per assicurare al regime prescrizionale, al di là delle disquisizioni sulla qualificazione giuridica, l’applicazione del principio di legalità e dei suoi corollari.

9. La legge n. 3 del 2019: inediti profili di possibile incostituzionalità

La recente riforma introdotta in materia di prescrizione con legge n. 3 del 2019 ha modificato profondamente la disciplina dell’istituto, costringendo ad una rivisitazione finanche delle stesse finalità e delle stesse funzioni che esso è chiamato oggi ad assolvere, e quindi, di conseguenza, della sua stessa ratio.

In verità, la portata concettuale dell’istituto è stata ricondotta ad una dimensione pressoché trascurabile, facendo perdere di senso tutte quelle disquisizioni valorizzanti la capacità assoluta del tempo di incidere, per un motivo o per un altro, sulla perseguibilità dei reati. E infatti, tale naturale capacità, tradizionalmente ritenuta in grado di prevalere – salvo le eccezioni dei reati imprescrittibili – sulle esigenze di accertamento dei fatti di reato, è stata, per così dire, “relativizzata”, cioè confinata alla sola porzione di tempo antecedente al sopraggiungere di uno specifico atto processuale, coincidente con la sentenza di primo grado ovvero col decreto penale di condanna. Sicché, a seguito di tali atti processuali, viene disconosciuta al tempo ogni capacità estintiva, sia pure non esclusa dall’attuale normativa in punto di principio. 

Per i suoi sostenitori, la riforma avrebbe il “pregio” – se così si può definire –  di eliminare in radice due dei maggiori rilievi critici, forieri delle più accese proteste di quanti, davanti alla operatività dell’istituto, rimanevano e rimangono perplessi. Entrambi i profili attengono invero ad una medesima circostanza, che la riforma ha inteso evitare: il sopraggiungere dei termini prescrizionali nei gradi processuali superiori al primo. Tale evenienza, infatti, sul piano teorico, sarebbe rivelatrice dell’aporia per la quale lo Stato si trova costretto a rinunciare alla propria pretesa punitiva giusto mentre si sta celebrando un processo, peraltro già concluso in certe sue fasi, che di quell’interesse è attuale manifestazione; sul piano pratico, l' operatività (frequente) dell’istituto nelle fasi di giudizio successive alla prima è causa della fatale vanificazione delle attività svolte e già concluse, con tutto quanto ne consegue in termini di efficacia-efficienza dell’attività giudiziaria.

E invece, l’inconsistenza del primo rilievo e l’illusorietà del secondo sembrano non riuscire a fondare la nuova prescrizione. Entrambi costituiscono, infatti, falsi problemi a cui il legislatore ha ritenuto di dovervi apprestare pronte soluzioni, assecondando – in perfetto stile penal-populistico – il grido di protesta levatosi dalla piazza, non senza averla prima influenzata mediante facile e superficiale propaganda.

Il primo profilo (teorico) critico che la nuova riforma si candida a risolvere è – come si è già tentato di dire supra – del tutto inconsistente. L’avvio del processo o anche la conclusione dello stesso in certe sue fasi (gradi) non può essere considerata paradossale rispetto alla (presunta) ratio dell’istituto. Non solo perché intervenire a processo già avviato sta nella fisiologia dell’istituto (la prescrizione si inscrive necessariamente, e quindi primariamente, nella dimensione-vicenda processuale), ma anche perché certificare il disinteresse dell’ordinamento a punire il reato non è propriamente ciò che fa la prescrizione. Essa certifica piuttosto il disinteresse dell’ordinamento ad accertare o a continuare l’accertamento intorno alla presunta commissione di un fatto qualificato come reato, oggetto di un procedimento/processo penale (appunto) già avviato o instaurato. Certo, non si ignora che la definizione in gran numero dei processi con declaratoria di prescrizione del reato rappresenti un problema, eppure la frequente operatività dell’istituto, più correttamente, segnala l’esistenza di una questione giuridica che sta ‘fuori’ e  ‘prima’ della prescrizione.

Il secondo profilo (pratico) critico, invece, è del tutto illusorio, o quanto meno è ingannevole la pretesa di risolvere le problematiche, reali ed urgenti, che esso pure intende mostrare, intervenendo sulla prescrizione ridimensionandone l’applicabilità. Ciò che, da questo punto di vista, la riforma intende evitare è la vanificazione delle attività e delle energie processuali, talora notevoli, profuse dalla macchina giudiziaria fino alla conclusione del primo grado di giudizio, nell’ottica di recuperare – così facendo – quella efficacia ed efficienza dell’attività giudiziaria e giurisdizionale, nonché riaffermare il valore (ritenuto prevalente) della certezza del diritto.

Quelle dell'efficienza della giustizia, della ragionevole durata dei processi e della certezza del diritto sono problematiche reali che la riforma correttamente prende di mira, salvo poi colpire il bersaglio sbagliato: bloccare il decorrere del tempori cedere dopo il primo grado di giudizio non significa risolvere nessuno di questi problemi, anzi ciò comporta, se possibile, acuirli.

La frequente operatività dell’istituto della prescrizione non fa dell'istituto in sé un fattore patogeno del sistema,   piuttosto rivela  l’esistenza di una condizione patologica che sta altrove, e cioè  in un diritto penale ipertrofico, aggravato peraltro dall’obbligatorietà dell’azione penale, e nelle lentezze congenite al processo penale[38]. Sicché interrompere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, rendendo di fatto imprescrittibili reati in linea di principio prescrittibili, a sistema penale-processuale invariato, non risolve alcunché: non l’efficienza della macchina giudiziaria il cui intervento tardivo è, per definizione, inutile quando non dannoso; non la ragionevole durata del processo, considerato che tale problema intanto acquista validità in quanto possa dirsi ragionevole innanzitutto lo stesso celebrarsi del processo, che è tale se confinato entro un ragionevole arco temporale dal commesso reato; non la certezza del diritto, in quanto l’incombere sine die della spada di Damocle della “giustizia” sulla testa dell’imputato è esattamente la negazione di ogni certezza giuridica.

Se da un lato l’ultima riforma non risolve i problemi che intende risolvere, dall’altro ne pone degli altri e diversi che riguardano, prima di tutto, la sua compatibilità costituzionale. Molteplici, al riguardo, le osservazioni già diffusamente espresse sia tra la dottrina[39], sia tra gli operatori giuridici[40].

In primo luogo, la disciplina della nuova prescrizione – secondo molti –  si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza/ragionevolezza sancito all’art. 3 Cost. In particolare, a contrassegnare l’irragionevolezza della innovazione normativa sarebbe la metamorfosi[41] della maggior parte dei reati, anche quelli bagatellari, da prescrittibili a imprescrittibili che finisce con l’appiattire indiscriminatamente la misura del tempo dell’oblio neutralizzando, dopo il primo grado, una differenziazione tra reati più e meno gravi, comunque (solo) in partenza ancora contemplata. Ciò in contrasto con la ratio di un sistema che rimane imperniato, ancora dopo la riforma, su tempi di prescrizione differenziati proprio in base alla gravità dei reati.

In secondo luogo, la riforma contrasterebbe con l’imperativo, costituzionalmente previsto, del finalismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. Non si può ignorare, infatti, che una pena comminata ed eseguita a distanza considerevole di tempo dal commesso reato perda, naturaliter, ogni sua funzione: non solo la capacità di rispondere a quell’esigenza generalpreventiva e retributiva che normalmente le viene attribuita, ma anche quella di assolvere alla funzione, più significativa, l'unica per vero costituzionalmente prevista, di rieducazione del condannato, per la percezione di ingiustizia che essa inevitabilmente ingenera in chi la subisce.

In terzo luogo, l’attuale prescrizione presenterebbe profili di attrito anche col principio della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. Ciò nella misura in cui non solo, o non tanto, non differenzia tra sentenze di condanna e di assoluzione (forse la distinzione accentuerebbe la criticità), ma soprattutto perché aggancia l’ampliamento sine die dei tempi dell’accertamento, e quindi della punibilità, aggravando la posizione dell’imputato, ad un atto processuale quale la sentenza che, in quanto non definitiva, è di per sé non significativa ovvero non idonea ad incidere, invertendola, sulla presunzione di non colpevolezza: né quando è di assoluzione, come è evidente, né quando è di condanna.

In quarto luogo, è stato ritenuto che il blocco del tempori cedere dopo la sentenza di primo grado violerebbe l’art. 111 Cost., allorquando sancisce il principio della ragionevole durata dei processi, per i temuti effetti che la riforma comporterà su questo fronte. Quello che si teme – probabilmente a ragione – è che una volta disattivata la saracinesca della prescrizione, sarà inevitabile l’aumento del carico dei ruoli, anche per reati meno gravi, con l’ulteriore paralizzante prolungamento dei tempi di definizione del contenzioso penale.

Quelle appena esposte sono le critiche, per lo più condivisibili, che vengono generalmente mosse nei confronti della riforma introdotta con legge n. 3 del 2019, sotto il profilo della sua piena compatibilità con la Carta costituzionale. Meritano, tuttavia, di essere segnalati altri e diversi profili di possibile incostituzionalità della nuova disciplina – pare – ancora non del tutto evidenziati dalla dottrina.

Precisamente, la riforma pare contrassegnata da possibili aspetti critici anche rispetto al principio di legalità, sub specie di principio di determinatezza-prevedibilità, sancito all’art. 25, secondo comma, Cost., per la valenza che esso deve assumere anche alla luce dell’art. 7 CEDU e dei recenti insegnamenti provenienti dalla giurisprudenza euro-unitaria e convenzionale.

Vale la pena, in partenza, ribadire il dato, ormai pacifico, per il quale alla prescrizione del reato competa uno statuto giuridico di diritto propriamente sostantivo. Convincimento questo invero già da sempre diffuso nel nostro ordinamento, di recente messo in discussione nelle more della già menzionata saga Taricco, ma prontamente e convintamente riaffermato dai giudici nazionali ai massimi livelli.

Sicché, come ribadito dalla Corte costituzionale (ord. n. 24 del 2017), dovrebbe essere indubbio che il principio di legalità penale riguardi anche il regime legale della prescrizione. E infatti – come ha precisato la Consulta – l’oggetto di tale principio non può intendersi limitato alla sola descrizione del fatto di reato e alla pena, ma in un senso «più ampio» tale da includere «ogni profilo sostanziale concernente la punibilità»: dunque, non solo i fatti da punire e la pena con cui punirli, ma anche il «limite temporale» entro cui ciò deve e può essere fatto[42].

Tanto precisato, si tratta di giungere alle “estreme conseguenze” di tali assunti che, come si tenterà di mostrare, potrebbero condurre ad escludere l’accettabilità dell’ultima riforma.

È noto che il principio di legalità includa tra i suoi corollari oltre che il principio di determinatezza, anche quello di prevedibilità, come peraltro da tempo insegna la giurisprudenza europea. Ebbene, si tratta di verificare proprio la  compatibilità della nuova disciplina in riferimento al principio di determinatezza-prevedibilità con particolare riguardo al limite temporale della punibilità, segnato, appunto, dalla nuova disciplina della prescrizione. 

In sostanza, la normativa neointrodotta correla la nuova ipotesi di “sospensione” del termine di prescrizione (leggasi definitivo arresto della stessa), ad un evento incerto quale la “pronunzia della sentenza di primo grado” (o del decreto di condanna), sicché il limite temporale della punibilità, ex ante tendenzialmente già definito, è “abbattuto” dall’atto processuale che definisce il primo grado di giudizio, segnando il passaggio dal tempo prevedibile della (de-)limitata punibilità (sottoposta al termine di prescrizione) a quello imprevedibile della illimitata punibilità (non più sottoposto ad alcun termine). Il tutto dipendendo dall'andamento occasionale ed aleatorio del singolo procedimento.

Si potrebbe dire che mentre prima della riforma il tempo della punibilità era sottoposto ad un “termine” tendenzialmente certo, anche in considerazione dei tetti massimi di estensione della prescrizione, dopo la riforma il tempo della punibilità è oggi contrassegnato da un duplice intervallo: il primo ancora rappresentato dal termine di prescrizione rimasto astrattamente invariato, la cui scadenza segna il passaggio verso la non (più) punibilità; il secondo rappresentato dalla pronuncia della sentenza di primo grado che costituisce quella che si potrebbe definire “condizione risolutiva” (in quanto tale incerta) della prescrittibilità dei reati, segnando il passaggio, in corso d’opera, ad una punibilità priva di ogni limite temporale, ancorché previsto  ex ante.

Dunque, il motivo delle perplessità che qui si vogliono esibire non si rinviene solo, o non tanto, nella metamorfosi dei reati da prescrittibili a imprescrittibili che la nuova riforma ha di fatto introdotto, quanto soprattutto nell’aleatorietà, nella casualità e perciò nell’ imprevedibilità di tale mutamento idoneo  ad incidere negativamente, annullandolo, su ogni limite temporale della punibilità che invece, rientrando, secondo gli insegnamenti della Consulta, a pieno titolo tra i profili sostanziali concernenti la punibilità (si veda ancora Corte cost. ord. 24 del 2017), dovrebbe essere sottoposto allo statuto garantista offerto dal principio di legalità e, in particolare, dei suoi corollari di determinatezza-prevedibilità.

Infine, con la nuova riforma l’ordinamento, di fatto, ha perso l’unico rimedio funzionale a sanzionare l’irragionevole celebrazione del processo (non necessariamente la sua irragionevole durata). E infatti, se la prescrizione del reato ancora mantiene la sua funzione ordinamentale di evitare che un processo possa essere iniziato sempre,  perde parzialmente, ma in maniera comunque significativa, quella di evitare che un processo posso continuare sempre o che possa essere celebrato sine die. Ora, la concretizzazione di queste prospettive segnala, evidentemente, il disfunzionamento del sistema nel suo complesso, rispetto al quale la prescrizione costituiva prima sì un’ammissione di mancato funzionamento, ma servente al sistema per poter continuare a “funzionare” ugualmente.

Oggi, invece, la portata operativa di questo meccanismo è stata ridimensionata sulla scorta dell’asserita sua frequente applicazione, senza che però si sia prima intervenuti sulle cause di questo pur serio inconveniente, con il paradosso che, anziché risolvere i problemi di fondo segnalati dal gran numero di declaratorie di prescrizione del reato, si è scelto di intervenire, ridimensionandone notevolmente l’efficacia, sull’indicatore di tali problemi.

A sistema processuale invariato, restano dunque intatte le ragioni di necessità che impongono la previsione del meccanismo prescrizionale, sia pure possibilmente emendato, rispetto al passato, di alcune delle sue contraddizioni logico-applicative.

10. De jure condendo

Ricapitolando sinteticamente, finora si è tentato di dire:

1. attraverso la prescrizione lo Stato rinuncia, non tanto e non solo alla sua “potestà di punire”, ma innanzitutto a proseguire l’attività accertativa cui è deputato il processo penale, il quale, di regola, al maturare dei termini prescrittivi, viene “interrotto”. Dunque, sembrerebbe più appropriato che si risalisse alla ratio dell’istituto non tanto a partire dalle finalità del diritto penale (special-preventiva o general-preventiva), quanto a quelle del processo, secondo un’opzione ordinamentale, e non di mera politica criminale (v. par 4.).

2. la prescrizione consiste in un termine massimo, tendenzialmente certo e definito ex ante, decorrente dalla data di commissione del fatto di reato oggetto del processo, superato il quale sarebbe “irragionevole” lo stesso celebrarsi del processo (non necessariamente anche la sua durata) (v. par 4, 6 e 7);

3.  la vera “disfunzione” dell’istituto è da individuarsi nella sua iperfunzionalità e, perciò, nelle cause (di sistema) che la favoriscono. In questo senso è vero che la irragionevole durata del processo sia una, ma non l’unica, delle cause che favoriscono la frequente operatività dell’istituto.  Si tratta, allora, di individuare e risolvere questo e gli altri problemi che affliggono il sistema processuale-penale (v. par. 5);

4. malgrado sia incontestabile il dato statistico secondo cui la stragrande maggioranza dei reati cada in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini, e benché, sul piano teorico, la circostanza per cui la prescrizione intervenga a processo in corso costituisca un falso problema (v. par. 4 e 9), è anche vero che le perplessità maggiori, sul piano pratico, si pongono nel caso in cui la prescrizione sopraggiunga (peraltro frequentemente) dopo la sentenza di primo grado, specie se di condanna, sotto il profilo della sostanziale impunità di cui beneficerebbero gli imputati già condannati, nonché della vanificazione delle attività e delle energie (talvolta notevoli) già profuse dalla macchina giudiziaria fino a quel momento.

Sulla scorta di ciò, ina una prospettiva de jure condendo, sembra doveroso innanzitutto chiarire che la configurazione “unitaria” dell’istituto vada mantenuta ferma e che, pertanto, debba respingersi  ogni inutile soluzione “”dualista” volta all’introduzione, accanto alla tradizionale causa estintiva, di una prescrizione del processo[43]: l’operatività processuale dell’istituto sarebbe infatti già oggi in grado di disvelare una funzione diversa da quella che generalmente le viene attribuita. Andando oltre la logica “pan-personalistica” secondo cui ogni istituto debba essere primariamente e necessariamente inteso a tutela della persona, ma senza tuttavia sminuire l'importante funzione che la prescrizione può assolvere, e certamente adempie, anche sotto questo profilo, difficilmente può negarsi che la “interruzione” dei processi, che altrimenti si celebrerebbero (o continuerebbero ad essere celebrati) a distanza irragionevole dalla commissione del fatto di reato, costituisca una garanzia per il funzionamento del sistema giudiziario, prima ancora che per il singolo imputato sottoposto a processo. Si intende ribadire, dunque, che è bene che la durata del processo rimanga – in linea di massima – inscritta all’interno del tempo storico funzionale al maturare della prescrizione che, in verità, già oggi può dirsi segni il ‘tempo legale’ dello svolgimento del processo. Questo almeno nella misura in cui essa interviene – va precisato nuovamente –  ad evitare, e in questo senso a “sanzionare”, che la celebrazione di un processo si protragga oltre un lasso di tempo che l’ordinamento ha preventivamente e presuntivamente ritenuto idoneo a consentire non solo l’attivazione ma anche la conclusione dell’iter accertativo (v. par. 6 e 7)

Ne consegue, allora, che l’accertamento nel frattempo già compiuto non debba essere “sanzionato”, ossia “travolto” dalla declaratoria di prescrizione. Questa, infatti, sembra essere la contraddizione maggiore di cui è affetto l’istituto, il quale, lungi dall’operare come causa estintiva del reato, costituisce piuttosto – già oggi – quella che si potrebbe chiamare condizione (negativa) di procedibilità.

Così, per dare seguito a tali approdi, si potrebbe prevedere che il superamento del tempo necessario a prescrivere, dopo che sia stata già pronunciata una decisione in grado di acquisire valore di giudicato, anziché vanificare tutta l'attività processuale sino ad allora compiuta, imponga semplicemente alla macchina giurisdizionale di arrestarsi riconoscendo però efficacia alla sentenza di primo grado, oppure a quella di appello, nel frattempo sopraggiunte, che di tal guisa potranno essere l'atto mediante cui l'ordinamento definirà la causa.   

Nel caso in cui la sentenza previamente pronunciata sia  di condanna si potrà prevedere l’obbligo per il giudice di valutare se nel frattempo siano emersi, o meno, elementi che facciano ritenere superata la colpevolezza dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, quale regola di giudizio su cui deve fondarsi la precedente sentenza di condanna (art. 533 c.p.p.). In caso di esito negativo, l’autorità giurisdizionale procederà per confermare la sentenza sfavorevole; in caso di esito positivo, procederà per il proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione (o con assoluzione piena).

In effetti già oggi l’art. 129, comma 2, c.p. prevede che se «dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere». A quest’obbligo si aggiungerebbe un altro per il caso in cui la prescrizione sopraggiunga a seguito di una già pronunciata sentenza di condanna: questa sarà confermata dal giudice che dichiara la prescrizione, salvo che dagli atti siano emersi elementi che facciano ragionevolmente venire meno la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio su cui è pronunciata la precedente sentenza sfavorevole.

Tale soluzione, invero, non sembra del tutto improvvisata, ma porterebbe alle “estreme conseguenze” quello a cui già oggi si assiste, per esempio, in tema di confisca[44]. Al riguardo è ormai consolidato l’orientamento che ammette l’ordinabilità della misura ablatoria, che in certi casi costituisce vera e propria sanzione (si veda la confisca c.d. urbanistica[45]) da parte del giudice che pronuncia declaratoria di prescrizione del reato, purché sia emersa nelle more dell’accertamento già espletato una sostanziale colpevolezza dell’imputato, da precedente sentenza di condanna[46], e purché  il giudice dia conto di ciò in punto di motivazione.

Con ciò si vuole sottolineare che già oggi la sussistenza di una previa sentenza di condanna  sortisce importanti effetti sfavorevoli per l’imputato, nonostante il maturare della causa estintiva. Si tratta perciò, da una parte, di normare meglio tali effetti e di apprestarvi, dall’altra, ulteriori dovute garanzie.

La soluzione qui soltanto abbozzata, inoltre, avrebbe il pregio di non rinunciare all’istituto prescrizionale, ma di renderlo più coerente rispetto alla sua funzione (qui individuata), nel senso che ciò contribuirebbe a segnare il tempo ultimo dell’accertamento ovvero della prosecuzione del processo, senza che ciò significhi  necessariamente travolgere l’accertamento già nel frattempo conclusosi nel pieno rispetto delle garanzie processuali.

Tale impostazione sortirebbe, poi, l’effetto di valorizzare in senso nuovo ed inedito tanto l’accettazione della prescrizione, quanto la sua rinuncia, specie se successiva ad una sentenza di condanna. Nel primo caso, l’imputato accetta di non continuare la prosecuzione di un giudizio e quindi di rinunciare in parte al diritto di difendersi pienamente, “accettando” la sentenza sfavorevole precedentemente pronunciata, all’esito di una (o più) regolare e garantita fase di merito. Nel secondo caso, il prevenuto rinuncia alla prescrizione, dimostrando così interesse alla prosecuzione di un giudizio che, solo a quel punto, sarebbe in teoria privo di un limite legale preventivamente determinato, per quanto resti ferma l’esigenza di garantirne una prosecuzione ragionevole quanto a durata.

Andrebbero poi pensati degli appositi meccanismi di bilanciamento, ad esempio di tipo premiale, per evitare che non ogni imputato abbia interesse a rinunciare alla prescrizione, rendendo difatti inoperante l’istituto; meccanismi rimediali per consentire un controllo giurisdizionale, sia pure limitato, sulla legittimità della decisione del giudice che abbia ritenuto sussistenti o meno gli elementi idonei a giudicare non più intatta la colpevolezza dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio; meccanismi indennitari-risarcitori per l’imputato già condannato che abbia rinunciato alla prescrizione e che venga, all’esito del giudizio, riconosciuto non colpevole.

In conclusione, a supporto della proposta qui formulata, si consideri che si muovono nel senso di salvaguardare, malgrado la sopraggiunta prescrizione, l’attività processuale già svolta, che sia già sfociata nell’emanazione di una sentenza (almeno) di primo grado, anche le proposte di autorevoli penalisti e processualpenalisti, quali quelle di Giunta e Micheletti e di Giostra[47].

Senonché, tali proposte si muovono nel senso di una fondamentale distinzione tra prescrizione sostanziale, operante prima dell’avvio dell’attività accertativa, e prescrizione del procedimento o del processo, che dovrebbe decorrere dal momento della messa in moto di tale attività.

Tale approccio parte dall’assunto di fondo, generalmente condiviso nell'ambito della dottrina, per cui si ritiene che una volta iniziato il tempo del processo, quello storico (c.d. dell’oblio) funzionale al maturare della prescrizione debba fermarsi, per dare “spazio” soltanto al primo, di cui deve essere assicurata una durata ragionevole.

Secondo questa prospettiva, la prescrizione del reato dovrebbe ricorrere quando l'apparato giudiziario non è in grado di intervenire. Quando invece, prima che maturi la prescrizione del reato, gli organi giudiziari deputati promuovono l'accertamento della responsabilità, non vi sarebbe più il «decorso inerte del tempo», sicché il lasso temporale del termine di prescrizione del reato andrebbe fermato per sempre. Più precisamente, si ritiene che, in questi casi, la domanda di giustizia non possa più essere tacitata dal tempo, ma debba trovare una risposta nella sentenza del giudice, anche se ciò non può avvenire in un tempo indefinito: da qui l'idea di una prescrizione del processo[48].

Invece, si è tentato di spiegarlo supra,  la funzione della prescrizione è quella di tracciare un termine massimo superato il quale ad essere considerato irragionevole è lo stesso celebrarsi del processo, non necessariamente la sua durata. Per questo motivo, pare non si possa bloccare il decorrere della prescrizione (del reato) in luogo di un’altra, funzionale ad estinguere un processo (e non il reato) dalla durata irragionevole. Che la prescrizione intervenga nel corso di un processo già avviato, inoltre, sta nella logica secondo cui la prescrizione deve funzionare: l’interruzione di un processo in corso di svolgimento, lungi dal costituire un ossimoro, è quello che di regola già oggi la prescrizione è chiamata a fare.

Incamminarsi verso una soluzione “duale” finirebbe per complicare il sistema e renderlo inutilmente ancora più rigido, non risolvendo, anzi riproponendo, le stesse problematiche che già oggi la prescrizione del reato pone, se è vero che il problema non è la prescrizione in sé, ma un sistema lento che ne favorisca la frequente applicazione.

11. Breve sguardo comparatistico: quale utilità?

Per quanto, in generale, non si neghi in questa sede l’importanza di conoscere e di comparare tra loro gli ordinamenti giuridici dei diversi paesi, anzi si comprende il valore sempre crescente che questo tipo di approccio ha assunto ed assume specie nel contesto moderno contrassegnato dall’interdipendenza tra le nazioni e i sistemi di diritto, in particolare in quello euro-convenzionale che, nei limiti del possibile, vira verso l’uniformazione degli stessi,  pare tuttavia che, in riferimento alla prescrizione del reato, il metodo comparatistico possa restituire minore utilità.  E infatti l’istituto qui in esame, come pochi altri, è in grado di compendiare in sé concezioni valoriali e culturali storicamente sedimentatesi in ciascun ordinamento, rispetto ai quali l’indagine comparatistica può assumere validità conoscitiva, ma non propositiva. Si pensi a come la prescrizione sia, tra le altre cose, espressione del modo di intendere i rapporti tra tempo e giustizia penale, chiamando inevitabilmente in causa visioni giuridico-filosofiche che appartengono alla storia particolare di ciascun sistema giuridico.

Anche se si accogliesse la tesi – qui sostenuta – della matrice primariamente ordinamentale dell’istituto e del suo essenziale fondamento di logica giuridica (v. par 4), dovrebbe allo stesso modo riconoscersi la validità di tale discorso limitatamente al contesto nazionale.

Per questo motivo, sembra avere poco senso rifarsi alle opzioni legislative assunte negli ordinamenti esteri in una chiave riformatrice di mera "importazione”. Più utile, invece, sarebbe un’analisi che si proponesse, prima di importarle, di comprendere perché certe soluzioni normative funzionino in alcuni ordinamenti e perché lo sarebbero meno nel nostro.

È noto che il legislatore, con le modifiche introdotte con legge n. 3 del 2019, si sia ispirato alla normativa tedesca. Il § 78b comma 3 StGB prevede, infatti, che il termine prescrizionale cessi definitivamente di decorrere nel momento in cui interviene la sentenza di primo grado, indipendentemente dalla circostanza che si tratti di sentenza di condanna o di assoluzione. Quello che però generalmente si omette di considerare, o forse ne costituisce il retropensiero, è che l’adozione tout court del modello (pseudo-)tedesco, come ha inteso fare l’ultima riforma, dovrebbe comportare anche il rovesciamento di ormai consolidati orientamenti giuridici che se si intendessero improvvisamente liquidare con un tratto di penna – la tendenza legislativa sembra questa! – sarebbe più opportuno dirlo apertamente. Uno di questi pacifici orientamenti è quello per cui la prescrizione del reato appartenga al diritto sostanziale. In Germania, invece, l’istituto viene interpretato come di carattere preminentemente processuale[49], con le conseguenze che ne discendono in termini, ad esempio, di possibile retroattività delle norme anche sfavorevoli[50].

Ma si consideri pure il contesto di sistema in cui la disciplina tedesca della prescrizione si inserisce che, tutto sommato, riesce a renderla “accettabile” anche a chi la avversa: il sistema processuale penale germanico già da sé, e dunque per la sua architettura molto diversa da quella italiana, permette di concludere la maggior parte dei processi penali in modo fisiologico ed entro un tempo ragionevole. Infine, si pensi al bilanciamento offerto dal rimedio, di derivazione pretoria, che riconosce all’imputato condannato in esito a un processo irragionevolmente lungo una riduzione della pena da scontare[51].

Tutte queste osservazioni, e altre che potrebbero essere fatte, sembrano non essere state considerate dal nostro legislatore, il quale si è limitato piuttosto ad importare passivamente una singola disposizione della normativa tedesca, che, così com’è, appare – a chi scrive – insostenibile a sistema processuale invariato.

A proposito poi dell’attuale atteggiamento legislativo che sembra essersi incamminato verso una concezione processuale dell’istituto, qui si ritiene (si auspica che ciò sia emerso) che quello di un cambio di paradigma attorno alla natura giuridica della prescrizione non debba costituire un tabù. Purché ciò sia funzionale ad una migliore comprensione della ragione d’essere dell’istituto e dei suoi effetti, ma non ad una diminuzione di garanzie in termini di retroattività sfavorevole, su cui il dibattito nostrano si è prevalentemente concentrato.

Si è soliti, inoltre, mettere a confronto il nostro ordinamento con altri, a noi pure vicini, come ad esempio quello spagnolo.  In Spagna l’avvio del processo penale, attraverso la decisione motivata di un giudice che ritenga fondata l’accusa mossa dal pubblico ministero, interrompe per sempre la prescrizione impedendo che il reato si possa prescrivere (art. 132, co. 2 codice penale spagnolo). Anche una soluzione del genere, che ridurrebbe sensibilmente, quasi azzerandolo, l’ambito applicativo dell’istituto, sembra impraticabile in un sistema in eccessivo sovraccarico come quello italiano. D’altronde, per quanto una simile opzione possa sembrare più “civile” della nostra, non si deve dare per scontato che questa scelte siano, all’interno di ciascun ordinamento, pacificamente condivise ed esenti da qualsiasi critica o inconveniente giuridico[52].

Infine, rifarsi al  frequentemente citato sistema statunitense, ove una volta esercitata l’azione penale nei termini, la questione della prescrizione non è più rilevante, risulta ancor più improprio. Ciò non solo se si considera la diversità storica dei modelli ordinamentali di riferimento, ma anche in considerazione del dato per il quale negli USA più del novanta per cento dei procedimenti penali si chiude prima dell’apertura della fase processuale, attraverso il "patteggiamento". Comunque la si pensi sulla prescrizione, è questo l’elemento, per niente rassicurante, che maggiormente caratterizza il sistema penale americano, dove il diritto costituzionale ad avere un regolare processo è, nei fatti, negato[53].

In definitiva, si comprende come uno sguardo comparatistico che rimanga calibrato sul singolo istituto e che ignori, più o meno volutamente, tutto il sistema giuridico all’interno del quale lo stesso si colloca, vive ed opera, non può seriamente tradursi in efficaci proposte riformatrici.

Più utile invece un approccio metodologico – che qui si è modestamente tentato di seguire –  che, nella ricerca innanzitutto del fondamento dell’istituto, parta dal dato normativo e dagli effetti che il suo concreto ‘operare’ comporti, per poi suggerire, una volta individuatane la funzione, interventi emendativi della sua disciplina positiva, nell’ottica di superare le contraddizioni di cui l’istituto è afflitto. Ferma restando, tuttavia, l’esigenza di una riforma d’insieme che si occupi di mettere mano al sistema penale e processuale nel suo complesso, di cui la prescrizione, per quanto problematica,  costituisce solo un aspetto.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Tra gli interventi legislativi più significativi si ricordino quelli apportati con: legge 5 dicembre 2005, n. 251; d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125; legge 1° ottobre 2012, n. 172; legge 22 maggio 2015, n. 68; legge 23 marzo 2016, n. 41; legge 11 luglio 2016, n. 133; legge n. 103 del 2017; da ultimo, la già menzionata l. n. 3 del 2019.

[2] Sulla difficoltà di enucleare una ratio che sia in grado di esprimere la funzionalità e l’essenza del fenomeno prescrizionale cfr. S. SILVANI, Il giudizio del tempo. Uno studio sulla prescrizione del reato, Il Mulino, 2009, p. 52 e ss.; 64-66.

[3] Per una approfondita esposizione sulla funzione (o sulle funzioni) della prescrizione del reato come tradizionalmente concepita dall’Illuminismo penale fino all’epoca moderna si veda ancora S. SILVANI, op. cit., p. 21 e ss.

[4] Sul significato del tempo nella prescrizione penale cfr. F. GIUNTA, D. MICHELETTI, Tempori cedere. Prescrizione del reato e funzione della pena nello scenario della ragionevole durata del processo, Torino, 2003, p. 7 e ss.

[5] Sulla “doppia natura” del diritto penale si veda, tra i tanti, D. PULITANÒ, Politica criminale, in G. MARINUCCI, E. DOLCINI, in Diritto penale in trasformazione, Giuffrè, Milano, 1985, in particolare p. 11 e ss.

[6] Tra gli altri, è di questo avviso G.L. GATTA, Una riforma dirompente: stop alla prescrizione del reato nei giudizi di appello e di cassazione, su Dir. Pen. Cont., 21 gennaio 2019, §8: «Quel che va sottolineato, a me pare, è che la prescrizione del reato, quando interviene a processo in corso […], rappresenta un fallimento per lo Stato».

[7] Fra gli altri, A. DE CARO, La riforma della prescrizione e il complesso rapporto tra tempo, vicende della punizione e processo: le eccentriche soluzioni legislative e le nuove proiezioni processuali sulla prescrizione dell’azione e l’estinzione del processo, in Archivio penale (web), 2020, n. 1, p. 6; G. UBERTIS, Prescrizione del reato e prescrizione dell’azione penale, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2010, p. 1020-1021.

[8] Si legge nella Relazione alla proposta Fiorella (2013): «Il decorso della prescrizione seguente all’emersione della notitia criminis sino alla sentenza definitiva risulta di fatto funzionale, nonostante le perplessità ripetutamente formulate sul punto da autorevole dottrina, anche alla tutela della ragionevole durata del processo penale». La strumentalità della prescrizione anche alla tutela della ragionevole durata emerge altresì dalla Relazione al d.d.l. 2798 (poi confluito nel disegno unificato sfociato nella l. 103/2017): «Le disposizioni immediatamente operative modificano invece la disciplina della prescrizione in vista di un contemperamento dell’esigenza di evitare che il decorso del termine impedisca, di fatto, al processo di poter disporre di tempi ragionevoli e di quella, propria dell’imputato, di essere tutelato dall’eventualità di rimanere esposto, senza un limite temporale ragionevole, al procedimento penale».

[9] «Nei suoi caratteri strutturali, la prescrizione del reato si dimostra radicalmente insensibile alle contingenze peculiari e soggettive che caratterizzano il fatto storico di reato e il tempo successivo alla sua consumazione; a ben vedere, è indifferente, ai fini il prodursi dell'effetto estintivo, che il reato sia ascrivibile alla responsabilità del suo presunto autore, che alla realizzazione della condotta penalmente rilevante abbiano fatto seguito condotte riparatorie o tali da dimostrare l’intervenuto ravvedimento dell’agente, la riappropriazione del valore leso, l'assenza di pericolosità sociale nel periodo di tempo che segue alla commissione del reato. In modo ancora più significativo, l'operatività del meccanismo prescrizionale prescinde dalla stessa conformità del fatto storico contestato alla fattispecie legale. Il giudice dichiara infatti l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione anche in relazione ad una mera ipotesi di reato, a prescindere dall’ accertamento della sua fondatezza (art. 425 c.p.p.) e ancora prima che essa si consolidi in un formale atto di imputazione del Pubblico Ministero (art. 411, primo comma c.p.p.)». T.PADOVANI, Diritto Penale, XI edizione, Milano, 2017, p. 413.

[10] Secondo alcuni Autori, anche la ritenuta natura sostanziale della prescrizione sarebbe il frutto di un equivoco (generato anche dalla terminologia codicistica) per cui si crede che le cause di estinzione del reato estinguano il reato sic et simpliciter (ossia il reato in senso sostanziale). Più correttamente, invece, ad essere estinto è l'oggetto del processo (il reato in senso processuale, cioè «ipotesi, oggetto di verifica nelle forme e nei modi previsti dal processo penale, che sia stato commesso un illecito penale»). In questo senso specifico il termine ‘reato’ – fa notare questa dottrina – è impiegato dal codice di procedura penale quasi ad ogni proposito: per esempio, negli artt. 6 e ss. c.p.p. Cfr. A. PAGLIARO, Presupposti della connessione, in Connessione di procedimenti e conflitto di competenza, Milano, 1976, p. 18. Nello stesso senso, anche G. UBERTIS, Prescrizione del reato e prescrizione dell’azione penale, cit., p. 1017. Al riguardo si veda anche F. MORELLI, Le formule di proscioglimento, Torino, 2014, p. 330 e ss.: «la stessa tecnica che permette il proscioglimento immediato al cospetto di una causa estintiva, prima che l’iter di accertamento sul fatto abbia potuto produrre risultati, è un chiaro sintomo di quanto la decisione attenga alla sostanza del processo. Poiché la «logica vorrebbe che non si dichiarasse l’estinzione di ciò che si ignora se sia mai esistito», la via per guadagnare un repentino approdo alla decisione virgola in questo come in altri casi, e quella di ritenere sussistente il reato solo “in ipotesi”». L’Autore cita F. CORDERO, La decisione sul reato estinto, in Ideologie del processo penale, Padova, 1966, p. 93.

[11] D. PULITANÒ, Sui rapporti fra diritto penale sostanziale e processo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 951 ss.; F. VIGANÒ, Riflessione de lege lata e ferenda su prescrizione e tutela della ragionevole durata del processo, in Dir. Pen. Cont. – Riv. trim., 3/2013, p. 22. 

[12] Diversamente, la Consulta desume dalla consolidata opzione legislativa di correlare il termine di prescrizione alla gravità del reato, la ratio dell’istituto, collegata «preminentemente […] all’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno o notevolmente attenuato […] l’allarme della coscienza sociale»: proprio il «livello quantitativo della sanzione» sarebbe «indice del suo maggiore o minore disvalore nella coscienza sociale». Corte cost., sent. 19 maggio 2014, n. 143, § 3 del Considerato in diritto, su https://www.cortecostituzionale.it.

[13] D. MICHELETTI, Prescrizione del reato e della pena, in Il Diritto. Enc. giur. del Sole 24 ore, (a cura di) S. PATTI, Vol. XI, Milano, 2007, p.354.

[14] Se la prescrizione del reato «sanziona il tempo che la collettività ritiene necessario per dimenticare», non dovrebbe più essere possibile dopo che sia «iniziato il processo, che è il rito della memoria» G.L. GATTA – G.GIOSTRA, Sul dibattito in tema di prescrizione del reato e sul vero problema della giustizia penale: la lentezza del processo, in Sistema penale, 11 febbraio 2020, p. 12; G.L. GATTA, Una riforma dirompente, cit., § 8.

[15] Se ne deduce che in un ordinamento in soddisfacente equilibrio o in uno che abbia la pretesa d’essere ‘totalizzante’, completo e perfetto, tale per cui ritenga di poter non farsi “scappare nulla”, si potrebbe anche prescindere da un istituto come quello in esame

[16] D. PULITANÒ, Tempi del processo e diritto penale sostanziale, in Atti del convegno di studio “Enrico De Nicola” organizzato dal Centro nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, 2006, p 44. L’Autore, però, in una prospettiva prettamente sostanziale, tra parentesi aggiunge «(quel fatto avrebbe dovuto essere punito ieri)». 

[17] Questo modo di intendere la prescrizione del reato, in vero, è stato in passato già valorizzato da una parte della dottrina. Senonché riflessioni di questo tipo sono state presto liquidate come effetti collaterali di un istituto che ha ben altre radici. Chi scrive, invece, come si è tentato di mostrare, ritiene che questa costituisca la funzione essenziale dell’istituto de quo rinvenibile dagli effetti concreti che il suo operare necessariamente comporta: l’arresto dell’accertamento giudiziale. Dà conto delle posizioni della dottrina cui si è fatta menzione S. SILVANI, op. cit., p. 129-140.

[18] Parla di «principio di ragione» anche S. VINCIGUERRA, A proposito del rapporto fra la prescrizione c.d. del reato e la ragionevole durata del processo, in Atti del convegno di studio “Enrico De Nicola” organizzato dal Centro nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, 2006, p. 94. Parla di «criteri di ragionevolezza o di giustizia» D. PULITANÒ, Tempi del processo, cit. , Milano, 2006, p. 43.

[19] Anche la stessa Corte costituzionale si è così espressa: «la correlazione tra il tempo sufficiente a prescrivere e l’astratta gravità del reato, espressa dalla pena edittale, costituirebbe un coerente e necessario precipitato della ratio dell’istituto». Corte cost., sent. 22 novembre 2017, n. 265, https://www.cortecostituzionale.it. Parte della dottrina si è espressa in senso contrario: «l'unico criterio della gravità del reato […] anche quando sia reso indipendente da apprezzamenti discrezionali del giudice [….] comporta insuperabili problematicità originate, quantomeno, dalla «disomogeneità dei tariffari pena, dovuta a una politica criminale evolutasi … all'insegna di assetti sia ideologici, sia valoriali molto diversi» e dalla sua congenita inidoneità a tutelare la celerità procedimentale per l'incapacità di rapportarsi in maniera adeguata a procedimenti che, insensibili alla comminatoria edittale, hanno sviluppi vari, in corrispondenza alla multiforme imprevedibilità istruttoria, la cui complessità non può essere ingessata in stime aprioristiche fondate sull’ entità della pena comminata per ciascun reato». Così G. UBERTIS, Prescrizione del reato, cit., p. 1023-1024, il quale cita G. GIOSTRA, La prescrizione: aspetti processuali, in Atti del convegno di studio “Enrico De Nicola” organizzato dal Centro nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, 2006, p. 143-144. In verità, altrove, la stessa Consulta se da una parte ha ritenuto che interventi normativi circoscritti all'aumento del termine prescrizionale per singole ed isolate fattispecie possano ledere il principio di ragionevolezza, dall’altra, ha lasciato trapelare la necessità di una riforma sistematica, che non si limiti a tenere in considerazione la gravità intrinseca dei reati, ma altresì l'ulteriore elemento, per l'appunto da sempre pretermesso, ma in molti casi determinante al fine del decorso del termine, della complessità sottesa all'accertamento di alcune tipologie di reati. Corte cost., sent. 19 maggio 2014, n. 143, su https://www.cortecostituzionale.it.

[20] Sul populismo penale si vedano le riflessioni di: E. AMODIO, A furor di popolo, Roma, 2019; G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 95 e ss.; D. PULITANÒ, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, ivi, p. 123.

[21] Cfr. D. PULITANÒ, Una confessione di Agostino e il problema della prescrizione, in Dir. Pen. Cont. – Riv. trim., 2016, p. 74.

[22] Così come si preoccupava di spiegare il Guardasigilli Rocco: «Il rigido principio d’ attuazione della giustizia, per cui al delitto dovrebbe seguire, in ogni caso, la pena, non tollererebbe idealmente ostacolo o deroga alcuna: tanto meno quella che si concreta nel solo decorso del tempo. Tuttavia io non ho creduto di accedere ad una confezione così rigida. Sarebbe andare contro la legge inesorabile di natura disconoscere tale azione corroditrice del tempo; o anche considerare il rapporto giuridico-penale fra quelli, in verità rari, che l'ordinamento giuridico sottrae dall’influenza estintiva del tempo. Data la natura squisitamente pubblicistica di tale rapporto, il problema consiste nel non eccedere nella valutazione di questo elemento naturale e nel non largheggiare nella ammissione di questa causa di estinzione». Relazione al progetto definitivo per un nuovo codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e di procedura penale, V, pt. I, Roma, p. 206.

[23] Parla di «agente terapeutico e patogeno» in riferimento alla prescrizione G. GIOSTRA, La prescrizione: aspetti processuali, cit., p. 84. Parla analogamente di  farmaco ad un tempo medicina e veleno F. VIGANÒ, Riflessioni de lege lata e ferenda,  cit., p. 18.

[24] D. PULITANÒ, Tempi del processo e diritto penale sostanziale, cit., p. 44

[25] G. GIOSTRA, La prescrizione: aspetti processuali, cit., p. 80.

[26] Di simile avviso anche G.L. GATTA – G.GIOSTRA, Sul dibattito in tema di prescrizione del reato, cit., § 5.

[27] Ed infatti, come ha chiarito in più occasioni la Corte di Strasburgo, verificando il rispetto del canone sancito dall’art. 6, comma 1, CEDU «la ragionevolezza non può essere determinata con l’enunciazione di un termine «in giorni, settimane, mesi, anni o periodi variabili a seconda della gravità del reato», poiché il criterio di ragionevolezza dipende dalla circostanze concrete della fattispecie, e si esprime soprattutto con valutazioni ex post dei provvedimenti adottati, le quali devono tener conto di una varietà di parametri, che vanno dalla complessità del caso al numero degli imputati, dalla condotta dell’autorità giudiziaria a quella delle parti private». Cfr. G. GIOSTRA, Il problema della prescrizione penale: aspetti processuali, in Giur. it., 2005, n. 11, p. 2221.

[28] F. VIGANÒ, Riflessione de lege lata e ferenda, cit., p. 28.

[29] F. GIUNTA, D. MICHELETTI, op. cit., p. 97.

[30] G. GIOSTRA, La prescrizione: aspetti processuali, cit., p. 80.

[31] D. PULITANÒ, Tempi del processo e diritto penale sostanziale, cit., p. 45. In termini pressoché simili si esprime anche F. GIUNTA, La Prescrizione del reato: ossia la causa estintiva che visse due volte, in Principi, regole, interpretazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, (a cura di) G. CONTE e S. LANDINI, vol. I, Mantova, 2017, p. 235. «A ben vedere la prescrizione non costituisce il problema, ma segna il punto del circuito repressivo dove affiorano e si disvelano talune gravi inadeguatezze, di natura sistemica e generale, che affliggono da tempo la nostra giustizia penale».

[32] Della funzionalità, quantomeno di fatto, dell’istituto, volto a garantire un processo dai tempi ragionevoli dà conto, ad esempio, A. DE CARO, La riforma della prescrizione, cit., p. 6.

[33] Più di recente la questione si è posta in riferimento alle modifiche introdotte con l. n. 3 del 2019, in quanto sprovvista di regime intertemporale intermedio; da ultimo, in riferimento alle disposizioni introdotte con l’art. 83, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, che ha disposto la sospensione dei termini di prescrizione durante la fase di emergenza sanitaria da covid-19. A quest’ultimo riguardo, si veda: G. FLORA, “COVID REGIT ACTUM”. Emergenza sanitaria, norme eccezionali e deroghe (“ragionevoli”?) ai principi costituzionali, su penaledp.it, 12 maggio 2020. Per una diversa posizione: G.L. GATTA, “Lokdown” della giustizia penale, sospensione della prescrizione del reato e principio di irretroattività: un cortocircuito, in Sistema Penale, 4 maggio 2020.

[34] Nella dottrina italiana, «la concezione sostanziale della prescrizione è un dato pressoché indiscusso», mentre una «assoluta minoranza» è per la tesi processualistica. Così P. PISA, Prescrizione (dir. pen.), in Enc dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 79, il quale considera l’inquadramento della prescrizione come istituto di diritto sostanziale “nettamente maggioritario” (nt. 71). Per l’adesione alla tesi sostanziale si vedano, tra gli altri: G. BATTAGLINI, Diritto penale, III ed., Padova, 1949, p. 359; A. MOLARI, (voce) Prescrizione del reato e della pena (Diritto penale), in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, p. 681; S. PANAGIA, (voce) Prescrizione del reato e della pena, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 660; A. PECORARO-ALBANI, L’estinzione delle situazioni soggettive penali, Napoli, 1967, p. 287-288. Per la tesi processuale si veda: A. PAGLIARO, Profili dogmatici delle c.d. cause di estinzione del reato, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1967, p. 467 e ss.; P. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 503 e ss.; Per la teoria c.d. “mista” si veda, tra gli altri, L. D'ANTONIO, Prescrizione (materia penale), in Dig. it., vol. XIX, Parte I, 1909- 1912, p. 551, citato da F. GIUNTA, D. MICHELETTI, op. cit., p. 68, ivi è approfondita l’esposizione (e la critica) della “teoria della doppia natura” della prescrizione: sul piano formale, causa di estinzione del reato; sul piano degli effetti, condizione di procedibilità

[35] G. MARINUCCI, Relazione di sintesi, in Atti del convegno di studio “Enrico De Nicola” organizzato dal Centro nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli, Milano, 2006, p. 63 e ss.; Cfr. anche G. UBERTIS, Prescrizione del reato e prescrizione dell’azione penale, cit., p. 1016 e ss.

[36] Corte cost., sent. 23 maggio 1990, n. 275 (dep. 31 maggio 1990), in https://www.cortecostituzionale.it, ove si legge: «il legislatore, nel disciplinare l’istituto sostanziale della prescrizione, non poteva dunque non tener conto del carattere inviolabile del diritto di difesa, inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova»; Corte cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in https://www.cortecostituzionale.it; Corte cost., sent. 19 maggio 2014, n. 143, ivi: la prescrizione «costituisce, nell’attuale configurazione, un istituto di natura sostanziale […], la cui ratio si collega preminentemente […] all’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno o notevolmente attenuato […] l’allarme della coscienza sociale»; la Corte spiega così la consolidata opzione legislativa di correlare il termine di prescrizione alla gravità del reato «ancorandolo al livello quantitativo della sanzione, indice del suo maggiore o minore disvalore nella coscienza sociale»; Si vedano anche: Corte cost., sent. 22 novembre 2017, n. 265, in https://www.cortecostituzionale.it; Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, ivi; Corte cost., sent. 18 aprile 2018, n. 112, ivi, I principi affermati dalla Corte costituzionale risultano poi pedissequamente replicati dalla giurisprudenza di legittimità: ex plurimis, Cass. pen, Sez. Un., sent. 5 giugno 2007, n. 21883; Cass., Sez. I, sent. 8 maggio 1998, n. 7442

[37] Corte App. Milano, Sez. II, ord. 18/9/2015.

[38] «La prescrizione non costituisce il problema, ma segna il punto del circuito repressivo dove affiorano e si disvelano talune gravi inadeguatezze, di natura sistemica e generale, che affliggono da tempo la nostra giustizia penale». F. GIUNTA, La Prescrizione del reato, cit., p. 235.

[39] Cfr., tra gli altri, D. PULITANÒ, Una confessione di Agostino, cit., p. 71 e ss.; A. DE CARO, La riforma della prescrizione, cit., p. 1 e ss.

[40] Il riferimento, in particolare, è alla posizione critica assunta dall’Unione delle Camere Penali Italiane nei confronti della riforma Bonafede sulla prescrizione. Si veda la delibera del 6 novembre 2019 - firmata dal Presidente, Avv. Gian Domenico Caiazza, e dal Segretario, Avv. Eriberto Rosso - con la quale la Giunta dell’UCPI ha proclamato l'astensione dalle udienze e da ogni altra attività giudiziaria in materia penale.

[41] D. PULITANÒ, Una confessione di Agostino, cit., p. 76.

[42] Sono di contrario avviso autorevolissimi Autori, cfr.: F. VIGANÒ, Il caso Taricco davanti alla Corte costituzionale: qualche riflessione sul merito delle questioni e sulla reale posta in gioco, in A. BERNARDI (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, 2017, p. 260 e ss.; G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Corso di diritto penale, 3a ed., 2001, p. 264; C. ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil, I, 4a ed., 2006, p. 168.

[43] Numerose le proposte di riforma che si sono mosse verso questa direzione: la proposta di legge Kessler (n. 1302) presentata alla Camera l’11 luglio 2001, recante “modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”; il progetto legislativo d’iniziativa del senatore Fassone e altri (n. 260), comunicato alla presidenza il 20 giugno 2001 per una “nuova disciplina della prescrizione del reato”; il successivo progetto, proposto dai medesimi firmatari di quello precedente, n. 2699 del 2004, recante “disposizioni in materia di prescrizione del reato alla luce del principio della ragionevole durata del processo”; la proposta della Commissione Pisapia, istituita il 27 luglio 2006; la proposta della Commissione Riccio istituita anch’essa il 27 luglio 2006; la proposta di Grevi, V. GREVI, Prescrizione del reato ed effettività del processo tra sistema delle impugnazioni e prospettive di riforma, in Convegni di studio Enrico de Nicola, Problemi attuali di diritto e procedura penale. Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena, Milano, 2002, p. 189 e ss.; la proposta di Giostra, G. GIOSTRA, Il problema della prescrizione penale: aspetti processuali, cit., p. 2222 e ss.; ID, La prescrizione: aspetti processuali, cit., p. 83 e ss.; la proposta di Giunta e Micheletti, F. GIUNTA, D. MICHELETTIop. cit., p. 107 e ss.

[44] Si pensi alle numerose ipotesi di confisca senza condanna che la giurisprudenza ritiene ordinabile anche in caso di prescrizione del reato, malgrado la sussistenza di tale provvedimento decisorio sia espressamente richiesta dalle norme di riferimento: è il caso, ad es., degli artt. 240, comma 1, c.p., 240-bis c.p., 322-ter c.p., art. 12-bis d.lgs. 74/2000.

[45] Sul carattere sostanzialmente afflittivo della confisca c.d. urbanistica (art. 44 d.p.r. 44 T.U. Edilizia):  C. eur. dir. uomo, sent. 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia; C. eur. dir. uomo, sent. 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia.

[46] C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 28 giugno 2018, G.I.E.M. e altri c. Italia ; Corte cost., 26 marzo 2015, n. 49; Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31617 (c.d. Lucci).

[47] F. GIUNTA, D. MICHELETTIop. cit., p. 107 e ss.; G. GIOSTRA, Il problema della prescrizione penale: aspetti processuali, cit., p. 2223.

[48] Per queste riflessioni si veda, tra gli altri, ancora G. GIOSTRA, La prescrizione: aspetti processuali, cit., p. 85-86.

[49] Cfr. M. HELFER, La prescrizione del reato: quali rapporti tra diritto e tempo in Germania, in Austria e, di recente, in Italia?, Dir. Pen. Cont., 11/2017, p. 99-100, 107 e ss.

[50] A riprova di quanto l’istituto della prescrizione sia indissolubilmente legato alle circostanze storiche di ciascun ordinamento si pensi a quanto riportato ancora da M. HELFER, La prescrizione del reato, cit. p. 109: «Ai fini dell’affermazione di questa interpretazione della prescrizione sul piano della sua Wirkung era però fondamentale l’esigenza di dover e voler inquadrare le norme prescrizionali come norme processuali. Ciò era volto ad evitare, tramite un intervento di allungamento dei termini prescrizionali ordinari, rispettoso del divieto costituzionale della retroattività di norme penali sostanziali (art. 103 II Grundgesetz), la maturazione della prescrizione con riguardo ai crimini del regime nazionalsocialista e, più tardi, dei crimini realizzati dal partito comunista SED nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR), in particolare dell’omicidio doloso aggravato».

[51] Per altre riflessioni in ordine a tele rimedio e, in generale, sul sistema tedesco, si veda F. VIGANÒ, Riflessioni de lege lata e ferenda,  cit., p. 34 e ss.

[52] A proposito si veda S. SILVANI, op. cit., p. 302 e ss.

[53] La National Association of Criminal Defense Lawyers (NACDL) ha recentemente pubblicato un rapporto intitolato The Trial Penalty: The Sixth Right Right to Trial on the Extinction and How to Save It. Il rapporto esamina casi specifici, dati e statistiche che mostrano il costante aumento del ricorso al patteggiamento. Negli ultimi 50 anni – si legge – gli imputati hanno scelto il processo in meno del tre percento dei casi penali statali e federali, rispetto a 30 anni fa quando il 20 percento degli arrestati sceglieva di affrontare il processo. Il restante novantasette percento dei casi è stato risolto mediante patteggiamento.