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Pubbl. Lun, 8 Giu 2020

Responsabilità del Comandante per la strage di Nassirya

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Gianandrea Maria Perrella
AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



La III sez. civile della Cassazione con la sentenza n. 22516 del 10.09.2019, riconosce in capo al Comandante una posizione di garanzia, in base alla quale egli è responsabile ex art. 2043 c.c. in caso di colpa grave, delle lesioni e della morte dei militari posti al suo comando.


ENG The III section of the Court of Cassation with the judgment 22516 of 10.09.2019, recognizes in the Commander´s head a position of guarantee, on the basis of which he is responsible ex art. 2043 c.c. in the event of gross negligence, of the injuries an death of the military placed under his command.

Sommario: 1. Il caso; 2. Responsabilità civile del pubblico dipendente; 3. Conclusioni.

1. Il caso

Il 12/09/2003 alle ore 10:40 in Nassirya (Iraq), un'autocisterna imbottita di esplosivo con due uomini a bordo si avvicinò alla base Maestrale dei Carabinieri facendosi esplodere contro la linea di hesco bastion, sita al limite del parcheggio interno della base.

L’esplosione provocò la morte di 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito, 2 civili italiani, 8 cittadini irakeni, oltre ad un numero non precisato di feriti e ingenti perdite materiali.

A seguito dell’attentato, il Tribunale Militare di Roma procedeva a carico dell’allora Comandante dell’Italian Joint Task Force Irak, e dell’ex comandante della Task Force, rispettivamente Brigadier Generale e Generale di Corpo d'Armata dell’Esercito Italiano, nonchè del Colonnello dei Carabinieri al Comando della base Maestrale, per il reato di distruzione colposa o sabotaggio di opere militari, puniti al sensi degli artt. 40, secondo comma c.p., 47 nn. 2,3 e 5, e 167 primo e ultimo comma c.p.m.p. 

Il Comandante e l'ex Comandante dell'Italian Joint Task Force scelsero il rito abbreviato, mentre per il Colonnello dei Carabinieri si procedette separatamente con rito ordinario.

Al termine del giudizio abbreviato, al quale non partecipò il Ministero della Difesa, il Comandante della Task Force venne condannato a due anni di reclusione mentre l'ex Comandante venne assolto con formula piena.

Il gravame proposto avverso tale decisione dalla pubblica accusa, dalle parti civili e dal Comandante veniva deciso con sentenza della Corte d’Appello Militare di Roma n. 52 del 2009, con cui entrambi gli imputati venivano assolti “perché il fatto non costituisce reato”, avendo agito “nell’adempimento del dovere imposto dalla legge e dagli ordini superiori”, ai sensi dell’art. 51 c.p.

Avverso tale decisione le parti civili proponevano ricorso per Cassazione. La I sez. penale con sentenza n. 20123 del 20.05.2011 escludendo che potesse applicarsi la scriminante ex art. 51 c.p., annullava la decisione di appello nei confronti del Comandante ai soli effetti civili, rinviando per un nuovo giudizio dinanzi alla Corte d’Appello Civile di Roma ai fini dell’accertamento della condotta colposa attribuita al Brigadier Generale.

Le parti civili riassumevano il giudizio innanzi alla Corte territoriale.

La Corte aderiva con quanto già statuito nelle precedenti sentenze e in particolare con la Corte di Cassazione Penale.

Nello specifico il Giudice di appello evidenziava: 1) la ”concretezza della condotta incriminata”, la quale rivelava atteggiamenti colposi di imprudenza e negligenza, concernenti: A) la “valutazione dei livelli di rischio”; B) la “necessità di innalzare le misure di protezione passiva” e la “necessità di una revisione (delle misure adottate)” ; 2) l’esistenza “di elementi di colpa in capo al Comandante”, in ragione della sua “posizione di garanzia”, ossia : A) “ sussistenza di effettivo e crescente pericolo specifico, come imminente, almeno dall’ottobre 2003” (per aver ricevuto dal SISMI il 23.10.2003 e il 25.10.2003 dei messaggi con cui gli si comunicava la prossimità di un attacco e il tipo di mezzo che sarebbe stato usato, e di nuovo il 05.11.2003, gli veniva comunicata la circostanza che un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e yemenita si sarebbe trasferito a Nassirya);  B) “conoscenza di tale pericolo nei termini” e la “sottovalutazione di un allarme così puntuale e prossimo”; C) “complessiva insufficienza delle misure di sicurezza passive poste in essere” (mancanza di un area di rispetto, inesistenza di una serpentina, hesco bastion troppo bassi riempiti di ghiaia anzichè di sabbia (quindi passibili di trasformarsi in proiettili); 3) la sussistenza di un effettivo nesso di causalità.

Inoltre alcun pregio veniva conferito dalla Corte d’Appello alle difese del Comandante, giacchè la sua tesi difensiva di non aver potuto attuare misure di sicurezza più incisive (in quanto avrebbero incrinato il rapporto di fiducia e la pacifica convivenza con la popolazione locale), per attuare le direttive (del Ministero della Difesa) di una presenza “soprattutto umanitaria” dei militari nel tessuto urbano di Nassirya, contrasta con l'ordine emanato dall'alto ufficiale, con il quale disponeva il progressivo trasferimento di alcune basi del contingente italiano verso aree più sicure della città.       

In ragione di quanto fin qui esposto, la  I sez. della Corte d’Appello con sentenza n. 824 del 08.02.2017, riteneva accertata la responsabilità del Comandante dell'Italian Joint Task Force in relazione al reato contestatogli e fondata la domanda risarcitoria proposta dalle parti civili nei suoi confronti, ne disponeva quindi la liquidazione in separato giudizio, condannava inoltre il Comandante al pagamento delle spese di lite.

Avverso la sentenza della Corte territoriale di Roma veniva proposto ricorso per Cassazione dal Comandante, le parti civili resistevano presentando controricorso, il Ministero della Difesa presentava ricorso incidentale.

Con il primo motivo di ricorso il Comandante denunciava, ai sensi dell’art 360 primo comma, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 384, secondo comma c.p.c., 622 c.p.p. e 6 par. 2 CEDU.

Per  il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe violato le suddette  norme, perché pur essendo stata annullata dalla Cassazione penale solo agli effetti civili la sentenza della Corte d’Appello Militare, la quale ricordiamo, aveva assolto l’imputato dal reato di distruzione pluriaggravata colposa di opere militari, “perché il fatto non costituisce reato”, rinviando così al giudice civile ai soli fini dell’accertamento della condotta colposa dell’imputato sia sull’an  che sul quantum , non si sarebbe uniformata con quanto stabilito dalla Cassazione penale sull’accertamento della responsabilità del Comandante, ma si sarebbe limitata ad un testuale copia-incolla delle motivazioni di tale decisione.

Inoltre, la Corte territoriale non avrebbe accertato autonomamente i fatti e le prove, riguardo alla responsabilità del Comandante circa il reato ascrittogli, ritenendo che tale responsabilità derivasse automaticamente dall’annullamento ai soli effetti civili della Cassazione, e inoltre la formula adottata in dispositivo, cioè quella di conferma delle statuizioni civili della sentenza resa dal Tribunale Militare di Roma, “non sarebbe conforme al giudizio di rinvio”, essendo stata la sentenza del G.U.P riformata integralmente dalla Corte d’Appello Militare di Roma.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c. primo comma, n. 3., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.

La doglianza deriverebbe dal fatto che, la Corte territoriale al fine di accertare la responsabilità del Generale riguardo al reato contestatogli, e dal quale era stato assolto, avrebbe dovuto far ricadere l’onere della prova in capo agli attori circa i profili relativi “alla costruzione dell’agente modello, alla prevedibilità, e soprattutto alla evitabilità dell’evento”, ha invece erroneamente ribaltato l’onere probatorio in capo al convenuto, limitandosi solo ad “un letterale copia-incolla” della decisione della Corte di Cassazione Penale, ritenendo che da questa derivasse “l’automatico accertamento di responsabilità”.

Inoltre, lamenta il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe considerato “una serie di elementi utili ai fini dell’accertamento di assenza di responsabilità civile in capo al Comandante per il reato contestatogli”, pur essendo stati allegati e argomentati nei propri atti difensivi, che qui si riportano:  

  1. La consulenza tecnica volta alla dimostrazione del quantitativo di esplosivo utilizzato nell’attentato
  2. La prova fornita attraverso la trascrizione delle dichiarazioni testimoniali rese nel corso del processo, riguardo all’imprevedibilità dell’evento
  3. La prova sulla non prevedibilità dell’evento in relazione all’”enorme quantitativo di esplosivo utilizzato”, per cui l’unico modo di scongiurare l’evento sarebbe stata la “creazione di un area di rispetto particolarmente estesa” ma non realizzabile, essendo la base Maestrale collocata nel tessuto urbano di Nassirya.

In sostanza, per il ricorrente la Corte d’Appello sarebbe incorsa in un “evidente omessa motivazione” non esaminando opportunamente né le sue difese nè quelle del Ministero, difese, stando a quanto sostenuto dal Comandante, che se debitamente valutate avrebbero condotto la Corte verso “una decisione di segno diametralmente opposto”  a quella presa, per essere l’evento imprevedibile, e comunque non evitabile.

La Corte di Cassazione ritiene di poter  esaminare i primi due motivi congiuntamente in quanto connessi.

I motivi vengono giudicati in parte infondati e in parte inammissibili.

Riguardo al primo motivo di ricorso, la Corte si riporta a quanto da lei già precedentemente esposto con la sentenza n. 15859 del 12.06.2019, riguardo al principio che deve guidare il giudice nello scrutinio del ricorso: “il giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. è solo formalmente una mera prosecuzione del processo penale e si configura, invece, come sostanziale translatio iudicii dinanzi al giudice civile, per cui, seppur tecnicamente regolato dagli artt. 392-394 c.p.c., non è affatto ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Pertanto, la Corte di appello civile, competente per valore, alla quale è stato rimesso il procedimento ai soli effetti civili, è tenuta a seguire le regole, processuali e sostanziali, proprie del giudizio civile, vertendo il giudizio di rinvio sull’azione civile che si svolge in autonomia rispetto alla fase penale che, rimasta ormai priva di qualsivoglia interesse, si è definitivamente esaurita a seguito della pronuncia emessa dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 622 c.p.p.“

Di conseguenza, non esistendo, alla luce del combinato disposto degli artt. 622 c.p.p. e 384 secondo comma c.p.c., alcun vincolo per il giudice del rinvio derivante dalla sentenza rescindente della Cassazione penale, non vi è nemmeno stata una violazione delle citate norme processuali per non essersi il Giudice di rinvio uniformato alla decisione della Cassazione.  Ragion per cui la Corte dichiarava il motivo infondato.

Quanto al secondo motivo di ricorso, la Cassazione rileva che se è pur vero che la Corte territoriale ha affermato di sentirsi “vincolata” al dictum della Cassazione penale, la formazione del suo autonomo convincimento riguardo alla responsabilità civile del ricorrente, va colta nell’individuazione da parte della corte territoriale della sussistenza di tutti gli elementi strutturali del fatto illecito contestato, cioè nesso di causalità e colpa, a cui essa può benissimo arrivare basandosi sulla valutazione delle prove raccolte nel precedente giudizio penale e ricavate direttamente dalla sentenza emessa a seguito di un giudizio penale.

Sentenza, che se pur non vincolante, costituisce comunque una valida prova atipica, e in quanto tale rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che può pienamente utilizzarla, in quanto al di là del caso delle prove legali, non esiste alcuna gerarchia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori.

Quanto invece all’asserita violazione dell’art. 2697 c.c. la Corte rileva che, l’accertamento della responsabilità aquiliana del Comandante, è avvenuto in forza del convincimento formatosi dalla Corte territoriale sul corredo probatorio tratto dalla sentenza della Cassazione penale, senza aver effettuato alcuna inversione dell’onere della prova dai danneggiati al danneggiante, ma facendo applicazione del principio di acquisizione probatoria, che impone al giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito, da qualsiasi parte provenga.

Anche questo motivo viene ritenuto infondato.

E’ opportuno a questo punto soffermarsi sull’argomentazione su cui si basa il terzo motivo del ricorso, con cui il ricorrente denunciava ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 3, c.p.c.,  violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 23 del D.P.R. n. 3 del 1957 e degli artt. 384, secondo comma c.p.c. e 622 c.p.p.

Secondo quanto sostenuto dal Generale, la Corte d’Appello non avrebbe svolto in violazione degli artt. 22 e 23 del D.P.R. n. 3 del 1957, alcun accertamento sul grado di colpa contestatagli, non verificando la gravità dell’elemento psicologico richiesto dalle menzionate disposizioni, non adempiendo quindi al mandato conferitole dalla Cassazione Penale, in ordine al pieno accertamento della responsabilità del medesimo.

La Cassazione rigettava il ricorso ritenendo infondato anche questo motivo, in quanto la Corte Territoriale ha correttamente individuato, nei termini essenziali, l’evento lesivo in concreto determinatosi (distruzione della base militare con  conseguente morte o ferimento degli occupanti) come prevedibile ex ante (in ragione dell’attentato compiuto con automezzo carico di esplosivo), nonchè la condotta cautelare esigibile dall’agente modello (ossia il comandante) idonea ad evitarlo (chiusura della strada che fiancheggiava la base e del ponte Al Zaytun, hesco bastion più alti, etc.) nel contesto di una situazione che richiedeva un drastico innalzamento delle misure di sicurezza, che nonostante i numerosi e circostanziati allert dei servizi segreti, non venne attuato.

Inoltre del tutto congrue vengono ritenute dalla Suprema Corte, le misure di sicurezza individuate dalla Corte d’Appello di Roma,  misure, che se tempestivamente adottate, avrebbero potuto scongiurare la strage o quanto meno, contenere le perdite.

Tra queste vi sono la chiusura del ponte Al Zaytun, la chiusura della strada circostante alla base, il posizionamento di hesco bastion più alti e riempiti di sabbia anziché di ghiaia e l’istituzione di posti di blocco.

Inoltre, anche in questa sede, viene ritenuto privo di fondamento e contraddittorio l’assunto del Comandante, in base al quale la sua colposa inattività era da ricondursi alla volontà di obbedire all’ordine superiore di attuare le direttive di una “presenza soprattutto umanitaria“ nel centro urbano di Nassirya, in quanto contrastante con le sue già menzionate direttive di lasciare la base Maestrale.

In conclusione, la Cassazione giudica prive di fondamento le doglianze del ricorrente, e corretta la decisione dalla Corte territoriale, in quanto conforme al principio di diritto enunciato dalla Cass. sentenza n. 4587 del 25.02.2009, secondo cui la “responsabilità civile personale dei funzionari e dipendenti dello stato, nonché degli enti pubblici, ai sensi dell’art. 23 del D.P.R. n. 3 del 1957 non postula che l’ordinamento tolleri un comportamento lassista di costoro o li esponga alla responsabilità nei confronti dei terzi danneggiati solo in presenza di macroscopiche inosservanze dei doveri di ufficio o di abuso  delle funzioni per il perseguimento di fini personali, giacchè si ha colpa grave anche quando l’agente non faccia uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali esigibili in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito.”

Con ricorso il Ministero della Difesa ha denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c. , primo comma, n. 4, un error in procedendo per violazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 101, comma 1 c.p.c., sostenendo che la Corte territoriale avrebbe errato ad accogliere la domanda risarcitoria anche nei confronti del Ministero, evocato nel giudizio di appello, a seguito di riassunzione, nonostante non avesse partecipato al giudizio abbreviato contro il Comandante in base all’art. 87 comma 3 c.p.p.

Il ricorrente basa il ricorso sulla percezione che pur non essendo stato condannato dalla Corte d’Appello, in quanto ad essere condannato è stato il solo Comandante, l’accoglimento della domanda risarcitoria nei suoi confronti deriverebbe dalla “statuizione esonerativa delle spese, resa con riferimento al Ministero” che, a parere del ricorrente, sembrerebbe supporre  la corresponsabilità civile per il fatto commesso dal Generale.

Il ricorso è rigettato ai sensi dell’art. 100 c.p.c. per mancanza di interesse ad agire.

La Cassazione  chiarisce, che nella decisione della Corte territoriale non vi è alcuna soccombenza del Ministero, in quanto ad essere condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili è stato il solo Comandante, e che alcuna corresponsabilità indiretta, ex art. 28 cost. del Ministero è desumibile nel dispositivo della sentenza o nella motivazione.

Né alcuna responsabilità della Difesa può implicitamente desumersi nella “statuizione esonerativa delle spese” pronunciata dalla Corte nei confronti del ricorrente, in quanto tale statuizione è semplicemente relativa alla partecipazione del Ministero al giudizio e alla sua posizione  in difesa delle ragioni dell'alto ufficiale.

 2. Responsabilità civile del pubblico dipendente

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte è intervenuta sulla responsabilità civile dei militari per violazione dei diritti dei terzi a norma dell’art. 28 cost., innanzitutto, la Corte ha ribadito che l’accertamento sull’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano relativo alla pretesa risarcitoria per morte e lesioni subite dalle vittime dell’attentato, integrando il “danno ingiusto” ex art. 2043 c.c., è da svolgersi in ragione della sussistenza della colpa grave, come previsto, unitamente al dolo, dal combinato disposto degli artt. 22 e 23 del D.P.R. n. 3 del 1957, e che dette norme sono applicabili anche ai militari in base all’art. 532 del codice dell’ordinamento militare (1).

Il principio relativo alla responsabilità dei pubblici dipendenti è dettato dall’art. 28 della Costituzione in base al quale:  “I Funzionari e i dipendenti dello stato e degli Enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli Enti pubblici”. 

 I dipendenti pubblici,  rispondono quindi direttamente dei danni prodotti dal loro comportamento nell’esercizio delle proprie funzioni verso terzi per responsabilità civile extracontrattuale  ai sensi dell’art. 2043 c.c..

Recita infatti l’art. 2043 : ”Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

E’ però necessario, al fine di ravvisarsi una responsabilità extracontrattuale in capo al dipendente, che concorrano unitamente i seguenti elementi costitutivi della responsabilità aquiliana, i quali sono: fatto dannoso, come conseguenza di azione o omissione, antigiuridicità, cioè violazione di norme giuridiche di relazione o comportamenti illeciti del dipendente, la colpevolezza dell’agente per dolo o colpa grave, l’evento potenzialmente dannoso e infine la violazione di un diritto soggettivo.

Inoltre per potersi addebitare in capo al dipendente, la responsabilità aquiliana, non è sufficiente ai fini dell’azione di risarcimento del danno, che a carico dell’operatore, venga rilevata una qualsiasi trasgressione delle norme, ma è fondamentale la sussistenza del nesso di causalità, in quanto è necessario, che il terzo danneggiato,  dimostri in modo certo e inconfutabile che tra la trasgressione e l’evento dannoso sussista un rapporto diretto e immediato di causa ed effetto o che detta trasgressione abbia, in qualche misura, potuto incidere sulla produzione  del danno (2).

Da quanto fin qui esposto se ne deduce, che il fondamento della responsabilità dei pubblici dipendenti verso la Pubblica Amministrazione, nonché di questi ultimi e dell’Amministrazione verso i terzi è essenzialmente identico a quello sul quale si basa la responsabilità dei privati, ovvero il principio, secondo il quale colui che lede un diritto altrui e cagiona ad altri un danno, è tenuto a risarcire il danno stesso (3).

la responsabilità può quindi gravare personalmente sul dipendente pubblico nell’esercizio delle sue funzioni ed attività, ai sensi dell’art. 2043 c.c. per danni cagionati a terzi, ma nel caso in cui, in base al principio di corresponsabilità della P.A. derivante dal rapporto di immedesimazione organica-che lega il dipendente con la P.A.-, l’amministrazione abbia risarcito il danno al terzo cagionato dal dipendente, può rivalersi agendo contro quest’ultimo nei soli casi di dolo o colpa grave (4).

In quanto per effetto dell’art. 28 cost., la responsabilità dell’Ente Pubblico, rispetto a quella dei propri dipendenti, è in relazione di solidarietà e concorrenza alternativa, e ciò comporta che il terzo danneggiato può agire ugualmente al fine di essere risarcito, sia nei confronti dell’Ente che dell’agente, ma la richiesta di risarcimento all’uno preclude l’analoga richiesta all’altro.  

 Da ciò consegue che nel caso di fatto commesso con “colpa lieve” sarà configurabile unicamente la responsabilità diretta dell’Ente Pubblico; né i terzi possono agire direttamente nei confronti dei dipendenti, né l’Amministrazione ha la facoltà di rivalersi per quanto da essa pagato al danneggiato. 

Appare a questo punto opportuno chiarire alcuni concetti fondamentali, quali sono: il dolo, la colpa grave e l’immedesimazione organica.

Il dolo, ai sensi dell’art. 43 c. p., si manifesta quando «l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione».

La colpa grave diversamente, sussiste solo in presenza di ben connotati elementi, che si riscontrano nell’inosservanza del minimo di diligenza richiesta nel caso concreto o in una marchiana imperizia o in un’irrazionale imprudenza, che in definitiva può essere riassunta in una sprezzante trascuratezza dei propri doveri, resa estensiva attraverso un comportamento improntato alla massima negligenza o imprudenza ovvero ad una particolare non curanza degli interessi pubblici.

 Quanto all'immedesimazione organica essa, viene esaustivamente definita dalla Suprema Corte (5):  "Affinchè ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, anche la riferibilità all'amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all'amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l'attività del dipendente e la P.A." (6).

Orbene per valutare in concreto la condotta del pubblico dipendente in modo da poter  escludere, o al contrario, potergli addebitare  dolo o colpa grave,  sarà necessario ricondurre il comportamento del dipendente alla regola del c.d. ”agente modello”  cioè dell’homo eiusdem generis et condicionis  ex art. 1176, II  comm. c.c., in grado quindi di svolgere al meglio, anche in base all’esperienza collettiva, il compito assunto (evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili); modello standard di comportamento la cui perimetrazione va, dunque, compiuta in base ai criteri della diligenza dettati dall’art. 1176 c.c., quale disposizione che trova applicazione anche alle obbligazioni ex art. 2043 c.c. (7).

Ciò implica, pertanto, la definizione dell’evento lesivo nei suoi termini essenziali e la verifica, quindi, se esso, ex ante, nelle circostanze date, fosse prevedibile ed evitabile dall’agente modello mediante il rispetto della regola cautelare.

Nel caso di specie la responsabilità civile del Comandante dell'Italian Joint Task Force deriva dalla posizione di garanzia da lui ricoperta, che si concretizza nell’obbligo giuridico che grava su specifiche categorie di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri giuridici, di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli (8).

Questa definizione di situazione si fonda sull’esistenza di un rapporto di protezione, che intercorre tra il garante, il Comandante dell’Italian Joint Task Force Iraq,  ed un bene o alcuni beni, in questo caso le truppe a lui affidate e le basi delle missioni, contenuto nell’articolo 40, comma 2 c.p.: “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico d’impedire, equivale a cagionarlo” (9).

3. Conclusioni

La decisione in commento è particolarmente interessante, in quanto riguarda la responsabilità extracontrattuale diretta del militare per i danni arrecati a terzi nell’esercizio delle sue funzioni, problematica trattata in verità assai di rado, dal momento che la casistica giurisprudenziale ha da sempre evidenziato, che solo raramente venga evocato, in un giudizio risarcitorio, il militare personalmente, preferendo il terzo danneggiato convenire il ben più solvibile Ministero della Difesa. Nel caso di specie, ad essere convenuto in giudizio è stato il solo Comandante della Task Force, in quanto la Difesa aveva già parzialmente indennizzato stragiudizialmente le vittime della strage.

Anche in questo caso, se è vero che ad esser condannato è stato l'ufficiale al comando, è il Ministero della Difesa che si è fatto materialmente carico del risarcimento, ancor prima che si arrivasse ad una condanna.

Né del resto, nel caso in cui ad essere convenuto in giudizio fosse stato il solo Ministero della Difesa sarebbe stato realmente possibile rivalersi sul Comandante. In caso di condanna, infatti, la Difesa ha sì il dovere di rivalersi nei confronti del militare, segnalando la notitia damni, vale a dire l’intervenuta condanna risarcitoria definitiva della pubblica amministrazione in sede civile, alla Procura della Corte dei Conti, o più raramente, attivando un’azione civile per risarcimento danni innanzi all’Autorità Giudiziaria Ordinaria, ma la rivalsa dell’amministrazione innanzi alla Corte dei Conti, tuttavia, non consegue quasi mai un reale recupero dei risarcimenti erogati ai danneggiati.

 L’accollo in capo alla collettività dei danni risarciti dall’amministrazione, e solo in minima parte refuso dal pubblico dipendente: difatti in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari della Corte dei Conti, i vari Procuratori generali hanno chiarito che delle condanne pronunciate dalla Corte dei Conti si recupera concretamente meno del 10%, a causa della scarsa solvibilità del pubblico dipendente, notoriamente incapiente e tutelato da una legislazione di favor che impedisce aggressioni della retribuzione, della pensione e della buonuscita oltre il quinto. Ne consegue che il costo dei danni arrecati a terzi da pubblici dipendenti, dopo la condanna o non viene recuperato o viene recuperato soltanto in minima parte, restando così a carico della collettività (10).

Quanto fin qui esposto evidenzia che in mancanza di un intervento legislativo, volto all’introduzione di un adeguata polizza di assicurazione per la responsabilità civile, che copra esclusivamente i danni a terzi comportanti una diminuzione dell’integrità psicofisica, anche per i militari investiti di responsabilità di comando, al pari di altri dipendenti pubblici come, ad esempio avviene per il personale delle Unità Sanitarie Locali (11), oppure per il personale incaricato della progettazione di opere pubbliche (12), i costi prodotti dalle azioni o dalle omissioni dei Comandanti ricadranno sempre, e quasi esclusivamente, sulla collettività.

Una siffatta polizza assicurativa, prevedendo esclusivamente il risarcimento dei danni cagionati a terzi, dal comandante nell’esercizio delle sue funzioni, comportanti una diminuzione dell’integrità psico fisica, non è in contrasto con la legge (13), che prevede la nullità del solo contratto di assicurazione con il quale un ente pubblico assicuri i propri amministratori per i rischi derivanti dall'espletamento dei compiti istituzionali connessi con la carica e riguardanti la responsabilità per danni cagionati allo Stato o ad enti  pubblici e la responsabilità contabile (14) (15).

Né può essere intesa come un modo per deresponsabilizzare i comandanti riguardo alle conseguenze delle proprie azioni o omissioni, per che se così fosse, si dovrebbe a questo punto sostenere lo stesso anche per le leggi che prevedono copertura assicurativa, a carico degli enti pubblici, per il personale sanitario e i progettisti ad esempio. L’auspicato intervento legislativo invece, ha come unico scopo quello di poter risarcire le vittime in modo più veloce e senza gravare eccessivamente sulla collettività; perché se è pur vero, che una polizza assicurativa, che copra tutti i danni psicofisici arrecati dal militare con responsabilità di comando e che opera nell’esercizio delle sue funzioni, potrà avere un costo elevato, questo sarà certamente  minore di quello che, di fatto, lo Stato è costretto a sostenere in tutti casi di risarcimento giudiziale o stragiudiziale dei danni.

L’urgenza di una legge in subiecta materia si fa sempre più stringente in relazione ai delicati compiti che le nostre forze armate sono chiamate a svolgere, sia in molteplici teatri internazionali particolarmente “caldi”, si pensi alle operazioni di peacekeeping o di anti terrorismo; che in patria come ad esempio nell’Operazione Strade Sicure, oppure in operazioni di anti terrorismo in occasione di meeting internazionali o di attentati.

In definitiva una polizza assicurativa che copra la responsabilità civile per i danni in questione, oltre ad evitare che elevati risarcimenti ricadano quasi interamente sui cittadini, toglie anche dalle spalle dei Comandanti di unità, impegnati in pericolose missioni, un pesante fardello, quale è la preoccupazione - oltre che per la propria incolumità - di vedersi pignorato, in caso di condanna civile al risarcimento dei danni, parte dello stipendio e successivamente della pensione.


Note e riferimenti bibliografici

(1) Corte di Cassazione sentenza n. 15930 del 13.11.2002

(2) Corte di Cassazione sentenza n. 500 del 1999 

(3) P. Garofali e A. Liberati Laresponsabilità della Pubblica Amministrazione e dei suoi dipendenti, Giuffrè Editore, 2005

(4) V. Poli, La responsabilità del pubblico funzionario in diritto 

(5) Corte di Cassazione sentenza n. 20986 del 08.10.2007

(6) Corte di Cassazione Sentenza n. 24744 del 21/11/2006 e n. 10803 del 12.08.2000.

(7) ex multis, Corte di Cassazione n. 2639 del 10.03.1998, Cass.,  n. 17397 del 08.08.2007, Cass., n. 25416 26.10.2017 e Cass., n. 4908 del 01.03.2018

(8) F. Mantovani, Diritto penale, parte generale, Cedam, 2001.

(9) G. Crea, le posizioni di garanzia, Diritto e Diritti, 2011

(10) TENORE, La nuova Corte dei conti: responsabilità, pensioni, controlli, Milano, 2004, 7 ss.

(11) art. 28 D.P.R. 761/1979

(12) art. 17 L. 109/1994

(13) ex multis Corte dei conti Toscana sentenza n. 243 del 12.10.2017, Corte dei Conti sez. I della Giurisdizione Centrale, sentenza n. 394 del 02.09.2008 e Corte dei Conti Puglia sentenza n. 95 del 07.02.2004

(14) art. 3, comma 59, della legge 244/2007.

(15) Corte dei Conti Puglia sentenza  n. 363 del 27.10.2011