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Pubbl. Ven, 19 Giu 2015

La libertà di cura: evoluzione giuridica e interpretazione normativa intorno al metodo Stamina tra Cassazione, Corte Europea e Consulta.

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Flavia Piccione


L’evoluzione giuridica del caso c.d. Stamina sembra aver raggiunto una conclusione pacifica. Ripercorriamo le fasi di dibattito giuridico che si sono succedute intorno a questo discusso metodo sanitario, affrontando casi simili (vedi la "cura Di Bella") e gli orientamenti giurisprudenziali nazionali e sovranazionali.


La vastità della portata assiologica del diritto alla salute, unitamente alle criticità proprie della tecnica giuridica di bilanciamento di interessi contrapposti, si sono riverberate sull’altalenante e, apparentemente chiusa, vicenda del “Metodo Stamina” (1)

Da ultimo, le tre recenti sentenze della Cassazione a riguardo esordiscono disconoscendo la validità scientifica del metodo, in quanto - si legge – “Allo stato non vi sono risultati consolidati né sul tipo di cellula da utilizzare né sulla via di somministrazione né sulla capacità di differenziazione e neppure sul reale beneficio clinico determinato da questo tipo di trattamenti. (…) Anche in merito alla copiosa documentazione depositata da Stamina sia presso il Ministero della Salute sia presso l'I.S.S., entrambe le istituzioni sono concordemente giunte alla conclusione che non di pubblicazioni scientifiche relative al metodo utilizzato si tratta bensì di studi relativi all'uso di cellule staminali mesenchimali, in relazione a determinate patologie, in cui la metodica Stamina non viene mai menzionata” (Cass., Sez. Pen. VI, Num. 24242/2015).

E si prosegue: “il cd. trattamento Stamina costituisca un medicinale tecnicamente imperfetto e somministrato in modo potenzialmente pericoloso per la salute pubblica, situazioni di per sé integranti la ricorrenza dei reati di pericolo presunto di cui agli artt. 443 e 445 cod. pen. che fondano il proprium del provvedimento di sequestro preventivo. (…) Detto trattamento costituisce a tutti gli effetti un medicinale imperfetto, tale dovendosi ritenere, fra gli altri, quello non preparato secondo le rigorose prescrizioni scientifiche o secondo i precetti della tecnica farmaceutica la cui somministrazione è considerata pericolosa dal legislatore a prescindere dai concreti effetti negativi o anche dall'assenza di effetti prodotti sulla salute dei pazienti, atteso che il pericolo non è un requisito del fatto, ma la ratio stessa dell'incriminazione penale” (Cass., Sez. Pen. VI, n. 24243/2015).

La pronuncia di cesura della Corte di Cassazione archivia la complessa vicenda Stamina che, a fronte delle incertezze ed oscurità sul piano scientifico e del consequenziale arresto normativo, ha dato luogo a clamorose ingiustizie tra quanti richiedevano di accedere al metodo Stamina. Ed infatti, nel Maggio 2012 l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), a seguito di un’ispezione disposta dalla Procura di Torino, ordina il divieto di “effettuare prelievi, trasporti, manipolazioni, colture, stoccaggi e somministrazioni di cellule umane presso l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia in collaborazione con la Stamina Foundation Onlus”.

L’interruzione delle terapie inaugura una fase di numerosi ricorsi avverso l’ordinanza, da parte delle famiglie dei bambini affetti dalle patologie neurodegenerative e dei pazienti che, rivolgendosi ai singoli tribunali locali, chiedevano l’accesso alla cura proposta da Davide Vannoni o la prosecuzione del trattamento già avviato. Tuttavia, giacché non tutte le pronunce furono di accoglimento, conseguì un’irragionevole disparità di trattamento tra i vari ricorrenti, aggravata dalla considerazione che, in difetto di precisi appigli normativi e di adeguate conoscenze scientifiche, la decisione circa l’accesso o meno alla terapia fu lasciata al convincimento soggettivo del singolo giudice.

In particolare, la gran parte delle ordinanze di accoglimento hanno fatto leva sulla precisazione della qualificazione normativa della terapia Stamina. Ne è un esempio l’ordinanza relativa al caso di Celeste Carrer, bambina affetta da atrofia muscolare spinale (SMA1), la quale, per effetto della terapia, aveva conosciuto un rallentamento del decorso della malattia. L’istanza di riattivazione del trattamento viene accolta partendo dall’assunto che “non si tratta di uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica, bensì di trattamento compassionevole su caso singolo, come tale regolato dalla c.d. legge Turco-Fazio 5 dicembre 2006”.

Il decreto citato si occupa dei medicinali per terapia avanzata e consente, ai sensi dell’art.1, co. 4, l’impiego di medicinali per terapia genica e per terapia cellulare somatica, anche al di fuori di sperimentazioni cliniche ed in mancanza di valida alternativa terapeutica, sotto la responsabilità del medico proscrittore e su singoli pazienti. Oltre all’ulteriore condizione del consenso informato del paziente, quanto alle qualità del medicinale si richiede che “siano disponibili dati scientifici atti a giustificarne l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali” e che sia acquisito il parere favorevole del Comitato etico.

Nell’ordinanza in esame, deboli sono i punti di prova del livello di scientificità del metodo, come richiesto dalla normativa, insistendo piuttosto sulla sussistenza delle altre condizioni di necessità della terapia quale unica alternativa possibile e di mancanza di effetti collaterali, concludendo che, trattandosi di cura compassionevole, la decisione va commisurata al singolo caso in vista della tutela del bene salute.

In seguito, al fine di evitare il proliferarsi di soluzioni casistiche, rimesse all’apprezzamento puramente soggettivo del singolo giudice - situazione questa certamente lesiva del principio di uguaglianza -  si introduce un regime uniforme mediante il D.L. 25 marzo 2013 n. 24, conv. in Legge 23 maggio 2013 n. 5733, la c.d. Legge Balduzzi, che dispone la prosecuzione ed il completamento dei trattamenti con medicinali a base di cellule staminali mesenchimali che siano stati già avviati, prima dell’entrata in vigore del decreto, su singoli pazienti, anche se “preparati presso laboratori non conformi ai principi delle norme europee di buona fabbricazione dei medicinali”.

Ciononostante, tale soluzione normativa, lungi dal livellare le posizioni dei vari pazienti, ha suscitato ancor più aspre critiche, lamentandosi il perdurare di un regime discriminatorio quanto all’accesso alla metodica Stamina poiché basato su un  mero criterio temporale.

In realtà, la Corte Costituzionale, con sent. 5 dicembre 2014 n. 274, esclude l’illegittimità costituzionale della legge Balduzzi, chiarendone la ratio sottesa e statuendo che, in linea di principio, le decisioni relative alle scelte terapeutiche non competono al legislatore, ma sono il risultato di ricerche scientifiche e sperimentali effettuate da istituzioni ed organismi tecnico-scientifici a ciò deputati; la legge denunciata di incostituzionalità rappresenta una deroga a siffatto ordine delle competenze giustificata dall’eccezionalità ed urgenza della situazione di fatto determinatasi a seguito dei sistematici ricorsi ai vari giudici. 

Ancor prima, nel Settembre 2013 la Corte CEDU aveva dato una risposta analoga al ricorrente Nivio Durisotto, che lamentava la violazione degli artt. 2, 8 e 14 della Convenzione in quanto con il D.lg. 24/2013, il Governo italiano aveva introdotto una disparità di trattamento nel regolare l’accesso al metodo Stamina, determinando così una violazione del diritto alla vita e alla salute della figlia a cui il trattamento è stato negato, nonché un’indebita ingerenza nella vita privata.

La pronuncia della Corte CEDU tocca tre passaggi argomentativi essenziali: in primo luogo si ribadisce che in materia di regolamentazione dell’accesso a cure compassionevoli, il margine di discrezionalità degli Stati membri è ampio e, in secondo luogo, che il valore scientifico della terapia in questione non è stato provato, e pertanto il giudice sovranazionale non può compiere valutazioni sul grado di rischio accettabile nella sottoposizione dei pazienti a terapie sperimentali, sostituendosi alle scelte discrezionali di ciascun Stato membro. Ed infine si superano i rilievi di violazione della sfera privata argomentando che il decreto 2013 persegue “lo scopo legittimo di tutela della salute” e la diversità di trattamento tra persone affette da patologie simili non è discriminatoria in quanto supportata da uno scopo lecito e basata su un rapporto di proporzionalità tra mezzi impegnati e finalità perseguite.

In sostanza, la Corte ha evidenziato il carattere compromissorio della soluzione normativa in quanto, se nell’ottica di tutela del diritto alla salute pubblica, risulta oltremodo rischioso autorizzare l’accesso generalizzato a cure non aventi validità scientifica, d’altra parte negare in assoluto il ricorso al metodo Stamina avrebbe significato il sacrificio degli interessi di quanti avevano già avviato il trattamento, riscontrandone verosimilmente effetti non nocivi.

Tali vicende spingono ad una riflessione. Se è pur vero che il diritto alla salute si interseca con il principio di autodeterminazione, declinandosi nella libertà di cura, qual è il raggio di ampiezza delle sfere di libertà individuale? O meglio, pur essendo pacifico che la libertà di cura non può risolversi nella pretesa ad ogni e qualsivoglia tipologia di trattamento terapeutico, in quanto deve necessariamente misurarsi con la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale, in quale misura è configurabile un diritto soggettivo alla sperimentazione sul proprio corpo di nuovi farmaci o di nuove tecniche mediche nei casi estremi di soggetti affetti da patologie “incurabili”?  

Si fronteggiano esigenze contrapposte: da un lato l’esigenza di rigoroso controllo sulla non nocività dei farmaci e delle terapie, nell’ottica della tutela della sicurezza, della salute pubblica e del buon funzionamento della pubblica amministrazione; dall’altro l’esigenza di non precludere aprioristicamente una speranza di vita al singolo. A ben vedere si tratta di un paradigmatico conflitto di interessi che investe principalmente il campo delle “cure compassionevoli”.

Una parziale risposta sul piano normativo è data dal D.M. 8 maggio 2003 che disciplina l’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica. L’art. 1 consente l’utilizzo di un medicinale prodotto in uno stabilimento farmaceutico autorizzato, o altrimenti regolarmente importato, che sia oggetto di sperimentazione clinica, per un uso al di fuori della sperimentazione, "quando non esista valida alternativa terapeutica al trattamento di patologie gravi, o di malattie rare o di condizioni di malattia che pongono il paziente in pericolo di vita".
Dunque il dato di maggior evidenza è il carattere eccezionale dell’accesso a trattamenti non ancora autorizzati, quale extrema ratio per migliorare, o anche solo evitare di peggiorare, le condizioni di salute del paziente. Il ricorso a terapie non validate non è senza condizioni, in quanto - come specifica l’art. 2 – devono essere stati avviati studi clinici sperimentali, siano essi conclusi o in corso, di fase terza o, in casi di particolari condizioni di malattia che mettono il paziente in pericolo di vita, di studi clinici già conclusi di fase seconda ed inoltre i dati sperimentali acquisiti devono essere "sufficienti a formulare un giudizio favorevole sull’efficacia e tollerabilità del farmaco".

Ciò significa che, fermo restando il diritto individuale di fruire di cure compassionevoli, non è consentito saltare il passaggio procedurale della sperimentazione, vale a dire si tratta di nuovi tentativi di cure che devono aver scontato i controlli di fase terza (fase in cui l’efficacia del nuovo metodo è stata comprovata su numerosi malati volontari e confrontata con la metodica standard) o almeno fase seconda (studi effettuati su un certo numero di volontari per verificarne la sicurezza e l’effettivo beneficio terapeutico). In tal caso, il paziente si presta a testare su di sé l’efficacia del farmaco o della terapia, in uno stadio sperimentale in cui ne è stata accertata quantomeno la tollerabilità.
Il c.d. accesso anticipato costituisce il punto di equilibrio tra esigenza di certezza scientifica e la libertà di cura del singolo, esigenze entrambe racchiuse nel diritto alla salute, rispettivamente nella sua dimensione collettiva e individuale.

Diversamente si atteggia il diritto alle cure compassionevoli nell’ipotesi in cui studi sperimentali non siano stati avviati. Alla dichiarazione del paziente di voler accedere ad una terapia di cui non si conosce l’assenza di nocività – dichiarazione equivalente all’assunzione personale di rischio – può riconoscersi validità unicamente nel caso in cui si dispone di un livello, se pur minimo, di dati scientifici ( anche ricavati dalla letteratura scientifica) che asseverino una probabilità di beneficio e purché il rischio sia proporzionale al beneficio atteso.
Al di sotto di tale soglia di ragionevolezza, il principio di autonomia del paziente sarà destinato a soccombere ogni qual volta l’accesso al trattamento non scientificamente convalidato richiede un intervento del Sistema Sanitario Nazionale.

Si tratta di un principio efficacemente espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza 4 settembre 2014 n. 18676. Invero, pur riconoscendo che il diritto all’erogazione da parte del SSN di cure tempestive, non poste a carico dello stesso servizio pubblico, rientra nel diritto alla salute e, come tale, non è suscettibile di affievolimento, tale pretesa deve coniugarsi con il principio di appropriatezza, di cui al D. lgs. 30 dicembre 1992 n. 502.

Il diritto all’erogazione delle cure a carico del Sistema Sanitario Nazionale non può configurarsi quale diritto potestativo fondato su una scelta individuale, bensì la richiesta poggia su un raffronto tra i benefici attesi e i potenziali effetti negativi sulle condizioni di vita del paziente, specialmente in riferimento al programmato periodo di recupero delle capacità funzionali.

In realtà il c.d. “caso Stamina” ha riproposto, in una rinnovata veste, problemi già emersi con il precedente caso della “cura Di Bella”. Al riguardo è da segnalare l’ordinanza della Pretura di Milano 1998 ove, con soluzione analoga a quella da ultimo esaminata della Cassazione, si legge: “se è vero che non si può impedire ad un malato senza altra speranza di assumere ciò che vuole, non si può invocare un diritto soggettivo a che la sanità pubblica debba prendere parte attiva nella somministrazione di sostanze e, in generale, di terapie, il cui effetto è a tutt'oggi non scientificamente riconosciuto in alcuna sede tecnica. E' pacifico che la c.d. "cura Di Bella" non è mai stata sperimentata secondo nessuna delle vigenti - ben note ai tecnici - modalità della sperimentazione clinica (…). Se questo è vero, come è vero, la cura stessa non può definirsi "trattamento sanitario" ma soltanto un'ipotesi di trattamento sanitario, in attesa di validazione scientifica. Deve affermarsi allora che siamo al di fuori del diritto alla somministrazione dei trattamenti terapeutici e che non esiste un diritto alla sperimentazione su se stessi di qualsiasi ipotesi terapeutica, tantomeno a cura della mano pubblica”.

 


Fonti