Da circa tre decenni in Italia si discute sul concorso esterno in associazione mafiosa, fattispecie di reato non tassativamente tipizzata dal Legislatore, bensì frutto del cosiddetto combinato disposto degli articoli 110 e 416 bis del Codice penale. Il dibattito è tornato di attualità a seguito della sentenza del 14 aprile 2015 della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo che, come anticipato, ha sanzionato l'Italia per la condanna inflitta a Bruno Contrada (1) (all'epoca dei fatti ai vertici dei servizi segreti italiani) per concorso esterno in associazione mafiosa.
Secondo i giudici di Strasburgo, Contrada non doveva essere condannato perchè, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti". Inoltre, ha specificato la Corte, il ricorrente, in base all'articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo, che stabilisce il principio del "nulla poena sine lege", non avrebbe dovuto essere condannato perchè "il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è il risultato di un'evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all'epoca in cui [il ricorrente] avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato". Ne deriva, quale conseguenza, che i giudici nazionali, nell'infliggere la condanna per il reato di cui sopra, abbiano violato, o meglio non abbiano rispettato, i principi di "non retroattività e di prevedibilità della legge penale".
Prendendo le mosse dal caso Contrada, occorre ricordare quali sono, secondo la Corte di Cassazione, i presupposti che consentono di configurare l'ipotesi del concorso esterno in associazione mafiosa: ebbene, in tal senso, "costituisce concorso esterno, e non partecipazione all'associazione mafiosa, la condotta del soggetto che, privo dell'affectio societatis e non inserito nella struttura organizzativa dell'ente, si limiti ad agire dall'esterno con la consapevolezza e la volontà di fornire un contributo causale alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione, nonchè alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso" (Cassazione penale, sez. VI, sentenza 15/07/2013 n. 30346).
Quello della suprema Corte è un orientamento ormai consolidato e frutto di una serie di pronunce succedutesi negli anni, tra le quali vanno necessariamente citate la sentenza "Demitry" (Cassazione penale, SS. UU., n.16 del 1994), la sentenza "Carnevale" (Cassazione penale, SS.UU., n. 22327 del 2002), la cd. sentenza "Andreotti" (Cassazione penale, sez. II, n. 49691 del 2004) e, da ultima, la sentenza "Dell'Utri" (Cassazione penale, sez. I, n. 28225 del 2014).
Se da un lato, dunque, emerge l'ormai consolidato orientamento del Giudice di legittimità in merito ai requisiti, oggettivi e soggettivi, necessari ai fini della configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è pur vero, per altro verso, che l'ordinamento giuridico italiano ha, ad oggi, bisogno di dotarsi di una specifica previsione normativa che preveda e punisca, in maniera tipica e tassativa, la fattispecie di reato in questione. Tale necessità ci è stata ricordata di recente dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e ci è imposta, inoltre, dal bisogno di rispettare i principi, irrinunciabili in ambito penale, di "legalità" e di "tassatività". Al Legislatore, e dunque al Parlamento, il compito di provvedere.
(1) Bruno Contrada era stato condannato, in via definitiva, dall’autorità giudiziaria italiana, alla pena di 10 anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, con riferimento a fatti commessi negli anni 1979-1988. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, il 14 aprile 2015, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento, in favore di Contrada, di 10 mila Euro per danni morali.