ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mar, 9 Giu 2020

Gli atti preparatori del reato e il delitto tentato

Modifica pagina

Domenico Chirumbolo



Per la configurabilità del tentativo, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l´agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l´azione abbia la significativa probabilità di conseguire l´obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo. (Cass. 11 dicembre 2019, n. 60)


ENG The work analyzes the discipline of the anticipatory techniques of the criminal action, the law of the attempted crime, its structure and the essential elements. Then, it examines the preparatory acts and the characteristics required by law in order to criminalize them. Finally, analyze a judgment of the Supreme Court.

Sommario: 1. Le tecniche anticipatorie dell’azione penale. - 2. Il delitto tentato. - 3. La struttura del delitto tentato. - 4. Il momento iniziale della punibilità. - 5. Gli atti preparatori nel codice penale italiano. – 6. Il requisito dell’idoneità degli atti. – 7. Il requisito della non equivocità degli atti. - 8. Nota sentenza Cassazione Penale - Sez. IV, n. 60 del 11.12.2019 (dep. 03.01.2020).

1. Le tecniche anticipatorie dell’azione penale

La punibilità degli atti preparatori nell’ambito penalistico è argomento tutt’altro che pacifico, e nel tempo ha generato divergenze sia in ambito dottrinale che di applicazione giurisprudenziale.

Invero, sussistevano tecniche anticipatorie dell’azione penale già nel 1930, in cui si erano strutturate un serie di regole per mezzo delle quali si ricollegava un potenziale illecito ad azioni, di fatto, prodromiche all’effettiva lesione del bene giuridico tutelato.

Ovviamente siffatta disciplina si conciliava alla perfezione con il sistema giuridico del tempo, ma al contrario con l’avvento della Repubblica, e dunque, con l’introduzione della Costituzione, sorgevano una serie di incompatibilità fra tali tecniche, cosi per come impostate, e le norme costituzionali. Talché, per poterle mantenere vigenti, è divenuto doveroso ricollegarle a dei principi specifici: ossia il principio di offensività, precauzione, ragionevolezza e proporzione[1].

Ordunque si ravvisa nel nostro ordinamento una duplicità di tecniche atte al fine di cui sopra, ossia una normativa generale che regola il delitto tentato, ed una normativa di parte speciale, che deroga alla disciplina precedentemente citata.

Ciò non toglie che la punibilità di atti meramente prodromici alla realizzazione di una condotta delittuosa, genera una forma di squilibrio del rapporto tra elemento oggettivo e soggettivo della fattispecie di riferimento, contrastando con dei principi cardine che la dottrina ricollega alla struttura del reato[2].

2. Il delitto tentato.

Il delitto tentato, nonché la relativa punibilità è disciplinata dal codice penale all’art. 56. La normativa dunque, attua una funzione estensiva della tipicità, rendendo sanzionabili condotte che nel concreto si sono rivelate incapaci di portare a termine l’evento dannoso ricollegato al reato principale[3], comportando di fatto un anticipazione della soglia di punibilità, che invero è la ragion d’essere della stessa normativa, volta ad ampliare la tutela di interessi giuridici rilevanti dal punto di vista penale, e contemporaneamente escludere la configurabilità del tentativo per i reati meno gravi[4].

Meno pacifica è la quaestio relativa alla ratio della sanzionabilità anticipata, che soggiace a tre principali filoni ideologici, quello soggettivista, quello oggettivista e quello misto.

Il primo afferma quale ragione dell’incriminazione della condotta tentata, la volontà del soggetto attivo di non rispettare le leggi[5], nonché la pericolosità sociale di quest’ultimo.

Il secondo, al contrario,  tratta la ragione della punibilità, non con riguardo alla volontà a delinquere, bensì ponendo l’attenzione sul rischio patito dal bene giuridico tutelato dalla legge. Sicché, la condotta assume rilevanza penale, esclusivamente quanto mette in pericolo il bene oggetto di tutela.

In altre parole, secondo tale teoria, il tentativo si differenzia dal delitto, in base al livello di consumazione della condotta illecita operata dal soggetto agente.

In relazione alla terza teoria, ovvero la cd. mista (anche denominata teoria eclettica), questa giustifica l’anticipazione della punibilità, mettendo assieme sia i fattori soggettivi che oggettivi[6], affermando la punibilità del tentativo, solo qualora sussistano, in concomitanza, non solo il rischio per il bene giuridico tutelato, ma anche la volontà delittuosa dell’agente.

Si evidenzia che tra le tre teorie, quella predominante è l’oggettivista.

Invero, a parere di chi scrive, tale scelta è opinabile, giacché, ancorare la sanzionabilità anticipata di una condotta al dato esclusivamente oggettivo, considerando in modo marginale il dato volitivo, comporterebbe una forma di sbilanciamento notevole tra l’elemento soggettivo ed oggettivo del reato. Sicché, il primo diverrebbe quasi inutile al fine della configurabilità. Al contrario è proprio dall’elemento volitivo che dovrebbe scaturire un eventuale punibilità anticipata, giacché la mancanza di volontà di commettere un azione delittuosa - che in taluni casi, addirittura, rappresenta esimenti - non può non essere tenuta in considerazione, nella valutazione della punibilità di una condotta, che di fatto neppure porta a termine il reato. Giova ricordare che il dato volitivo, invece, è espressamente previsto dal legislatore, che addirittura negli ultimi due commi dell’art. 56 c.p., lo considera elemento fondamentale al fine della desistenza e dell’impedimento[7].

Viepiù, è pacifico che non possa sussistere responsabilità penale, nella forma del tentativo, per un reato colposo; sicché la teoria oggettivista stride con il principio giuridico appena espresso. Talché, ancorando la punibilità al dato oggettivo, a discapito di quello soggettivo, si potrebbe generare una possibile estensione del tentativo, di cui all’art. 56 c.p., anche ai reati colposi[8].

Alla luce di ciò, considerando i numerosi vulnus, si potrebbe auspicare ad una rivalutazione della teoria eclettica, che parrebbe più conforme ai principi fin ora espressi.  

3. La struttura del delitto tentato.

Per ciò che attiene la ratio normativa, come è stato anticipato, è rappresentata dall’estensione della tipicità, cosicché si possano qualificare come reati, nella forma del tentativo, condotte che, senza la previsione dell’art. 56 c.p., non oltrepasserebbero la soglia della rilevanza penale, in quanto è totalmente assente, in concreto, la lesione del bene giuridico[9].

Giova sottolineare che il delitto tentato costituisce una fattispecie autonoma rispetto a quello consumato.

Ovviamente siffatta normativa deve attuare un bilanciamento tra la tutela dell’interesse ad oggetto ed i diritti individuali costituzionalmente garantiti. Ordunque, è di fondamentale importanza determinare il momento iniziale in qui la condotta assume rilevanza dal punto di vista penale. Sicché, è essenziale la sussistenza concomitante sia degli elementi oggettivi che di quelli soggettivi[10].

In relazione all’elemento soggettivo, per l’integrazione della condotta ex art. 56 c.p., è necessario il dolo della consumazione[11]. Va evidenziato come tale orientamento non sia univoco, parte della dottrina, seppur minoritaria, ricomprende nell’elemento soggettivo anche il dolo eventuale. Viepiù, tale orientamento è stato affermato anche in giurisprudenza, la Suprema Corte a sezioni unite, ha affermato che il “dolo eventuale è ipotizzabile in caso di reato tentato, che si esteriorizza, rispetto al reato consumato, soltanto in un’entità ridotta perché priva dell’evento o della parte finale dell’azione”[12]

Per ciò che attiene l’elemento oggettivo, è essenziale che le azioni poste in essere siano idonee ed coerenti alla realizzazione del disegno criminoso[13]. Invero, lo stesso tenore letterale della norma attua una differenziazione dell’azione, che amplia il contenuto dell’elemento oggettivo, ossia la distinzione tra tentativo compiuto ed incompiuto. Ove nel primo caso, l’agente realizza l’azione dalla quale però non scaturisce l’evento dannoso, nel secondo caso, invece, l’azione non viene portata a compimento, a causa dell’intromissione di fattori estranei alla volontà dell’agente. Siffatta separazione ha un fine esclusivamente dottrinale, giacché dal punto di vista giuridico è indifferente, avendo la norma voluto applicare il medesimo sistema sanzionatorio[14], ad entrambe le fattispecie.

In merito alla natura del reato, anche in tal caso, non vi è univocità nelle tesi dottrinali, alcuni lo ritengono “di danno” altri “di pericolo”, altri ancora ritengono abbia una duplice natura di danno e di pericolo. Probabilmente la natura di pericolo potrebbe essere più adatta, identificandola nel “pericolo per il bene giuridico tutelato”. Ma le perplessità rimangono molteplici.

4. Il momento iniziale della punibilità.

Come si è detto, assurge come elemento predominante per determinare la punibilità di una condotta a titolo di tentativo, l’individuazione del momento iniziale, in cui l’azione oltrepassa la soglia della rilevanza penale.

Ordunque, a tal fine è necessario attuare una dissezione in fasi della condotta criminosa. Siffatte, sono identificate dalla dottrina predominante, in: ideazione, preparazione, esecuzione e consumazione. Si può affermare pacificamente che la sola prima fase non possa essere rilevante dal punto di vista penale, per il principio cogitationis poenam nemo patitur[15], dal quale discende quello di “materialità del diritto penale”. Sicché, la mera idea di compiere un delitto senza attuare le azioni successive, non può comportare una pena. Dunque, tale fase viene presa in considerazione solo per stabilire, nell’eventualità del compimento del delitto, l’intensità del dolo.

La seconda fase, quella della preparazione, non è sempre presente, ma vi è solo in quei delitti per il quale è necessaria un’attività prodromica complessa per la realizzazione. Non è pacifico in dottrina se tale fase sia penalmente rilevante o meno. Segue la fase dell’esecuzione, ossia quella il cui il soggetto attivo da inizio alla condotta che dovrebbe generare il delitto. Il corretto svolgimento della testé citata fase da luogo all’ultima, ossia la consumazione. Il reato si dice consumato quando la fattispecie concreta presenta tutti gli estremi richiesti dalla fattispecie astratta.

Rebus sic stantibus, per identificare la parte dell’iter criminis penalmente rilevante al fine della punibilità nella forma del tentativo, è necessario prendere in considerazione le azioni comprese tra la fine della fase preparativa e la fine di quella esecutiva.

Se appare pacifico che sono esclusi dalla sanzionabilità a titolo di tentativo, sia la fase di ideazione che di consumazione, vi sono forti perplessità in merito alla punibilità della fase preparativa[16].

Talché, una quaestio cosi rilevante, circa quanto appena detto, rende di assoluta complicatezza stabilire con precisione il momento iniziale della punibilità, stridendo fortemente con il principio costituzionale di tipicità e legalità, nonché determinatezza e tassatività[17].

5. Gli atti preparatori nel codice penale italiano

Nell’ordinamento italiano. la determinazione del momento iniziale della punibilità a titolo di tentativo, è fortemente ancorata alla disciplina di cui al comma 1 dell’art. 56 c.p.; nella parte in cui parla di “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”[18]. Il legislatore del 1930, nello strutturare cosi la norma, aveva il duplice fine di ampliare la tipicità per rendere punibile anche gli atti meramente preparatori, e cosi facendo oltrepassare la separazione tra le fasi della preparazione e dell’esecuzione. Invero, tale nuova dicitura sollevo diverse critiche in quegli anni, e la funzione che la novella si proponeva, non venne mai assolta.  

Orbene, il delitto tentato si configura, esclusivamente, qualora si concretizzi una fattispecie tipica per mezzo dell’integrazione tra la singola norma di parte speciale e la norma di parte generale. Sicché, l’azione che ha rilevanza penale è meramente quella tipicizzata[19]. Ne consegue, che l’azione de qua, è costituita, concretamente, da due elementi, ossia mezzo e scopo[20], ed il primo risulta fondamentale per individuare il momento iniziale della punibilità.

Giova evidenziare però, la sussistenza di atti che non sempre sono idonei a far scaturire una pena, ossia i cd. atti iniziali. Questi avranno rilevanza penale solo appurando la sussistenza, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, di un rapporto di immediatezza tra l’azione posta in essere e la consumazione del delitto[21].

Invero sono molteplici le teorie dottrinali che hanno ad oggetto la dissezione dell’atto in varie fasi, con il fine di stabilire la soglia della punibilità, ma tale distinzione appare, in concreto, irrilevante[22].

Dunque, attenendosi al tenore letterale della norma di cui all’art. 56 c.p., al fine di stabilire la punibilità dell’atto, è di assoluta necessità stabilire se questi è idoneo ed non equivoco rispetto al reato che si vorrebbe porre in essere. Scernendo, in tal modo, le condotte effettivamente pericolose e quello non pericolose.

6. Il requisito dell’idoneità degli atti.

Uno degli aspetti oggetto di analisi, al fine di stabilire la punibilità degli atti preparatori, come si è detto, è l’idoneità di questi ultimi.

Tale criterio funge da filtro, sicché è possibile discernere le condotte penalmente rilevanti e quelle che non lo sono, limitando in tal modo la tipicità, cosi da non estenderla indiscriminatamente a tutte le fattispecie.

In origine, si riteneva che la responsabilità penalistica fosse esclusa solo nei casi in qui il mezzo in astratto fosse viziato da una forma di inidoneità assoluta, tanto da escludere la sanzionabilità dell’atto. Viceversa qualora questi fossero posti in essere con mezzi concretamente idonei, vi era punibilità a titolo di tentativo.

Tale orientamento è stato sorpassato, giacché nel diritto attuale, nello stabilire l’eventuale punibilità, si tiene conto anche dei mezzi astratti inidonei, in quanto si ritiene che, talune volte, possano essere in grado di determinare l’evento-danno.

Giova, però, evidenziare che tale ragionamento appare pleonastico, poiché lo stesso tenore letterale della norma di cui all’art. 56 c. 1 c.p., vincola il criterio de quo, agli atti e non al mezzo, sebbene siffatta idoneità sia un concetto normativamente indeterminato.

Originariamente, si riteneva che l’atto fosse idoneo, in considerazione dell’efficienza causale di quest’ultimo di produrre l’evento dannoso[23]. Tale tesi è stata nel tempo criticata e dunque superata.

Un altro orientamento lega l’idoneità all’adeguatezza dell’atto[24]. Sicché, l’atto rispetta il requisito nel caso in cui, sulla scorta delle circostanze conosciute o conoscibili dell’agente nell’istante dell’esecuzione della condotta, questi sia consono rispetto al risultato sperato.

Anche siffatto filone di pensiero è stato oggetto di critiche, giacché tale principio tende a sovrapporre il concetto di idoneità con quello di pericolo[25].

Un terzo filone di pensiero, diversamente dal testé citato orientamento, equipara l’idoneità con il concetto stesso di pericolo[26].

Ordunque, anche in tal caso non vi è una visione univoca, in quanto un parte di dottrina lega l’idoneità all’evento in senso giuridico, altra parte all’evento in senso naturalistico. Tale distinzione non è di poco conto, giacché nel primo caso l’idoneità è strettamente legata all’offensività dell’azione, talché questa diventa elemento essenziale della fattispecie. Nel secondo caso l’idoneità è assolutamente slegata dall’offensività.

Alcuni autori, infine, hanno optato per una sorta di sintesi delle due visioni, affermando che un analisi sull’idoneità dell’atto non possa omettere di effettuare, preliminarmente, una valutazione in merito alla natura di quest’ultimo. Dunque, l’estimazione dovrebbe suddividersi in due distinti momenti, un primo in qui si giudica la natura preparatoria o esecutiva della condotta effettuata, ed un secondo in cui si effettua un analisi dell’idoneità degli atti esecutivi[27].

A tali analisi testé citate, si aggiunge un secondo esame dell’oggetto di studio, questa volta attinente al grado di idoneità dell’atto, essenziale per la soddisfazione dei requisiti di cui all’art. 56 c.p.

In merito, sono state molteplici le teorie dottrinali, che si sono concentrate su diversi principi, per stabilire il grado di idoneità. Fra queste talune hanno optato per misurare l’idoneità tramite l’inidoneità[28]. Vi è chi ha utilizzato il concetto di possibilità[29], chi quello di adeguatezza[30], altri ancora quello della probabilità.

Dunque, anche in merito a tale giudizio non vi è visione univoca, ed anzi la misurazione del grado di idoneità è elemento particolarmente complicato, specie in considerazione del fatto, che il giudizio sull’idoneità è dissimile in relazione al tentativo compiuto oppure al tentativo incompiuto[31]. Questo perché, nel primo caso l’agente ha messo a disposizione tutte le sue forze per la realizzazione dell’atto, completando la condotta, ed il delitto non si è consumato per il mero intervento di fattori esterni al soggetto attivo, per cui bisognerà valutare le potenzialità degli atti, e se questi fossero stati in grado, in mancanza dell’intervento esterno, di portare a termine il reato. Nel secondo caso, invece, la condotta non è stata completata dall’agente stesso, per cui va valutato se l’azione concretamente effettuata, sia idonea a iniziare la fase esecutiva.

7. Il requisito della non equivocità degli atti.

Preliminarmente è stato affermato che al fine di stabilire la punibilità dell’atto, ai sensi dell’art. 56 c.p., è di assoluta necessità stabilire che questi sia non equivoco, oltre che idoneo.

Siffatto elemento è stato introdotto dal potere legislativo, per oltrepassare definitivamente l’antica quaestio in merito alla natura preparatoria o esecutiva della condotte effettuate, sicché, funge da semplificatore per stabilire il momento iniziale della punibilità[32].

Dal punto di vista giurisprudenziale, tale elemento apre ad una duplice interpretazione, una di natura soggettiva e l’altra oggettiva.

Dal punto di vista soggettivo, l’elemento della non equivocità costituisce, concretamente, una necessità processuale di probare il proposito delittuoso dell’agente[33].

Sicché, l’univocità deve essere desunta esaminando gli elementi estranei alla fattispecie oggettivo-materiale del fatto[34].

Siffatta visione, invero, desta perplessità, poiché appare più coerente con i principi costituzionali quella oggettiva.

Nella visione oggettiva si sono scisse due teorie, una che parla di non equivocità assoluta ed una di non equivocità relativa.

Quella assoluta prevede che l’univocità dell’atto deve arguirsi per mezzo dell’esame della condotta, divenendo irrilevante l’elemento soggettivo[35].

Quella relativa, diversamente, prevede che la non equivocità dell’atto deve intuirsi dallo studio degli elementi oggettivo-materiali, sostenuto, nondimeno, da una esame del disegno delittuoso del soggetto attivo[36].

Nonostante la teoria oggettivista sia preferibile rispetto a quella soggettivista, non è esente da perplessità, giacché tale visione ha quale vulnus l’eccessivo ampliamento dell’area della punibilità a titolo di tentativo.

Rebus sic stantibus, la dottrina accreditata si è imposta di revisionare l’interpretazione del requisito della non equivocità, tanto da mettere in rilievo l’elemento dell’offensività[37]. Sicché, la valutazione dell’univocità avviene in termini probabilistici in relazione all’avvenimento del fine delittuoso. L’indice di probabilità si àncora strettamente alla fattispecie concreta. Appare ovvio che maggiore sarà il grado di probabilità più accrescerà l’intensità del pericolo.

Invero, neppure siffatta visione appare risolutiva dei problemi legati al requisito della non equivocità, in quanto appare ambigua. Effettivamente si opera al contempo l’esaltazione dell’offensività per mezzo della rivalutazione del pericolo, attribuendo rilievanza penale ai cd. atti pre-tipici, ampliano, in tal modo, in maniera eccessiva, l’area d’attuazione del delitto tentato, in contrasto con la stessa volontà legislativa.

Una quarta teoria afferma che per stabilire la non equivocità è necessario richiamare la teoria materiale-individuale-oggettiva[38], della quale ci si limita a dire, che sono univoci meramente gli atti, che in base al progetto del soggetto attivo, si possono reputare attigui alla condotta esecutiva del reato previsto[39].

Dal punto di vista giurisprudenziale, l’accertamento della non equivocità avviene nello stesso modo previsto per l’accertamento dell’idoneità, quindi relazionando la fattispecie astratta alla concreta. Giova precisare però, che si tratta di una valutazione assolutamente indipendente rispetto al quella dell’idoneità.

In ultimo, vi è parte degli studiosi che ritengono che siffatto secondo requisito sia da considerarsi ininfluente, in quanto soggiace ad un rapporto di secondarietà rispetto al requisito dell’idoneità. Codesti affermano che la dimostrazione del primo requisito sottende, già di per se, che la condotta sia idonea alla consumazione dell’evento dannoso, talché un giudizio addizionale sulla non equivocità appare superfluo[40].

8. Nota sentenza Cassazione Penale - Sez. IV, n. 60 del 11.12.2019 (dep. 03.01.2020)

In relazione a quanto trattato fin ora, per meglio comprendere l’applicazione dell’arte dal punto di vista giurisprudenziale, si propone tale nota alla sentenza di cui sopra.

Il fatto. I coimputati del procedimento penale di cui in sentenza, a fronte di un imputazione che gli addebitava i reati di tentato furto e porto ingiustificato di arnesi atti allo scasso, dopo aver scelto di avvalersi del rito alternativo del giudizio abbreviato, venivano condannati dal Tribunale di Termini, con sentenza del 19.05.2016. Il Giudice dell’abbreviato infliggeva ai soggetti la pena di un anno di reclusione, nonché la multa di euro 120,00, in considerazione anche dell’aggravante della recidiva per il delitto di cui all’art. 624 c.p., oltre alla condanna alle spese del procedimento ed anche  la confisca degli arnesi loro sequestrati.

A seguito di gravame, la sentenza di primo grado viene confermata dalla Corte d’Appello di Palermo con sentenza n. 4295 del 08.10.2018.

Le argomentazioni sostenute dalle parti. Avverso la predetta sentenza, gli imputati tramite i loro difensori, hanno proposto ricorso per Cassazione.

L’imputato A. A. con un unico motivo, lamenta una violazione di legge in relazione agli artt. 110, 624, 625 e 56 c.p.. adducendo che la semplice preparazione degli strumenti in vista delle susseguenti operazioni di tranciamento di cavi elettrici, non è elemento idoneo ad integrare la fattispecie di reato di cui all’art. 624 c.p., neppure nella forma del tentativo ex art. 56 c.p.

Per quanto riguarda l’imputato G. S., con tre motivi di ricorso, lamenta, con il primo, una violazione di legge, nonché vizio motivazionale,  in relazione agli artt. 110, 624, 625 e 56 c.p.. La difesa, preliminarmente, nei giudizi precedenti a quello di cassazione, aveva avanzato un eccezione per la quale, il tentativo dell’imputato di tranciare grossi fili di rame, posti ad altezza considerevole, utilizzando un bastone della lunghezza di circa 7 metri, alla cui sommità era stata attaccata una forbice, era oggettivamente inidoneo a compiere l’azione criminosa. Ordunque, la difesa lamenta la violazione di cui sopra, adducendo che, sia il Giudice dell’abbreviato, nonché quello del gravame, non hanno effettuato una valutazione adeguata, né tanto meno sufficientemente motivato, la questione testé citata, in merito all’idoneità degli strumenti e della condotta.

Con il secondo motivo, ravvisa un’altra violazione di legge e vizio motivazionale in relazione agli artt. 110, 624, 625 e 56 c.p., adducendo che i Giudici territoriali non hanno tenuto in considerazione e adeguatamente motivato in relazione alla dedotta desistenza volontaria.

Con l’ultimo motivo di ricorso, lamenta la violazione di legge e vizo motivazionale in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p. e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), adducendo che la Corte d’Appello di Palermo, non si è espressa in maniera adeguata, in merito alla doglianza difensiva attinente alla mancata concessione, all'odierno ricorrente, delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p..

Valutazioni giuridiche della Suprema Corte di Cassazione. La Corte di Cassazione ritiene che i ricorsi proposti siano inammissibili.

Preliminarmente viene eccepita l’insussistenza del vizio di motivazione, giacché, “nel caso di c.d. “doppia conforme!, le motivazioni delle sentenze dei primi due gradi di giudizio, fondendosi, si integravo fra loro, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione”. Ragion per cui, l’onere motivazionale demandato ai Giudici territoriali appare pienamente soddisfatto. Viepiù, gli Ermellini ribadiscono il principio in base al quale “il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti”[41].

Orbene, per i principi appena esposti, il sindacato della Cassazione è limitato, in quanto, è preclusa la possibilità per tale organo giudiziario, di verificare se la motivazione corrisponde alle acquisizioni processuali. Talché, ne deriva che la Corte di Cassazione non può attuare una nuova valutazione del materiale probatorio, giacché siffatto esame è di esclusiva potestà del giudice di merito.

Tanto premesso, la Suprema Corte, entrando nel merito dell’infondatezza delle doglianze, afferma che, in relazione al ricorso di A. A., si ribadisce il principio secondo il quale, sono penalmente rilevanti, al fine della configurabilità del tentativo di cui all’art. 56 c.p., non solo gli effettivi atti esecutivi, ma altresì, quegli atti che, sebbene preparatori, facciano fondatamente ritenere che il soggetto attivo, avendo organizzato dettagliatamente ed in modo definitivo  il disegno delittuoso, abbia iniziato a dargli attuazione, e che la condotta abbia possibilità considerevoli di raggiungere lo scopo in programma, e dunque che il reato sarà commesso, salvo la sopravvenienza di eventi non prevedibili e indipendenti dalla volontà dell’agente[42].

In tal senso, nella fattispecie concreta, la circostanza descritta, verte su atti preparatori che appaiono idonei alla preparazione del delitto perfetto, giacché virtualmente capaci di generare o comunque agevolare la verificazione.

La Suprema Corte afferma, in primo luogo, che il giudizio di idoneità degli atti sia un giudizio in concreto, giacché questi debbono essere valutati nel quadro delle circostanze alla quale sono connessi. In secundis, afferma che trattasi di giudizio ex ante, cioè prognostico ipotetico, in quanto va analizzato, limitatamente, in rapporto all’attimo in cui l’agente “ha posto in essere la sua attività, ed effettuato rispetto ad un reato che non si è verificato”.

In ultimo, afferma che sia un giudizio a base parziale, giacché il giudice deve valutare, con logica ed esperienza, in maniera probabilistica, la capacità dell’atto di causare l’evento, ovvero la sua idoneità al fine delittuoso, a prescindere dall’effettiva verificazione del reato, impedito da fattori esterni straordinari. Tali elementi, secondo gli ermellini, sono stati sufficientemente trattiti dal giudice territoriale, quindi la motivazione appare idonea ai requisiti richiesti dalla legge.

In relazione ai ricorsi del secondo imputato (G.S.), la Corte di Cassazione, con riguardo al primo motivo di gravame, per prima cosa ribadisce tutto quanto appena detto. In secondo luogo, afferma che, come pacificamente già dichiarato dal medesimo supremo consesso, l’idoneità degli atti va giudicata con riguardo alla probabilità che dalla condotta dell’agente, possa scaturire il fine che questi si propone. Qualora invece, sussiste un vulnus strutturale e strumentale assoluto del mezzo utilizzato, indipendente da cause esterne, sicché l’azione giudicata ex ante appare sprovvista della capacità di porre in essere il piano delittuoso, neppure in via eccezionale, si configura un reato impossibile per inidoneità degli atti ex art. 49 c.p.[43]; Anche su tale punto, la motivazione del giudice del merito, appare incontestabile.

Con riguardo al secondo motivo di gravame, proposto dall’imputato G.S., la Corte di Cassazione, in primis, ribadisce il principio in base al quale, con riguardo alla desistenza dal reato, la scelta di terminare l’azione delittuosa, deve scaturire dalla mera volontà del soggetto attivo, ed al contrario, non deve essere attribuibile ad una causa esterna, nonché svincolata dalla volontà dell’agente[44]. Siffatto principio è applicato correttamente dai giudici di merito, che ravvisano quale unica motivazione della desistenza, la presenza delle forze dell’ordine, certamente notate dai rei, e quindi non frutto della volontà dell’agente. Sicché, le decisioni dei giudici di merito sono inconfutabili.

Infine, in relazione all’ultimo motivo di ricorso addotto dall’imputato G. S., evidenziando le modificazioni normative attuate all’art. 62bis c.p., gli ermellini affermano “è assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dar conto, come nel caso in esame, di avere valutato e applicato i criteri di cui all'art. 133 c.p..

Infatti, con riguardo alle attenuanti generiche, la ratio consiste nel permettere al giudice un adeguamento in melius, a beneficio dell’imputato, della pena stabilita ex lege, tenendo conto delle particolari caratteristiche sia del fatto, sia del soggetto responsabile. Sicché, la meritevolezza di siffatto beneficio non deve mai considerarsi scontata o presunta. Ne scaturisce che non può sussistere un obbligo, posto in capo a giudice, di giustificare una mancata applicazione di tali attenuanti. Invero, la Suprema Corte, in precedenti decisioni, si è espressa in senso opposto, stabilendo che è in realtà la meritevolezza di siffatto beneficio, quando se ne afferma la sussistenza, a dover essere adeguatamente motivata, in ordine alla mitigazione del trattamento sanzionatorio[45]. In sostanza, la Corte di Cassazione, ribadisce il principio in base al quale l’obbligo di precisa ed esaustiva motivazione, con riguardo alle circostanze attenuanti generiche, sussiste nell’ipotesi di concessione delle stesse, e non anche nelle ipotesi opposte[46]. Nel caso di specie, il giudice d’appello, sebbene privo dell’onere motivazionale sulle questioni delle attenuanti, decide, comunque, di giustificare la propria scelta. Per cui, alla luce di ciò, il gravame non può non considerarsi inammissibile.

In ultimo, la Suprema Corte evidenzia che la valutazione dei fattori di rilievo ai fini della dosimetria della pena, fa parte dei poteri discrezionali del giudice di merito, ed il relativo esercizio è percorribile in cassazione, esclusivamente quanto è frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico[47].

Conclusioni. Effettuata siffatta disamina, la Suprema Corte di Cassazione, afferma in conclusione che “per la configurabilità del tentativo, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo”. Per tale ragione, e per tutte quelle sopra meglio esposte, gli ermellini dichiarano inammissibili i ricorsi, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Marinucci G. – Dolcini E., Codice penale commentato, III ed., Ipsoa, 2011;

[2] Fiandaca G. – Musco E. Diritto penale, parte generale, Zanichelli ed., VII ed, 2014; Fiore C. – Fiore S., Diritto penale, parte generale, UTET Giuridica, 2016;

[3] Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, Cedam, Ed. 10, 2017, pag. 425 ss.

[4] Seminara S., Il delitto tentato, Giuffré ed., 2012, pag. 971;

[5] D’Anello A., La rilevanza degli atti preparatori in materia penale: tra dogmatica e politica criminale, EAI ed., 2016;

[6] Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 425 ss.

[7] Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 441.

[8] Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 441

[9] Padovani T., Codice Penale, Giuffré Editore, VII Ed., 2019, P. 478 ss.

[10] Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit. pag. 425 ss.

[11] Ibidem

[12] Cass. Pen. Sez. Un., n. 6309 del 1983, Basile

[13] Nappi A., Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffré ed., 2010, pag. 807- 818.

[14] Fiandaca G. – Musco E. Diritto penale, parte generale, Zanichelli ed., VII ed, 2014

[15] Padovani T., Codice Penale, Giuffré Editore, VII Ed., 2019, P. 478 ss.

[16] Romano M., Commento all’art. 56 c.p., in Commentario sistematico del codice penale, 2004, p. 590 ss.

[17] Padovani T., Codice Penale, Giuffré Editore, VII Ed., 2019, P. 478 ss.

[18] Fiandaca G. – Giarda A., Codice Penale Codice di Procedura Penale, Wolters Kluwer, XXIII Ed., 2019.

[19] Petrocelli B., Il delitto tentato, Padova, 1966;

[20] Ibidem;

[21] Ibidem;

[22] Antolisei F., Manuale di diritto penale, Giuffré ed., XVI ed. 2003, pag. 490;

[23] D’Anello A., La rilevanza degli atti preparatori in materia penale…, cit.;

[24] Antolisei F., Manuale di diritto penale, Giuffré ed., XVI ed. 2003, pag. 497;

[25] Ibidem;

[26] Gallo E., Il delitto di attentato nella teoria generale del reato, Milano, 1966, p. 219;

[27] Fiore C. – Fiore S., Diritto penale, parte generale, UTET Giuridica, 2016;

[28] De Francesco G., L’enigma del tentativo: vicende sistematiche ed interrogativi politico-criminali, in Leg. Pen., 2001, p. 930 ss.

[29] Fiandaca G. – Musco E. Diritto penale, parte generale, Zanichelli ed., VII ed, 2014;

[30] Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 441;

[31] Fiore C. – Fiore S., Diritto penale, parte generale, cit.

[32] Antolisei F., Manuale di diritto penale, Giuffré ed., XVI ed. 2003, pag. 492;

[33] Angioni F., Il tentativo tra esigenze di punibilità e principio di extrema ratio, in Leg. Pen., 2002, p. 912 ss;

[34] Fiandaca G. – Musco E. Diritto penale, parte generale, Zanichelli ed., VII ed, 2014;

[35] Marinucci G. – Dolcini E., Codice penale commentato, III ed., Ipsoa, 2011;

[36] Fiandaca G. – Musco E. Diritto penale, parte generale, cit.

[37] Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 448;

[38] Morselli E., Condotta ed evento nella disciplina del tentativo, in riv. It. Dir. Proc. Pen., XXX, p. 60;

[39] Fiandaca G. – Musco E. Diritto penale, parte generale, cit.;

[40] Gallo E., Il delitto di attentato nella teoria generale del reato, Milano, 1966, p. 147-192 ss;

[41] Cass. Pen. Sez. 4, n. 31224 del 16/06/2016 (ex plurimis);

[42] Cass. Pen. Sez. 2, n. 24302 del 04/05/2017 (dep. 16/05/2017);

[43] Cass. Pen., Sez. 6, n. 17988 del 06/02/2018 (dep. 20/04/2018); Cass. Pen., Sez. 5, n. 9254 del 15/10/2014 (dep. 03/03/2015);

[44] Cass. Pen. Sez. 3, n. 17518 del 28/11/2018 (dep. 24/04/2019);

[45] Ex multis, Cass. Pen., Sez. 1, n. 29679 del 13/06/2011;

[46] Cass. Pen. Sez. 4, n. 43424 del 29/09/2015;

[47] Cass. Pen. Sez. 2, n. 45312 del 03/11/2015;