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Pubbl. Ven, 24 Apr 2020

Il concorso di reati e il rapporto tra i delitti di sequestro di persona e rapina aggravata

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Maria Patricelli
Funzionario della P.A.Università degli Studi di Napoli Federico II



La sentenza della II sezione penale della Corte di Cassazione, del 31 maggio 2019, n. 24493, che conferma un approccio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità in merito ai rapporti tra i delitti di sequestro di persona e rapina aggravata, offre una preziosa occasione per porre l’attenzione su uno dei problemi più controversi della teoria e della prassi del diritto penale, riguardante il concorso apparente di norme e il reato complesso.


Sommario: 1. Introduzione - 2. Il concorso apparente di norme - 2.1 La teoria monistica e la teoria pluralistica - 2.2. La posizione della giurisprudenza e la critica alla tesi monistica - 3. Il reato complesso - 4. Il rapporto tra i delitti di sequestro di persona e rapina aggravata.

1. Introduzione

La tematica del concorso di norme è crocevia ed intreccio di numerosi profili sistematici e di molteplici questioni applicative, soprattutto a causa delle oscillanti interpretazioni che si rinvengono in dottrina e della disomogeneità degli arresti giurisprudenziali.

Ad accentuare le difficoltà si aggiunge, senza dubbio, la sinteticità e la non esaustività della disciplina di diritto positivo, che ha generato non pochi dibattiti sia tra dottrina e giurisprudenza, sia all’interno della giurisprudenza stessa.

I profili poc’anzi richiamati riguardano da un lato quelli del concorso formale di reati e del reato continuato, attinenti al trattamento sanzionatorio, dall’altro quelli del concorso apparente di norme e delle norme miste, attinenti alla teoria della norma[1].

Come ha sottolineato attenta dottrina[2], la soluzione del problema in esame passa attraverso un chiarimento di fondo: si tratta di stabilire in quale rapporto si trovino fra loro le norme che prevedono le fattispecie che entrano in gioco.

Talvolta, infatti, il confluire di più norme incriminatrici verso un medesimo fatto non è reale, ma soltanto apparente, con la conseguenza che, invece di configurarsi un concorso di reati, si ha unicità di reato, essendo una soltanto la norma applicabile al caso concreto. Si parlerà, a tal proposito, di concorso apparente di norme.

2. Il concorso apparente di norme                                                                                                         

Il fenomeno del concorso apparente di norme si verifica quando due o più disposizioni di legge appaiono, almeno prima facie, tutte applicabili ad un medesimo fatto, mentre soltanto una trova effettiva applicazione[3].

Considerato che la funzione svolta dal concorso apparente di norme, diversamente da quella del concorso di reati[4], è proprio quella di determinare quali siano le norme applicabili al caso concreto, si pongono, in tale ambito della teoria della norma, tre ordini di indagini.

Quest’ultime riguardano i presupposti della sua esistenza, il principio giuridico per stabilire l’apparenza o la realtà del medesimo ed i relativi criteri per individuare la norma prevalente tra quelle ritenute applicabili.

Quanto ai presupposti, questi possono essere individuati nell’esistenza di una medesima situazione di fatto e nella convergenza di una pluralità di norme che sembrano prestarsi a regolarla.

Trattandosi però di una convergenza solo apparente, è necessario individuare i principi e i criteri che consentono di accertare l’apparenza o la realtà del concorso[5].

2.1 La teoria monistica e la teoria pluralistica

Nell’individuare i molteplici criteri di soluzione del concorso apparente di norme, le diverse posizioni dottrinali possono essere riassunte in due orientamenti interpretativi: la c.d. teoria monistica e la c.d. teoria pluralistica.

I sostenitori della c.d. teoria monistica risolvono il problema del concorso apparente di norme facendo ricorso al solo principio di specialità, seppur con l’ausilio di alcuni correttivi.

A tal proposito, il criterio di determinazione della norma prevalente è indicato dall’art. 15 c.p., rubricato “Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale”, in forza del quale “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.

Una norma è speciale rispetto ad un’altra quando descrive un fatto che presenta tutti gli elementi del fatto contemplato dalla norma generale, con l’aggiunta di uno o più elementi specializzanti, (lex specialis derogat legi generali)[6].

Il rapporto di specialità, così come descritto dall’art. 15 c.p., riflette uno schema logico-formale di ascendenza aristotelica e viene graficamente descritto facendo ricorso a due cerchi concentrici, di diverso diametro, dei quali il più grande – quello che rappresenta la norma generale – comprende al suo interno il più piccolo, che rappresenta la norma speciale.

La norma generale ha un’estensione più ampia rispetto alla norma speciale; il rapporto tra le due norme è tale per cui, ove la seconda mancasse, i casi che vi rientrano sarebbero riconducibili alla prima. La norma generale estenderebbe il suo campo di applicazione in quanto ricomprende al suo interno, espressamente o tacitamente, anche tutte le ipotesi speciali.

È quanto afferma lo stesso Legislatore nella Relazione al Re, n. 12, nella parte in cui rileva che “se la legge speciale non eccettuasse espressamente la materia di cui si tratta, questa rientrerebbe nella disciplina della legge generale”.

La specialità può essere, inoltre, per specificazione quando l’elemento specializzante mira a specificare un elemento del fatto già previsto dalla norma generale, o per aggiunta quando l’elemento specializzante si aggiunge a tutti quelli già espressamente previsti dalla norma generale.

È opportuno sottolineare che da tale distinzione non deriva alcuna differenza in punto di disciplina, costituendo l’art. 15 c.p. l’unica norma di riferimento.

Una parte della dottrina, invero, accoglie una nozione ancora più ampia di specialità, facendo rientrare al suo interno anche le ipotesi di c.d. specialità in concreto e di c.d. specialità reciproca (o bilaterale).

Nella specialità in concreto il rapporto tra norme è tale per cui ricomprendono entrambe un medesimo fatto concreto, in ragione delle particolari modalità con le quali il fatto è stato realizzato, ma tra le quali non intercorre alcun rapporto logico e strutturale di specialità.

La specialità reciproca, invece, sussiste quando nessuna norma, di per sé considerata, è speciale o generale, ma ciascuna è ad un tempo generale e speciale perché entrambe presentano, accanto ad un nucleo di elementi comuni, elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti dell’altra.

Queste due forme di specialità sono state oggetto di accese critiche sia in dottrina che in giurisprudenza. Ma, al di là del dibattito generatosi, è importante sottolineare che l’introduzione della specialità in concreto nasce dalla constatazione che il rapporto di specialità, da solo, non è in grado di risolvere tutte le ipotesi di concorso apparente di norme[7].

Nonostante ciò, però, si è sottolineato che l’ambito di applicazione del principio di specialità va circoscritto entro i limiti connaturati alla sua accezione originaria: cioè il rapporto di specialità sussiste solo tra fattispecie astratta ed in senso univoco. Per questo motivo la “stessa materia”, cui fa riferimento l’art. 15 c.p., sta semplicemente ad indicare il presupposto dell’instaurarsi di un rapporto di specialità tra fattispecie – vale a dire che ricorre una medesima situazione di fatto sussumibile, a prima vista, sotto più norme.

Parte della dottrina, invero, ha sottolineato che è possibile interpretare l’art. 15 c.p. come una norma che intende disciplinare non il generale fenomeno del concorso di norme, bensì una specifica ipotesi di concorso: quella nella quale le norme concorrenti si trovano, appunto, in rapporto di genere a specie. Con la conseguenza che non dicendo nulla sulle diverse ipotesi di specialità, l’art. 15 c.p. non può essere usato per escludere che nel nostro ordinamento possano operare altri criteri legislativamente non previsti[8].

Su questa scia si pongono i sostenitori delle c.d. teorie pluralistiche che ritengono necessario affiancare alla specialità anche altri principi, ovvero quello di sussidiarietà e di assorbimento (o consunzione).

Il principio di sussidiarietà intercorre tra norme che prevedono stadi o gradi diversi di offesa di un medesimo bene. Esso fa riferimento a tutte quelle situazioni in cui la condotta del soggetto agente integra, contemporaneamente o in un medesimo contesto spazio-temporale, più fattispecie poste a tutela del medesimo bene giuridico e caratterizzate da un crescente livello di gravità.

Ne consegue che l’applicazione della norma che punisce l’offesa meno grave è subordinata alla non applicazione dell’altra (lex primaria derogat legi subsidiariae)[9].

Il principio di sussidiarietà, a differenza di quello di specialità, non è espressamente disciplinato dal Legislatore che, in alcuni casi, indica il rapporto di sussidiarietà attraverso l’utilizzo di alcune “clausole di sussidiarietà” (o clausole di riserva). Queste ultime possono essere di diverso tipo: determinate, quando si riferiscono ad una o più norme, specificamente indicate, (come nel caso degli articoli 250 o 595 c.p., le cui previsioni includono espressamente la clausola di riserva “fuori dai casi indicati nell’art. 248” e “fuori dai casi indicati nell’articolo precedente”; relativamente determinate, come nelle ipotesi di rinvio a disposizioni individuate in base ad una caratteristica di tipo categoriale, in genere concretantesi nel richiamo a previsioni più gravemente sanzionate, (“se il fatto non costituisce più grave reato”); indeterminate, quando la clausola di riserva fa riferimento a qualsiasi tipo di reato[10].

I sostenitori della teoria pluralistica ritengono che da tali clausole possa ricavarsi un principio di carattere generale, in base al quale, anche in ipotesi ulteriori rispetto a quelle previste dalle clausole di sussidiarietà, la norma che punisce l’offesa meno grave deve ritenersi sussidiaria rispetto alla norma che punisce l’offesa più grave del medesimo bene giuridico o, comunque, di beni giuridici omogenei.

La critica che parte della dottrina muove al criterio della sussidiarietà risiede principalmente nella difficoltà di distinguerlo, nella pratica, dal criterio dell’assorbimento.

Quest’ultimo, invero, è stato considerato il principale criterio di valore utilizzato per risolvere i casi di conflitto apparente di norme, quando non è possibile ricorrere alla specialità ex art. 15 c.p. e fa riferimento all’esistenza di un rapporto di necessaria (o frequente) compresenza tra reati.

Il principio di assorbimento è invocabile per escludere il concorso di reati in tutti i casi in cui la commissione di un reato comporta, secondo l’id quod plerumque accidit, la commissione di un secondo reato o subito prima o subito dopo o contemporaneamente. Questo nesso di compresenza necessaria tra reati è ben noto al Legislatore il quale, nel calibrare il trattamento sanzionatorio per il reato più grave, tiene conto anche del disvalore insito nel reato satellite, necessariamente compresente.

Tale criterio ha fondamento nel più generale principio del ne bis in idem sostanziale, che fa divieto di punire uno stesso soggetto, due volte, per un medesimo fatto[11].

Sebbene non previsto in termini generali, anche il principio di assorbimento trova riconoscimento in diverse norme di parte speciale, che prevedono la espressa non punibilità di chi ha commesso o concorso a commettere il delitto presupposto o un delitto ritenuto normalmente compresente.

Parte della dottrina, però, ritiene che il principio di assorbimento abbia anche un fondamento normativo nella parte generale del Codice Penale, in particolare nell’art. 84 c.p. che detta la disciplina del c.d. reato complesso. Quest’ultimo esclude l’applicabilità delle norme sul concorso di reati quando la legge considera come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un solo reato fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato.

In riferimento agli esposti criteri di sussidiarietà ed assorbimento, c’è chi rifiuta un’applicazione eccessivamente estesa di questi principi aggiuntivi, utili alla risoluzione del concorso apparente di norme, in quanto afferma che la loro applicazione anche al di là dei casi previsti espressamente dalla legge, generi un’incertezza interpretativa che, a sua volta, si rifletterebbe in una disparità applicativa in sede di trattamento sanzionatorio.

Ciò in quanto, a differenza del principio di specialità, (inteso come raffronto tra le astratte fattispecie incriminatrici), i principi di sussidiarietà e consunzione lasciano unicamente al giudice e alla sua discrezionalità valutativa stabilire quale sia il criterio operante nel caso di specie, anche oltre le ipotesi di legge[12].

2.3 La posizione della giurisprudenza e la critica alla tesi monistica

Prima di procedere all’analisi del reato complesso, è opportuno comprendere quale sia la posizione che, nel corso del tempo, ha assunto la giurisprudenza.

Lo stato dell’arte in materia di concorso apparente di norme, infatti, non è altro che frutto di un costante dialogo tra parti; dialogo mai sopito e tutt’ora vivo, sia in dottrina che nella giurisprudenza di legittimità.

Le Sezioni Unite, a partire dalla sentenza n. 47164 del 2005, hanno sposato la teoria monistica, ritenendo che l’unico criterio cui affidare la soluzione del concorso apparente di norme fosse quello di specialità ex art. 15 c.p.

Ciò in quanto, a giudizio della Suprema Corte, l’orientamento monista è l’unico in grado di rispettare il principio di legalità sia in senso formale, attraverso l’espressa previsione legislativa, sia in senso sostanziale, inteso come strumento atto a garantire la prevedibilità/accessibilità della norma penale.

I criteri di assorbimento e sussidiarietà, infatti, richiedono l’ausilio di giudizi di valore che sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l'applicazione di una norma penale.

È stato, inoltre, osservato che il principio di specialità, anche se talora presuppone una discrezionalità nella selezione degli elementi da considerare rilevanti per la comparazione tra le fattispecie, determina, comunque, la realizzazione di una “operazione di selezione che rimane pur sempre nei limiti di un'attività interpretativa, che costringe nell'ambito degli elementi strutturali delle fattispecie la inevitabile componente valutativa del raffronto, anziché rimuoverla o lasciarla priva di criteri davvero controllabili; mentre i criteri di assorbimento e di consunzione esigono scelte prive di riferimenti normativi certi”[13], prescindendo dalla struttura delle fattispecie.

Le Sezioni Unite, in ogni caso, nell’accogliere il principio di specialità sottolineano che esso deve essere inteso in termini logico-formali, come specialità in astratto e unilaterale, escludendo la specialità in concreto e quella bilaterale.

Sebbene tale orientamento sia stato ribadito più volte nella giurisprudenza di legittimità, nel corso degli anni la Corte di Cassazione ha apportato al criterio di specialità alcuni correttivi che lo allontanano dalla sua originaria formulazione e che non risultano del tutto coerenti con l’esigenza di certezza e di prevedibilità enfatizzata a livello generale[14].

Ciò in quanto, nella prassi, il principio di specialità ha mostrato più volte i suoi limiti, essendosi reso necessario apportare correttivi sostanzialistici, al fine di evitare un cumulo sanzionatorio che in alcuni casi può mostrarsi iniquo ed irragionevole.

Questa, non a caso, è l’essenza della critica mossa all’impostazione monistica: l’utilizzo eccessivamente rigoristico del principio di legalità si traduce, nella sostanza, in un’applicazione in malam partem dello stesso, ampliando il numero di reati dei quali si è chiamati a rispondere.

Per questa ragione, nella prassi si è reso necessario fare ricorso ai criteri di sussidiarietà ed assorbimento, come tali in grado di alleggerire il complessivo trattamento sanzionatorio.

Alcuni autori, in realtà, ritengono che non si può affermare che tali criteri siano sprovvisti di fondamento normativo, giacché il numero delle norme incriminatrici che contengono clausole di sussidiarietà espressa è talmente elevato da permettere di rinvenire un vero e proprio “criterio di sistema”, peraltro già ipotizzato nella Relazione al Progetto definitivo al codice penale e talora fatto altresì discendere da un raffronto sistematico con norme quali l’art. 84 c.p. e gli artt. 61, 62 e 68 c.p.

Da non tralasciare è anche l’esigenza di rispettare il principio di proporzione tra fatto illecito e pena, espressamente riconosciuto dall’art. 49 della Carta di Nizza[15], fatto discendere come corollario implicito dal divieto di pene “inumani e degradanti” di cui all’art. 3 CEDU[16], nonché da ultimo ricondotto dalla Corte Costituzionale[17] agli art. 3 e 27 Cost.

Ne consegue che è ragionevole pensare che il ricorso ai criteri di sussidiarietà e di assorbimento non sembra affatto precluso dal principio di legalità in materia penale.

3. Il reato complesso

Il principio di assorbimento trova fondamento, almeno indiretto, nella parte generale del Codice all’art. 84 c.p., norma disciplinante il c.d. reato complesso.

Tale norma stabilisce che le disposizioni sul concorso di reati “non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato”:

L’istituto in esame presenta profili di assoluta originalità in quanto esso trae origine da reati autonomi,

ciascuno dei quali finisce per smarrire la propria individualità, senza lascare spazio ad alcuna forma di concorrenza, materiale o morale, tra gli stessi. Ciò conferma il fatto che si tratta di un istituto pensato come sintesi, piuttosto che come somma, delle fattispecie base.

Circa la struttura, nel reato complesso un altro reato può rientrare sia come elemento costitutivo, dando luogo ad un autonomo titolo di reato, sia come circostanza aggravante, lasciando inalterato il titolo del reato base.

Al fine di meglio individuare la ratio del reato complesso, è necessario comprendere se all’art. 84 c.p. possano essere ricondotti soltanto i reati necessariamente complessi, in cui almeno un reato è contenuto come elemento costitutivo, onde non è possibile realizzare la fattispecie complessa senza commettere anche quest’ultimo; oppure anche i reati eventualmente complessi, in cui un reato è contenuto come “elemento particolare”, cosicché è possibile realizzare tali reati senza realizzare quest’ultimo[18].

Per quanto la prevalente dottrina e giurisprudenza siano contrari a tale bipartizione, alcuni Autori accolgono una nozione ampia di reato complesso, per non svuotare di contenuto applicativo l’art. 84 c.p., dato che i reati complessi sono, per la maggior parte, proprio reati eventualmente complessi.

I singoli reati unificati nell’unico reato complesso, devono essere legati tra loro non da un rapporto di mera occasionalità, ma da precise connessioni sostanziali.

La ratio dell’assorbimento nel reato complesso consisterebbe, infatti, in un vincolo ontologico tra reati che può cogliersi in un rapporto di mezzo a fine (è il caso della violenza o minaccia strumentali rispetto al furto nel reato di rapina) ma anche di un rapporto di carattere funzionale o modale o anche teleologico (come per esempio nel furto con violazione di domicilio, art. 624 – bis c.p.: in questo caso infatti la violazione domiciliare costituisce un aspetto modale della realizzazione del furto)[19].

Quanto ai limiti della continenza, il reato complesso non può assorbire quei fatti criminosi sanzionati in modo più grave rispetto allo stesso reato complesso, in virtù di un elementare principio di proporzione giuridica.

La disciplina del reato complesso, infine, è quella del reato unico, non quella della pluralità di reati, neppure quando sia più favorevole al reo.

4. Il rapporto tra i delitti di sequestro di persona e rapina aggravata

I principi giuridici fin qui esposti, ci consentono di comprendere meglio il percorso ermeneutico seguito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.24493 del 2019, avente ad oggetto i rapporti tra i delitti di sequestro di persona, (art. 605 c.p.) e rapina aggravata, (art. 628 c.p., 2 cpv., n.2).

La vicenda trae origine da un’ordinanza del Tribunale di Napoli che, in sede di riesame, confermava il provvedimento emesso dal G.i.p. dello stesso Tribunale che aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti dell’imputato per i delitti, tutti aggravati, di rapina, detenzione e porto di una pistola, sequestro di persona e ricettazione.

L’imputato, in particolare, era stato accusato di aver commesso una rapina, all’interno di un’abitazione, nel corso della quale le due persone offese venivano private della propria libertà personale solo durante la consumazione della rapina e non oltre.

Avverso tale ordinanza veniva proposto ricorso per Cassazione, al fine di dedurre l’avvenuta violazione della legge penale in relazione all’erronea sussistenza, tra le altre censure, dei i delitti di detenzione e porto di una pistola e di sequestro di persona.

Il ricorso viene ritenuto fondato limitatamente al motivo inerente alla configurabilità anche del delitto ex art. 605 c.p.

Ciò in quanto è consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di rapina aggravata previsto dall’art. 628 c.p., 2 cpv., n.2, solo quando la privazione della liberà personale abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario all’esecuzione della rapina, non anche quando si protragga anche dopo la consumazione della stessa[20], assumendo il carattere di condotta delittuosa autonoma, anche se finalisticamente collegata alla rapina.

Ne consegue che la privazione della liberà personale costituisce ipotesi aggravata del delitto di rapina e rimane in esso assorbita solo quando la stessa si trovi in rapporto funzionale con l'esecuzione della rapina medesima, mentre nell'ipotesi in cui la privazione della libertà non abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione della rapina, ma si protragga oltre tale termine temporale, il reato "de quo" concorre con il delitto di sequestro di persona.


Note e riferimenti bibliografici

[1] F. Mantovani, “Diritto Penale. Parte generale” – VIII edizione, CEDAM, 2013, pp. 470 ss.

[2] Marinucci-Dolcini-Gatta, “Manuale di Diritto Penale”, VIII edizione, Giuffrè Francis Lefebvre, 2019, pp. 550 ss. 

[3] R. Giovagnoli, “Manuale di Diritto Penale”, Ita Edizioni, 2019, pp. 957 ss.

[4] Quando un soggetto commette più reati simultaneamente abbiamo il cosiddetto concorso di reati. Quest’ultimo può essere materiale o formale. Il concorso è materiale quando un soggetto, con più azioni, commette più reati e, in tal caso, si applicano tante pene quanti sono i reati commessi, (fatta salva l’ipotesi speciale di cui all’art. 81, co. 2, c.p.). Il concorso è formale se un soggetto con una sola azione commette più reati. Sul piano del trattamento sanzionatorio, in presenza di concorso formale di reati si applica la pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo. Il concorso formale può essere omogeneo o eterogeneo a seconda del se un soggetto viola più volte la stessa o diverse norme incriminatrici.

[5] Il fenomeno descritto è definito, nella sua essenza di valore, dall’efficacia del ne bis in idem sostanziale.

[6] Così Marinucci-Dolcini-Gatta, Op. Cit.

[7]A prova di ciò subentra la circostanza che gli stessi sostenitori della specialità in concreto, nell’individuare la norma prevalente, fanno ricorso al criterio dell’assorbimento della fattispecie meno grave in quella più grave.

[8] G. Fiandaca – E. Musco, “Diritto Penale parte generale”, VII edizione, Zanichelli Editore, 2018, pp. 716 ss.

[9] G. Fiandaca – E. Musco, Op. Cit.

[10] C.Fiore – S.Fiore, “Diritto Penale, parte generale”, III ed., UTET Giuridica, pp. 580 ss.

[11] Il principio del ne bis in idem è privo, nell’ordinamento italiano, di riconoscimento costituzionale espresso e trova il proprio fondamento normativo a livello di legislazione ordinaria all’art. 649 c.p.p., che fa esplicito divieto di promuovere più di un giudizio penale nei confronti di uno stesso soggetto per un medesimo fatto. Si parla, a tal proposito, di ne bis in idem processuale. Come principio di diritto sostanziale, il ne bis in idem trova espresso riconoscimento quale diritto fondamentale dell’individuo nell’art. 4 Prot. 7 Cedu e nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

[12] R.Galli, “Appunti di diritto penale”, CEDAM, 2008, pp. 680 ss.

[13] Cass. Sez. Un., 20 dicembre 2005, n. 47164.

[14] Tra le tante, si ricordi la sentenza delle Sezioni Unite, 19 gennaio 2010, n. 1235, sui rapporti tra truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 co. 2, n.1 c.p.) e frode fiscale (art. 2, d.lgs, n. 74/2000), dove la Corte, nel risolvere la questione, ha escluso il concorso di reati, ritenendo la frode fiscale speciale rispetto alla truffa aggravata.

[15] “Articolo 49 –Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene. 1. Nessuno può essere condannato per un'azione o un'omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest'ultima. 2. Il presente articolo non osta al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un'azione o di un'omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali riconosciuti da tutte le nazioni. 3. Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”.

[16] Come interpretato dalla recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr., per tutti, C. edu, Grande Camera, sent. 9 luglio 2013, Vinter c. Regno Unito).

[17]  “È costante, nella giurisprudenza costituzionale, la considerazione secondo cui l’art. 3 Cost. esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali […] In questo delicato settore dell’ordinamento, il principio di proporzionalità esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali, svolgendo una funzione di giustizia, e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statale, in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale (sentenza n. 50 del 1980). A ciò si aggiunge che, alla luce dell’art. 27 Cost., il principio della finalità rieducativa della pena costituisce una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue (sentenza n. 313 del 1990).Esso, pertanto, non vale per la sola fase esecutiva, ma obbliga tanto il legislatore quanto i giudici della cognizione (sentenza n. 313 del 1990). Anche la finalità rieducativa della pena, nell’illuminare l’astratta previsione normativa, richiede un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (sentenza n. 251 del 2012), mentre la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale produce una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione (sentenza n. 343 del 1993) […] In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina perciò una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 68 del 2012, che richiama le sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993)”, Corte cost., sent. 10 novembre 2016, n. 236.

[18] Così F. Mantovani, Op. Cit.

[19] Così R. Galli, Op. Cit.

[20] Cfr. Cass. Sez. II, sentenza n. 24847 del 2009