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Pubbl. Lun, 20 Gen 2020

Espropriazione illegittima, il privato ha diritto alla restituzione del terreno anche dopo la realizzazione dell´opera

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Riccardo Samperi
Dottorando di ricerca


Per la costante giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato, sulla base delle indicazioni della Corte EDU, l'illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte dell'Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente. Cons. Stato 17 maggio 2019 n. 3195.


Abstract (ita): Il presente lavoro affronta la complessa tematica della tutela del diritto di proprietà alla luce della CEDU e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il punto nodale della questione è la quantificazione dell’indennizzo di esproprio, previsto dall’articolo 42, comma 3 della Costituzione. In particolare, è stato affermato che l’indennizzo, sebbene non debba necessariamente corrispondere al valore di mercato del bene, deve comunque garantire al soggetto espropriato un serio ristoro e non un risarcimento puramente simbolico. Ancora una volta, emerge la difficoltà di bilanciamento degli interessi pubblici – nel caso specifico, alla realizzazione di opere di pubblica utilità – e interessi privati; difficoltà che è accentuata dalla grave crisi economica che attraversa il nostro paese. 

Abstract (eng): This paper deals with the complex issue of the protection of property rights in the light of the ECHR and the jurisprudence of the European Court of Human Rights. The key issue of the matter is the quantification of the expropriation compensation, provided for in article 42, paragraph 3 of the Constitution. In particular, it has been stated that the compensation, although it does not necessarily have to correspond to the market value of the asset, must in any case guarantee the expropriated person serious refreshment and not purely symbolic compensation. Once again, the difficulty of balancing public interests - in this specific case, the realization of infrastructures of public utility - and private interests emerges; difficulty that is accentuated by the serious economic crisis that runs through our country.


Sommario: 1. La tutela sovranazionale del diritto di proprietà: l’art. 1 del protocollo n. 1 cedu e art. 17 della carta dei diritti fondamentali dell’UE; 2. L’evoluzione storica della disciplina normativa: dal criterio del valore venale (l. 2359/1865) a quello del valore agricolo (l. 865/1971); 3. Seconda fase: il criterio della media tra valore venale e reddito dominicale (l. 359/1992); 4. Terza fase: il d.p.r. 327/2001 e le spinte riformatrici della giurisprudenza europea; 4.1. Il soggetto espropriato ha diritto ad un ‘serio ristoro’: il caso scordino c. Italia; 4.2. L’illegittimità convenzionale degli istituti di origine giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva e usurpativa: il caso belvedere; 4.3. L’indennizzabilità dei vincoli preordinati all’espropriazione: il caso odescalchi e lante della rovere c. Italia.

1. La tutela sovranazionale del diritto di proprietà: l’art. 1 del protocollo n. 1 cedu e art. 17 della carta dei diritti fondamentali dell’UE

Il diritto di proprietà trova tutela tanto nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (da ora in avanti CEDU)[1], quanto nell’articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[2].

In passato, si era posto il problema di stabilire se CEDU e diritto dell’Unione europea dovessero considerarsi un unico ordinamento (teoria monista) oppure due ordinamenti distinti (teoria dualista)[3].

La perplessità era sorta in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ha modificato il Trattato sull’Unione europea, il cui articolo 6 stabilisce quanto segue:

Paragrafo 2: “L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati

Paragrafo 3: “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”.

La nuova formulazione lasciava intendere che vi fosse stata una “fusione” tra i due ordinamenti, vale a dire che i Trattati dell’UE avessero interiorizzato e fatto propria la disciplina della CEDU.

Accogliendo tale interpretazione, la CEDU – da parametro interposto di costituzionalità[4], in quanto tale non direttamente applicabile, ma utilizzabile solamente come parametro indiretto di costituzionalità delle norme interne – sarebbe divenuta, al pari del diritto UE, immediatamente applicabile negli Stati membri, i cui giudici, quindi, non sarebbero più stati tenuti a sollevare questione di legittimità costituzionale, ma avrebbero potuto disapplicare direttamente la normativa interna contrastante con la CEDU. È evidente la portata dirompente di una novità del genere: il sindacato di costituzionalità accentrato e indiretto (spettante alla Corte costituzionale) si sarebbe trasformato in una valutazione di legittimità comunitaria diffusa, a disposizione di ogni giudice di merito[5].

Tuttavia, come anticipato, la risposta al quesito è negativa e, per spiegarne le ragioni, occorre richiamare due pareri della CGUE e due sentenze della Corte Costituzionale.

Il primo parere è il n. 2/94 del 28 marzo 1996, con cui la CGUE afferma che i diritti fondamentali tutelati dalla CEDU fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l'osservanza[6]. A tal fine, il giudice comunitario si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell'uomo a cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito. In tale contesto, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla quale è fatto in particolare riferimento nell'art. 6, n. 2, del Trattato sull'Unione europea, riveste un significato particolare. Allo stato attuale (nota: il parere è stato emesso nel 1996) del diritto comunitario, la Comunità (adesso Unione) non ha la competenza per aderire alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in quanto, da un lato, nessuna disposizione del Trattato attribuisce alle istituzioni comunitarie, in termini generali, il potere di dettare norme in materia di diritti dell'uomo o di concludere convenzioni internazionali in tale settore e, dall'altro, una tale adesione non potrebbe essere effettuata facendo ricorso all'art. 235 del Trattato (L'art. 235 del Trattato è diretto a supplire all'assenza di poteri di azione attribuiti espressamente o implicitamente alle istituzioni comunitarie da specifiche disposizioni del Trattato, quando poteri di tal genere dovessero apparire non di meno necessari affinché la Comunità possa svolgere i propri compiti ai fini della realizzazione degli obiettivi fissati dal Trattato. Tale disposizione, costituendo parte integrante di un ordinamento istituzionale basato sul principio dei poteri attribuiti, non può costituire il fondamento per ampliare la sfera dei poteri della Comunità al di là dell'ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del Trattato, ed in particolare di quelle che definiscono i compiti e le azioni della Comunità. Essa non può essere in ogni caso utilizzata quale base per l'adozione di disposizioni che condurrebbero sostanzialmente, con riguardo alle loro conseguenze, a una modifica del Trattato che sfugga alla procedura all'uopo prevista nel Trattato medesimo). Infatti, se il rispetto dei diritti dell'uomo costituisce un requisito di legittimità degli atti comunitari, l'adesione della Comunità alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo determinerebbe una modificazione sostanziale dell'attuale regime comunitario di tutela dei diritti dell'uomo, in quanto comporterebbe l'inserimento della Comunità in un sistema istituzionale internazionale distinto, nonché l'integrazione del complesso delle disposizioni della Convenzione nell'ordinamento giuridico comunitario. Una tale modifica del regime della tutela dei diritti dell'uomo nella Comunità, le cui implicazioni istituzionali risulterebbero parimenti fondamentali sia per la Comunità sia per gli Stati membri, rivestirebbe rilevanza costituzionale ed esulerebbe quindi, per sua propria natura, dai limiti dell'art. 235. Essa può essere quindi realizzata unicamente mediante modifica del Trattato.

Nel secondo parere, il n. 2/13 del 18 dicembre 2014[7], la CGUE in Seduta plenaria ha affermato che l’accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non è compatibile con l’articolo 6, paragrafo 2, TUE, né con il Protocollo (n. 8) relativo all’articolo 6, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adducendo a sostengo di tale massima quattro motivazioni: la prima era che esso era suscettibile di pregiudicare le caratteristiche specifiche e l’autonomia del diritto dell’Unione, in quanto non garantiva il coordinamento tra l’articolo 53 della CEDU e l’articolo 53 della Carta, non prevenendo il rischio di lesione del principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri nel diritto dell’Unione e non prevedeva alcuna articolazione del meccanismo istituito dal Protocollo n. 16 con la procedura di rinvio pregiudiziale prevista dall’articolo 267 TFUE; la seconda era che esso era suscettibile di avere effetti sull’articolo 344 TFUE, in quanto non escludeva la possibilità che talune controversie tra gli Stati membri o tra gli Stati membri e l’Unione, relative all’applicazione della CEDU nell’ambito di applicazione sostanziale del diritto dell’Unione, venissero portate dinanzi alla Corte EDU; la terza era che esso non prevedeva modalità di funzionamento del meccanismo del convenuto aggiunto e della procedura di previo coinvolgimento della Corte che consentivano di preservare le caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione; la quarta era che ledeva le caratteristiche specifiche del diritto dell’Unione riguardo al controllo giurisdizionale degli atti, delle azioni o delle omissioni dell’Unione in materia di PESC, in quanto affidava il controllo giurisdizionale di alcuni di tali atti, azioni od omissioni in via esclusiva ad un organo esterno all’Unione. Quindi la Corte stavolta, a differenza del parere n. 2/94, afferma che con il Trattato di Lisbona sono stati introdotti gli strumenti necessari a consentire l’adesione dell’UE alla CEDU (procedimento previsto da art. 228 par. 6, su cui infra), ma che non è possibile per le quattro ragioni sopra esposte. Il procedimento eccezionale, previsto dall'art. 228, n. 6, del Trattato, che consente di richiedere il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità di un accordo progettato con le norme del Trattato, è un procedimento particolare di collaborazione tra la Corte di giustizia, da un lato, e le istituzioni comunitarie e gli Stati membri, dall'altro, con cui la Corte è chiamata a garantire, ai sensi dell'art. 164 del Trattato, il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del Trattato in una fase precedente la conclusione di un accordo che possa dar luogo a contestazioni circa la legittimità di un atto comunitario di conclusione, di esecuzione o di attuazione. Esso ha la finalità di evitare le complicazioni che possono risultare, sia in sede comunitaria sia in sede internazionale, da un'eventuale decisione giudiziaria che dichiarasse un accordo internazionale, vincolante la Comunità, incompatibile, vuoi per il contenuto, vuoi per la procedura seguita nella stipulazione, con le disposizioni del Trattato[8].

Le c.d. sentenze gemelle della Corte Costituzionale (348 – 349 del 24 ottobre 2007) confermano tale linea interpretativa, sancendo il principio per il quale sia il diritto UE che la CEDU sono superiori rispetto alle norme ordinarie, ma, mentre la norma interna che si ponga in contrasto col diritto UE può essere disapplicata direttamente dal giudice (il quale applicherà la norma UE), altrettanto non può farsi qualora il contrasto si verifichi tra norma interna e CEDU. In tal caso, essendo la CEDU una fonte internazionale interposta dall’art. 117 della Costituzione, il giudice italiano non potrà disapplicare direttamente la norma interna contrastante, ma potrà sollevare questione di legittimità costituzionale, qualora quest’ultima ritenga ammissibile e non manifestamente infondata[9].

Non è dunque condivisibile la tesi propinata da Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 2 marzo 2010, n. 1220, secondo cui, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le norme della CEDU sarebbero direttamente applicabili nell’ordinamento giuridico italiano.

2. L’evoluzione storica della disciplina normativa: dal criterio del valore venale (l. 2359/1865) a quello del valore agricolo (l. 865/1971)

Originariamente, l’articolo 39 della legge 2359/1865 commisurava l’indennità di esproprio al valore venale del bene. Al privato spettava il prezzo di mercato del bene[10]. Si trattava, però, di una fictio juris[11], posto che non aveva luogo una libera contrattazione e quindi il prezzo, in realtà, non era determinato dal mercato (incontro delle curve di domanda ed offerta), ma dalla stessa P.a., sia pure con l’intervento di periti.

Con la legge 2892/1885, il Legislatore, dovendo procedere a numerosi espropri per risanare urbanisticamente la città di Napoli, ha modificato il criterio per il computo della suddetta indennità, che veniva determinata in base alla media tra il valore di mercato del bene e il valore dei fitti dell’ultimo decennio, purché risultanti da atto avente data certa anteriore all’entrata in vigore della legge, altrimenti veniva calcolata in base alle imposte dovute all’erario in relazione ad ogni edificio[12].

La Corte Costituzionale intervenne sul tema, affermando che il ristoro non poteva essere meramente simbolico (sebbene non dovesse necessariamente coincidere con il valore venale del bene)[13].

La legge 22 ottobre 1971, n. 865 (c.d. Legge sulla casa o Legge Bucalossi), ha commisurato l’indennizzo dovuto ai proprietari delle aree edificabili espropriate al valore agricolo[14]. In altri termini, veniva abolita la distinzione tra terreni agricoli e terreni edificabili, prevedendo sia per gli uni che per gli altri un’indennità parametrata al valore agricolo del terreno. Ma la quantificazione dell’indennità era soltanto la conseguenza logica del presupposto teorico che stava alla base della legge Bucalossi, secondo la quale lo jus aedificandi non ineriva al diritto di proprietà; il proprietario del terreno non aveva – secondo tale legge – tra le proprie prerogative quella di potere edificare sul proprio terreno. Infatti la licenza edilizia venne sostituita dalla concessione edilizia: l’edificabilità non era caratteristica intrinseca dell’area, ma facoltà concessa al privato. Il provvedimento amministrativo, prima “autorizzatorio” (di una facoltà della quale il privato era ritenuto titolare già prima dell’emanazione), diveniva ora “concessorio”. Da ciò scaturiva l’irrilevanza della distinzione tra terreni agricoli e edificabili[15].

Il criterio del valore agricolo introdotto dalla legge Bucalossi è stato tuttavia censurato dalla Corte Costituzionale, che, con la storica sentenza 30 gennaio 1980, n. 5, ha stabilito che l’indennizzo previsto dall’articolo 42, comma 3, della Costituzione non deve essere fissato in misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve costituire un serio ristoro. Perché ciò avvenga, l’indennità deve essere calcolata tenendo in considerazione le caratteristiche essenziali del bene e la sua potenziale utilizzazione economica (per scopi agricoli o edilizi, ed ecco che viene nuovamente riconosciuta rilevanza giuridica alla distinzione tra terreni agricoli e edificabili). Il criterio del valore agricolo medio (valutato, cioè, con riguardo alle altre colture della zona) per la determinazione della indennità di esproprio, ad avviso della Corte, portava alla liquidazione di indennizzi sperequati rispetto al valore delle aree espropriate[16].

A seguito della pronuncia della Corte, è stata adottata una disciplina transitoria (legge 29 luglio 1980, n. 385), con la quale, nelle more della emanazione di una legge sostitutiva delle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime, la somma quantificata e liquidata sulla base del criterio del valore agricolo è stata equiparata ad un “acconto”, salvo il successivo conguaglio a favore dell’espropriato (che avrebbe dovuto essere computato in base alla nuova disciplina sostitutiva, in realtà mai emanata)[17].

Tale disciplina transitoria è stata più volte prorogata dal legislatore, fino ad un successivo intervento della Corte costituzionale che ha dichiarato costituzionalmente illegittime le proroghe normative e la qualificazione in termini di acconto delle somme calcolate con il criterio del valore agricolo[18].

3. Seconda fase: il criterio della media tra valore venale e reddito dominicale (l. 359/1992).

L’articolo 5-bis, D. L. 333/1992, ha poi introdotto una rigida bipartizione nella determinazione dell’indennizzo a seconda che si trattasse di terreni agricoli o edificabili[19].

Per i suoli agricoli (e in generale per tutti quelli non edificabili), è stato riproposto il criterio del valore agricolo (previsto dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865)[20].

Per le aree edificabili, rivisitando il criterio proposto dall’articolo 13 della legge n. 2892 del 1885, si è fatto riferimento alla media aritmetica tra il valore venale del terreno e il reddito dominicale rivalutato, di cui agli articoli 24 e ss. del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (anziché dei fitti dell’ultimo decennio), ridotta del 40% in caso di mancato accordo con il proprietario[21].

L’articolo 16 del decreto legislativo n. 504 del 1992 ha poi introdotto un correttivo per il calcolo dell’indennizzo relativo alle aree edificabili, parametrandolo alla dichiarazione di valore del terreno resa dal proprietario ai fini dell’ICI (imposta comunale sugli immobili). Dunque, qualora l’indennità di espropriazione fosse stata superiore al valore del suolo indicato nell’ultima dichiarazione o denuncia presentata dall’espropriato ai fini della imposta comunale sugli immobili (ICI), essa veniva ridotta fino alla concorrenza con il valore della dichiarazione presentata dal privato[22].

Viceversa, quando il valore del suolo dichiarato ai fini ICI fosse stato superiore all’indennità di espropriazione, quest’ultima doveva essere integrata dall’ente espropriante, che era tenuto a versare una maggiorazione dell’indennità fino alla concorrenza con il valore dichiarato ai fini ICI[23].

La Corte costituzionale si è pronunciata due volte sul meccanismo di quantificazione dell’indennità:

  • La prima volta, con la sentenza 12 luglio 2000, n. 351, la scelta del legislatore è stata ritenuta compatibile con i principi costituzionali, in particolare è stata considerata ragionevole poiché volta – sia pure indirettamente – ad incentivare l’adempimento degli obblighi tributari da parte dei cittadini.
  • Con la sentenza 22 dicembre 2011, n. 338, invece, la normativa in questione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto contrastante con gli articoli 42, comma 3, cost., e con l’articolo 117, comma 1, cost. (quest’ultimo violato indirettamente a causa della violazione dell’articolo 1 del primo protocollo addizionale della CEDU, che tutela il diritto di proprietà. Dunque tale articolo 1 assume il valore di norma interposta dall’articolo 117. L’articolo 1 è stato violato direttamente e, siccome l’articolo 117 stabilisce che l’ordinamento italiano deve conformarsi agli obblighi internazionali assunti, esso viene in rilievo indirettamente). La norma è stata dichiarata incostituzionale in quanto, in caso di mancata dichiarazione di valore ICI (o di dichiarazione irrisoria), non prevedeva un tetto massimo alla riduzione della indennità, che, dunque, poteva essere ridotta fino alla totale elisione del diritto ad un serio e ragionevole ristoro, in precedenza affermato.

4. Terza fase: il d.p.r. 327/2001 e le spinte riformatrici della giurisprudenza europea

Con il D.P.R. n. 327 del 2001, il legislatore aveva suddiviso i beni espropriabili in quattro categorie, prevedendo per ciascuna differenti criteri di computo dell’indennità dovuta[24].

Alle tradizionali categorie di aree edificabili e non edificabili venivano aggiunte le aree edificate legittimamente e le aree destinate a trasformarsi in opere private di pubblica utilità.

  • Quanto alle aree edificabili, l’art. 37 del D.P.R. n. 327 del 2001 – nella formulazione originaria, antecedente alla declaratoria di illegittimità costituzionale operata da Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348, e alle conseguenti modifiche introdotte dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244 – stimava l’indennità in misura pari alla semisomma[25] del valore venale e del reddito netto rivalutato, moltiplicato per dieci; la somma così ottenuta veniva, poi, ridotta del 40% nel caso di rifiuto di cessione volontaria del bene ovvero se il motivo del rifiuto non era addebitabile alla P.a. Il testo unico non forniva un criterio identificativo del carattere della edificabilità del suolo, cosicché continuò ad applicarsi il criterio, di matrice giurisprudenziale, fondato sulla qualificazione effettuata negli strumenti urbanistici (e, in via meramente residuale, in caso di assenza di strumenti urbanistici, fondato sul dato sostanziale della edificabilità effettiva e in concreto del suolo, accertata attraverso il ricorso a periti).
  • Quanto alle aree non edificabili (sia quelle agricole che quelle colpite da inedificabilità assoluta, come ad esempio quelle destinate al verde), il D.P.R. n. 327 del 2001 distingue tra aree coltivate e non coltivate.

Le aree coltivate sono valutate secondo il loro valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate e dei manufatti edilizi legittimamente realizzati. Le aree non coltivate sono indennizzate con una somma pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalentemente praticata nella zona, nonché ai manufatti legittimamente realizzati (comma 2)[26].

  • In relazione alle aree legittimamente edificate, l’articolo 38 del D.P.R. n. 327 del 2001 stabiliva che l’indennità dovuta in caso di esproprio dovesse essere pari al valore venale del bene.
  • Per quanto concerne invece le aree illegittimamente edificate, la quantificazione dell’indennità è legata alla condonabilità dell’immobile: se l’immobile non è condonato né condonabile, il risarcimento va escluso in riferimento all’immobile abusivo ed è dovuto esclusivamente in riferimento alla c.d. area di sedime, cioè all’area considerata libera dalle opere illegittimamente realizzate (articolo 38, comma 2, del D.P.R. n. 327 del 2001). Se invece è stata presentata domanda di condono non ancora evasa dall’amministrazione, l’amministrazione dovrà effettuare un giudizio prognostico in ordine alla condonabilità dell’unità immobiliare[27].
  • L’articolo 36 del D.P.R. n. 327 del 2001, in relazione alle aree destinate ad opere private di pubblica utilità (allorché tali opere non rientrino nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica, convenzionata, agevolata o comunque denominata, l’indennità di esproprio è determinata nella misura corrispondente al valore venale del bene.

4.1. Il soggetto espropriato ha diritto ad un ‘serio ristoro’: il caso scordino c. Italia

Sull’indennità di espropriazione per le aree edificabili è poi intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 29 marzo 2006 (caso Scordino c. Italia)[28], ritenendo che l’articolo 5-bis del decreto legge 333/1992, riprodotto nell’articolo 37 D.P.R. n. 327 del 2001 si ponesse in contrasto con l’articolo 1 del primo protocollo addizionale CEDU[29], in quanto l’applicazione del citato art. 5-bis al procedimento in questione aveva privato i ricorrenti di una parte sostanziale dell’indennizzo che avrebbero potuto pretendere. La Corte aveva ravvisato la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 per mancanza del necessario equilibrio che deve sussistere, in tema di proprietà, tra le esigenze di carattere generale e gli imperativi di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, essendo l’indennizzo ricevuto dai ricorrenti non ragionevolmente rapportabile al valore della proprietà espropriata[30].

La Corte ha espresso i seguenti principi:

§ 93. Una ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve rispettare un giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo[31]. In particolare, deve esistere un ragionevole rapporto di proporzionalità fra i mezzi impiegati e lo scopo proseguito da qualsiasi misura applicata dallo Stato, ivi incluse le misure che privano una persona della sua proprietà[32].

§ 94. Nel controllare il rispetto di questa esigenza, la Corte riconosce allo Stato un ampio margine di apprezzamento tanto nello scegliere le modalità di attuazione quanto nello stabilire se le loro conseguenze siano legittimate, nell’interesse generale, dallo scopo di realizzare l’obbiettivo della legge in causa[33]. Nondimeno, la Corte non potrebbe rinunciare al suo potere di controllo in virtù del quale le compete verificare che l’equilibrio voluto sia stato preservato in modo compatibile col diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni, ai sensi della prima frase dell’art. 1 Prot. 1[34].

§ 95. Al fine di determinare se la misura contestata rispetta il «giusto equilibrio” voluto e in particolare se non fa pesare sui ricorrenti un carico sproporzionato, si devono prendere in considerazione le modalità di indennizzo previste dalla legislazione interna. A questo riguardo, la Corte ha già detto che senza il versamento di una somma ragionevolmente correlata al valore del bene, una privazione di proprietà costituisce normalmente una sproporzionata interferenza. Una mancanza totale di indennizzo non si potrebbe giustificare sul terreno dell’art. 1 Prot. 1 se non per circostanze eccezionali[35]. L’art. 1 del Prot. 1 non garantisce in ogni caso il diritto a una riparazione integrale[36].

§ 96. Se è vero che in numerosi casi di espropriazione legittima, come l’espropriazione singola di un terreno in vista della costruzione di una strada o per altri fini di utilità pubblica, solo un indennizzo integrale può essere considerato ragionevolmente correlato al valore del bene, questa regola non è tuttavia senza eccezioni[37].

§ 97. Degli obbiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli che si perseguono con misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al pieno valore venale[38].

4.2. L’illegittimità convenzionale degli istituti di origine giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva e usurpativa: il caso belvedere

In passato, si era sovente verificato che una P.a. (generalmente un Comune) realizzasse un’opera pubblica su un fondo privato in assenza del necessario decreto di esproprio (o dopo la scadenza dei termini per adottarlo, fissati nella dichiarazione di pubblica utilità).

Al fine di preservare le opere realizzate, la giurisprudenza aveva ritenuto che la trasformazione irreversibile del fondo determinasse il trasferimento della proprietà di quest’ultimo all’amministrazione, salvo l’obbligo di risarcimento del privato ai sensi dell’articolo 2043 c.c.; il fondamento teorico di tale affermazione stava nell’applicazione alla P.a. dell’istituto privatistico dell’accessione invertita, di cui all’articolo 938 c.c.[39].

Venne allora elaborato l’istituto della occupazione acquisitiva (o appropriativa), che consisteva nell’acquisto della proprietà del suolo da parte della P.a. che lo avesse illegittimamente occupato ed irreversibilmente trasformato con la realizzazione dell’opera. Il meccanismo di acquisizione è stato fondato sull’applicazione di un altro istituto, proprio del diritto civile, che è quello dell’accessione invertita di cui all’articolo 938 c.c.

L’occupazione acquisitiva è stata teorizzata per la prima volta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 1464/1983. Alla Corte era stato deferito il duplice problema degli effetti ricollegabili alla costruzione di un'opera pubblica su un suolo privato, nelle ipotesi in cui il periodo di occupazione legittima fosse scaduto o in cui (il caso è sostanzialmente analogo) un provvedimento di autorizzazione all'occupazione fosse mancato del tutto – e correlativamente – della portata attribuibile, in tali ipotesi, alla sopravvenienza di un provvedimento di espropriazione per pubblica utilità. Si sono quindi succeduti tre distinti orientamenti:

  • In un primo tempo, si escludeva che il privato potesse conseguire la restituzione dell’area, tanto per via della tutela possessoria proposta innanzi al giudice ordinario ai sensi degli articoli 1168-1170 c.c., quanto all’esito del giudizio demolitorio instaurato davanti al giudice amministrativo ex articolo 21-octies, L. 241/1990.

Da un lato, infatti, si riteneva che alla proposizione dell’azione possessoria civilistica ostassero gli articoli 2 e 4 della legge 2248 del 1865, allegato E (ancora oggi in vigore) i quali consentono l’intervento del giudice ordinario quando la questione riguarda un diritto e, specularmente, impediscono a tale giudice di ingerirsi nell’attività discrezionale della P.a. Si assumeva l’operatività di tale preclusione nei riguardi del giudice ordinario anche nel caso di mancanza del provvedimento di esproprio. Si riteneva, inoltre, che la mancanza di tale provvedimento precludesse al privato la possibilità di adire il giudice amministrativo, attesa la natura demolitoria del relativo giudizio, presupponente, dunque, l’impugnazione di un provvedimento del quale si contesti la legittimità e che, in tal caso, manca. Pertanto, a fronte della dedotta impossibilità per il privato spossessato di conseguire la restituzione dell’area, si riteneva che l’unica forma di tutela azionabile fosse quella di risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 2043 c.c. Da notare che, secondo certa giurisprudenza, la sopravvenienza del provvedimento ablatorio (decreto di esproprio) durante il corso del giudizio di risarcimento del danno da occupazione illegittima comportasse l’automatica conversione della domanda risarcitoria in quella di opposizione alla stima[40]. Perciò, intervenuto anche tardivamente il decreto di esproprio, il diritto di proprietà del privato espropriato si convertiva in un diritto di credito della indennità di esproprio e al risarcimento del danno (limitatamente al periodo di tempo intercorrente tra la scadenza dell’occupazione legittima, se avvenuta, oppure, in alternativa, tra l’inizio dell’occupazione illegittima e l’emanazione del decreto di esproprio). In altri termini, si riteneva che il decreto di esproprio emesso nelle more del giudizio risarcitorio, producesse un’efficacia sanante dell’operato della P.a.

  • Successivamente, altra parte della giurisprudenza ha mutato orientamento, affermando che il privato avrebbe potuto chiedere la riduzione in pristino dell’area illegittimamente occupata dall’amministrazione[41], con un unico limite, costituito dall’irreversibile trasformazione del terreno. In tal caso, l’irreversibile trasformazione determinava il trasferimento della proprietà del terreno dal privato alla P.a.
  • Tale orientamento è stato superato da un recente indirizzo giurisprudenziale, secondo cui il rispetto dei principi stabiliti dalla giurisprudenza europea impone il divieto di fare scaturire dall’occupazione illegittima del terreno (illecito permanente) il trasferimento della proprietà alla P.a.; quest’ultima, difatti, può acquisire la proprietà del terreno esclusivamente tramite contratto o provvedimento ablatorio (decreto di esproprio) e non in virtù di un atto illecito (occupazione acquisitiva o appropriativa o acquisizione sanante)[42].

L’occupazione usurpativa è anch’essa un istituto di origine giurisprudenziale e si verifica quando l’amministrazione occupa il fondo e realizza l’opera pubblica, se ricorre uno dei seguenti casi: 1) in assenza della dichiarazione di pubblica utilità; 2) quando la dichiarazione di pubblica utilità originariamente resa sia stata in seguito annullata; 3) in caso di sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità per decorso dei termini fissati per la realizzazione dell’opera senza l’emanazione del decreto di esproprio[43].

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha censurato le forme di espropriazione indiretta elaborate dalla giurisprudenza italiana (con specifico riguardo alle forme di espropriazione denominate occupazione acquisitiva ed usurpativa) e le ha qualificate come illeciti permanenti lesivi di uno dei diritti fondamentali dell’uomo: il diritto di proprietà, tutelato dall’articolo 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU[44].

Nel caso Belvedere c. Italia, la società ricorrente, proprietaria di un albergo, era altresì proprietaria di un fondo che consentiva ai clienti di accedere direttamente al mare. Il comune approvava con delibera il progetto di costruzione di una strada che doveva essere realizzata sul fondo della ricorrente e disponeva con decreto l'occupazione d'urgenza del fondo. Successivamente, l'amministrazione procedeva all'occupazione materiale del terreno e dava inizio ai lavori di costruzione. Veniva instaurato un giudizio davanti al Tribunale amministrativo, che condannava al ripristino dello stato originario dei luoghi e alla loro restituzione alla proprietaria.

Con successive lettere, la ricorrente invitava - reiteratamente e senza esito - il comune a procedere alla rimessa in pristino del fondo e alla sua restituzione, in esecuzione della sentenza del TAR. Pertanto, introduceva un ricorso di ottemperanza. Il TAR respingeva, però, il ricorso adducendo che l'esecuzione della sentenza del giudizio di cognizione era ormai divenuta impossibile dal momento che la costruzione della strada da parte dell'amministrazione aveva comportato il trasferimento di proprietà del fondo sulla base del principio dell'accessione invertita; di conseguenza, la restituzione del terreno era inattuabile. L'illiceità di tale trasferimento di proprietà conferiva, tuttavia, all'interessata il diritto di richiedere il risarcimento del danno davanti ai tribunali civili. La società ricorrente proponeva appello avverso tale decisione davanti al Consiglio di Stato, che decideva di deferire il caso alle Sezioni Unite. Emergeva da tale ordinanza che la Sezione interessata riteneva che, nella fattispecie, la perdita di proprietà del terreno a causa della realizzazione dell'opera pubblica equivalesse ad un diniego di giustizia: se una sentenza amministrativa favorevole al proprietario di un fondo non aveva nessuna efficacia di fronte alla volontà dell'amministrazione di appropriarsi di tale bene, ne conseguiva che il proprietario interessato era alla mercé dell'amministrazione. Il Consiglio di Stato a Sezioni Unite respingeva l'appello, ritenendo che l'applicazione del principio dell'accessione invertita nella fattispecie non aveva implicato nessun diniego di giustizia. Infatti, affermava il Consiglio di Stato, i lavori di costruzione si erano sostanzialmente conclusi prima della sentenza del TAR. Di conseguenza. La sua restituzione era impossibile per via dell'accessione invertita.

La ricorrente proponeva ricorso alla Corte EDU, dolendosi dell'impossibilità di riottenere il proprio fondo a causa dell'istituto dell'accessione invertita, che è stato applicato nonostante la decisione del Tribunale amministrativo della Toscana che aveva annullato il progetto di costruzione e il decreto di occupazione, ritenuti illegittimi e privi di utilità pubblica.

Per conciliarsi con l'art. 1 del Protocollo n. 1, una simile ingerenza deve essere effettuata «per causa di pubblica utilità» e «nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale». L'ingerenza deve mantenere un «giusto equilibrio» tra le necessità dell'interesse generale della collettività e gli imperativi di salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo[45]. Inoltre, la necessità di esaminare la questione del giusto equilibrio «si avverte solo quando si è accertato che l'ingerenza in contestazione abbia rispettato il principio di legalità e non era arbitraria[46].

L'art. 1 del Protocollo n. 1 esige, anzitutto e soprattutto, che un'ingerenza della pubblica autorità nel godimento del diritto al rispetto dei beni sia legittima[47]. La preminenza del diritto, uno dei principi cardine di una società democratica, inerisce a tutti gli articoli della e implica il dovere dello Stato o di una pubblica autorità di conformarsi ad una decisione o ad una sentenza adottata nei loro confronti.

La Corte non ha ritenuto opportuno decidere in abstracto se il ruolo che un principio giurisprudenziale, quale quello dell'accessione invertita, occupa in un sistema di diritto continentale, sia equiparabile a quello occupato da disposizioni legislative. Nondimeno, ha ricordato che il principio di legalità comporta l'esistenza di norme di diritto interno sufficientemente accessibili, precise e prevedibili[48].

La giurisprudenza italiana in materia di accessione invertita ha conosciuto un'evoluzione che ha condotto ad applicazioni contraddittorie, e ciò avrebbe potuto condurre ad un risultato imprevedibile o arbitrario e privare gli interessati di una protezione efficace dei loro diritti e, di conseguenza, sarebbe incompatibile con il principio di legalità.

Secondo il principio sancito dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 1464 del 1983, l'accessione invertita si realizza tramite l'occupazione illegittima di un fondo. Tale illegittimità può esistere ab initio o sopravvenire successivamente. La Corte formula delle riserve sulla compatibilità con il principio di legalità di un meccanismo che, genericamente, consente all'amministrazione di trarre beneficio da una situazione illegittima e per effetto del quale il privato cittadino si trova davanti al fatto compiuto.

In ogni caso, la Corte è chiamata ad accertare se il modo in cui il diritto interno è stato interpretato ed applicato produca effetti conformi ai principi della Convenzione.

Nel caso di specie, la Corte rilevava che, il 2 dicembre 1987, il TAR ha annullato ex tunc le decisioni adottate dall'amministrazione per illegittimità e per assenza di interesse pubblico. Tuttavia, tale constatazione del TAR che concludeva per l'illegittimità e l'assenza di interesse pubblico dell'occupazione del fondo della ricorrente non ha comportato la restituzione del fondo, dal momento che il Consiglio di Stato ha considerato irreversibile il trasferimento di proprietà a favore dell'amministrazione.

La Corte ha ritenuto tale ingerenza non conforme all'art. 1 del Protocollo n. 1. Questa conclusione la dispensava quindi dal verificare se fosse stato mantenuto un giusto equilibrio tra le necessità dell'interesse generale della collettività e le esigenze di salvaguardia dei diritti individuali. Pertanto si è ritenuta sussistente una violazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1.

4.3. L’indennizzabilità dei vincoli preordinati all’espropriazione: il caso odescalchi e lante della rovere c. Italia.

La proprietà privata può subire limitazioni non solo a causa di un’espropriazione, ma anche a seguito dell'imposizione di determinati vincoli fissati dall'autorità pubblica. Questi vincoli possono avere natura conformativa o espropriativa: i primi riguardano una generalità di beni (es. vincoli paesaggistici, artistici ecc.) e non danno diritto a nessun indennizzo, mentre i secondi sono finalizzati ad una successiva espropriazione e possono dare il diritto a ricevere un indennizzo[49].

La Corte EDU ha avuto modo di occuparsi dell’argomento nel caso Odescalchi e Lante Della Rovere c. Italia, concernente la destinazione d’uso a verde pubblico di un terreno di proprietà dei ricorrenti da parte del piano regolatore generale, che ne imponeva il vincolo di inedificabilità assoluta in vista della futura espropriazione. Sebbene la suddetta autorizzazione all’esproprio fosse decaduta, il terreno non venne liberato da vincoli. Nell’attesa della decisione del Comune in merito alla nuova destinazione urbanistica da attribuire al terreno, quest’ultimo fu assoggettato al regime detto delle «zone bianche», previsto dall’articolo 4 della legge n. 10 del 1977 e ai relativi divieti di costruire.

Adite le vie legali, i ricorrenti ottennero una pronuncia favorevole, con la quale si intimava al Comune di decidere la destinazione d’uso, e si procedeva alla nomina di un commissario ad acta. A fronte dell’inerzia dell’amministrazione comunale, il commissario ad acta rinnovò l’autorizzazione all’esproprio di tutto il terreno dei ricorrenti destinando quest’ultimo a verde pubblico.

In seguito, i ricorrenti impugnavano la decisione. Nelle more del giudizio, pendente alla data della pronuncia della sentenza della Corte EDU, il terreno è rimasto sottoposto alle «misure conservative» conseguenti alla decisione del commissario ad acta. I ricorrenti hanno quindi adito la Corte EDU lamentando l'eccessiva durata del divieto di costruire imposto al loro terreno a seguito dell’autorizzazione all’esproprio e nonostante quest’ultima fosse scaduta nel 1980 e sostenendo che tale situazione, in mancanza di indennizzo, fosse incompatibile con l'articolo 1 del Protocollo n. 1.

La Corte ha riconosciuto che, in un campo così complesso e difficile quale la pianificazione del territorio, gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento per condurre la loro politica urbanistica e che, nel caso di specie, l'ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni rispondesse alle esigenze dell'interesse generale. Occorreva quindi esaminare se fosse stato mantenuto un giusto equilibrio tra le suddette esigenze e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo.

A tale riguardo, veniva rilevato che il terreno di proprietà dei ricorrenti era stato sottoposto a divieto di costruire in maniera continuata per più di quarant'anni. Durante tutto il periodo interessato, i ricorrenti erano rimasti in uno stato di totale incertezza circa la sorte della loro proprietà. Durante il periodo di validità dell'autorizzazione all'esproprio e anche dopo la scadenza della suddetta autorizzazione, l'amministrazione era rimasta inerte. Inoltre, la possibilità riconosciuta ai ricorrenti dal diritto interno di denunciare l'inerzia dell'amministrazione non aveva posto rimedio allo stato di incertezza. Peraltro, la Corte costituzionale aveva affermato che «il ricorso che permette di contestare l’inerzia dell’amministrazione dinanzi al tribunale amministrativo è defatigante e non conclusivo con conseguente scarsa efficacia».

La Corte EDU ha, dunque, ritenuto che l'esistenza di divieti di costruire per tutto il periodo interessato abbia ostacolato il pieno godimento del diritto di proprietà dei ricorrenti e abbia accentuato le ripercussioni dannose sulla situazione di quest'ultimi indebolendo considerevolmente, tra l'altro, le possibilità di vendere il terreno. A ciò si deve aggiungere il fatto che i ricorrenti non avevano ricevuto indennizzi, non sussistendo nel caso di specie alcuna possibilità di indennizzo, in quanto: il primo periodo, che va dal 1975 al 1980 e durante il quale l'autorizzazione all'esproprio prevista dal piano regolatore generale era stata in vigore, andava considerato come un periodo di franchigia non indennizzabile; il periodo precedente l'entrata in vigore del suddetto piano regolatore, che va dal 1971 al 1975, interessato dalle misure conservative, non era neanch’esso indennizzabile; il periodo che va dal 1980 al 2011, durante il quale il terreno era stato sottoposto al regime delle «zone bianche», non era neanch’esso indennizzabile; il periodo a partire da giugno 2011 non era indennizzabile perché l'autorizzazione all'esproprio decisa dal commissario ad acta non era entrata in vigore.

Alla luce di tali considerazioni, e in particolare dell’incertezza e dell'inesistenza di ricorsi interni effettivi che possano rimediare alla situazione denunciata, combinate con l'ostacolo al pieno godimento del diritto di proprietà e alla mancanza di indennizzo, la Corte concludeva che i ricorrenti avevano dovuto sostenere un onere speciale ed eccessivo, con la conseguente rottura il giusto equilibrio che deve essere mantenuto tra, da una parte, le esigenze dell'interesse generale e, dall'altra parte, la salvaguardia del diritto al rispetto dei beni.

In conclusione, la permanenza di un vincolo di inedificabilità in presenza di un’autorizzazione all’esproprio scaduta viola l’art. 1 Prot. n. 1 CEDU. Nel caso di specie la Corte, tenuto conto dell'incertezza circa le sorti del terreno sottoposto a vincolo e dell'inesistenza di ricorsi interni effettivi, combinate con l'ostacolo al pieno godimento del diritto di proprietà e alla mancanza di indennizzo, ha ritenuto che i ricorrenti avessero dovuto sostenere un onere speciale ed eccessivo, venendo così meno il giusto equilibrio che deve essere mantenuto tra le esigenze dell'interesse generale e la salvaguardia del diritto al rispetto dei beni[50]

Note e riferimenti bibliografici

[1] L’articolo 1 del Primo Protocollo addizionale CEDU stabilisce che: “1. Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. 2. Le disposizioni Precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

[2] In virtù del quale: “1. Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L'uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall'interesse generale. 2. La proprietà intellettuale è protetta”.

[3] M. GIORGIANNI, Il rapporto fra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nel dialogo fra le Corti europee e nazionali: il problema dell’interpretazione dei diritti umani, 17 luglio 2014, http://www.diritticomparati.it/il-rapporto-fra-la-convenzione-europea-dei-diritti-delluomo-e-la-carta-dei-diritti-fondamentali-dell/. F. TUMMINELLO, L’adesione dell’Unione Europea al sistema della CEDU, quali prospettive?, pubblicato il 18 giugno 2018, aggiornato il 7 settembre 2018, https://www.iusinitinere.it/ladesione-dellunione-europea-al-sistema-della-cedu-quali-prospettive-10627. V. ZAGREBELSKY, Sulla prevista adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 2009, http://www.europeanrights.eu/public/commenti/Adesione_Zagrabelski.doc. F. ANGELINI, Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea. I princìpi fondamentali nelle relazioni interordinamentali, Milano, 2007, 158. U. VILLANI, I diritti fondamentali tra Carta di Nizza, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e progetto di Costituzione europea, Il diritto dell’Unione europea, Vol. 9, Fasc. 1, Torino - Milano, 2004, 73-116. L. M. DIEZ PICAZO, Le relazioni tra Unione Europea e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in S. PANUNZIO, I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, 2005, 269 e ss.

[4] Ai sensi dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, che dispone: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

[5] I. ANRO’, L'adesione dell'Unione europea alla CEDU: l'evoluzione dei sistemi di tutela dei diritti fondamentali in Europa, Milano, 2015.

[6] L. S. ROSSI, Il parere 2/94 sull’adesione della Comunità europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Il diritto dell’Unione Europea, 1996, 839 e ss. G. GAJA, Carta dei diritti fondamentali e Convenzione europea: una relazione complessa, in U. DE SIERVO (a cura di), La difficile Costituzione europea, Bologna, 2001, 211 e ss.

[7] I. ANRO’, Il parere 2/13 della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU: questo matrimonio non s’ha da fare?, 2 febbraio 2015, http://www.diritticomparati.it/il-parere-213-della-corte-di-giustizia-sulladesione-dellunione-europea-alla-cedu-questo-matrimonio-n/. L. S. ROSSI, Il Parere 2/13 della CGUE sull'adesione dell'UE alla CEDU: scontro fra Corti?, 22 dicembre 2014, http://www.sidiblog.org/2014/12/22/il-parere-213-della-cgue-sulladesione-dellue-alla-cedu-scontro-fra-corti/. E. LONGO, Corte di giustizia (Sezione plenaria), parere 2/13, Adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea sui diritti umani, 18 dicembre 2014 (Fasc. 1/2015), https://www.osservatoriosullefonti.it/archivio-rubriche-2015/fonti-dellunione-europea-e-internazionali/1207-corte-di-giustizia-sezione-plenaria-parere-213-adesione-dellunione-europea-alla-convenzione-europea-sui-diritti-umani-18-dicembre-2014-1. D. FANCIULLO, Parere 2/13 della Corte di Giustizia: la novissima quaestio dell'adesione dell'Unione europea alla CEDU, FOCUS - HUMAN RIGHTS N. 2 - 03/04/2015, Federalismi, https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=29176. F. CHERUBINI, In merito al parere 2/13 della Corte di giustizia dell’UE: qualche considerazione critica e uno sguardo de jure condendo, Associazione italiana costituzionalisti (AIC), Osservatorio costituzionale, maggio 2015, https://core.ac.uk/download/pdf/54548779.pdf.

[8] R. SAMPERI, La soggettività internazionale degli individui: una questione ancora aperta?, 2017.

[9] C. ZANGHI, La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione:le sentenze n. 347 e 348 del 2007,  nella Rubrica “Studi” di Consulta OnLine, A. RUGGERI, La CEDU alla ricerca di una nuova identità (sentt. nn. 348/2007 e 349/2007), Forum dei Quaderni Costituzionali. R. DICKMANN, Corte costituzionale e diritto internazionale nel sindacato delle leggi per contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, Federalismi.it. A. MOSCARINI, Indennità di espropriazione e valore di mercato del bene: un passo avanti e uno indietro della Consulta nella costruzione del patrimonio costituzionale europeo, Federalismi.it. V. TOMMASO, F. GIUPPONI, Corte costituzionale, obblighi internazionali e “controlimiti allargati”: che tutto cambi perché tutto rimanga uguale?, Forum dei Quaderni Costituzionali, D. TEGA, Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: la Cedu da fonte ordinaria a fonte “sub-costituzionale” del diritto, Forum dei Quaderni Costituzionali. N. PIGNATELLI, La dilatazione della tecnica della “interposizione” (e del giudizio costituzionale), Forum dei Quaderni Costituzionali, C. NAPOLI, La nuova collocazione della CEDU nel sistema delle fonti e le conseguenti prospettive di dialogo tra le Corti, Forum dei Quaderni Costituzionali. C. PINELLI, Sul trattamento giurisdizionale della CEDU e delle leggi con essa confliggenti, AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti, G. PILI, Il nuovo “smalto costituzionale” della CEDU agli occhi della Consulta (sentt. nn. 348 e 349 del 2007), Forum dei Quaderni Costituzionali. V. SCIARABBA, Nuovi punti fermi (e questioni aperte) nei rapporti tra fonti e corti nazionali ed internazionali, AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti. S. CICCONETTI, Creazione indiretta del diritto e norme interposte, AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti. A. FILIPPINI, Il caso Dorigo, La CEDU e la Corte costituzionale: l'effettività della tutela dei diritti dopo le sentenze 348 e 349 del 2007, Costituzionalismo.it. D. SCHEFOLD, L’osservanza dei diritti dell’uomo garantiti nei trattati internazionali da parte del giudice italiano, Forum dei Quaderni Costituzionali. F. CORTESE, La garanzia costituzionale del diritto di proprietà tra espropriazione e occupazione acquisitiva, Forum dei Quaderni Costituzionali. S. PENASA, Tanto rumore per nulla o meglio tardi che mai? Ancora sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, tra dubbi ermeneutici e possibili applicazioni future, Forum dei Quaderni Costituzionali. F. DONATI, La CEDU nel sistema italiano delle fonti del diritto alla luce delle sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007, Osservatorio sulle fonti. I. CARLOTTO, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale, AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti. E. LAMARQUE, Il vincolo alle leggi statali e regionali derivante dagli obblighi internazionali nella giurisprudenza comune, dalla Rubrica Atti di convegni e seminari del sito della Corte costituzionale. M. LUGATO, Struttura e contenuto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo al vaglio della Corte costituzionale, nella Rubrica Studi, 2009, giurcost.org. F. GIUFFRE', Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell'uomo: un dialogo senza troppa confidenza, Federalismi.it.

[10] M. DE TILLA, Il diritto immobiliare. Trattato sistematico di giurisprudenza ragionata per casi. Le servitù, l'usufrutto, l'uso e l'abitazione, il diritto di superficie, Milano, 2006, 967. R. CONTI, L'occupazione acquisitiva: tutela della proprietà e dei diritti umani, Milano, 2006, 6 e ss. O. T. SCOZZAFAVA, Studi sulla proprietà, Torino, 2014, 161. S. MOCHI ONORY, Rivista di storia del diritto italiano, Vol. 71, 2014, 391. S. BOCCALATTE, La proprietà e la legge: esproprio e tutela della proprietà nell'ordinamento giuridico italiano, Roma, 2004, 15. F. DANI, Discipline giuridiche per l'architettura: Territorio, pianificazione e opere pubbliche, Torino, 2013, 145.

[11] Corte Cost., 25 maggio 1957, n. 61.

[12] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 1244.

[13] Corte Cost. 29 dicembre 1959, n. 67; 18 febbraio 1960, n. 5; 15 gennaio 1976, n. 15 e 30 luglio 1981, n. 160.

[14] F. NOSCHESE, Edilizia pubblica, in V. ITALIA (a cura di), Enciclopedia degli enti locali, Urbanistica, edilizia, espropriazione, Milano, 2007, 498.

[15] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1245.

[16] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1245.

[17] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1245.

[18] Corte Cost., 15 luglio 1983, n. 223.

[19] La norma stabiliva quanto segue: 1. Fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere o interventi da parte o per conto dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni e degli altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali, o comunque preordinate alla realizzazione di opere o interventi dichiarati di pubblica utilità, l’indennità di espropriazione per le aree edificabili è determinata a norma dell'articolo 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. L'importo così determinato è ridotto del 40 per cento. 2. In ogni fase del procedimento espropriativo il soggetto espropriato può convenire la cessione volontaria del bene. In tal caso non si applica la riduzione di cui al comma 1. 3. Per la valutazione della edificabilità delle aree, si devono considerare le possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio. 4. Per le aree agricole e per quelle che, ai sensi del comma 3, non sono classificabili come edificabili, si applicano le norme di cui al tiolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni ed integrazioni. 5. Con regolamento da emanare con decreto del Ministro dei lavori pubblici ai sensi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definiti i criteri e i requisiti per l'individuazione dell'edificabilità di fatto di cui al comma 3. 6. Le disposizioni di cui al presente articolo in materia di determinazione dell’indennità di espropriazione non si applicano ai procedimenti per i quali l'indennità predetta sia stata accettata dalle parti o sia divenuta non impugnabile o sia stata definita con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.

[20] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1246.

[21] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1246.

[22] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1246-1247.

[23] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1247.

[24] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 2017, 1247.

[25] Semisomma = metà della somma di due numeri, somma divisa per due.

[26] Tale disposizione è stata dichiarata incostituzionale da Corte Cost., 10 giugno 2011, n. 181.

[27] M. BRINDISI, Quantificazione dell’indennità di esproprio in presenza di immobile abusivo, 10 Luglio 2019, su https://www.piselliandpartners.com/news-di-settore/quantificazione-dellindennita-di-esproprio-in-presenza-di-immobile-abusivo/. Con l’Ordinanza del 6 giugno 2019, n. 15410, la Sezione I della Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire un principio di diritto già in precedenza espresso con riferimento alla quantificazione dell’indennità di esproprio per pubblica utilità su area sulla quale insista una costruzione abusiva.

In proposito il Giudice di Legittimità ha ribadito che, alla stregua dell’art. 38, comma 2 bis, del d.P.R. n. 327 del 2001, il diritto all’indennità non è escluso dall’originaria abusività dell’edificazione, ove l’immobile, alla data dell’esproprio, sia stato fatto oggetto di una domanda di sanatoria non ancora scrutinata dalla P.A.

In tal caso, infatti, la Pubblica Amministrazione dovrà effettuare una valutazione prognostica circa la sua condonabilità; il cui esito, se positivo, impone di tenerne conto nella quantificazione dell’indennità, altrimenti restando la stessa rapportata non già alle caratteristiche oggettive del bene sottoposto ad esproprio, ma ad una circostanza affatto casuale ed insignificante, quale l’avere la P.A. deciso o meno sull’istanza di condono, anche se – per ipotesi – in violazione dei termini all’uopo previsti (Cass. n. 28694 del 2016, n. 3794 del 2019).

[28] Il Sig. Scordino, contestando l’ammontare dell’indennità di espropriazione stabilito dal comune di Reggio Calabria, nel cui territorio si trovava il fondo di sua proprietà, aveva adito, nel 1990, la Corte d’appello di Reggio Calabria chiedendo (a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 1983, che aveva dichiarato incostituzionale la legge n. 385 del 1980, con l’effetto che, in materia di computo dell’indennità di espropriazione, spiegasse nuovamente la sua efficacia la legge n. 2359 del 1865) che il valore dell’indennità di espropriazione del terreno fosse stabilito in base al valore di mercato del terreno stesso; chiedeva, inoltre, di essere indennizzato per il periodo di occupazione precedente il decreto di esproprio, nonché per lo stato del terreno divenuto ormai inutilizzabile a seguito dei lavori di costruzione disposti dal comune. Nel corso del giudizio entrava in vigore la legge n. 359 del 1992 che, all’art. 5 bis, stabiliva nuovi criteri di calcolo dell’indennità di esproprio disponendo che si applicassero anche ai procedimenti in corso. Con sentenza del 7 luglio 1996, la Corte d’appello stabilì che l’indennità dovesse essere calcolata secondo i criteri contenuti nel citato articolo della legge n. 359, sia per il terreno formalmente espropriato che per quello divenuto ormai inutilizzabile a seguito dei lavori di costruzione disposti dal comune; dispose, inoltre, che sull’indennità così calcolata non si dovesse applicare l’abbattimento del 40% previsto dalla stessa legge n. 359 nel caso in cui l’espropriato non avesse concluso un accordo volontario di cessione del terreno, dato che, nella fattispecie, l’espropriazione era già avvenuta alla data di entrata in vigore della legge. Il 18 giugno 1997 l’indennità, così stabilita dalla Corte d’appello, fu depositata presso la Banca d’Italia e sottoposta a tassazione del 20% ai sensi della legge n. 413 del 1991. A seguito di ricorso esperito dagli eredi Scordino ai sensi della legge n. 89 del 2001, per ottenere un’equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, la Corte d’appello di Reggio Calabria accordò una somma di 2.450 euro a titolo di danno morale ai ricorrenti, che non impugnarono in Cassazione la decisione, divenuta definitiva il 26 ottobre 2003.

  1. L’articolo 5-bis del decreto legge n. 333 del 1992 ha poi introdotto – “fino all’emanazione di un’organica disciplina per tutte le espropriazioni” – una rigida bipartizione nella determinazione dell’indennizzo a seconda che si trattasse di terreni agricoli o edificabili.

Per i suoli agricoli (e in generale per tutti quelli non edificabili), è stato riproposto il criterio del valore agricolo (previsto dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865).

Per le aree edificabili, rivisitando il criterio proposto dall’articolo 13 della legge n. 2892 del 1885, si è fatto riferimento alla media aritmetica tra il valore venale del terreno e il reddito dominicale rivalutato, di cui agli articoli 24 e ss. del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (anziché dei fitti dell’ultimo decennio), ridotta del 40% in caso di mancato accordo con il proprietario.

[30] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., Molfetta – Roma, 2017, 1249-1250.

[31] Vedi, tra gli altri, Sporrong e Lönnroth c. Svezia, § 69.

[32] Pressos Compania Naviera S.A. e altri c. Belgio, § 38; Ex Re di Grecia e altri c. Grecia, § 89-90; Sporrong e Lönnroth c. Svezia, § 73.

[33] Chassagnou e altri c. Francia, § 75.

[34] Jahn e altri c. Germania, § 93.

[35] I Santi Monasteri c. Grecia, § 71, Ex Re di Grecia e altri c. Grecia, § 89.

[36] James e altri c. Regno Unito, § 54; Broniowski c. Polonia, § 182.

[37] Ex Re di Grecia e altri c. Grecia, § 78.

[38] James e altri, sent. cit., § 54. R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., Molfetta – Roma, 2017, 1250.

[39] Rubricato “Occupazione di porzione di fondo attiguo”. Stabilisce che

[40] Cass. Civ., Sez. I, 17 aprile 1982, n. 2341. R. GAROFOLI, G. FERRARI, ibidem.

[41] Cass. Civ., Sez. Un., 22 ottobre 1980, n. 5679.

[42] Cons. Stato, Sez. II, 17 maggio 2019, n. 3195.

[43] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 1271-1272.

[44] R. GAROFOLI, G. FERRARI, op. cit., 1267.

[45] M. DE SALVIA, V. ZAGREBELSKY, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia delle Comunità europee, Vol. 3, Milano, 2007, 208. Caso Sporrong e Lönnroth, par. 69.

[46] M. DE SALVIA, V. ZAGREBELSKY, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia delle Comunità europee, Vol. 3, Milano, 2007, 204 e ss. Caso Iatridis, c. Grecia, par. 58. Caso Beyeler c. Italia, 5 gennaio 2000, par. 107.

[47] M. DE SALVIA, V. ZAGREBELSKY, op. cit., 205-206. Caso Iatridis, cit., par. 58.

[48] Caso Hentrichc. Francia, 22 settembre 1994, par. 42. Caso Lithgow e altri c. Regno Unito, 8 luglio 1986, par. 110.

[49] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2011, 270.

[50] Camera dei Deputati, Scheda di sintesi del caso Odescalchi e Della Rovere c. Italia, su https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/sentenza/sintesi_sentenzas/000/000/642/Odescalchi_e_Lante_della_Rovere.pdf. N. BERTI, La proprietà tra diritto interno e CEDU, in F. G. SCOCA, P. STELLA RICHTER, P. URBANI (a cura di), Trattato di diritto del territorio, Vol. 1, Torino, 2018, 126.