Pubbl. Mar, 14 Lug 2015
La codardia nel diritto penale militare
Modifica pagina
Saverio Setti
La risposta sanzionatoria del diritto militare nei confronti della codardia in pace e in guerra.
1. Premessa
È nel concetto di guerra o, comunque, di scontro che, storicamente, si può far risalire il concetto di onore. Sebbene oggi questo valore non sia più esclusivo dell’ambiente in qualche modo “militare” ma possa ben venire in evidenza nella maggior parte dei settori della vita lavorativa e anche ricreativa dei consociati, è forse nell’ambito delle Forze Armate, di Polizia o, comunque, nell’ambito di chi, in ogni modalità, presta le proprie forze lavorative al servizio di una collettività che questo concetto viene ad evidenziarsi, non solo come parametro di legittimità morale dell’agire umano ma può assumere netta rilevanza giuridica.
Varie, infatti, sono le previsioni legislative che, anche al di fuori del contesto militare, esplicitamente o implicitamente coinvolgono il concetto di onore. Si pensi alle norme che dispongono che chi esercita funzioni giudiziarie deve giurare di «osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere con coscienza i doveri inerenti al (suo) ufficio»[1] o al reato, proprio del Comandante, di cui all’art. 1097 del Codice della navigazione inerente l’abbandono nave.
È però nell’assai risalente concetto di etica militare che l’onore assume posizione centrale nell’agire del miles nei confronti dei compagni d’arme, dei civili e del nemico. E si trattava di una posizione non solo moralmente ma anche effettivamente rilevante sul piano giuridico. Il soldato romano congedato in honesta missio aveva diritto ad una rilevante indennità di fine rapporto in danaro[2] o in proprietà rurale coloniale[3]. Se il soldato non era cittadino, gli era concesso lo ius connubii.
La trattazione agile richiesta in questa sede non permette ulteriori approfondimenti, ma consentirà di definire il concetto di onore, base sostanziale del trattamento sanzionatorio dei comportamenti di codardia previsto dal nostro ordinamento militare.
2. La codardia.
La definizione di onore è stata positivizzata[4] dai codici cavallereschi medievali. Nella sua ultima versione del 1926, l’art. 5 del Codice cavalleresco italiano dispone che «L'onore viene determinato dalla stima e dalla considerazione che una persona onesta ha saputo acquistarsi nella opinione pubblica mediante le azioni, conformi sempre ai dettami delle leggi naturali e di quelle civili. Il sentimento dell'onore nei gentiluomini deve dominare tutte le gerarchie dei doveri.».
Questo valore è reso direttamente applicabile ad ogni comportamento del militare che, nel prestare il giuramento disposto dalla legge[5], si impegna ad «[…] adempiere con disciplina ed onore tutti i doveri» del suo stato.
Ciò premesso, è evidente come, ai fini generalpreventivi, sia necessaria una risposta sanzionatoria dello Stato dinnanzi ad una violazione del dovere di agire con onore.
Definita, allora, codardia il comportamento del codardo, quindi di persona che, per viltà e pusillanimità, viene meno ai propri doveri o comunque evita di affrontare rischi o pericoli[6], ben si comprende come il Legislatore abbia, fin nei codici più risalenti, sanzionato il comportamento del militare codardo.
La legislazione penale militare del Regno d’Italia attingeva pienamente ai principi ed ai valori suddetti. L’art. 91 del Codice penale per l’Esercito[7] puniva con la reclusione non minore di anni dieci il militare che durante il combattimento e senza ordine del comandante avesse gridato di arrendersi o di cessare il fuoco. Alla pena di morte, ai sensi dell’art. 92, soggiaceva il militare che in faccia al nemico si fosse sbandato, avesse abbandonato il posto o non avesse messo in atto la possibile difesa.
La giurisprudenza aveva ravvisato la codardia, ad esempio, nel fatto che il militare si fosse ritirato subito dal combattimento abbandonandovi i suoi compagni[8] o il suo superiore[9], o, ancora, che il militare non avesse aperto il fuoco, ma fosse fuggito, di fronte ad una banda di insorti[10].
Dall’analisi dottrinale e giurisprudenziale delle fattispecie dell’epoca è, però, evidente che la codardia si risolvesse in ogni caso ratio della disposizione di legge o della decisione, ma mai quale elemento costitutivo della fattispecie criminosa. Il disvalore della condotta, infatti, veniva rappresentato dalla violazione dei doveri militari.
È con la legislazione attuale che il concetto di codardia non solo appare pienamente positivizzato, ma assume qualità di elemento penalistico delle fattispecie ed, addirittura, funzione dogmatico-classificatoria tanto che il c.p.m.g. ha espressamente previsto un intero titolo dedicato ai reati di codardia.
3. La codardia nel Codice penale militare di pace.
È bene premettere che la codardia viene ad assumere evidenza giuridica secondo due modalità.
In primo luogo, ai sensi dell’art. 47 c.p.m.p. essa può aggravare il reato. Infatti l’avere agito per timore di un pericolo, al quale il colpevole aveva il dovere giuridico di esporsi, comporta un aumento della pena. Così è, ad esempio, il caso del militare rifiuta di eseguire l’ordine di “uscire in pattuglia” per il timore di essere oggetto di azioni violente da parte di malavitosi o forze avversarie; a costui verrà imputata la disobbedienza aggravata.
In secondo luogo la codardia assume vera e propria qualificazione penalistica nell’art. 137 c.p.m.p. che incrimina il militare, che, in caso di tempesta, naufragio, incendio o altra circostanza di grave pericolo, compie atti che possono incutere lo spavento o provocare il disordine.
Si tratta di un reato a forma libera, con elemento soggettivo costituito dal dolo. È, però, possibile affermare che sia sufficiente il dolo eventuale: basterà, quindi, che il militare si prefiguri la possibilità che, a seguito della sua condotta, si determinino le conseguenze dello spavento e del disordine perché il fatto gli possa essere addebitato come reato. Ontologicamente configurabile, ma non normativamente possibile è il tentativo. L’agente è, infatti, punito solo se lo spavento o il disordine si producono e se da essi nasce un fatto tale da compromettere la sicurezza di un posto militare. Com’è evidente, si tratta di una struttura incriminatrice abbastanza complessa sul piano probatorio, in quanto, oltre alla prova del dolo, sarà necessario provare non solo che gli atti posti in essere dall’agenti sono di per sé idonei a provocare spavento[11] o disordine[12] nei confronti di altri soggetti (militari o civili) ma che da questa situazione, con prova del nesso di causalità, è derivata una compromissione della sicurezza di un posto militare.
Il trattamento sanzionatorio consiste nella reclusione militare da sei mesi a cinque anni. Ad essa si aggiunge la rimozione[13]. Il reo è, infatti, non meritevole di conservare il grado, dunque ne viene rimosso e cessa dall’incarico. Si tratta di una sanzione accessoria dall’antico retaggio, risalente al diritto romano[14] e che, in epoca moderna, consisteva in una vera e propria cerimonia militare pubblica nella quale al condannato erano tolte le insegne di grado e le medaglie e, se Ufficiale, era spezzata la sciabola.
Proceduralmente si tratta di reato perseguibile d’ufficio e per il quale non è prevista la eventuale conversione della pena detentiva nella consegna di rigore[15].
4. La codardia nel Codice penale militare di guerra.
Più severa è, ovviamente, la risposta sanzionatoria alla codardia nel codice penale militare di guerra: in caso di conflitto, infatti, una manifestazione di viltà non solo sarebbe idonea ad ingenerare in terzi sentimenti di emulazione, ma, quand’anche essi non fossero suscitati, minerebbe alla base la coesione di un’unità e garantirebbe un evidente vantaggio alle forze avversarie. Da notare come il codice di guerra dia una definizione positivizzata di codardia come «timore di un pericolo personale»[16].
Ciò premesso, il c.p.m.g. dedica, all’interno del Titolo terzo rubricato «reati contro il servizio di guerra», l’intero capo secondo a reati i cui elementi comuni sono la codardia ed il contesto spazio-temporale di commissione (durante il combattimento) ovvero il fatto di porsi in condizione di evitare l’assegnazione a reparti di proiezione. Gli articoli dal 108 al 118 incriminano, dunque, quei fatti che trovano la loro ratio essendi nella viltà, vista come violazione del dovere giuridico proprio del militare di esporsi al pericolo, ad esempio le mutilazioni volontarie (artt. 115), l’incitamento immotivato alla resa (art. 109), altri atti fraudolenti diretti ad evitare l’esposizione, anche potenziale, al combattimento (artt. 115 – 117) ed anche l’omesso impedimento di fatti di codardia (art. 114).
È interessante notare come questo impianto normativo, che in tempo di pace tende a svalutare il movente dell’azione criminosa, sia volto a punire con severità e precisa elencazione delle fattispecie i reati di codardia in guerra.
In questi casi, infatti, la codardia, dunque il motivo a delinquere, è carattere strutturale della norma incriminatrice. Su questo punto convergono sia la dottrina che la giurisprudenza.
Nell’unico, finora, caso in cui il giudice militare repubblicano si è trovato ad applicare l’art. 118 del c.p.m.g.[17], il motivo a delinquere ha assunto rilevanza decisiva in ordine alla decisione del GUP militare.
Quest’ultimo, nella sentenza n. 28 del 24 febbraio 2005, osserva che «non ogni inottemperanza ai doveri militari rileva ai fini dell’applicazione dell’art. 118; ma solo quelle che trovino nella codardia la propria origine determinante, ovvero appunto la propria causa: occorre, cioè, in definitiva, che il timore personale occupi in via esclusiva l’animo del soggetto attivo al punto tale da indurlo, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione, ad abbattere il diaframma costituito dalle prescrizioni disciplinanti il servizio, muro al riparo del quale dovrebbe invece custodire intatto il senso del dovere».
[1] Art. 9, R.D. 12/1941.
[2] Numeraria missio.
[3] Agraria missio.
[4] Si noti come i Codici cavallereschi non fossero altro che una raccolta di consuetudini cavalleresche; cfr. art. 4 del Codice cavalleresco italiano, 1926.
[5] Art. 575 del D.P.R. 90/2010, TUOM.
[6] Def. Vocabolario Treccani.
[7] Che, allora, aveva portata applicativa anche nei confronti dei Carabinieri.
[8] Trib. Supr. di guerra e marina, 4 giugno 1877.
[9] Trib. Supr. di guerra e marina, 2 gennaio 1877.
[10] Trib. Supr. di guerra e marina, 16 agosto 1870.
[11] Inteso come un turbamento psichico forte ed improvviso, insorgente nel momento in cui si avverte un pericolo.
[12] Inteso come turbamento dell’ordinato e consueto svolgersi di un’attività.
[13] Cfr.: art. 70, 1° comma, numero 5), l. n. 113/1954 (ufficiali); art. 60, 1° comma, numero 7), l. n. 599/1954 (sottufficiali e volontari di truppa); art. 40, 1° comma, numero 7), l. n. 833/1961 (app. e finanzieri); art. 34, 1° comma, numero 7), l. n. 1168/1961 (app. e carabinieri).
[14] Che vedeva tre tipi di provvedimenti: la militiae mutatio, il trasferimento punitivo, la gradus dejectio, la retrocessione al grado di soldato e la ignominiosa missio, ovvero l’espulsione.
[15] Art. 260 c.p.m.p.
[16] Art. 114 c.p.m.g.
[17] «Il militare, che, per timore di un pericolo personale, viola alcuno dei doveri attinenti al servizio o alla disciplina, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a due anni.»
Immagine: Conrad Schumann fugge da berlino est, foto di Peter Leibing