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Pubbl. Mer, 1 Lug 2020

Emergenza Covid-19 e sicurezza sul lavoro: criticità e potenzialità di un sistema di prevenzione complesso

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autori Alessandra Formicola , Simona Rossi



La stratificazione legislativa connessa alla peculiarità del contesto socio-sanitario attuale ha dato vita ad un sistema di prevenzione e di sicurezza sui luoghi di lavoro integrato e complesso che richiede il bilanciamento di principi, diritti e doveri costituzionalmente garantiti. I profili maggiormente problematici, come analizzato nel presente lavoro, attengono al rapporto tra le disposizioni previste dal Protocollo e la tutela della privacy, nonché i profili di responsabilità configurabili in capo al datore di lavoro.


ENG The legislative stratification connected to the peculiar health current background, has given rise to a complex and integrated preventative measures system that requests the balancing among constitutional precepts. The most critical profiles concern the application of contamination Protocol dispositions and workers privacy, as well as employers liability.

Sommario: 1. Sicurezza sui luoghi di lavoro e normativa anticontagio: un sistema integrato; 2. Rischio Covid-19 e protocollo anticontagio;  2.1. Le linee guida previste dal Protocollo; 2.2. La tutela dei dati personali e della privacy alla luce delle misure anti-contagio; 3. Il ruolo del datore di lavoro: obblighi e responsabilità; 3.1. La responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. e del D. Lgs. n. 81 del 2008 e ss.mm.ii.; 3.2. Valutazione dei rischi e responsabilità ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001 ruolo e funzione del DVR e del MOGD231; 4. Osservazioni e conclusioni.

1. Sicurezza sui luoghi di lavoro e normativa anticontagio: un sistema integrato

Il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro è caratterizzato da profili di rilevante interesse, sia dal punto di vista storico e socio-politico, che tecnico-giuridico.

Nel nostro sistema normativo e valoriale un primo punto di approdo è rappresentato dall’emanazione, sollecitato dalla necessità di adeguamento agli standard comunitari, del decreto sulla sicurezza (D. Lgs. n. 626 del 1994), che “disegna il sistema generale di prevenzione e sicurezza e disciplina la prevenzione dei rischi professionali e l’eliminazione dei rischi incidenti, affermando un ruolo attivo dei lavoratori e del loro diritto ad essere informati, istruiti e consultati”.[1]

Tale provvedimento è stato, poi, sostituito dalle più complete disposizioni del D. Lgs. n. 81 del 2008, come corretto ed integrato dal D. Lgs. n. 106 del 2009, dal D. Lgs. n. 151 del 2015 e, infin,e dal recente D. Lgs. n. 17 del 19 febbraio 2019. 

Irrompe, dunque, sulla scena giuridica nazionale il concetto di “prevenzione”, coniugata nella prospettiva dell’importanza della tutela dei beni personali del lavoratore (quali vita e salute), messi potenzialmente in pericolo dall’esecuzione della prestazione in un ambiente soggetto al dominio del datore di lavoro, nel quale, dunque, risulta essere necessaria l’applicazione di un “complesso sistema diretto a prevenire gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali[2].

Infortunio sul lavoro e malattia professionale divengono, quindi, concetti tecnico-normativi oltre che meramente fattuali. Il primo viene all’unanimità definito come “ogni lesione originata, in occasione di lavoro, da causa violenta che determini la morte della persona o ne menomi parzialmente o totalmente la capacità lavorativa[3], mentre il secondo viene considerato “un evento dannoso che agisce sulla capacità lavorativa della persona e trae origine da cause connesse allo svolgimento della prestazione lavorativa. La causa agisce lentamente e per gradi sull'organismo del soggetto, e deve risultare in diretta relazione con l'esercizio di determinate attività nelle quali trova la propria origine. Il vigente sistema di tutela si fonda, quindi, sulla presunzione legale del nesso di causalità tra la tecnopatia, elencata in un'apposita tabella, e le corrispondenti lavorazioni nocive”.[4] 

In questo contesto, la previsione tanto dell’infortunio sul lavoro, quanto della malattia professionale, ha imposto al datore di lavoro il rispetto di misure di sicurezza, nonché di specifici procedimenti e disposizioni che costituiscono attuazione dei principi di cui agli artt. 32 e 42, comma 2, della Costituzione, e che portano a ritenere la prevalenza dell’interesse alla sicurezza ed alla salute del lavoratore rispetto alla libertà dell’imprenditore di organizzare la propria attività economica.[5] 

Tema centrale si profila quindi essere quello del bilanciamento dei valori costituzionalmente garantiti. A tal proposito giova rammentare come, in maniera dirompente ed innovativa, proprio il D. Lgs. n. 81 del 2008 abbia introdotto l’onere in capo al datore di lavoro dell’effettuazione di una complessiva e puntuale valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione lavorativa. Il “Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro” (D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e ss. mm. ii.) inquadra infatti il lavoratore come il destinatario delle tutele (art. 2 TU), ed il datore di lavoro quale principale soggetto responsabile degli obblighi di sicurezza (art. 2 lett. b) TU). Viene definita, quindi, una imprescindibile polarità tra lavoratore e datore di lavoro, individui/soggetti giuridici ai quali vengono riconosciuti diritti, e sui quali ricadono obblighi e doveri. Questi divengono attori protagonisti di un sistema complesso nel quale convergono (e si sovrappongono) diversi piani prospettici: i principi costituzionalmente garantiti, le peculiarità dell’attività lavorativa svolta, il grado di conoscenza tecnico-scientifica del settore produttivo merceologico di riferimento, nonché le variabili di mercato (leggi microeconomiche di domanda e offerta, costo del lavoro, approvvigionamento delle materie prime, allocazione dei prodotti, capacità dell’impresa di stare sul mercato ecc).

Pertanto, i concetti stessi di “tutela” e di “valutazione del rischio” divengono macro-contenitori, le cui definizioni non possono che essere dinamiche ed in fieri, attualizzate, aggiornate e direttamente connesse alle peculiarità del contesto spazio temporale. In questo senso la procedimentalizzazione dell’individuazione del rischio diviene esempio di diritto vivente[6].

Nello specifico, in ragione delle prescrizioni del D. Lgs. n. 81 del 2008, la valutazione e la prevenzione dei rischi insiti e/o potenziali nell'ambiente di lavoro è compito e dovere del datore di lavoro. I rischi[7], siano essi endogeni o esogeni, vanno periodicamente ricalibrati, così da integrare e/o modificare il DVR, documento focale nella ricostruzione dell’analisi delle aree di criticità e delle tutele applicabili. 

Nella trama di tali previsioni ordinarie in materia di monitoraggio e prevenzione dei rischi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, è andata ad innestarsi la dichiarazione da parte del Consiglio dei Ministri dello “stato d'emergenza nazionale connesso al rischio sanitario derivante dall'insorgere di patologie causate da agenti virali trasmissibili”, portando all’attenzione quello che può essere annoverabile certamente tra i c.d. rischi esogeni, ovvero il contagio da Covid-19[8]

Data la peculiarità della attuale condizione, l’INAIL stesso è intervenuto sia con la circolare n. 13 del 2020 che con la nota del 17 marzo 2020[9], inquadrando l’infezione da Coronavirus del lavoratore come “infortunio sul lavoro”, rifacendosi ad un orientamento giurisprudenziale in tema di malattie infettive e parassitarie, oramai consolidato (per le quali la causa virulenta è equiparata alla causa violenta), nonché alle disposizioni della Circolare INAIL n. 74 del 1995[10].

Nella necessità di dover fornire risposte celeri a situazioni inattese, impreviste, e non tipizzate si ragiona per analogie e si applicano principi condivisi e consolidati. La disciplina dell'emergenza[11], di tipo cautelare e non prevenzionale, difatti, contempera l'utilizzo di strumenti normativi più flessibili di quelli ordinari (quali ordinanze emesse dai soggetti indicati, D.P.C.M. o Decreti Legge nei casi di necessità ed urgenza ex art. 77 Cost.), e di procedimenti di formazione normativa caratterizzata da una stretta relazione tra l’operato degli organi governativi e legislativi e di quelli tecnico-scientifici che applicano canoni di condotta empirica e sperimentale.[12]

Proprio le evidenze scientifiche e gli studi epidemiologici hanno portato alla stesura di un vero e proprio “protocollo anticontagio”[13] la cui comprensione ed applicazione sono divenute ancor più importanti a far data dall’emanazione del D.P.C.M. del 26 aprile 2020, con il quale è stato dato avvio all'allentamento delle misure di lockdown ed alla graduale ripresa delle attività produttive.

Per i datori di lavoro si impone, dunque, la necessità di adottare idonee misure a garantire e tutelare la salute dei lavoratori, nel rispetto di quanto previsto ai sensi della disciplina codicistica, delle leggi ordinarie nonché del suindicato protocollo. Appare dunque chiaro come il rapporto tra fonte emergenziale e disciplina ordinaria in materia di sicurezza del lavoro, dia vita ad un “sistema integrato” caratterizzato da una  “integrazione reciproca, variamente modulata giacché la disciplina emergenziale, per la stretta connessione che deve mantenere con gli andamenti delle acquisizioni scientifiche”[14], che si basa sull’utilizzo di un “potere ampio e di mutevole intensità”.

2. Rischio Covid-19 e protocollo anticontagio

Tenendo conto dei dati epidemiologici, scientifici e fattuali raccolti, si sono tenuti numerosi incontri tra governo e rappresentanti delle maggiori firme sindacali ed associazioni di categoria (Confindustria, Confapi, Rete Imprese Italia, Alleanza Cooperative, Confservizi) che hanno portato alla sottoscrizione nello scorso 14 marzo del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. 

Condicio sine qua non per la ripresa e la prosecuzione dell’attività produttiva, dunque, diviene la capacità di assicurare ai lavoratori adeguati livelli di tutela.

Le previsioni contenute nel protocollo, inizialmente considerate alla stregua di “utili riferimenti” da tenere presente per la continuazione dell’attività produttiva, alla luce dell’integrazione ed aggiornamento del 24 aprile 2020[15] hanno invece assunto valore tassativo e cogenza. Con detta integrazione, difatti, è stato previsto che “la mancata attuazione del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.”[16]; inoltre il D.P.C.M. del 26 marzo 2020 (art. 2, comma 6) richiamando espressamente detto Protocollo, precisa come le attività che non siano state sospese siano tenute ad osservarne le misure previste[17].  

L’allegazione del protocollo al citato D.P.C.M. lo inquadra e definisce quale parte integrante dello stesso dotandolo di cogenza erga omnes e conseguente applicazione anche nei confronti dei soggetti non aderenti alle singole sigle firmatarie dell’accordo. 

In questo peculiare contesto il sistema integrato nascente dall’interpolazione della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e quella anticontagio, si esprime attraverso una produzione legislativa di tipo non solo precauzionale ma anche, e soprattutto, cautelare e multilivello.

Difatti, il Governo ha raggiunto un’intesa sulle linee guida da rispettarsi, nonché sull’obbligo dell’adozione di un protocollo anticontagio[18], ma bisogna sottolineare come poi la responsabilità per l’effettiva applicazione delle misure in esso previste sia imputata al singolo imprenditore/datore di lavoro, coadiuvato dal comitato aziendale (o territoriale)[19]. E’ necessario difatti che ogni azienda adotti un Protocollo finalizzato ad incrementare, negli ambienti di lavoro, l’efficacia delle misure di precauzione adottate per contrastare l’epidemia da Sars-Cov-2, che per ovvie ragioni, non può essere “conforme” per tutte le attività d’impresa ma deve essere predisposto facendo riferimento alle singole peculiarità[20] aziendali e dei processi produttivi.

A tale scopo l’INAIL ha pubblicato un “documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da Sars-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategia di prevenzione[21] tenendo conto della ovvia differenziazione dei livelli di rischio di contagio per settori produttivi. In questo senso appare chiaro come si possano distinguere settori a basso rischio (es. comparto agricoltura, selvicoltura e pesca), da altri con fattore di rischio elevato (es. comparto wellness&beauty, sanità, forze dell’ordine)[22]

Pertanto, nel testo siglato d’intesa tra sindacati e rappresentanti di categoria sono previste misure ed indicazioni finalizzate alla procedimentalizzazione ed al controllo di vari aspetti[23] della vita lavorativa ed aziendale: dalle modalità di ingresso in azienda all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, dalla gestione degli spazi comuni alla sorveglianza sanitaria.

Misure di prevenzione, trattamento dei dati personali e sorveglianza sanitaria, sono certamente temi insidiosi per il loro impatto su diritti e tutele spettanti ai singoli lavoratori, pertanto si evince chiaramente la volontà che il protocollo, concretamente adottato, non sia frutto esclusivamente di un’imposizione normativa “esterna” ma anche, e soprattutto, di un accordo tra la parte datoriale ed i lavoratori. Al punto 13 del documento viene infatti espressamente previsto che adozione ed aggiornamento della regolamentazione anticontagio avvenga con il coinvolgimento di tutte le parti interessate ed, in tale ottica, le linee guida rappresentano il punto di partenza per specifiche intese nel comparto produttivo.

Il protocollo “spiana” dunque la strada alla contrattazione collettiva aziendale o ad enti bilaterali inaugurando un modello di condivisione di intenti tra le parti. Del resto, se è pur certo come possa ravvisarsi una responsabilità datoriale nel dover prevedere modalità che consentano la business continuity con adeguati livelli di sicurezza, vi è comunque una “responsabilità condivisa” con il singolo lavoratore. Difatti, per il raggiungimento del comune obiettivo di contrastare il virus è imprescindibile una coesione di intenti ed una collaborazione anche del lavoratore in capo al quale sono previsti degli obblighi (ad esempio comunicare se si mostrino sintomi o se si sia entrati in contatto con soggetti positivi al virus); non stupisce, dunque, che nelle linee programmatiche il primo punto riguardi proprio l’obbligo di informazione che si traduce in un vero e proprio obbligo di “formazione”.

2.1. Le linee guida previste dal Protocollo

Le raccomandazioni contenute nell'Intesa e destinate ad imprese e lavoratori riguardano, come già accennato, tanto la gestione dell’attività lavorativa in sé quanto la regolamentazione di tutti gli aspetti legati ai processi produttivi. Le integrazioni al Protocollo datate 24 aprile 2020 (rispetto a quanto previsto nell’accordo siglato il 14 marzo 2020) hanno infatti implementato talune misure, nello specifico con riferimento alle modalità di ingresso in azienda e di accesso dei fornitori esterni, sanificazione e precauzioni igieniche personali, all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale,  alla gestione degli spazi comuni, alla turnazione aziendale, alla sorveglianza sanitaria in azienda e alla gestione dei casi sintomatici, nonché relativamente alla costituzione di un Comitato adibito al compito dell’applicazione e la verifica dell’adeguatezza delle regole del protocollo stesso. Di seguito, si riportano in via sintetica i “punti” salienti definiti dall’accordo sottoscritto[24].

a) Dovere di informazione

Il protocollo anticontagio, che si articola in svariate previsioni, si basa innanzitutto sul dovere dell’azienda di informare, in modo idoneo ed efficace, tutti i lavoratori e chiunque entri in azienda in merito alle disposizioni dettate dalle Autorità. Le informazioni possono essere fornite consegnando appositi depliants informativi e affiggendo dei manifesti all’ingresso o nei luoghi maggiormente visibili dei locali aziendali. L’informazione deve dunque tradursi in “formazione” del personale relativamente alle misure da osservarsi al fine di prevenire il contagio. E’ stabilito, infatti, che le informazioni non possano essere generiche, bensì debbano tenere conto delle specifiche mansioni a cui il personale è adibito, e riguardare sia le misure adottate che l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. E’ necessario, inoltre, informare i lavoratori che nel caso presentino sintomi quali  febbre oltre 37.5° o altri sintomi influenzali, siano obbligati a restare a casa, chiamare il proprio medico di famiglia e l'autorità sanitaria[25] nonché di non poter entrare o permanere in azienda (anche ove si sia stati a contatto col virus nel 14 giorni precedenti). In ogni caso, è opportuno che il dovere di informazione non si limiti solo al personale dipendente ma anche a clienti, fornitori e tutti i soggetti esterni che accedono all’azienda. Riguardo alla modalità di esecuzione di questo specifico onere, chiarito il contenuto minimo che l’informativa fornita al lavoratore debba integrare, rileva come sia previsto un margine di discrezionalità in capo al datore di lavoro. In tal senso si osserva l’importanza, come strumento di assolvimento del dovere di informazione della “bacheca”, seppur sia valido anche l’inoltro di informativa a mezzo e-mail nei confronti dei singoli dipendenti.

b) La modalità di accesso alla sede di lavoro: i controlli all’ingresso dell’azienda

Il personale, prima di entrare nella sede di lavoro, potrà[26] essere sottoposto al controllo della temperatura corporea[27]. Se questa risulterà superiore ai 37,5°, non sarà consentito l’accesso ai luoghi di lavoro ed il soggetto dovrà essere momentaneamente isolato e dotato di mascherina, con celere avviso al medico curante. Nel caso di soggetto che abbia contratto l’infezione da Covid-19 in precedenza, affinché sia consentito l’ingresso in azienda, occorrerà che sia intervenuta comunicazione dell’avvenuta “negativizzazione” con apposita certificazione medica. Si tenga presente che l’autorità sanitaria può disporre, in caso di necessità, misure aggiuntive (si pensi all’esecuzione dei tamponi sui lavoratori) ed in tal caso il datore è tenuto a fornire la propria collaborazione.

c) La pulizia e sanificazione in azienda e le precauzioni igieniche personali

L’azienda deve assicurare pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni e di svago e nel caso di presenza di una persona con Covid-19 all’interno dei locali aziendali, occorre provvedere alla pulizia e sanificazione dell’area[28] nonché alla ventilazione dei locali. Inoltre va garantita la pulizia a fine turno e la sanificazione periodica di tastiere, schermi touch, mouse, con adeguati detergenti, sia negli uffici che nei reparti produttivi.[29] E’ onere dell’azienda mettere a disposizione dei lavoratori idonei mezzi  e prodotti per la detersione, accessibili e collocati in punti facilmente individuabili.

d) I dispositivi di protezione individuale

Nel caso in cui per lo svolgimento della prestazione lavorativa sia necessario mantenere una distanza inferiore ad 1 mt e non siano ravvisabili alternative, si impone l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuali (mascherine, guanti, occhiali, tute, cuffie, camici)[30] in conformità a quanto previsto dalle autorità scientifiche e sanitarie. Nella declinazione delle misure del Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro sulla base del complesso dei rischi valutati si adotteranno i DPI idonei: è necessaria una differenziare l’utilizzo dei dispositivi anche a seconda del concreto rischio del singolo comparto produttivo. Nel Protocollo del 24 aprile 2020 si evince anche l’incentivazione a produrre liquido detergente, secondo le indicazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, da parte dell’azienda. Infine è previsto per tutti i lavoratori l’utilizzo di una mascherina chirurgica quando condividono gli spazi comune.[31]

e) La gestione di spazi comuni e l’organizzazione aziendale

Nel documento si parla di “rarefazione delle presenze” in quanto l’obiettivo è di limitare il più possibile la presenza contemporanea negli spazi comuni[32], pertanto è necessario osservare la distanza prescritta ma anche che il tempo di sosta in tali luoghi sia ridotto; occorre inoltre che vi sia una ventilazione continua dei locali e provvedere all’igienizzazione e sanificazione giornaliera degli stessi. Risulta d’uopo “ridefinire” anche l’organizzazione aziendale: difatti le imprese, limitatamente al periodo dell’emergenza Covid-19 e nel rispetto di quanto disposto dai CCNL, e d’intesa con le rappresentanze sindacali aziendali, potranno disporre la chiusura di tutti i reparti diversi dalla produzione o comunque di quelli dei quali è possibile il funzionamento mediante il ricorso al lavoro a distanza e con una rimodulazione dei livelli produttivi purché si rispetti un piano di turnazione dei dipendenti dedicati alla produzione. Qualora vengano utilizzati ammortizzatori sociali, anche in deroga, questi dovranno riguardare l’intera compagine aziendale, anche con opportune turnazioni, onde evitare disparità di trattamento e viene incentivato l’utilizzo in via prioritaria degli istituti contrattuali (permessi annuali retribuiti, riduzioni di orario di lavoro, banca ore, etc.), finalizzati a consentire l’astensione dal lavoro senza perdita di retribuzione e, solo qualora ciò non sia sufficiente, il ricorso ai periodi di ferie arretrati e non ancora fruiti. Sul punto è d’uopo osservare come parte della dottrina stia sottolineando come non si possa mettere “in ferie forzate” il lavoratore, come talora avvenuto, se non si è preliminarmente verificato l’utilizzo degli istituti contrattuali citati; inoltre il riferimento ai “periodi di ferie arretrati e non ancora fruiti” è da intendere quale ricorso alle ferie maturate entro il 31 dicembre 2019 e non anche a quelle in corso d’anno[33]. Anche in questa nuova fase dell’emergenza è opportuno, dunque, continuare a favorire il ricorso al lavoro a distanza con la previsione che il datore di lavoro ne garantisca le condizioni (assistenza nell’uso delle apparecchiature, modulazione dei tempi di lavoro e delle pause)[34].

f) Sorveglianza sanitaria

Tra le misure previste dal protocollo, vi è la sorveglianza sanitaria che deve proseguire sulla base del decalogo emanato dal Ministero della Salute, privilegiando visite preventive, a richiesta e/o a rientro dal periodo di malattia. E’ stata chiarita l’importanza di non interrompere la sorveglianza periodica in quanto può consentire di intercettare i casi sin dai primi sintomi e scongiurare la diffusione del contagio. Il medico competente, che riveste un ruolo di supporto nell’adozione delle misure antincontagio[35], deve altresì segnalare al datore di lavoro se sussistono situazioni di particolare fragilità, ovviamente sempre nel rispetto della privacy del lavoratore.In merito al reintegro dei lavoratori che abbiano contratto il Covid-19, si è già avuto modo di illustrare come sia necessario presentare preliminarmente la certificazione che provi l’avvenuta negativizzazione. A seguito di assenza dal lavoro per motivi di salute superiore a 60 giorni, prima che vi sia la ripresa del lavoro il medico deve effettuare la visita, al fine di verificare l’idoneità alla mansione (in ossequio a quanto previsto ex art. 41 del D. Lgs n. 81 del 2008) e per valutare profili specifici di rischiosità e comunque indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.

g) Aggiornamento del protocollo di regolamentazione

E’ costituito in azienda un Comitato[36] per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS: nell’ottica della co-responsabilità, appare chiaro che il protocollo debba trovare il consenso dei rappresentanti dei lavoratori. E’ stato chiarito che nell’ipotesi in cui, per la particolare tipologia di impresa ovvero il sistema delle relazioni sindacali, non si possa dar luogo alla costituzione di comitati aziendali, deve essere istituito un Comitato Territoriale con la partecipazione degli RLST e dei rappresentanti delle parti sociali. A livello territoriale e/o settoriale, dai soggetti firmatari del Protocollo potranno essere costituiti comitati, con il coinvolgimenti di soggetti istituzionali ed autorità locali, al fine di vagliare iniziative per contrastare la diffusione del Covid-19.

2.2. La tutela dei dati personali e della privacy alla luce delle misure anticontagio

Le misure necessarie a limitare il rischio di contagio, finalizzate tanto a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro quanto ad escludere potenziali responsabilità a carico delle aziende, dovranno necessariamente essere rapportate alle previsioni dello Statuto Dei Lavoratori in materia di controlli a distanza ed idoneità fisiche, nonché con la specifica normativa sulla tutela dei dati sensibili. 

Occorre infatti sottolineare come, tra le misure previste nel nuovo protocollo vi siano ad esempio la misurazione della temperatura corporea attraverso il c.d. termoscanner, nonché l’utilizzo di dispositivi wearable o di particolari telecamere che consentano di verificare l’osservanza delle distanze tra le postazioni.  

L’utilizzo di questi dispositivi, seppur astrattamente adeguati al fine di operare controlli di sicurezza, sarebbe soggetto comunque ai limiti previsti per il cd. “controllo a distanza” del lavoratore, come disciplinato dall’art. 4 dello St. Lav. Tale norma prevede espressamene che impianti audiovisivi e qualsiasi altro strumento da cui derivi il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possa essere impiegato solo per la sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale ma che, per la loro installazione, sia necessaria l’autorizzazione della rappresentanza sindacale aziendale. Pertanto, laddove l’imprenditore intendesse ricorrere a tali misure, sarebbe necessario un accordo preliminare con le rappresentanze sindacali.

Le stesse considerazioni sul “controllo a distanza” varrebbero anche in caso di ricorso allo smart working. Rileva chiarire come l’azienda non possa utilizzare i dati raccolti durante il lavoro agile per finalità diverse e/o ulteriori quali il monitoraggio dell’attività del lavoratore (per esempio verifica delle ore effettive di lavoro svolte o svolgimento di attività extra lavorative). Difatti l’utilizzo di software a tal fine può essere consentito, come previsto dall’art. 4 St. lav., solo se i lavoratori siano stati previamente informati sulle modalità dei controlli e sull’uso dei dati raccolti, ai sensi dell’art. 13 del GDPR.

Tuttavia vi sono anche “controlli” ritenuti tassativamente vietati e per i quali non è prevista alcuna possibilità di deroga, neanche con l’acquisizione del consenso dei lavoratori. Difatti, uno dei profili più critici dell’applicazione delle misure previste dai protocolli, riguarda la misurazione della temperatura dei lavoratori nonché l’effettuazione di test sierologici rapidi. A tal proposito già il Protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 aveva evidenziato la necessità di rispettare la normativa sulla privacy, dettando anche le linee guida sull’informativa per il trattamento dei dati personali.  

In materia si rileva, però, come l’art. 5 St. Lav. vieti espressamente gli accertamenti da parte del datore di lavoro sull’idoneità e infermità per malattia od infortunio del lavoratore dipendente e, a differenza di quanto previsto in materia di controllo a distanza, nel caso di specie non è prevista possibilità di deroga tramite contrattazione collettiva. Viene precisato come tali eventuali controlli possano essere svolti solo da parte degli istituti previdenziali competenti e/o enti pubblici e istituti specializzati di diritto pubblico. Sul punto si auspica pertanto un intervento tempestivo del legislatore che preveda la possibilità, in via eccezionale alla luce della situazione emergenziale, di poter ricorrere a tali strumenti previo accordo con le parti interessate. 

L’applicazione delle misure previste nel Protocollo, come già evidenziato, non presenta criticità soltanto in raffronto con le statuizioni dello Statuto dei Lavoratori, ma anche con l’attuale normativa in materia di tutela dei dati, soprattutto con riferimento all’ampliamento dei poteri riconosciuti al medico competente. Questo ultimo, infatti, con la propria attività deve coadiuvare il datore di lavoro nella valutazione del rischio e svolgere un ruolo di sorveglianza sanitaria. Inoltre, qualora ravvisasse sintomatologia compatibile col Covid-19, sarebbe tenuto a comunicarlo sia al datore di lavoro che alle autorità competenti, risultando pertanto il responsabile esterno del trattamento dei dati (del resto il medico competente potrebbe avvalersi anche di assistenti, etc).

Per comprendere la portata di questa previsione, è necessario rammentare come i dati sensibili dei dipendenti possano essere trattati per finalità di medicina del lavoro, solo da un professionista soggetto al segreto professionale. Tanto è vero che, in caso di “malattia” del lavoratore, viene specificato che il medico non debba comunicare quali possano essere le “cause” dell’assenza e, dunque, i dati sanitari.  

Nel caso dell’applicazione dei Protocolli Anticontagio, invece, il medico competente potrà intendersi tanto un dipendente dell’azienda, quanto un medico che svolge la propria attività in qualità di libero professionista[37]. In tale ipotesi sarà necessario, per il trattamento dei dati personali dei lavoratori, che il datore provveda a formalizzare la nomina con un atto scritto che contenga tutti i requisiti espressamente previsti ai sensi dell’art. 28 del GDPR[38].

Va anche considerato che nel nostro ordinamento, come si avrà modo di analizzare nel proseguo, vige una normativa specifica in materia di igiene e sicurezza sul luogo di lavoro (il ben noto D. Lgs. n. 81 del 2008) che specifica i compiti che gravano sul datore di lavoro ma anche sul medico competente. In particolare l’art. 39, comma 4, stabilisce che il datore di lavoro debba porre il medico competente nelle condizioni di svolgere la propria attività e debba garantirne l’autonomia, mentre all’art. 2, comma 1, lett. m) viene precisato come il compito del medico sia la cd. “sorveglianza sanitaria” [39].

Da detta normativa ne deriva che il medico competente ha il compito di effettuare il trattamento dei dati contenuti nelle cartelle sanitarie e si osserva come se è pur vero che il datore di lavoro, su parere del medico competente, deve adottare misure protettive per i lavoratori interessati, non è legittimato a conoscere i dati sensibili del lavoratore ma soltanto il giudizio in merito all’idoneità lavorativa. 

Col nuovo protocollo, come illustrato, è stata però prevista un’importante innovazione: il medico competente svolge difatti anche il compito di segnalare al datore di lavoro eventuali fragilità. Dunque non è impegnato in una mera valutazione dell’idoneità lavorativa bensì viene previsto sostanzialmente un’estensione delle informazioni sanitarie che possono essere fornite al datore; la ratio di tale previsione è connessa al riconoscimento in capo al medico competente della facoltà di suggerire l’adozione di nuove misure per il contenimento del contagio. Tuttavia per le informazioni relative alle situazioni di particolare fragilità (si pensi a patologie attuali o pregresse del lavoratore) è necessario garantire la tutela dei dati, trattandosi di dati sensibili. 

In quest’ottica il ruolo di titolare del trattamento dei dati sarebbe riconosciuto non più solo al medico competente ma anche al datore di lavoro (una co-titolarità) ed il medico competente ricoprirebbe anche la funzione di responsabile del trattamento (funzione che può essere parzialmente riconosciuta anche all’ufficio del personale se espressamente previsto nell’atto di nomina ai sensi del GDPR).

La problematica legata alla compatibilità tra le misure anticontagio e la tutela della privacy riguarda anche, come più volte ricordato, lo smart working. Ai sensi della normativa europea dettata dal Reg. UE 2016/679, cd. GDPR, la sicurezza dei dati va garantita sia quando sono “in transito” che quando vengono conservati sul device del lavoratore che opera in smart working, ed è compito dell’azienda adempiere a tale obbligo adottando, ai sensi dell’art. 32 del GDPR, tutte le misure necessarie per la salvaguardia dei dati personali. Le misure da adottare possono riguardare modalità di utilizzo dei dispositivi (sia aziendali che personali), e regole di comportamento da seguire (es. riporre il dispositivo in un luogo sicuro, utilizzare password, non allontanarsi dalla postazione lasciandola incustodita), regole su come prevenire la frode informatiche ed il cd. phishing

La predisposizione di tali misure, sia organizzative che tecniche, in considerazione della previsione di cui all’art. 32 del GDPR, andrà valutata con riferimento all’adeguatezza delle stesse con attenzione, ovviamente, all’attuale situazione emergenziale ed ai costi legati alla loro attuazione. Il tema del trattamento dei dati personali, è stato affrontato anche in sede di conversione del D.L. Cura Italia (n. 18 del 2020) con l’introduzione dell’art. 17 bis che prevede apertis verbis le disposizioni sul trattamento dei dati personali nel contesto emergenziale[40]

Alla luce delle considerazioni svolte, è evidente come in questa prospettiva la sicurezza sul lavoro debba coniugarsi alla tutela dei dati personali[41], tematica che è stata a lungo trascurata ma che di recente, anche grazie all’introduzione del GDPR (Reg. UE 2016/679), sta assumendo il risalto che merita e, a riprova di ciò, si è evidenziato come anche nella normativa citata, sebbene dettata per una situazione d’emergenza dal carattere del tutto eccezionale, siano fornite indicazioni in materia.

2.3. La vigilanza sull’applicazione del Protocollo ed il sistema sanzionatorio

Un breve cenno merita anche il sistema di vigilanza previsto per l’applicazione del protocollo anticontagio. A tal proposito dirimente risulta essere la circolare n. 15350 del 02 maggio 2020 emessa dal Ministero dell’Interno, che ha ribadito come la prosecuzione delle attività consentite sia subordinata al rispetto di quanto previsto nel noto Protocollo del 24 aprile 2020, nonché delle intese raggiunte riguardo a specifici settori (logistica e trasporti, settore edile).

Tale documento inoltre specifica come la verifica dell’adeguatezza delle misure venga effettuata con un “regime di controlli” e che, per l’attività ispettiva, venga costituita una task force a composizione mista con personale del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, dell’Ispettorato del Lavoro e del Comando dei Carabinieri per la tutela del lavoro nonché dell’ASL.

Proprio con riferimento ai controlli, l’Ispettorato del lavoro ha previsto, con la circolare n. 149 del 20 aprile 2020[42], le indicazioni sulle modalità operative dei controlli operati agli ispettori. In particolare, viene prevista la possibilità di provvedere agli accertamenti documentali anche con mezzi telematici (es. prove acquisto DPI; prova sanificazione locali; certificati di formazione dipendenti in materia di prevenzione del contagio ma anche copia delle schede dei dipendenti che dichiarino di aver ricevuto DPI, gel ed i presidi previsti nel protocollo) e che la verifica dei documenti possa essere preventiva rispetto alla visita in azienda. Inoltre è stato stabilito che l’attività di controllo sia coordinata con le Prefetture e sulla base delle indicazioni ricevute da queste circa le modalità di esecuzione.

La succitata circolare del 02 maggio 2020, tuttavia, non si limita a designare le modalità di vigilanza sull’attuazione del protocollo anticontagio, bensì precisa anche il sistema sanzionatorio previsto qualora vi sia la violazione delle misure previste. La circolare puntualizza come l’inosservanza delle prescrizioni sul contenimento del contagio comporti l’applicazione del sistema di cui all’art. 4 del D.L. n. 19 del 2020[43] che prevede siano comminate sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie, salvo che il fatto costituisca reato.

In ogni caso potranno trovare applicazione le conseguenze previste per effetto dell’art. 4 del D.L. n. 19 del 2020 che prevede la possibilità per l’organo procedente al controllo di disporre, già all’atto dell’accertamento, la chiusura provvisoria dell’attività fino ad un massimo di cinque giorni[44].

Nell’ipotesi in cui invece sussistano gli estremi di un illecito penale, trova applicazione la normativa in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro delineato dal decreto legislativo n. 81 del 2008.

3. Il ruolo del datore di lavoro: obblighi e responsabilità

Le specifiche disposizioni emergenziali[45], dunque, vanno calate sia nel quadro più ampio del diritto comunitario[46], sia in quello più peculiare delle disposizioni nazionali. 

Proprio nel sistema nazionale queste svolgono, attraverso previsioni sia premiali (incentivi di tipo economico contributi e crediti d'imposta per favorire l'impresa che intende conformarsi all'obbligo ulteriore di sicurezza) che sanzionatorie (controlli dell'Inail e dell’ispettorato del lavoro), una funzione preventiva e precauzionale che va ad innestarsi nel sistema ordinario già normativamente cristallizzato.

Il risultato, come già accennato in premessa, è quello della creazione in materia di sicurezza sul lavoro di un sistema di prevenzione complesso, nato dall’integrazione tra il sistema normativo emergenziale ed il sistema di diritto vivente e vigente poggiato sulle pietre angolari del disposto costituzionale, del disposto codicistico e del Testo Unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro (D. Lgs 81/2008 e s.m.i.).

Le previsioni e le regole contenute nel Protocollo anticontagio Covid-19, come analizzate al paragrafo 2 della presente trattazione, costituiscono dunque specificazioni ed innovazioni di quegli obblighi di sicurezza incombenti sul datore di lavoro scaturenti proprio dai principi normativi di sistema succitati. Punto focale del sistema normativo della sicurezza sui luoghi di lavoro è il concetto di “rischio”, in particolare l'art. 3, comma 1, D. Lgs. n. 81 del 2008 espressamente prevede che il c.d. Testo unico SSLL si applichi a tutti i settori di attività, privati e pubblici, ed a tutte le tipologie di rischio. Tutti i rischi, poi, vanno considerati nell'elaborazione del documento di valutazione (c.d. DVR) di cui all'art. 17 lett. a) seguendo le modalità indicate negli artt. 28 e 29, comprendenti anche le rielaborazioni in ipotesi di situazioni che inducano alla necessità di rivedere le valutazioni fatte [47]

Alla luce di tali premesse generali, occorre operare dunque riflessioni più specifiche.

3.1. La responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. e del D. Lgs. n. 81 del 2008 e ss.mm.ii.

Il tema dell’applicazione dei protocolli di sicurezza e della tutela del lavoratore non può prescindere da quello della responsabilità datoriale. Grava infatti sul datore di lavoro un vero e proprio “debito di sicurezza”[48] che trova le sue fonti, come specificato in premessa al presente paragrafo, sia nel codice civile (all’art. 2087), che nelle disposizioni in materia antinfortunistica (D. Lgs. n. 81 del 2008 e s.m.i.).

Rileva, anzitutto, la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., nel quale si stabilisce che “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Pertanto il datore di lavoro è garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, responsabile della sicurezza nei luoghi di lavoro[49] e dell’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative finalizzate alla riduzione al minimo dei rischi connessi all’attività svolta.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale tanto civile quanto penale, dunque, il datore di lavoro ha “il dovere di accertarsi che l’ambiente di lavoro, abbia i requisiti di affidabilità e di legalità quanto ai presidi antinfortunistici, idonei a realizzare la tutela del lavoratore, e di vigilare costantemente a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera” (ex multis: Cass. Pen. Sent. 25.11.1998 n. 5; Cass. Pen. Sent. 28.9.1999 n.13377).

La Cassazione Civile è ormai unanime nel ritenere che: “La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 cod. civ., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori”[50], (tra le più recenti sentenze in tal senso si cita Cass. civ. Sez. lavoro, 05/07/2018, n. 17668)Concordi pronunce della Cassazione riconoscono, per l’omissione delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro, una responsabilità di tipo “contrattuale” in capo al datore di lavoro atteso che “il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell'art. 1374 c.c., dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale”, dunque, la fonte dell’obbligo di sicurezza in capo al datore di lavoro sarebbe da individuarsi nell’instaurato rapporto di lavoro subordinato con il dipendente. Da tutto quanto già emergente dal dettato codicistico, nonché da copiosa produzione giurisprudenziale, appare chiaro che in capo al datore di lavoro si profilino diversi aspetti di garanzia, tra cui quello di sicurezza, ma anche di vigilanza e di corretta informazione dei lavoratori, garanzie cui sono correlate altrettante responsabilità. Infatti, al datore di lavoro spetta il dovere di controllare: che siano impediti atti o manovre rischiose del prestatore, l’osservanza da parte dello stesso delle norme di sicurezza, nonché l’utilizzo dei mezzi di protezione così come imposto e previsto dalla stratificata legislazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. 

Punto di partenza e riferimento imprescindibile in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e di definizione e principali obblighi del datore di lavoro è il D. Lgs. n. 81 del 2008 e sue successive modifiche. E’ proprio dalla lettura in combinato disposto degli agli artt. 2 e 18 del succitato Decreto emerge che il datore di lavoro (quale titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore, o comunque soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione o dell’unità produttiva in quanto esercitante i poteri decisionali e di spesa) deve, nell’affidare i compiti ai lavoratori: “tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza; fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale[51]; prendere misure appropriate affinché solo i lavoratori che abbiano ricevuto breve dispensa informativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico”; nonché aggiornare le misure di prevenzione “in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della sicurezza; fornire al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente informazioni in merito a natura dei rischi, organizzazione del lavoro, programmazione e attuazione delle misure preventive e protettive”.

Una volta chiariti i due principali riferimenti normativi in materia, occorre operare una fondamentale distinzione tra le misure di sicurezza a cui le due fanno riferimento, in quanto i principi previsti sul piano sostanziale hanno poi riverberi sul piano (delicato) degli oneri probatori.

Come sostenuto da una oramai consolidata giurisprudenza[52], infatti, il contenuto dell’onere probatorio differisce a seconda della tipologia delle misure di sicurezza omesse. Se tali misure sono espressamente definite da legge o fonte altrettanto vincolante (T.U. S.S.L.L. o gli stessi protocolli Covid allegati al D.P.C.M. 26 aprile 2020) si parla di misure di sicurezza o prevenzione c.d. “nominate”, poste in essere sulla base di una valutazione preventiva dei rischi (che trova la sua espressione nella redazione del DVR): il lavoratore ha l’onere di provare soltanto il rischio specifico che s’intende prevenire o contenere, nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito[53]. Se invece le misure di sicurezza o prevenzione sono estrapolate dall’art. 2087 c.c. e dall’obbligo di sicurezza in esso contenuto, vengono definite “innominate” [54]. In questo caso l’onere probatorio a carico del lavoratore resta immutato, mentre la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta invece riconnessa alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile nell’individuazione e applicazione delle misure di sicurezza sulla base di quelli che sono gli standards di sicurezza normalmente osservati nelle fattispecie analoghe e la miglior scienza ed esperienza tenuto conto degli sviluppi della tecnica.[55]

Alla luce di quanto esposto rileva evidenziare come la responsabilità datoriale per i danni subiti dal dipendente sussista non solo in tutti i casi di omissione nell’adozione delle misure protettive, previste da DVR, Protocolli[56] ad hoc oppure da obblighi di sicurezza codicistici, ma anche ove si configuri omissione nel controllo e vigilanza sulla corretta utilizzazione dei DPI e sul rispetto di tali misure da parte dei lavoratori propri dipendenti.  

Conseguentemente si potrà configurare un esonero totale di responsabilità per il datore di lavoro, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità e dell’assoluta imprevedibilità[57].

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere ex art. 2087 c.c., che i parametri che il datore di lavoro deve tenere in considerazione per poter garantire l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti siano tre: la particolarità del lavoro (intesa come complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa), l’esperienza (intesa come conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa) e la tecnica (il progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato). A questi si aggiunge la diligenza tecnica che impone al datore di lavoro di adottare, secondo il c.d. criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile[58], tutti quei comportamenti e quelle misure di prevenzione e protezione che rispondano nel miglior modo a tutelare la sicurezza dei lavoratori, utilizzando i più avanzati ritrovati tecnici in relazione alle continue scoperte della scienza moderna[59], in quanto la sicurezza non deve essere subordinata a considerazioni di fattibilità economica o produttiva.[60]

In materia di definizione dell’attività di prevenzione “indispensabile” che il datore deve compiere per preservare l’integrità psico-fisica e la salute del propri dipendenti, nonché all’importanza dell’onere della prova, anche ai fini dell’esonero datoriale dalla responsabilità per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, si è pronunciata[61] la Cassazione specificando che  il datore di lavoro deve “dare prova di aver adottato tutte quelle necessarie cautele, previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, atte a tutelare la salute di ogni suo lavoratore così come richiesto, in primo luogo, dalla nostra Costituzione”. In mancanza di tale prova liberatoria, che la Corte ricorda rientrare tra gli oneri probatori del solo datore, quest’ultimo non può essere sollevato da alcuna responsabilità.[62]

Partendo da tale assunto sarà fondamentale osservare le prossime pronunce giurisprudenziali in tema di responsabilità datoriale nell’applicazione delle misure di prevenzione e sicurezza previste dai Protocolli anticontagio da Covid-19, tenuto conto, inoltre,  della valutabilità anche di profili di responsabilità penali delle società ai sensi e per gli effetti del D. Lgs. n. 231 del 2001.

3.2. Valutazione dei rischi e responsabilità ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001: ruolo e funzione del DVR e del MOGD231

Ai sensi di tutto quanto esposto appare chiaro come il sistema della sicurezza sui luoghi di lavoro e di tutela del lavoratore stesso, sia un sistema di prevenzione complesso e “vivo” che trova nel documento di valutazione dei rischi e nell’obbligo in capo al datore di lavoro di adeguare le misure cautelative adottate alla conoscenza tecnica la sua capacità di respiro. 

In questo contesto in continuo divenire, il compito del datore di lavoro risulta essere, quindi, particolarmente complesso. 

A quasi vent’anni dall’emanazione del D. Lgs. n. 231 del 2001, ci si trova a ragionare sulle modifiche che tale epidemia potrà apportare allo stesso che, come è noto, riguarda la responsabilità “amministrativa da reato” degli enti. E infatti, la pandemia di questi mesi ha messo in evidenza come i Modelli prospettati dal Decreto siano sempre soggetti a mutamenti nel corso degli anni, in quanto il loro principale fine è quello, come sopra esposto, duplice: da un lato quello di tutelare l’ente da eventuali responsabilità, dall’altro (in via conseguenziale ed indiretta) quello di garantire la salute e la sicurezza sul posto di lavoro.

A seguito dei vari DPCM emanati contenenti le misure di sicurezza da dover osservare onde evitare (o, quanto meno, ridurre) il rischio di contagio, le imprese hanno dovuto predisporre una serie di misure volte a tutelare i propri lavoratori nel medio-lungo termine. E’ infatti emersa la necessità di introdurre, all’interno dell’impresa, misure modificative di aspetti di natura organizzativa che hanno dunque comportato l’aggiornamento dei c.d. Documenti di Valutazione Rischi (“DVR”)[63], sempre in dialogo con compliance models di gestione e controllo.[64] 

A tal proposito si rileva come il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili abbia pubblicato[65] il documento dal titolo "Vigilanza e modello di organizzazione, gestione e controllo ex D. Lgs. 231/2001 nell’emergenza sanitaria”, secondo cui il rischio da Covid-19 è da considerarsi “rischio d’impresa” e, pertanto, può essere mitigato attraverso l’adozione di appositi protocolli[66].

E’ importante, dunque, soffermarsi sul fatto che il Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. “Decreto Cura Italia”) abbia stabilito, all’art. 42, che il contagio da Covid–19 possa costituire un infortunio sul lavoro, da cui può ben discendere – qualora da tale evento vi siano conseguenze quali la morte o lesioni dei lavoratori – la responsabilità di cui all’art. 25 septies del D. Lgs. n. 231 del 2001[67] in capo all’ente[68].

Per quanto attiene l’imputabilità del contagio (da cui possono derivare la morte o lesioni gravi o gravissime del lavoratore) alla condotta del datore di lavoro, ossia il nesso di causalità tra condotta e danno, un particolare discorso deve essere fatto per il reato di epidemia. A tal proposito occorre specificare che il legislatore, stante anche l’orientamento della Corte di Cassazione[69], non abbia mai ritenuto di inserire il reato di cui all’art. 438 c.p. fra quelli ascrivibili alla responsabilità dell’ente in quanto si sia dinnanzi ad un reato esclusivamente commissivo[70]. In argomento autorevole giurisprudenza [71] escluderebbe la possibilità che un ente possa vedersi imputare il reato di epidemia. E infatti, per l’interprete è difficile dimostrare l’imputabilità ex D. Lgs. n. 231 del 2001 dei suddetti reati all’ente, in quanto “risulta impossibile dimostrare che il reato sia stato commesso nell’interesse ed a vantaggio dello stesso”. Tale vantaggio deriverebbe quasi esclusivamente da un risparmio che l’ente otterrebbe dalla mancata attuazione di tutte le misure preventive idonee ad eliminare o quantomeno ridurre il rischio di contagio[72].

Tale tematica risulta legata a doppio filo a quella della redazione del Documento di Valutazione dei rischi (c.d. DVR definito all’art. 28 del D. Lgs. n. 81 del 2008). Va rammentato come il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto dalle organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dai sindacati lo scorso 14 marzo e pubblicato in allegato al DPCM 26 aprile 2020, fornisca alle imprese linee guida da seguire al fine di coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative. Alla luce di ciò, in primis andrà operata una verifica sull’adeguatezza del DVR[73] rispetto alle esigenze sorte a causa della diffusione del virus e, dunque, del nuovo rischio biologico[74]

Il riferimento al rischio biologico si rinviene, in primis, nel testo del D. Lgs. n. 81 del 2008, all’interno del Titolo X prima menzionato, agli artt. 267 e 268, che riportano definizioni e classificazione degli agenti biologici[75]. Viene inoltre riportato che, per le mansioni soggette a tale rischio sia il datore di lavoro a dover provvedere alla c.d. “valutazione del rischio biologico” regolamentata dall’art. 271 del Testo Unico, la valutazione del rischio deve contenere tutte le informazioni disponibili relative alle caratteristiche dell’agente biologico e delle modalità lavorative, nello specifico: la classificazione degli agenti biologici, le malattie che possono essere contratte, i possibili effetti allergici e tossici, ogni eventuale patologia della quale è affetto un lavoratore. In relazione ai rischi accertati, il datore di lavoro dovrà, dunque, adottare tutte le misure protettive e preventive necessarie, impegnandosi a modificarle qualora dovessero variare le condizioni di lavoro.

Nel caso in trattazione, ovvero il rischio biologico da contagio da Covid-19, tecnicamente questo non viene inquadrato quale rischio “endoaziendale”[76],ovvero connesso ai processi industriali e/o produttivi aziendali, in cui dunque l’ambiente di lavoro comporta un significativo e qualificato innalzamento o dei livelli di esposizione a un certo pericolo o della probabilità (o gravità del danno in caso) di concretizzazione di un certo rischio, che sarà quindi un rischio specifico di quell’attività lavorativa[77]. Piuttosto il rischio biologico da contagio per Covid -19 risulterebbe riconducibile a quello di origine “esoaziendale”, ovvero esterno all’organizzazione produttiva in cui è inserito il lavoratore, in questo caso il rischio è generico per le attività dell’impresa, che si pongono in relazione ad esso in termini di neutralità. Il lavoratore stesso viene, quindi, ad essere esposto a questo tipo di rischio in misura non inferiore, anche nello svolgimento delle altre attività umane al di fuori dei locali aziendali[78].

In realtà, a ben vedere, sarebbe più corretto fondare questa distinzione non tanto sull’origine interna o esterna all’azienda del fattore di rischio, quanto piuttosto sul fatto che l’attività lavorativa, intesa sia come condizioni di lavoro che come mero contesto ambientale in cui viene a svolgersi la prestazione, comporti un innalzamento del livello di esposizione al rischio rispetto a quello “socialmente accettato” nella comunità cui appartiene il lavoratore[79]

Data la peculiarità della situazione attuale, al fine di garantire l’implementazione e il rispetto delle misure ad hoc previste dai protocolli anticontagio Covid-19, sarà richiesta una collaborazione sinergica tra l’organo direttivo, i soggetti responsabili della sicurezza sul lavoro (RSPP, RLS, Medico Competente, Preposti alle emergenze) e delle risorse umane, nonché dell’Organismo di Vigilanza[80], attraverso la costituzione di quella che potrebbe essere definita una “Task force”. 

Aspetto critico in prospettiva della responsabilità datoriale, dunque, risulta essere il rapporto tra il DVR ed il Modello 231 adottato in azienda con tutti i risvolti connessi. In tale prospettiva rileva quanto affermato dalla nota Inail del 15 maggio 2020, nella quale l’Istituto specifica come: “l’infortunio sul lavoro per Covid-19 non è collegato alla responsabilità penale e civile del datore di lavoro”, ovvero, viene precisato che “dal riconoscimento come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro che risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa”. Si legge infatti come, al riguardo, si debba tenere conto che “la molteplicità delle modalità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro, oggetto di continuo aggiornamento da parte delle autorità in relazione all’andamento epidemiologico, rendano peraltro estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro”. 

In argomento, attualmente al centro di vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, si rimanda ad una recente pronuncia della Cassazione Penale[81], che, ai fini della determinazione della responsabilità dell’ente ex art. 6 del D. Lgs. n. 231 del 2001 evidenzia la incompatibilità tra DVR e MOGC231. Nella citata sentenza i giudici di legittimità sottolineano come relativamente all’adozione e all’idoneità del MOGC231 al fine della responsabilità amministrativa da reato degli enti in caso di violazione della normativa antinfortunistica “il giudice di merito, ove investito da specifica deduzione, deve procedere seguendo un ordine logico e cronologico di tal genere: accertare l’esistenza o meno di un modello organizzativo ex art. 6 D.lgs. 231/2001; ove il modello esista, verificare che lo stesso sia conforme alla legge; accertare che esso sia stato efficacemente attuato o meno in ottica prevenzionale (ante-factum sceleris)”. La  Suprema Corte ha, dunque, evidenziato l’esistenza di una vera e propria diversità di genere tra il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo di cui all’art. 6 del D. Lgs. n. 231 del 2001 (attinente al sistema di Corporate Governance e alle modalità attraverso cui prevenire il verificarsi di reati-presupposto di cui all’impianto normo-legislativo cristallizzato nel medesimo testo normativo) ed il Documento di Valutazione dei Rischi ex art. 17 del D. Lgs. n. 81 del 2008, concernente invece, la specifica valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, connessi all’esercizio dell’attività d’impresa[82].

Alla luce di tutto quanto esposto, appare chiaro come, in tema di MOGD231, la predisposizione efficace ed idonea dello stesso a prevenire reati-presupposto nell’esercizio dell’attività d’impresa, avuto riguardo la disciplina dei reati colposi di evento in violazione delle norme antinfortunistiche, sia funzionale allo scopo di evitare procedimenti penali de societate che importerebbero costi ingenti sia in termini economici sia d’immagine, oltre che comportare l’ingessatura dell’ente.

A tal proposito sarebbe auspicabile una definizione ex ante dei processi aziendali maggiormente a rischio reato nonché delle aree strumentali, attraverso una metodologia di risk mapping basata sul risk approach, avuto riguardo alla Governance aziendale ed al Sistema di controllo interno adottato[83].

4. Osservazioni e conclusioni

La stratificazione legislativa connessa alla peculiarità del contesto socio-sanitario attuale, ha dato vita ad un sistema di prevenzione anticontagio e di sicurezza sui luoghi di lavoro integrato e complesso al quale si connettono criticità di tipo applicativo.

I profili maggiormente problematici, come analizzato nel presente lavoro, attengono da un lato al rapporto tra le disposizioni previste dal Protocollo e le disposizioni in materia di tutela della privacy e, dall’altro, ai profili di responsabilità configurabili in capo al datore di lavoro.

Proprio In merito a quest’ultimo aspetto appare dirimente, nonché di primaria rilevanza, il chiarimento operato dall’INAIL con la circolare n. 22 del 20 maggio 2020 in materia di “Tutela infortunistica nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro”.[84 

Il chiarimento succitato appare dirimente relativamente alla quaestio dell’accertamento dell’infortunio da contagio da SARS-Cov-2 e del rapporto tra contagio quale infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale.

La circolare ribadisce come che la tutela Inail riguardi tutti i lavoratori assicurati con l’Istituto che abbiano contratto il contagio in occasione di lavoro, richiamando espressamente i principi che presiedono all’accertamento dell’infortunio nel caso delle malattie infettive e parassitarie, le cui linee guida sono stabilite dalla circolare INAIL 23 novembre 1995, n. 74. L’ente specifica come l’accertamento della verificazione dell’infortunio sui luoghi di lavoro non possa comportare un automatismo ai fini dell’ammissione a tutela dei casi denunciati.  

I presupposti per il riconoscimento dell’indennizzo INAIL al lavoratore contagiato sono, quindi, differenti ed ulteriori rispetto a quelli necessari all’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro, per il cui accertamento dovrà essere sempre rigorosamente provato il nesso di causalità attraverso la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale della malattia.

A tal proposito l’Ente stesso riporta una recente sentenza della Corte di Cassazione nella quale viene ribadito che: “l’articolo 2087 cod. civ. non configura, infatti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Né può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”[85][…]non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto”.[86 

La responsabilità del datore di lavoro, come chiarito nella circolare in oggetto, sarebbe dunque ipotizzabile esclusivamente in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche da parte del datore.[87] 

Appare chiaro dunque, in conclusione della presente trattazione, come le tematiche rilevanti in materia di prevenzione ed applicazione delle misure anticontagio e sicurezza sul lavoro mostrino potenzialità e criticità, e che per la loro efficace ed efficiente applicazione nel medio lungo termine sia necessario un contemperato bilanciamento di diritti e tutele costituzionalmente garantite ai diversi soggetti interessati.  


Note e riferimenti bibliografici

[1]  AA. VV., Istituzioni di diritto del lavoro e Sindacale Vol. III, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015, 154.

[2]  A. VALLEBONA, Breviario di Diritto del lavoro, XII ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2018, 277.

[3] Definizione riportata sul sito del Governo Italiano, Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali (si veda Ministero del Lavoro) ove viene specificato che: “ Gli elementi integranti l'infortunio sul lavoro sono: la lesione, la causa violenta, l'occasione di lavoro. Il concetto di "occasione di lavoro" richiede che vi sia un nesso causale tra il lavoro e il verificarsi del rischio cui può conseguire l'infortunio. Il rischio considerato è quello specifico, determinato dalla ragione stessa del lavoro".

[4] Definizione riportata sul sito del Governo Italiano, Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali (si veda Ministero del Lavoro). Si riporta che la tabella delle malattie professionali vigente è stata approvata con Decreto Ministeriale del 10 giugno 2014 e che “A seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 179/88 e 206/88, sono comunque tutelate tutte le malattie che, seppure non comprese in detta tabella, il lavoratore provi abbiano un’origine professionale.”

[5] AAVV, Istituzioni di diritto del lavoro e Sindacale Vol. III, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015, 155. In materia rilevante sottolineare come gli autori specifichino che l’art. 117 Cost., a seguito della riforma costituzionale ai sensi della L. Cost. n. 3 del 2001, includa la tutela e la sicurezza del lavoro tra le materie per le quali le regioni godano di potestà legislativa concorrente con quella statale.

[6]  A tal proposito occorre evidenziare come dall’analisi del combinato disposto dell’art. 38 Cost. e degli artt. 2 e 3 del dPR. n. 1124 del 1964 (Testo unico infortuni sul lavoro e malattie professionali) si evinca come il sistema di tutela dell’INAIL sia a tutt’oggi ancora incentrato su un concetto di rischio professionale (presupposto della tutela Inail, sia elemento costitutivo del diritto alla prestazione assicurativa) connaturato alla intrinseca pericolosità del lavoro.

[7] L’oggetto della valutazione dei rischi secondo quanto disposto dall’art. 28 T.U. SSLL, ricomprende: “La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o delle miscele chimiche impiegate, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151(N) , nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro e i rischi derivanti dal possibile rinvenimento di ordigni bellici inesplosi nei cantieri temporanei o mobili, come definiti dall’articolo 89, comma 1, lettera a), del presente decreto, interessati da attività di scavo”.

[8] Sul punto si evidenzia come l’Ispettorato del Lavoro, con una nota del 13 marzo 2020 avesse sottolineato che “La normativa vigente in materia di lavoro disciplina specifici obblighi datoriali in relazione ad una “esposizione deliberata” ovvero ad una “esposizione potenziale” dei lavoratori ad agenti biologici durante l’attività lavorativa. In conseguenza di ciò il datore di lavoro ha l’obbligo di effettuare una “valutazione del rischio” ed “elaborare il DVR” e, se del caso, “integrarlo” con quanto previsto dall’art. 271 del d.lgs. n. 81/2008. Rispetto a tali obblighi si pongono orientamenti applicativi differenziati nei casi in cui l’agente biologico, che origina il rischio, non sia riconducibile all’attività del datore di lavoro ma si concretizzi in una situazione esterna che pur si può riverberare sui propri lavoratori all’interno dell’ambiente di lavoro per effetto delle dinamiche esterne non controllabili dal datore di lavoro. In tali casi il datore di lavoro non sarebbe tenuto ai suddetti obblighi in quanto trattasi di un rischio non riconducibile all’attività e cicli di lavorazione e, quindi, non rientranti nella concreta possibilità di valutarne con piena consapevolezza tutti gli aspetti gestionali del rischio, in termini di eliminazione alla fonte o riduzione dello stesso, mediante l’attuazione delle più opportune e ragionevoli misure di prevenzione tecniche organizzative e procedurali tecnicamente attuabili. Lo scenario connesso all’infezione coronavirus vede coinvolti i datori di lavori di questa Amministrazione esclusivamente sotto l’aspetto delle esigenze di tutela della salute pubblica e pertanto, sembra potersi condividere la posizione assunta dalla Regione Veneto nel senso di “non ritenere giustificato l’aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi in relazione al rischio associato all’infezione” (diverso è il caso degli ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda). Tuttavia, ispirandosi ai principi contenuti nel d.lgs. n. 81/2008 e di massima precauzione, discendenti anche dal precetto contenuto nell’art. 2087 c.c. si ritiene utile, per esigenze di natura organizzativa/gestionale,  redigere – in collaborazione con il Servizio di Prevenzione e Protezione e con il Medico Competente – un piano di intervento o una procedura per un approccio graduale nell’individuazione e nell’attuazione delle misure di prevenzione, basati sul contesto aziendale, sul profilo del lavoratore – o soggetto a questi equiparato –assicurando al personale anche adeguati DPI”. Tuttavia veniva altresì chiarito come “La valutazione del rischio e le relative misure di contenimento, di prevenzione e comportamentali, infatti, sono, per forza di cose, rimesse al Governo, alle Regioni, ai Prefetti, ai Sindaci ed ai Gruppi di esperti chiamati ad indicare in progress le misure ed i provvedimenti che via via si rendono più opportuni in ragione della valutazione evolutiva dell’emergenza". Risulta evidente come con il protocollo del 24 aprile 2020 siano state date le indicazioni da seguire ma, ad avviso di chi scrive, resta pur sempre in capo all’impresa la valutazione concreta di eventuali ulteriori misure da applicare sulla base della conoscenza dell’attività concretamente svolta.

[9] Nota Inail 17 marzo 2020 “Richiesta chiarimenti malattia-infortunio da Covid-19 (nuovo coronavirus) contratto da operatori sanitari “ in www.inail.it.

[10] v. Linee guida per la trattazione di malattie infettive e parassitarie. L’analogia risiede nella circostanza per cui  in caso di Covid-19, così come per la tipologia di malattie elencate nelle suddette linee guida risulta complessa l’individuazione del momento specifico del contagio e di conseguenza della c.d. occasione di lavoro ex art. 2.T.U. (per la definizione si veda nota n. 3 della presente trattazione). 

[11] Normativamente riconducibile al D. Lgs. n. 1 del 2018.

[12] Cfr. D. CALAFIORE, La sicurezza nei luoghi di lavoro tra disciplina dell'emergenza da Covid 19 e disciplina ordinaria, ISSN 2420-9651, giustiziacivile.com, Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A., editoriale n.4/2020, 4.

[13] Emanato il 14 marzo 2020, aggiornato il 24 aprile 2020 e richiamato dallo stesso D.L. n. 19 del 2020. Si veda paragrafo 2 della presente trattazione. 

[14] Cfr. D. CALAFIORE, La sicurezza nei luoghi di lavoro tra disciplina dell'emergenza da Covid 19 e disciplina ordinaria, ISSN 2420-9651, giustiziacivile.com, Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A., editoriale n.4/2020, 5.

[15] Seppur apparentemente questa integrazione possa sembrare una mera modifica del protocollo stipulato il 14 marzo 2020, si palesa come mentre la prima stesura era stata adottata in maniera frettolosa, l’integrazione non si ponga come un’indicazione meramente “emergenziale” quanto programmatica per favorire la ripresa sul lungo periodo. La gran parte dell’opinione scientifica difatti sostiene che la “fase 2” di convivenza col virus perdurerà finché non vi sarà un vaccino e pertanto si ritiene che ci vorrà ancora molto tempo prima di inaugurare la c.d. “fase 3”.

[16] Nella premessa dell’aggiornamento del Protocollo viene precisato come “la prosecuzione dell’attività produttiva possa avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di sicurezza” e si chiarisce la necessità di applicare il Protocollo previsto (in caso contrario si rischia la sospensione dell’attività fin quando non siano garantite le condizioni di sicurezza). Viene esplicato l’intento, che appariva chiaro già dall’accordo siglato il 14.03.2020, di adottare rapidamente un Protocollo di regolamentazione condiviso con le rappresentanze sindacali e per le piccole imprese con le rappresentanze territoriali. Si evidenzia come un punto centrale del Protocollo, secondo quanto affermato in premessa, è che “la prosecuzione delle attività produttive può … avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione”. Da evidenziare il profilo partecipativo, con il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali e dei Rls-Rlst tanto è vero che nella parte finale si prevede la costituzione di un comitato congiunto, azienda/rappresentanze sindacali aziendali-Rls, per la verifica della disciplina posta in applicazione del Protocollo.

[17] Tale articolo recita “Le imprese le  cui  attività  non  sono  sospese  rispettano  i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione  delle  misure per il  contrasto  e  il  contenimento  della  diffusione  del  virus COVID-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020  fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 6, nonché',  per  i rispettivi  ambiti  di  competenza,  il   protocollo   condiviso   di regolamentazione per il contenimento della  diffusione  del  COVID-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra  il  Ministro  delle infrastrutture e dei trasporti,  il  Ministero  del  lavoro  e  delle politiche sociali e le parti sociali, di cui  all'allegato  7,  e  il protocollo condiviso di regolamentazione per  il  contenimento  della diffusione del COVID-19 nel settore del trasporto e  della  logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di  cui  all'allegato  8.  La mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”.

[18] Non è da sottovalutare anche il ruolo che ricoprono le Regioni per la prosecuzione dell’attività d’impresa in quanto, anche in considerazione del D.P.C.M. 26.04.2020, è a loro che spetta il compito di controllare, con cadenza giornaliera, l’andamento della situazione epidemiologica e gli è consentito di adottare misure che possono essere anche restrittive o meno rispetto a quanto stabilito a livello nazionale (in tal senso sin dalle scorse settimane si  sono registrati orientamenti diametralmente opposti tra Regioni che sembrano propendere per una fuga in avanti al fine di una rapida ripresa e Presidenti di Regione che stanno preferendo una strada prudenziale con l’adozione di misure più restrittive). Inoltre, vanno tenute in debita considerazione anche le direttive previste nel documento siglato dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome (“Linee di indirizzo per la riapertura delle attività Economiche e Produttive”) che contiene “indirizzi operativi specifici validi per i singoli settori di attività”.

[19] Al DL ed al succitato Comitato è assegnato il compito provvedere concretamente all'adozione delle misure previste dal Protocollo, anche al fine di evitare eventuali rischi di responsabilità sotto il profilo civile e penale (a tal proposito si rammenta come l’art. 42 del D.L. Cura Italia abbia stabilito che il contagio avvenuto sul luogo di lavoro si classifica come infortunio sul lavoro).

[20] A titolo esemplificativo, si rammenta come per il comparto logistica e trasporti sia stato previsto un apposito protocollo (D.P.C.M. 26.04.2020, allegato n.8).

[21] Si tratta di un documento tecnico di lavoro (frutto della ricerca condotto dall’Istituto anche in qualità di organo tecnico scientifico del Servizio Sanitario Nazionale ed approvato dal Comitato Tecnico Scientifico istituito presso la Protezione Civile, al quale Inail partecipa con un suo rappresentante) che contiene delle indicazioni sulle misure da adottare per garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro in vista della fase di riapertura delle attività produttive, prevista dal prossimo 4 maggio. Appare chiaro come si imponga la necessità di adottare misure adeguate attraverso un nuovo modello organizzativo di prevenzione partecipato per consentire un progressivo ritorno alla ripresa delle attività.

[22] Il rischio del contagio, come indicato nel documento, va valutato in considerazione di tre diverse variabili quale l’esposizione (possibilità di venire a contatto con fonti di contagio nell’espletamento dell’attività lavorativa), la prossimità (necessità di svolgere l’attività senza poter osservare il distanziamento sociale per una parte del tempo lavorativo o per la sua totalità) e l’aggregazione (tipologia di lavoro che necessità del contatto con altri soggetti oltre i lavoratori dell’azienda). Tenuto conto di tali aspetti, nel documento viene riportata una tabella con l’indicazione dei vari comparti produttivi ed il relativo rischio di contagio che viene classificato in basso, medio-alto ed alto a seconda dei casi.

[23] Non bisogna infine dimenticare che le previsioni contemplate nel Protocollo devono comunque raccordarsi con le altre disposizioni previste in materia: difatti col cd. decreto Cura Italia (D.L. 17 marzo 2020, n. 18) è stato chiarito che il contagio da coronavirus in occasione di lavoro è assimilato all’infortunio sul lavoro (art. 42, comma 2) e che il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva ovvero in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva è equiparato alla malattia ai fini del trattamento economico, pur non essendo computabile ai fini del periodo di comporto (art. 26, co. 1).

[24] Si tratta di norme generiche e programmatiche, difatti, come si è evidenziato, spetta poi alle singole aziende implementare le misure sulla base delle esigenze specifiche, predisponendo un protocollo interno che si rifaccia alle linee guide di cui al Protocollo ma che preveda anche disposizioni ad hoc.

[25] Sul punto si osserva come precedentemente era solo “consigliato” di restare a casa qualora si mostrassero tali sintomi, tuttavia, col D.P.C.M. del 26.04.2020 all’art. 1 lett. b) è stato previsto quale obbligo (“i soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37,5°) devono rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante”). Tale precauzione si rende difatti necessaria al fine di scongiurare il rischio di contagio.

[26] Occorre sottolineare come nel testo venga riportato che “il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea” tuttavia è da ritenersi che la rilevazione non sia meramente eventuale bensì che la discrezionalità riguardi soltanto le modalità applicative, fermo restando l’obbligo di verificare che l’accesso sia consentito soltanto a lavoratori con temperatura corporea inferiore a 37,5°.

[27] A tal proposito il protocollo sottolinea come la rilevazione in tempo reale della temperatura corporea rappresenti un trattamento di dati personali e che pertanto sia opportuno rifarsi alla della disciplina privacy vigente. Le indicazioni fornite suggeriscono di non registrare i dati raccolti e di fornire l’informativa sul trattamento dei dati personali (che può essere fornita anche oralmente) e per quanto concerne la “finalità del trattamento dei dati” occorre far riferimento alla prevenzione dal contagio da COVID-19 (riportandosi alla normativa prevista per l’implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio ai sensi dell’art. art. 1, n. 7, lett. d) del DPCM 11 marzo 2020 e con riferimento alla durata dell’eventuale conservazione dei dati si può far riferimento al termine dello stato d’emergenza). Ovviamente è opportuno definire adeguati sistemi di sicurezza per proteggere i dati nonché individuare i soggetti preposti al trattamento (il responsabile del trattamento). Infine si evidenzia come i dati raccolti non vadano diffusi né comunicati a terzi se non nei casi espressamente previsti dalla normativa (es. in caso di richiesta da parte dell’Autorità sanitaria per la ricostruzione della filiera degli eventuali “contatti stretti di un lavoratore risultato positivo al COVID-19). Infine, è necessario che qualora al momento della misurazione della temperatura il soggetto superi la soglia prevista (segnatamente di 37,5°), si deve sì procedere all’isolamento momentaneo (e contattare il medico e seguire le istruzioni di quest’ultimo) ma bisogna sempre garantire sia la riservatezza che la dignità del lavoratore); le medesime garanzie devono essere assicurate anche nell’ipotesi in cui il lavoratore comunichi al responsabile di aver avuto contatti con soggetti infetti o  qualora mostri i sintomi durante l’attività lavorativa.

[28] Le operazioni di sanificazione ed igienizzazione vanno condotte secondo le disposizioni della circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute.

[29] E’ stato precisato che nelle aree geografiche a maggiore endemia o nelle aziende in cui si sono registrati casi sospetti di COVID-19, in aggiunta alle normali attività di pulizia, è necessario prevedere, alla riapertura, una sanificazione straordinaria degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni, ai sensi della circolare 5443 del 22 febbraio 2020.

[30] Con il D.L. Cura Italia (d.l. n. 18/2020) sono state previste delle incentivazioni, sotto forma di contributo, a favore delle imprese per l’acquisto di dispositivi e degli altri strumenti di protezione individuale (art. 43) nonché delle agevolazioni per le spese di sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro (art. 63) con il riconoscimento di un credito d’imposta.

[31] Dal 4 maggio ha inizio la “fase 2” ossia la fase di convivenza col virus ed in tale ottica col D.P.C.M. del 26.04.2020 è stato disposto la necessità di adoperare protezioni delle vie respiratorie, oltre che mantenere la distanza di almeno1 mt (art. 1 lett. a). Appare chiaro come nell’ottica di questa nuova fase sia infatti fondamentale adottare tutte le cautele per limitare la possibilità di contagio: qualora non si possa rispettare la regola del distanziamento appare ancor più importante l’utilizzo dei DPI.

[32] Ai fini del mantenimento del distanziamento sociale, laddove sia possibile, i lavoratori che possono operare autonomamente e senza la necessità di peculiari strumenti, possono essere temporaneamente disposto in spazi diversi (es. uffici e sale riunioni inutilizzati); è anche possibile, sempre al fine di garantire il rispetto delle distanze necessarie, prevedere una rimodulazione degli orari con orari differenziati così da ridurre il numero di presenze sul luogo di lavoro. Il distanziamento sociale va osservato anche nel “raggiungimento del luogo di lavoro” e pertanto vanno incentivate forme di trasporto che consentano il distanziamento tra viaggiatori, favorendo l’uso del mezzo privato o di navette.

[33] A tal proposito si ritiene d’uopo evidenziare come la promozione del godimento delle ferie si riferisca alle ferie “già maturate” (per cui, ad esempio, sono escluse le ferie estive per le quali invece è richiesto necessariamente il consenso del lavoratore). Sull’utilizzo delle ferie si registra la pronuncia del Tribunale di Grosseto (del 23.04.2020) che ha precisato “La promozione del godimento delle ferie appare, del resto, una misura comunque subordinata – o quantomeno equiparata, non certo primaria – laddove vi siano possibilità di ricorrere al lavoro agile ed il datore di lavoro privato vi abbia fatto ricorso (..) [Il datore di lavoro] ha inteso indurlo a far ricorso anche a ferie non ancora maturare, a volere quindi sul monte futuro. Il che, non solo non trova fondamento normativo alcuno, ma si profila, già in astratto, contrario al principio generale per cui le ferie (maturate) servono a compensare annualmente il lavoro svolto con periodi di riposo, consentendo al lavoratore il recupero delle energie psicofiscihe e la cura delle sue relazioni affettive e sociali, e pertanto maturano in proporzione della durata della prestazione lavorativa”.

[34] Appare opportuno porre in risalto come, soprattutto nella fase 1 dell’emergenza, si sia riscoperto uno strumento spesso sottovalutato quale lo smart working che rivestirà un ruolo di rilievo anche nel proseguo dell’emergenza tanto è vero che il ricorso al lavoro agile continua a dover essere preferito laddove possibile.

[35] A tal proposito è bene richiamare la circolare emessa dal Ministero della Salute (n. 14915 del 29.04.2020) che fornisce delle indicazioni operative in merito al ruolo del medico competente che “risulta di primo piano nella tutela della salute e sicurezza sul lavoro nell’ordinarietà dello svolgimento delle attività lavorative, esso si amplifica nell’attuale momento di emergenza pandemica, periodo durante il quale egli va a confermare il proprio ruolo di “consulente globale” del datore di lavoro”. Viene specificato come nel delicato contesto di riavvio dell’attività produttiva sia opportuno che il medico collabori col datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione della valutazione dei rischi, fornendo il proprio contributo nella predisposizione delle misure di protezione necessarie per la tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori. Il fondamentale contributo del medico competente si esplica nel supporto al datore di lavoro di misure ed azioni che “andranno ad integrare il DVR, atte a prevenire il rischio da infezione SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro contribuendo, altresì, alla prevenzione della diffusione dell’epidemia”.

[36] Il Protocollo deve essere adottato dal Comitato aziendale che si compone del datore di lavoro, medico competente, RSL, RSPP e RSA/RSU.

[37] Sul punto si rimarca come rivesta tale ruolo ai sensi dell’art. 28 del GDPR nella sua qualità di libero professionista in relazione ai dati comuni dei lavoratori che gli vengono trasmessi dal datore di lavoro o per effetto dell’art. 29 del GDPR nel caso in cui sia autorizzato al trattamento in qualità di dipendente.

[38] Tale norma prevede l’atto di nomina del responsabile del trattamento dei dati con cui il soggetto titolare dei dati (nel caso in esame, il datore di lavoro) designa il responsabile affinché svolga le attività correlate alla finalità del trattamento. Al comma 3 viene sancito come tali “trattamenti da parte di un responsabile del trattamento sono disciplinati da un contratto o da altro atto giuridico a norma del diritto dell'Unione o degli Stati membri, che vincoli il responsabile del trattamento al titolare del trattamento e che stipuli la materia disciplinata e la durata del trattamento, la natura e la finalità del trattamento, il tipo di dati personali e le categorie di interessati, gli obblighi e i diritti del titolare del trattamento” e viene indicato anche il contenuto che deve avere tale atto di nomina.

[39] Ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. m) del D. Lgs. n. 81 del 2008 si definisce “«sorveglianza sanitaria» l’insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa”.

[40] L’art. 17 bis della l. n. 27 del 2020 (legge di conversione del D.L. n. 18 del 2020) stabilisce che, fintanto che perduri lo stato di emergenza i soggetti operanti nel servizio sanitario nazionale della protezione civile, gli uffici del Ministero della salute e tutti i soggetti deputati al monitoraggio delle misure disposte ex art. 2 del D.L. n. 19 del 2020 possono effettuare i trattamenti dei dati che “risultino necessari all’espletamento delle funzioni ad esse attribuite nell’ambito dell’emergenza determinata dal diffondersi del COVID-19”; per tali soggetti viene anche prevista la possibilità ,“al fine di contemperare le esigenze di gestione dell’emergenza sanitaria in atto con quella afferente alla salvaguardia della riservatezza degli interessati”, di poter omettere l’informativa di cui all’art. 13 del Regolamento UE 679/2016 o fornire un’informativa semplificata. Viene precisato che, fuori da tale ipotesi, i trattamenti dei dati siano effettuati nel rispetto dei principi di cui al GDPR.

[41] Con il provvedimento n. 146 del 5 giugno 2019, il Garante della Privacy ha predisposto un documento in cui ha indicato gli obblighi connessi al trattamento dei dati personali (come quelli inerenti lo stato di salute) e, in particolare, l’allegato 1 contiene le “Prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati nei rapporti di lavoro (aut. gen. n. 1/2016)” in cui sono previste anche le modalità del trattamento.

[42] La nota n. 149 del 20 aprile è stata poi aggiornata il 27 aprile in considerazione dell’adozione del Protocollo del 24.04.

[43] Tale previsione ha sostituito la sanzione penale per inosservanza della norma dei provvedimenti dell’autorità di cui all’art. 650 c.p. inizialmente previsto ad opera dell’art. 3 comma 4 del D.L. n. 6 del 2020. In un’ottica di prevenzione si è infatti riscontrato come la minaccia di una sanzione amministrativa pecuniaria risultasse un deterrente più efficace rispetto alla minaccia di una sanzione penale.

[44] Nella succitata circolare del 02.05.2020 emessa dal Ministero dell’Interno viene precisato che “nella successiva fase di adozione del provvedimento sanzionatorio di competenza del prefetto, ai sensi della legge 24 novembre 1981, n.689, tale periodo di chiusura provvisoria dovrà essere scomputato dalla durata della sanzione inflitta.”

[45] Contenute nel d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, all' art. 10, nel d.l. n. 19 del 25 marzo 2020, all' art. 1, comma 2, lett. z, nel d.l. n. 23 dell'8 aprile 2020 agli artt. 30 (relativo ai crediti d'imposta per acquisto dei DPI) e 39 (relativo a procedure semplificate per le pratiche e attrezzature medico-radiologiche); nel D.P.C.M. dell'11 marzo 2020, all'art. 1, comma 1, n. 7), nel Protocollo del 14 marzo 2020 condiviso e stipulato tra le parti sociali , con s.m.i. 24.04.2020 e confluito nel dpcm 26.04.2020.

[46] A tale proposito si specifica che l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) ha pubblicato in data  30/04/2020 l'orientamento della UE su come adeguare i luoghi di lavoro e proteggere i lavoratori, in vista della ripresa delle attività lavorative. In particolare il documento “COVID-19: back to the workplace - Adapting workplaces and protecting workers” curato da William Cockburn ha fornito le indicazioni per la valutazione dei rischi e le misure collettive di sicurezza. Pur non essendo un documento vincolante, assume rilevanza in quanto offre direttive generale sulle quali gli stati possono soffermarsi per operare le più opportune valutazioni dei rischi. In particolare il documento contiene consigli in merito a: valutazione del rischio e misure adeguate, riduzione al minimo dell’esposizione a COVID-19, ripresa del lavoro dopo un periodo di chiusura, gestione di un alto tasso di assenze e telelavoro, coinvolgimento dei lavoratori, attenzione nei confronti dei lavoratori che sono stati malati, pianificazione e apprendimento per il futuro, nonché una buona informazione in materia COVID-19.

[47] Cfr. D. CALAFIORE, La sicurezza nei luoghi di lavoro tra disciplina dell'emergenza da Covid 19 e disciplina ordinaria, ISSN 2420-9651, giustiziacivile.com, Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A., editoriale n.4/2020, 7.

[48] In argomento si veda V. AMATO, Prova liberatoria del “debito di sicurezza”, Giurisprudenza Sicurezza Sul Lavoro, Riv. Il lavoro nella giurisprudenza 10/2017.

[49] “Al fine di garantire la sicurezza dell'ambiente di lavoro, il D.Lgs. n. 626 del 1994 ha recepito una serie di direttive comunitarie finalizzate appunto, alla prevenzione ed alla protezione dell'ambiente lavorativo; ad esso va ad affiancarsi l'art. 2087 c.c. che in maniera sistematica ma molto chiara, individua tra i doveri propri del datore di lavoro, l'eliminazione dei rischi alla fonte, l'aggiornamento continuo delle misure di prevenzione e la tutela della personalità fisica e morale del lavoratore. Al primo posto del catalogo delle misure di prevenzione di cui all'art. 3 del D.Lgs. innanzi citato si pone, dunque, il dovere di valutazione dei rischi, quale dovere specifico e non delegabile del datore di lavoro. Ad esso si affianca poi, il dovere di formazione ed informazione dei lavoratori nonché la costante vigilanza sanitaria all'interno dell'azienda, richiedendosi, ai lavoratori, l'osservanza delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e l'uso dei mezzi di protezione collettiva e dei dispositivi individuali"  (Tribunale Taranto Sez. II, 13/08/2012).

[50] Ed il contenuto del predetto obbligo, ricordano gli ermellini non si esaurisce nell’adozione di misure igienico-sanitarie o antinfortunistiche ma attiene, soprattutto, alla predisposizione di misure idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori da eventuali lesioni della loro integrità psico-fisica. Si veda Cassazione civile sezione lavoro 21 aprile 2017 n.10145.

[51] In tema di Dispositivi di protezione individuale (DPI), si specifica che tale categoria: “deve essere definita avendo riguardo alla "concreta finalizzazione" delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza, tenuto conto della effettiva attività compiuta. Ne discende l'irrilevanza (ai fini qualificatori) del mancato inserimento dello specifico dispositivo di sicurezza tra quelli individuati dalla contrattazione collettiva o dal Documento Valutazione Rischi nonché della circostanza che l'attrezzatura non sia appositamente creata e commercializzata per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate. In alcuni casi gli indumenti costituiscono DPI con conseguente obbligo del datore di lavoro di provvedere al lavaggio ed alla manutenzione degli stessi”. Cit. Cass. Civ. Sez. lavoro Ord., 16/12/2019, n. 33133.

[52] Cassazione civile sezione lavoro 28 febbraio 2012 n.3033.

[53] In questo caso, dunque, la prova liberatoria a carico del datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore: insussistenza dell’inadempimento, in relazione a quella stessa misura di sicurezza (o di prevenzione) e del nesso eziologico tra il predetto inadempimento e il danno.

[54] Cass. civ. Sez. lavoro, 18/11/2019, n. 29879 cit : “In tema di tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro, la mancata adozione di adeguati mezzi di tutela dell'integrità psico-fisica del dipendente comporta la responsabilità del datore di lavoro, anche nel caso in cui l'omissione riguardi le c.d. «misure innominate», ossia quelle che, pur non espressamente imposte dalla legge, siano comunque richieste dall'esistenza di condizioni di lavoro obiettivamente - ancorché solo potenzialmente – pericolose”.

[55] Cfr. V. AMATO, Prova liberatoria del “debito di sicurezza”, Giurisprudenza Sicurezza Sul Lavoro, Riv. Il lavoro nella giurisprudenza 10/2017, 884.

[56] A tal proposito risulta dirimente il chiarimento operato dal legislatore con la Legge n. 40 /2020 di conversione del D.L. n.23/2020 c.d. Decreto Legge Credito all’art. 29 bis nel quale viene specificato che l’adozione delle misure indicate nei protocolli condivisi di settore, rappresenta adempimento dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.. Il legislatore ha però escluso che, rispetto al rischio di contagio da COVID-19, il datore di lavoro sia tenuto ad adottare anche le c.d. misure innominate, ovvero misure diverse da quelle previste dai Protocolli anticontagio.

[57] Si vedano in argomento recente giurisprudenza di legittimità Cfr. Cass., Sez. lav., 4 dicembre 2013, n. 27127 in Pluris; Cass. Pen. 31 gennaio 2012, n. 3983 in Pluris; Cass., Sez. lav., 12 gennaio 2002, n. 326, in Mass. Giur. it., 2002; Cass., Sez. lav., 8 aprile 2002, n. 5024 in Pluris; Cass., Sez. lav., 20 giugno 2002, n. 9016 in Pluris; Cass., Sez. lav., 26 giugno 2002, n. 9304 in Pluris; Cass., Sez. lav., 26 ottobre 2002, n. 15133 in Pluris; Cass., Sez. lav., 17 febbraio 2003, n. 2357 in Pluris; Cass., Sez. lav., 7 aprile 1992, n. 4227 in Pluris , nonché recente la dottrina (12) Cfr T. FEOLA - A. DI CORATO - R. CASTRICA, Infortuni in itinere. Aspetti medico-legali: norma, giurisprudenza e dottrina, Milano, 2010 247; G. MARANDO, Il sistema vigente del diritto della sicurezza del lavoro, Milano, 2006, 297 ss.; A. F. MORONE, Delega di funzioni, comportamento negligente del lavoratore infortunato e responsabilità del datore di lavoro, in Giur. it., 2009, 443 ss.

[58] Corte di Giustizia UE 15 novembre 2001, causa 4920000; da ultimo Cass. Pen., Sez. IV, 27 gennaio 2016, n. 3616, in Pluris;  sull’argomento si vedano  inoltre M. LAI, Il diritto della sicurezza sul lavoro tra conferme e sviluppi, Torino, 2017, 14 ss.; R. GUARINIELLO, Il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, in ISL, 1997, 339 ss.; F. BACCHINI, La tutela delle condizioni di lavoro, l’art. 2087 c.c., l’obbligo della massima sicurezza tecnologicamente possibile, l’autotutela, l’obbligo di diligenza del prestatore di lavoro, in ISL, n. 10, 2001,8.

[59] Sull’argomento Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 21/06/2019, n. 16749 (rv. 654359-01) : In tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c.; ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I.

[60] Cfr. V. AMATO, Prova liberatoria del “debito di sicurezza”, Giurisprudenza Sicurezza Sul Lavoro, Riv. Il lavoro nella giurisprudenza 10/2017, 885-886.

[61] Cassazione Civile, Sez. lav., 21 aprile 2017, n. 10145.

[62] Cfr. V. AMATO, Prova liberatoria del “debito di sicurezza”, Giurisprudenza Sicurezza Sul Lavoro, Riv. Il lavoro nella giurisprudenza 10/2017, 881.

[63] sul tema cfr. L. LORENZON (a cura di), Impatto del Covid-19 sulla compliance aziendale: spunti in tema di responsabilità ex D.Lgs. 231/2001, in Ius in itinere, 2020.

[64] adottati ai sensi del Decreto Legislativo n. 231/2001 c.d. Modelli 231

[65] Pubblicato in data 27 aprile 2020 il documento analizza il rapporto tra il rischio epidemiologico e l’attuazione dei modelli di organizzazione ai sensi del D.l.gs 231/2001 e fornisce indicazioni operative ai professionisti componenti di Organismi di Vigilanza tenuti a monitorare la corretta attuazione dei Modelli di Organizzazione.

[66] Sul tema si veda A. DALLA LIBERA, S. DRAGO, E. BARBIANI, Il rischio da Covid-19 come "rischio di impresa”, pubbl. su www.AODV231.it , Associazione dei Componenti degli Organismi di Vigilanza ex D.Lgs. 231/2001, 11 maggio 2020.

[67] E’ proprio il citato decreto che contempera i reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, di cui all’art. 25–septies tra il novero dei reati presupposto.

[68] Cfr. M. LAVINI, Il reato di epidemia rientra nel novero dei reati presupposto di cui al D.Lgs. 231/2001?, pubbl. in Riv. IUS IN ITINERE, ISSN 2611-3902, 28.04.2020.

[69] Cass. Pen. Sez. IV, sentenza n. 9133, 12 dicembre 2017.

[70] autorevole giurisprudenza (Cass. Pen., Sez. I, 12 dicembre 2017, n. 9133) sostiene che non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione per il delitto di epidemia, in quanto è lo stesso reato che richiede una condotta commissiva a forma vincolata.

[71] Si veda Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 48014, 26 novembre 2019 e Cass. Pen. Sez. IV, sentenza n. 9133, 12 dicembre 2017.

[72] Si pensi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, ai costi relativi alla sanificazione degli ambienti o alla gestione degli spazi comuni (come le mense) ma, soprattutto, alla presenza di un medico ed ai controlli della temperatura da dover effettuare all’ingresso o comunque tutte le espresse previsione come da Protocollo anticontagio covid.

[73] In riferimento al dovere di aggiornamento del DVR si veda Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 24/06/2019, n. 16835 (rv. 654360-01) per cui “grava sul datore di lavoro l'onere probatorio circa l'effettuato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi, correlato ad adeguamenti necessari in ragione di mutamenti dell'organizzazione aziendale; tuttavia, avvenuta la produzione del documento in questione da parte del datore di lavoro, è onere del lavoratore allegare, in primo grado anche in replica alla produzione avversaria, gli elementi da cui desumere l'inadeguatezza di tale documento, costituente fatto costitutivo della domanda.” .

[74]  In merito alla definizione dei dispositivi di protezione individuale (DPI), questa deve essere effettuata “avendo riguardo alla "concreta finalizzazione" delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza, tenuto conto della effettiva attività compiuta. Ne discende l'irrilevanza (ai fini qualificatori) del mancato inserimento dello specifico dispositivo di sicurezza tra quelli individuati dalla contrattazione collettiva o dal Documento Valutazione Rischi nonché della circostanza che l'attrezzatura non sia appositamente creata e commercializzata per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate. In alcuni casi gli indumenti costituiscono DPI con conseguente obbligo del datore di lavoro di provvedere al lavaggio ed alla manutenzione degli stessi.” Cfr. Cass. Civ. Sez. Lavoro Ord., 16/12/2019, n. 33133.

[75] L’art. 267 del succitato T.U., riporta le definizioni di agente biologico, di microrganismo e di coltura cellulare.  L’art. 268 invece riporta un sistema di classificazione degli agenti biologici definiti per “gruppo”: agente biologico del gruppo 1: presenta poche probabilità di causare malattie in soggetti umani; agente biologico del gruppo 2: può causare malattie in soggetti umani e costituire un rischio per i lavoratori; è poco probabile che si propaghi nella comunità; sono di norma disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche; agente biologico del gruppo 3: può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori; l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche; agente biologico del gruppo 4: può provocare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori e può presentare un elevato rischio.

[76] La definizione normativa di “rischio biologico in ambiente di lavoro”, viene riportata al D. Lgs. n. 81 del 2008, nello specifico il Titolo X, e viene identificato con “la determinazione del rischio di esposizione ad agenti biologici e con la conseguente strategia di prevenzione che richiede specifiche misure di protezione.” Per una mappatura dell’esposizione professionale ad agenti biologici nel contesto produttivo nazionale, si rinvia a A. SCARSELLI, D. DI MARZIO, P. TOMAO, N. VONESCH, Rischio biologico nei luoghi di lavoro: un’indagine conoscitiva a partire dal registro INAIL dei lavoratori esposti, in “Rivista degli infortuni e delle malattie professionali”, n. 2/2014, p. 421 ss.

[77] Per una catalogazione dei rischi esogeni all’attività imprenditoriale, si veda F. BACCHINI, Attività criminosa di terzi e attentati terroristici: valutazione e gestione dei cc.dd. “rischi security”, in “Il lavoro nella giurisprudenza”, 2016, 6, p. 546 ss.

[78] Cfr: L.M. PELUSI, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Riv. DSL Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 2/2019, 126.

[79] Cfr: L.M. PELUSI, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Riv. DSL Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 2/2019, 126, si veda nota n. 14 Cit. Per una compiuta analisi critica dell’applicazione del criterio dell’aumento del rischio proprio nel diritto penale del lavoro, si veda C. PIERGALLINI, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di “diritto penale del rischio”, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, fasc. 4, 1997, p. 1447 ss. Più in generale, sull’aumento del rischio come criterio per l’imputazione colposa omissiva, cfr. M. DONINI, La causalità omissiva e l'imputazione “per l’aumento del rischio”. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1999, p. 32 ss.; F. STELLA, Giustizia e modernità. La posizione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, Giuffrè, 2003, p. 212; G.A. DE FRANCESCO, L’imputazione del reato e i tormenti del penalista, in Scritti per Federico Stella, I, Napoli, Jovene, 2007, p. 527.

[80] Il ruolo degli Organismi di Vigilanza sarà primario, dovendo questi assicurare l’intensificazione dello scambio tempestivo dei flussi informativi reciproci con l’organo direttivo e gli altri soggetti deputati alla gestione del rischio, nonché promuovere apposite verifiche straordinarie sull’idoneità preventiva delle misure adottate in materia di salute e sicurezza sul lavoro. 

[81] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. n. 3731, anno 2020.

[82] Cfr: D. FRICCHIONE, Incompatibilità tra DVR e MOGC231. Responsabilità dell’ente in materia antinfortunistica, nota a cassazione penale, sez. iv, sentenza n. 3731, anno 2020 (data udienza 07/11/2019) presidente Fumu, relatore Cenci, in Riv. Scuola giuridica salernitana pubbl. 22 aprile 2020. L’autore riporta in materia di autonomia ed indipendenza delle nozioni di interesse e vantaggio nei reati colposi di evento con riguardo alle norme antinfortunistiche come la Corte abbia definito le stesse non costituenti un’endiadi “bensì requisiti alternativi e concorrenti”.  Secondo pacifico orientamento dottrinale, citato dall’autore, “il requisito dell’interesse” dell’ente ricorre quando la persona fisica, pur non volendo cagionare l’evento morte o lesione del lavoratore – avuto riguardo ai reati colposi di evento richiamati dall’art. 25-septies del D.lgs. 231/2001 – agisce allo scopo di rendere un’utilità economicamente apprezzabile alla persona giuridica”, mentre invece  “il requisito del ”vantaggio” per l’ente quando la persona fisica viola sistematicamente le norme antinfortunistiche, realizzando concretamente l’utilità economica consistente nella minimizzazione dei costi d’impresa e nella massimizzazione del profitto ricavabile”. Pertanto, sussiste interesse dell’ente in caso di omessa predisposizione dei sistemi di sicurezza a favore di un potenziale vantaggio economico (riduzione dei costi d’impresa), mentre si configura vantaggio dell’ente qualora la mancata osservanza della normativa precauzionale determini un concreto ed effettivo aumento della produttività.

[83] Cit. D. FRICCHIONE, Incompatibilità tra DVR e MOGC231. Responsabilità dell’ente in materia antinfortunistica, nota a cassazione penale, sez. iv, sentenza n. 3731, anno 2020 (data udienza 07/11/2019) presidente Fumu, relatore Cenci, in Riv. Scuola giuridica salernitana pubbl. 22 aprile 2020

[84] I chiarimenti in oggetto riguardano l’applicazione e l’interpretazione delle disposizioni contenute nel Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19” - Articolo 42, comma 2, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27.

[85] Si legge nella circolare n. 22 del 20.05.2020 dell’INAIL: “Il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero. Circostanza questa che ancora una volta porta a sottolineare l’indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario.

[86] Cit. Corte di Cass. Sez. Civ.  n.3282/2020.

[87] Nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei Protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14, del Decreto Legge 16 maggio 2020, n. 33.