Pubbl. Mer, 17 Giu 2020
Il risarcimento del danno da licenziamento illegittimo è più elevato se si hanno figli a carico
Modifica paginaLa Suprema Corte di Cassazione con la recente pronuncia del 06 aprile 2020 n. 7701 conferma la c.d. ”doppia conforme” riconoscendo il principio, sancito nei precedenti gradi di giudizio, in ordine al quale l´indennità risarcitoria da illegittimo licenziamento non può essere quantificata in base al solo criterio dell´anzianità di servizio ma deve essere considerato, in aggiunta, il criterio della ”condizione delle parti” ex art.18 L.300/1970 conseguendo da ciò un´indennità maggiore nel caso di lavoratore separato e con figli a carico.
Sommario: 1. L’evoluzione legislativa dei licenziamenti individuali: dal codice civile allo Statuto dei Lavoratori; 1.1. La Riforma Fornero; 1.2. Il contratto a tutele crescenti: Jobs Act; 2. I parametri legali di determinazione dell’indennità risarcitoria nei licenziamenti individuali illegittimi; 2.1. Il meccanismo risarcitorio previsto dall’art. 8 L.604/1966; 2.2. Il meccanismo risarcitorio previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori; 2.3. L’illegittimo meccanismo risarcitorio previsto dal Jobs Act; 3. La pronuncia della Corte di Cassazione del 6 aprile 2020 n. 7701.
1. L’evoluzione legislativa dei licenziamenti individuali: dal codice civile allo Statuto dei Lavoratori.
Oggetto del presente contributo è l’esame della recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione del 06 aprile 2020 n. 7701 in tema di criteri di determinazione dell’indennità risarcitoria corrisposta al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato.
Al fine di comprendere la portata della summenzionata pronuncia non si può prescindere dalla trattazione, seppure succinta, prima dell’evoluzione legislativa dei licenziamenti individuali e poi dei meccanismi di quantificazione del risarcimento predisposti dal legislatore.
Orbene, la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato era, ab origine, disciplinata dagli artt. 2118 e 2119 c.c. i quali, equiparando la figura del datore di lavoro e del lavoratore, statuivano che “ciascuno dei contraenti può recedere […], dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità” pena la corresponsione di “un’indennità equivalente all’importo della retribuzione” ovvero senza preavviso “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” ed, in tal caso, “al prestatore che recede per giusta causa compete l’indennità”.
La suesposta disciplina si mostra coerente al contesto, sociale ed economico, del 1942 caratterizzato dall’elisione di ogni vincolo di subordinazione perpetuo, di stampo schiavistico, attraverso la concessione alle parti della facoltà di recedere liberamente ed unilateralmente dal rapporto di lavoro.
L’attuale codice civile, quindi, prendeva le distanze dal codice civile unitario del 1865 che includeva il contratto di lavoro nel novero dei contratti di locazione, in ossequio alla tradizione romanista secondo cui il lavoro era una forma di locatio conductio ovvero, oggetto del vincolo contrattuale, non era il lavoro, bensì l’uomo nella sua dimensione personale[1].
Ma lo scenario economico e sociale muta radicalmente alla fine del secondo conflitto mondiale presentandosi in piena emergenza occupazionale ove l’unica prerogativa era salvaguardare i posti di lavoro mediante la compromissione della, esordiente, facoltà di recesso del datore di lavoro.
Le parti sociali dell’epoca, prima con il blocco dei licenziamenti statuito nel 1945 e poi con gli accordi interconfederali del 1950, rinnovati nel 1965, introdussero, nel settore dell’industria, l’importante principio della giustificazione necessaria del licenziamento e l’impugnazione dello stesso, da parte del lavoratore, mediante una procedura conciliativa o arbitrale che poteva sfociare, in caso di accoglimento della domanda, nella riassunzione ovvero nel percepimento di una somma di denaro a titolo di penale, parametrata alle mensilità di retribuzione ed alle dimensioni dell’azienda[2].
L’encomiabile lavoro delle parti sociali risultava, di fatto, discriminatorio in quanto applicabile al solo settore dell’industria e pertanto, atteso l’avvento della Carta Costituzionale ed il riconoscimento del lavoro quale fondamento della Repubblica, la Corte Costituzionale spronò il legislatore affinché omologasse la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, al fine di assicurare a tutti i cittadini la continuità del lavoro e la tutela del lavoratore nelle procedure di licenziamento[3].
L’anno dopo, il legislatore, accolse il monito della Corte Costituzionale ed emanò la L. 15 luglio 1966 n. 604 con la quale si scardinava il principio del libero recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e venne imposto l’esercizio dello stesso, solo previa giustificazione della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo o oggettivo di licenziamento da comunicare al lavoratore in forma scritta, pena l’inefficacia ovvero la nullità, anche in presenza della motivazione, del licenziamento nel caso in cui questo fosse stato intimato per motivi religiosi, politici e sindacali.
Nonostante le virtuose premesse, il datore di lavoro ricopriva sempre una posizione predominante nel rapporto contrattuale infatti, anche in caso di accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro aveva la facoltà di “scegliere la sanzione” ossia reintegrare il lavoratore ovvero corrispondergli un somma di denaro a titolo di risarcimento.
Di talché, al fine di stabilizzare in modo effettivo il rapporto di lavoro, la L. 20 maggio 1970 n. 300 introduce nel nostro ordinamento giuridico lo Statuto dei Lavoratori che all’art. 18 disciplina la c.d. tutela reale in virtù della quale in caso di licenziamento illegittimo il datore di lavoro è privato della facoltà di scegliere tra la reintegrazione del lavoratore e la corresponsione del risarcimento in quanto opera, quale sanzione tipica, la restituzione del bene giuridico leso dal comportamento illegittimo quindi, la reintegrazione nel posto di lavoro.
Il principio della necessaria giustificazione del licenziamento e la tutela reale furono estesi con la L. 11 maggio 1990 n. 108 a tutti i lavoratori, precedentemente esclusi, salvo le organizzazioni di tendenza con più di 60 lavoratori complessivi e le organizzazioni agricole con meno di 5 dipendenti.
1.1. La Riforma Fornero.
Con la L. 28 giugno 2012 n.92 entra, nel panorama giuridico, la Riforma Fornero con il fine precipuo di rinnovare radicalmente il mercato del lavoro ed incrementare lo sviluppo qualitativo e quantitativo dell’occupazione attraverso una maggiore flessibilità di entrata nel contesto lavorativo e, contestualmente, mediante la creazione di una disciplina univoca, e meno rigida, circa la tutela del lavoratore in caso di licenziamenti individuali illegittimi.
Sulla base di tali premesse metodologiche la Riforma Fornero modifica profondamente l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in quanto inverte l’ingranaggio della tutela reale.
Ed invero, l’ottica del legislatore della Riforma, è focalizzata sulla libertà di iniziativa economica, sancita all’art. 41 della Carta Costituzionale, e, quindi, sul rinnovo delle risorse umane nel mondo del lavoro, pertanto, la tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro viene superata dalla tutela obbligatoria ovvero dalla “monetizzazione” del posto di lavoro, perso a causa del licenziamento illegittimo.
In particolare, la Riforma Fornero ha statuito tutele diverse - tutela reale piena e debole, tutela obbligatoria piena ed attenuata - a seconda della natura del licenziamento illegittimo, applicabili a prescindere dai requisiti dimensionali dell’azienda.
La tutela reale piena comporta la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e sino alla reintegrazione ed il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto tale periodo, nel caso di nullità del licenziamento perché discriminatorio o intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti di licenziamento posti a tutela e sostegno della maternità e della paternità, nel caso in cui il licenziamento è riconducibile ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge o è sorretto da un motivo illecito determinante ed infine nei casi in cui il licenziamento è inefficace perché intimato in forma orale.
La tutela reale debole determina, invece, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno subito ed il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali nel caso di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo illegittimo perché il fatto contestato non sussiste o è punito dal contratto collettivo di riferimento con una sanzione conservativa, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo in quanto il fatto alla base è manifestamente infondato, nel caso di difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore ovvero nel caso di licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110 comma 2 c.c..
Nella tutela reale forte e debole il lavoratore, entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza ha facoltà di optare per la risoluzione del rapporto di lavoro a fronte della corresponsione di un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Proseguendo, la tutela obbligatoria forte è applicata in via residuale ai casi in cui non ricorrono gli estremi per un licenziamento illegittimo – privo della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo e oggettivo – e comporta il risarcimento al lavoratore di un'indennità omnicomprensiva il cui importo è di minimo 12 e di massimo 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, calcolato in base all'anzianità del lavoratore, al numero dei dipendenti, alle dimensioni dell'attività economica, al comportamento e condizioni delle parti.
Infine, la tutela obbligatoria debole trova applicazione in caso di illegittimità del licenziamento per assenza di motivazione, per inosservanza degli obblighi procedurali previsti dalla legge per il licenziamento disciplinare e per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed al lavoratore spetta un'indennità risarcitoria compresa tra le 6 e le 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, parametrata alla gravità della violazione commessa.
Orbene, nonostante le lodevoli intenzioni, il legislatore della Riforma Fornero ha creato un sistema di tutela dei licenziamenti illegittimi individuali molto complesso e frastagliato snaturando, così, l’originario testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
1.2. Il contratto a tutele crescenti: Jobs Act.
Con il d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, contenente disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, si introduce nel, già abbastanza complesso, ordinamento lavoristico una nuova disciplina – applicabile a tutti i lavoratori con qualifica di quadri, operai e impiegati assunti dal 7 marzo 2015 – in ordine alle tutele da licenziamento individuale illegittimo a completamento dell’opera di riforma avviata dal Ministro Fornero.
Infatti, attraverso l’attuazione del Jobs Act la sanzione standard, applicabile ai nuovi licenziamenti ingiustificati, è quella del risarcimento.
Mentre, la tutela reale della reintegrazione è applicabile solo ai casi di licenziamenti discriminatori e nulli intimati in forma orale ovvero nei licenziamenti disciplinari in cui sia accertata l’insussistenza del fatto materiale contestato.
Quindi, attualmente, l’ordinamento lavoristico prevede una doppia disciplina dei licenziamenti individuali illegittimi a seconda della data di stipulazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, infatti, in caso di rapporto di lavoro instaurato prima del 7 marzo 2015 troverà applicazione l’art. 18 L.300/1970 – come modificato dalla Riforma Fornero - mentre, se instaurato successivamente al 7 marzo 2015 troverà applicazione la disciplina del contratto a tutele crescenti previsto dal D.lgs. 23/2015.
2. I parametri legali di determinazione dell’indennità risarcitoria nei licenziamenti individuali illegittimi.
Esposte le tutele applicate ai lavoratori nella fase patologia del rapporto di lavoro quale è la fase di un licenziamento illegittimo, ora, si focalizza l’attenzione sui criteri specifici, previsti dal legislatore, ed applicati dal giudice per la quantificazione monetaria dell’indennità litigiosa, al fine di riparare in modo congruo il danno subito dal lavoratore.
Il legislatore, nell’evoluzione della disciplina legislativa dei licenziamenti individuali illegittimi sopra rassegnata, ha utilizzato due meccanismi al fine di determinare l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore.
Entrambe, seppur di derivazione civilistica, derogano ai principi generali in materia di responsabilità contrattuale e risarcimento del danno in quanto assolvono all’essenziale funzione di protezione degli interessi del lavoratore nonché a fini di interesse generale quali la salvaguardia e l’incremento occupazionale ovvero del sistema produttivo ed economico[4].
Inoltre, l’indennità risarcitoria è quantificata attraverso una predeterminazione legale del danno sulla base della retribuzione percepita dal lavoratore intesa, originariamente, quale ultima retribuzione in seguito quale retribuzione calcolata ai sensi dell’art. 2121 c.c. fino ad intendersi quale ultima retribuzione globale di fatto e, attualmente, quale ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
2.1. Il meccanismo risarcitorio previsto dall’art. 8 L.604/1966.
L’art. 8 della L.604/1966 introduce il primo meccanismo di quantificazione dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore, in alternativa alla reintegrazione, “quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo”.
La norma suddetta, nel suo testo originario, statuiva che la quantificazione dell’indennità risarcitoria spettava alla discrezionalità del giudice il quale determinava il quantum tra un minimo di 5 ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione “avuto riguardo alla dimensione dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro ed al comportamento delle parti”.
Pertanto, l’indennità risarcitoria non veniva più quantificata sulla base del “prudente apprezzamento del giudice” come era previsto nell’accordo interconfederale sui licenziamenti individuali del 1965, bensì sulla base di criteri autonomi e distinti.
Si rileva che, all’epoca, ricopriva maggiore rilevanza il criterio della “anzianità di servizio” prima e della “dimensione dell’impresa” poi, in quanto il licenziamento illegittimo causava un danno minore se il lavoratore aveva una minima o ridotta anzianità di servizio al contrario, produceva un danno maggiore se il lavoratore aveva una elevata anzianità di servizio e, al contempo, in ordine alle dimensioni aziendali, un minore numero di dipendenti occupati - tra 35 e 60 - giustificava penali risarcitorie di importo più basso rispetto a quelle stabilite per i datori di lavoro che occupavano un numero maggiore di dipendenti - oltre i 60[5].
La ratio sottesa al suesposto ragionamento era ridurre al minimo la discrezionalità del giudice in sede di determinazione dell’indennità risarcitoria, discrezionalità che, effettivamente, si esplicava solo nella determinazione dell’ultimo criterio ossia “il comportamento delle parti” nella fase fisiologica e patologica del rapporto lavorativo.
Infatti, attraverso tale criterio, al giudice è consentita la ponderazione di elementi di assoluta importanza quali ad esempio, l’obbligo di non causare o aggravare il danno ex art.1227 c.c., la gravità del vizio del licenziamento, le giustificazioni del lavoratore a fronte delle motivazioni del datore di lavoro.
Il legislatore con la L.108/1990 integra il suesposto meccanismo, atteso l’entrata nell’ordinamento lavoristico dello Statuto dei Lavoratori, prevedendo la corresponsione di una maggiore indennità risarcitoria, parametrata al requisito dell’anzianità di servizio del lavoratore.
Mentre, il quantum standard dell’indennità risarcitoria è stabilita da un minino di 2,5 mensilità ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, quindi, risulta fortemente compressa.
Al criterio dell’anzianità di servizio, della dimensione dell’impresa e della condizione delle parti il legislatore aggiunge altre due criteri autonomi e distinti ossia il “numero dei dipendenti occupati” e le “condizioni delle parti” i quali devono operare in concorso tra loro al fine parametrare l’indennità alla situazione concreta del lavoratore e del datore di lavoro[6].
L’aggiunta del criterio del “numero dei dipendenti occupati”, da intendersi nel suo significato letterale, ha consentivo la scissione terminologica dal criterio della “dimensione dell’impresa” inteso, post Statuto dei Lavoratori, quale dimensione economica dell’impresa ovvero forza economica del datore di lavoro che giustificherebbe una sanzione risarcitoria più o meno elevata a seconda dell’andamento economico.
Il criterio delle “condizioni delle parti”, invece, consente di personalizzare il danno in quanto consente al giudice di tenere in considerazione non solo le condizioni personali e patrimoniali del lavoratore anche dal punto di vista della difficoltà, concreta o potenziale, di cercare una nuova occupazione a seguito del licenziamento ingiustificato ma anche del datore di lavoro rilevando, ad esempio, una situazione di crisi aziendale[7].
Il processo di riforma continua nel 2010 con legge n. 183 quando il legislatore inserisce “dall’esterno” altri nuovi criteri che devono essere utilizzati, in aggiunta ai precedenti, in sede di determinazione dell’indennità risarcitoria.
Il primo riguarda gli “elementi e parametri” previsti dai contratti collettivi, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, e dai contratti individuali di lavoro, se stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione quindi, la contrattazione collettiva, per la prima volta entra in scena in sede di determinazione dell’indennità risarcitoria.
Mentre, gli altri innovativi criteri sono, ad esclusione delle “dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro”, la “situazione del mercato del lavoro locale” e “l’anzianità del lavoratore”.
Infatti, in ordine al primo criterio il legislatore mostra, nuovamente, attenzione nei confronti delle dimensioni aziendali intesi quale forza e capacità economica dell’imprenditore ma nella sostanza non introduce alcuna innovazione.
Mentre, con il criterio della “situazione del mercato del lavoro locale” l’intento del legislatore è parametrare l’indennità risarcitoria al tempo che il lavoratore, illegittimamente licenziato, dovrà investire per trovare una nuova occupazione per cui l’indennità aumenterà all’aumentare del tasso di disoccupazione.
In altri termini, il legislatore presume che in un mercato del lavoro caratterizzato da tassi di disoccupazione alti il lavoratore subisce un danno patrimoniale più elevato.
Il criterio della “anzianità del lavoratore” è inteso quale età anagrafica dello stesso e non anzianità di servizio ed è, rispetto al precedente, molto più innovativo in quanto maggiore è l’età del lavoratore maggiore sarà il danno patrimoniale da questi subito perché, all’aumentare dell’età corrisponde una diminuzione drastica delle probabilità di trovare, nel breve e nel lungo termine, una nuova occupazione.
Il percorso normativo, affrontato dall’art. 8 L.604/1966, ha consentito la mutazione del meccanismo risarcitorio infatti, da sterile procedimento di calcolo matematico, attualmente, siamo in presenza di un procedimento complesso e omnicomprensivo all’interno del quale si intrecciano le condizioni personali e patrimoniali delle parti contrattuali.
2.2. Il meccanismo risarcitorio previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Il secondo meccanismo per quantificare il risarcimento del danno da illegittimo licenziamento è disciplinato dall’art. 18 L. 300/1970 a norma del quale, esso, è parametrato alle retribuzioni perse durante il periodo di estromissione dal posto di lavoro.
In altri termini, il risarcimento include le retribuzioni perse nell’arco di tempo che intercorre dal licenziamento illegittimo alla sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento sino all’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro.
Siamo in presenza di una doppia funzione infatti, se da un lato il risarcimento ripara il danno subito dal lavoratore e derivante dal licenziamento illegittimo prima e dalla tardiva reintegrazione poi dall’altro lato, il risarcimento funge da misura di coazione indiretta della volontà del datore di lavoro “invitandolo” all’adempimento veloce e spontaneo[8].
Quindi, nonostante si parli di risarcimento, sussiste un’evidente deroga alle disposizioni civilistiche in materia in quanto il lavoratore è assolto dall’onere di provare in giudizio il danno subito a norma dell’art. 1223 c.c.
Secondo la giurisprudenza prevalente, tuttavia, sussiste la possibilità per il lavoratore di ottenere un autonomo risarcimento del danno, in aggiunta a quello previsto dalla legge, se prova in giudizio di avere patito danni non patrimoniali ulteriori e, ovviamente, non identificati con l’illegittimità del licenziamento bensì con il comportamento del datore di lavoro, come nel caso del licenziamento ingiurioso o persecutorio o vessatorio lesivo della dignità, dell’onore e del decoro del lavoratore, atteso le particolari forme o modalità offensive di adozione [9].
In ordine al risarcimento nella tutela reale piena, questo consiste in un'indennità parametrata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno della reintegrazione ed, in ogni caso, non inferiore alle 5 mensilità e calcolata detraendo il c.d. aliunde perceptum ossia il quantum che il lavoratore ha, eventualmente, percepito nel medesimo periodo per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Infatti, in una prospettiva prettamente risarcitoria in virtù delle regole civilistiche, le Sezioni Unite hanno affermato che nella determinazione del danno si deve tenere conto dell’aliunde perceptum partendo dal presupposto che il lavoratore ha conseguito un guadagno in termini di riappropriazione di energie e tempo[10].
Mentre, nella tutela reale attenuata il risarcimento è parametrato all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, per un totale non superiore alle 12 mensilità, da cui è detratto sia l'aliunde perceptum che l’aliunde percipiendum ossia anche quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire se si fosse dedicato alla ricerca di un lavoro.
Sul punto la giurisprudenza è costante nel ritenere che il lavoratore assolve a tale onere con la mera iscrizione nelle liste di collocamento presso i centri dell’impiego territorialmente competenti spettando, invece, al datore di lavoro la prova in giudizio dell’insussistenza dell’ordinaria diligenza.[11]
Infine, il risarcimento del danno opera, in via residuale, nelle ipotesi di tutela obbligatoria forte e debole, infatti, come ampiamente trattato in precedenza, nella tutela obbligatoria forte il risarcimento oscilla da un minino di 12 ad un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, calcolato in base all'anzianità del lavoratore, al numero dei dipendenti, alle dimensioni dell'attività economica, al comportamento e condizioni delle parti mentre, nella tutela debole oscilla da 6 a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, parametrata alla gravità della violazione commessa.
Quindi, alla fine di tale disamina, è corretto riportare le parole di Matteo Dell’Olio secondo cui il danno subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo deve corrispondere al “saldo negativo dell’intera vicenda”, sottraendosi da esso ogni utilità economica che il prestatore abbia acquisito altrove al fine, anche, di evitare ingiustificati arricchimenti[12].
2.3. L’illegittimo meccanismo risarcitorio previsto dal Jobs Act.
La contrattazione a tutele crescenti – d.lgs. 23/2015 – introduce nel principale meccanismo di determinazione dell’indennità risarcitoria un importo massimo predeterminato, salvo i casi di licenziamento ritenuti più gravi ossia nei casi di licenziamento nullo e inefficace perché intimato in forma orale.
In particolare si prevede, per le aziende con più di 15 dipendenti, il pagamento di una indennità pari a 2 mensilità per ogni anno di anzianità da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità mentre per le aziende con meno di 15 dipendenti, il pagamento di una indennità pari a 1 mensilità per ogni anno di anzianità da un minimo di 2 ad un massimo di 6 mensilità.
L’evidente conseguenza di tale meccanismo, rispetto a quello prospettato dalla Riforma Fornero, è l’assenza di discrezionalità da parte del giudice in quanto la quantificazione dell’indennità risarcitoria si esaurisce in un mero calcolo matematico, mancando la valutazione concreta della fase patologica del rapporto di lavoro.
L’intervento del giudice è limitato alla detrazione dell’aliunde perceptum e, ove previsto, anche dell’aliunde percipiendum che, inoltre, sono intesi diversamente dal legislatore.
Infatti, aliunde percipiendum è inteso in modo restrittivo riferendosi non più a quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire se si fosse dedicato alla ricerca di un lavoro bensì a ciò che il lavoratore avrebbe potuto percepire se avesse accettato una congrua offerta di lavoro.
La finalità del legislatore è incentivare il lavoratore a trovare, nel breve tempo, una nuova occupazione.
Se ciò avviene, non sussiste alcun aliunde perceptum in quanto il lavoratore, avendo trovato una nuova occupazione, non ha subito alcun danno ulteriore a causa del licenziamento ingiustificato.
L’assurdità, o meglio l’ingiustizia, e la privazione di tutela del lavoratore nella fase patologica del rapporto di lavoro così come disegnate dal Jobs Act si presentano innanzi alla Corte Costituzionale.
Ed invero, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 194/2018 dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, per contrasto con gli artt. 3, 4 comma 1, 35 comma 1, 76 e 117 in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, nella parte in cui quantifica l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, esclusivamente ed in modo automatico, con riferimento al dato dell’anzianità di servizio, eliminando qualsiasi discrezionalità del giudice nell’opera di quantificazione.
Con la suddetta pronuncia, la Corte ha statuito che il giudice deve determinare l’indennità risarcitoria nei parametri fissati dal legislatore partendo dall’anzianità di servizio del lavoratore ed allargando la valutazione anche ad altri criteri “desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti” ossia “numero di dipendenti occupati”, “dimensioni dell’attività economica” e “comportamento e condizioni delle parti” al fine di evitare una tutela risarcitoria “uniforme ed indipendente dalle peculiarità e dalle diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro”.
Quindi, nonostante il tentativo del Jobs Act di monetizzare in misura standard e prevedibile un momento delicato ed importante per il lavoratore, con la declaratoria di illegittimità costituzionale si ritorna al precedente, e più garantista, meccanismo di quantificazione dell’indennità risarcitoria in quanto basato sulla valutazione congiunta di criteri autonomi e distinti che rispecchiano l’effettiva condizione, personale e patrimoniale, delle parti coinvolte.
3. La pronuncia della Corte di Cassazione del 6 aprile 2020 n. 7701.
Orbene, assimilate le argomentazioni innanzi esposte è possibile procedere al commento della pronuncia in esame.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza del Tribunale di Frosinone, pubblicata in data 16/11/2017, la quale in accoglimento parziale del ricorso formulato dal lavoratore avverso il licenziamento intimatogli dalla S.r.l. sua datrice di lavoro, in forma scritta, in data 21.10.2015, dichiara “l’inefficacia del licenziamento” e per, l’effetto, “condanna la società al pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”, oltre accessori, e dichiara “risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, con compensazione delle spese processuali”.
La società datrice di lavoro reclama la pronuncia del Tribunale di Frosinone innanzi alla Corte d’Appello di Roma limitatamente al quantum dell’indennità risarcitoria asserendo, nell’unico motivo, che la stessa risulta “liquidata in misura eccessiva anche tenuto conto dell'entità dell'indennità liquidata dallo stesso Tribunale ad altri lavoratori, colleghi del ricorrente”.
Ovviamente il lavoratore si costituisce in giudizio al fine di chiedere il rigetto del gravame e la conferma della sentenza di primo grado.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza dell’11/4/2018, rigetta l’appello e conferma totalmente la sentenza del giudice di prime cure motivando, ampiamente, la correttezza ed il pregio giuridico dell’iter logico normativo formulato dal Tribunale.
Infatti, il giudice di Frosinone, nella quantificazione dell’indennità risarcitoria, spettante al lavoratore a causa del licenziamento ingiustificato intimatogli a distanza di ben 10 anni di servizio dalla società datrice di lavoro, applica correttamente e coerentemente la disciplina di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori atteso l’instaurazione del rapporto di lavoro in data antecedente al 7 marzo 2015.
Ed invero, l’art. 18 statuisce che il datore di lavoro, in caso di licenziamento illegittimo, deve corrispondere al lavoratore “un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”.
Pertanto, come rilevato dalla Corte d’Appello di Roma, “il giudice di prime cure, nel liquidare l’indennità litigiosa, aveva tenuto conto dell’anzianità di servizio del lavoratore (dieci anni), delle dimensioni dell'azienda oltre che delle condizioni personali delle parti, in particolare la condizione di separato con un figlio del lavoratore”.
Rilevava, quindi, la manifesta infondatezza delle censure avanzate dalla S.r.l. datrice di lavoro in quanto l’indennità risarcitoria quantificata al lavoratore non poteva essere parametrata al solo requisito dell’anzianità di servizio, equiparandosi così a quella dei colleghi, perché in sede di valutazione il giudice di prime cure ha, correttamente, considerato l’aspetto ulteriore, previsto dall’art. 18, del “comportamento e condizioni delle parti” – in particolare la condizione di padre separato con un figlio a carico – di certo non assimilabile alle condizioni, ancorché personali, dei suo colleghi.
La S.r.l., datrice di lavoro, decide comunque di impugnare la sentenza della Corte d’Appello di Roma innanzi alla Suprema Corte denunciando, in un unico motivo, “la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.” per motivazione apparente atteso che “essa si appiattirebbe su quella del giudice di prime cure, senza indicare le tesi in quest'ultima sostenute, le ragioni di condivisione” e “non sarebbe logicamente motivata con riferimento alle ragioni indicate, che differenzierebbero la posizione del […] da quella dei suoi colleghi, avendo quelli tra loro interessati da quattro pronunciamenti giudiziali del Tribunale di Frosinone, depositati nel giudizio di appello, maggiore anzianità di servizio ed alcuni […] hanno carichi familiari”.
Il focus del presente contributo ci consente di superare il vizio procedurale, trattato dalla Suprema Corte, attinente la discrasia tra le doglianze avanzate dalla S.r.l. che sostanzialmente denunciano una motivazione apparente, rientranti, quindi, nel n. 4 dell’art. 360 c.p.c. ossia “per nullità della sentenza” e l’effettiva formulazione del motivo per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c..
Pertanto, proseguendo, si rileva che la Suprema Corte sottolinea la “correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza” in quanto “il giudice di appello dà conto dei motivi di reclamo formulati dalla società oggi ricorrente, e dimostra di averli criticamente vagliati, fornendo ad essi risposta e spiegando perché, pur a fronte delle critiche della società reclamante, la sentenza di primo grado meritasse di essere confermata”.
Quindi, interviene la conferma della c.d. “doppia conforme”.
Si rileva, in conclusione, l’importanza dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in quanto, seppur oggetto di modifiche, consente attraverso criteri di determinazione dell’indennità risarcitoria distinti, autonomi e combinabili l’assolvimento dell’inderogabile funzione di tutela e di garanzia del lavoratore ingiustamente licenziato.
[1] E. Ghera, “Diritto del lavoro”, Bari, Cacucci, 2000, p.51 ss.
[2] U. Romagnoli “La disciplina dei licenziamenti nell’industria italiana (1950-1964)”, a cura del Gruppo di lavoro sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro delle Università di Bari e Bologna (ovvero le scuole di Gino Giugni e Federico Mancini), Mulino, 1968.
[3] Corte Costituzionale, 9 giugno 1965 n. 45.
[4] B. Caruso, “Impresa, lavoro, diritto nella stagione del Jobs Act”, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2016, p. 255 ss.
[5] Accordo interconfederale sui licenziamenti individuali, 29 aprile 1965.
[6] Pret. Roma 22 agosto 1995 e 23 novembre 1995, in Giur. lav. Lazio, 1996, pp. 454 e 458.
[7] P. Sandulli, A. Vallebona, C. Pisani, “La nuova disciplina dei licenziamenti individuali”, Padova, 1990, p. 53.
[8] Cass. Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601; Cass., Civ., 24 aprile 2015, n. 7613.
[9] Cass. Civ., 19 novembre 2015, n. 23686; Cass., Civ., 8 gennaio 2015, n. 63; Cass., Civ., 12 marzo 2014, n. 5730; Cass., Civ., 22 marzo 2010, n. 6847; Cass., Civ., 5 marzo 2008, n. 5927.
[10] Cass. Sez. Un., 29 aprile 1985, nn. 2761 e 2762.
[11] Cass. Civ., 11 marzo 2010, n. 5862; Cass. Civ.,11 maggio 2005, n. 9898.
[12] M. Dell’Olio, “La nuova disciplina del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo: consi-derazioni generali”, in Dir. lav., 1991, I, p. 205.