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Pubbl. Mer, 29 Gen 2020

Pagamento di fatture all´agente di commercio apparentemente autorizzato: il principio di apparenza ex art. 1186 c.c.

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Francesco Tantussi


Con sentenza n. 1869 del 25 gennaio 2018, la Corte di Cassazione affronta il tema dell´effetto liberatorio del pagamento all´agente apparentemente autorizzato a ricevere la prestazione per conto del creditore. Uno sguardo al tema dei rapporti tra i principi di apparenza giuridica, affidamento incolpevole e buona fede nel nostro ordinamento.


Sommario: 1. Il fatto; 2. La decisione della Cassazione; 3. L’art. 1189 c.c., l’interdipendenza tra principi di apparenza, buona fede ed affidamento incolpevole; 4. La nozione di accipiens rilevante ai sensi dell’art. 1189 c.c.; 5. Apparenza giuridica: l’onere della prova ed il fatto colposo del creditore; 6. Circostanze univoche in grado di determinare una situazione di apparenza; 7. Conclusioni.

1. Il fatto

La ditta individuale “S. Pneumatici”, esercente il commercio e la riparazione di gomme per auto, presentava opposizione avverso un decreto ingiuntivo ottenuto dall’impresa fornitrice “Martingom S.r.l.” per il presunto omesso pagamento di alcune fatture relative a forniture commerciali.

A fondamento dell’opposizione, la “S. Pneumatici” eccepiva di aver regolarmente provveduto al saldo delle fatture, avendo precedentemente effettuato i pagamenti oggetto di ingiunzione nelle mani di B.A., agente di commercio della Martingom S.r.l.. Come dedotto dall’opponente, inoltre, siffatta modalità di adempimento sarebbe stata del tutto conforme alla prassi commerciale che ormai da tempo intercorreva tra le parti. In risposta a queste argomentazioni la società attrice produceva in giudizio un messaggio di telefax inviato a S. il 22 giugno 2006 in cui si specificava “avendo interrotto il rapporto di lavoro, [B.A., n.d.r.] non rappresenta più le nostre aziende nella vostra zona e pertanto eventuali ordini, pagamenti, comunicazioni, ecc. saranno curati unicamente e direttamente da noi”.

All’esito del giudizio di primo grado instaurato con l’opposizione, il giudice di prime cure accoglieva le ragioni dell’opponente, riconoscendo effetto liberatorio al pagamento degli importi oggetto di ingiunzione nei confronti di B.A.. Il decreto ingiuntivo emesso contro la S. Pneumatici veniva quindi revocato.

Avverso tale decisione proponeva appello la Martingom S.r.l.

Con pronuncia dell’11 marzo 2013 la Corte d’Appello adita ribaltava la decisione del Tribunale: rigettando l’opposizione a decreto ingiuntivo, la Corte condannava infatti la S. Pneumatici e poneva a carico del soccombente la refusione delle spese processuali dei due gradi di giudizio.

A sostegno di tale decisione, la Corte d’Appello rilevava innanzitutto che B.A., al tempo del pagamento, non risultava munito di alcun potere di rappresentanza: il versamento degli importi nelle sue mani non poteva dunque considerarsi idoneo a liberare il debitore ai sensi dell’art. 1188 c.c. A ben vedere infatti quest’ultima norma presuppone che l’accipiens sia persona avente una qualche forma di autorizzazione a ricevere il pagamento, mentre dalla lettura del contratto di agenzia stipulato tra la Martingom S.r.l. e B.A. si constatava l’espressa esclusione delle parti del potere di rappresentanza in capo all’agente. Per converso, le parti sembravano aver inteso confermare la disciplina legale del rapporto di agenzia, formalizzando nel contratto l’esclusione del potere dell’agente B.A. di rilasciare quietanze liberatorie, conformemente a quanto previsto dall’art. 1744 c.c., disposizione che, salvo diversa attribuzione, preclude all’agente la facoltà di riscuotere i crediti del preponente.

Alla luce di tali argomentazioni, secondo la Corte territoriale la S. Pneumatici non poteva ritenersi liberata nei confronti dell’impresa fornitrice per quanto versato nelle mani dell’agente Sempronio.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello la parte soccombente presentava quindi ricorso in Cassazione.

2. La decisione della Cassazione

Nel considerare l’effetto liberatorio dal pagamento effettuato nei confronti di B.A., la decisione della Cassazione muove dall’erronea valutazione del regolamento contrattuale compiuta dal giudice a quo. Secondo gli ermellini la Corte territoriale avrebbe infatti trascurato l’esistenza di una particolare clausola del negozio, il cui apprezzamento avrebbe consentito la corretta valutazione del significato del messaggio inviato in data 22 giugno 2006 alla S. Pneumatici. Nel contratto di agenzia si specificava infatti che “L’agente è tuttavia autorizzato ad incassare e riscuotere dai clienti le somme dagli stessi dovute al preponente a titolo di pagamento delle fatture da questo emesse”, nonostante la contestuale presenza di una clausola che, come si è detto, impediva il rilascio di dichiarazioni liberatorie.
La Corte territoriale sarebbe dunque incorsa in palese contrasto logico nel ritenere, da un lato che lo stesso contratto di agenzia escludesse una prassi ormai consolidata tra le parti, in base alla quale i pagamenti delle forniture venivano effettuati direttamente nelle mani dell’agente B.A.; dall’altro che la comunicazione a mezzo telefax potesse ritenersi “confermativa” della predetta volontà delle parti, così come formalizzata nel contratto.

La presenza di una clausola di autorizzazione alla ricezione dei pagamenti, unitamente all’esistenza di una prassi secondo cui la S. Pneumatici effettuava il pagamento delle fatture emesse dalla Martingom direttamente nelle mani dell’agente B.A., costituiscono invece circostanze che, secondo la Cassazione, avrebbero dovuto indurre la Corte territoriale a verificare la sussistenza dei presupposti per sussumere la fattispecie nello schema normativa di cui all’art. 1189 c.c., disposizione secondo cui “Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede”.

Nell’annullare la sentenza impugnata e nel rimettere le parti dinanzi ad un diverso giudice della medesima Corte d’Appello, la Cassazione ha dunque enunciato il seguente principio di diritto, allineandosi con alcune pronunce precedenti[1]: in tema di adempimento delle obbligazioni, l’effetto liberatorio del pagamento effettuato dal debitore in buona fede a colui che appare legittimato a riceverlo, ai sensi dell’art. 1189 c.c., si estende, per eadem ratio, non solo al pagamento eseguito al creditore apparente, ma anche all’ipotesi in cui detto pagamento sia effettuato a persona che appaia autorizzata a riceverlo per conto del creditore effettivo, quando il comportamento di quest’ultimo abbia determinato o concorso a determinare l’errore del solvens, generando nel debitore il ragionevole convincimento circa la reale sussistenza di poteri rappresentativi in capo all’accipiens[2]

3. L’art. 1189 c.c., l’interdipendenza tra principi di apparenza, buona fede ed affidamento incolpevole

Nel definire la controversia in esame, i giudici di legittimità offrono alcune interessanti precisazioni sulla portata normativa dell’art. 1189 c.c., disposizione frutto di alcuni principi cardine del nostro ordinamento giuridico. Prima di evidenziare i singoli profili presi in considerazione dalla Cassazione nel caso che qui ci occupa, giova pertanto individuare ed inquadrare gli elementi principali della fattispecie di cui all’art. 1189 c.c.

La situazione disciplinata dalla disposizione in esame rientra nel generale fenomeno della divergenza tra realtà e rappresentazione: la norma subordina infatti l’effetto liberatorio del pagamento eseguito dal solvens nei confronti di un soggetto diverso dal creditore ad una duplice condizione:

  1. l’apparente legittimazione dell’accipiens a ricevere il pagamento eseguito, da desumersi in base a circostanze univoche.
  2. la buona fede del solvens.

I due presupposti sembrano essere sostanzialmente interdipendenti. Essi costituiscono infatti diretta espressione della tutela che il nostro ordinamento appresta a fronte di quelle situazioni concrete suscettibili di ingenerare un affidamento incolpevole circa la corrispondenza della realtà di fatto alla realtà giuridica.

In linea generale, infatti, si ritiene che il principio di apparenza giuridica configuri una regola di risoluzione di un conflitto, attraverso la quale si dirime il contrasto tra realtà ed apparenza in favore di quest’ultima, sostanzialmente trasformando l’apparenza stessa in “diritto”[3].    

Numerose sono le norme del nostro ordinamento riconducibili alle esigenze di tutela legate a questa sorta di finzione giuridica, ipotesi che il legislatore prende di volta in volta in considerazione e disciplina, anche alla luce dei principi di certezza del diritto e di celerità dei traffici economici e commerciali:

  • la fattispecie acquistitiva delineata dall’art. 1153, norma generale che, nel determinare l’effetto del trasferimento della proprietà di un bene all’acquirente in buona fede in presenza del conseguimento del possesso e di un titolo astrattamente idoneo, rappresenta certamente una forma di tutela per l’affidamento riposto dal compratore sulla titolarità del bene in capo al suo dante causa;
  • il canone di comportamento in ambito precontrattuale definito ex artt. 1337-1338, disposizioni dalle quali, come è noto, discende la responsabilità per l’affidamento ingenerato circa l’effettivo interesse della controparte di addivenire alla stipulazione del contratto, nel primo caso, e circa la validità del contratto stipulato all’esito della negoziazione;
  • in tema di rappresentanza, l’art. 1396 disposizione che, nel mantenere la validità dei negozi conclusi con il rappresentante apparente, nonostante eventuali revoche e modifiche della procura, mira evidentemente alla tutela della controparte che abbia incolpevolmente confidato nella validità ed efficacia della procura.
  • in materia di successione, l’art. 534 comma 2, disposizione che pone un limite all’azione di petizione dell’eredità esercitabile dagli eredi, facendo salvi i diritti acquistati dai terzi che dimostrino di aver contrattato in buona fede con un erede apparente.

Quanto al concetto di apparenza rilevante ex art. 1189 c.c., la dottrina dominante ritiene che esso consista nella non coincidenza tra stato di fatto e stato di diritto, rectius in quelle particolari ipotesi di non coincidenza idonee a suscitare il ragionevole convincimento del debitore di effettuare il pagamento nel confronti del vero destinatario dell’adempimento[4].

Il presupposto dell’apparenza, dunque, non si esaurisce nella valutazione prettamente giuridica di aspetti oggettivi, ossia la non corrispondenza tra fatto e diritto, ma reca con sé anche una connotazione di tipo soggettivo, potendo attribuirsi rilevanza, ai sensi dell’art. 1189 c.c., a quei soli stati di apparenza che siano accompagnati dal ragionevole affidamento del solvens in ordine alla coincidenza tra lo stato di fatto (qualità soggettiva dell’accipiens) con la situazione di diritto (autorizzazione a ricevere il pagamento). Ciò implica automaticamente che, in quanto determinato da circostanze concrete, tale convincimento debba necessariamente ritenersi dipendente da errore scusabile del debitore, ossia indotto da cause non imputabili al solvens, suscettibili di escludere la colpevolezza dell’affidamento.

Allo stesso modo, tuttavia, il presupposto della buona fede non è esente da valutazioni che si inseriscono sul piano della realtà fattuale. In particolare, lo status soggettivo del debitore che viene in rilievo in base all’art. 1189 è quello che attiene al processo di identificazione del creditore o della persona autorizzata a ricevere il pagamento. La buona fede non potrà quindi prescindere da alcuni parametri necessariamente oggettivi, quali la presenza di “circostanze univoche” (art. 1189 c.c.) in grado di rafforzare il convincimento del debitore e l’assenza di un atteggiamento negligente di quest’ultimo nell’identificazione dell’accipiens.

L’interdipendenza tra i due presupposti della fattispecie di cui all’art. 1189 c.c. sembra dunque potersi cogliere nei termini che seguono: laddove vi è ignoranza dovuta ad errore scusabile sul fatto che il pagamento è eseguito a chi non è legittimato (buona fede), dovrà necessariamente ritenersi che l’affidamento riposto nella rispondenza della situazione di fatto a quella di diritto sia ragionevole (apparenza), e viceversa.

4. La nozione di accipiens rilevante ai sensi dell’art. 1189 c.c.

Un primo profilo di interesse della pronuncia in esame attiene alla qualità soggettiva dell’accipiens nella fattispecie di cui all’art. 1189 c.c.

In parziale contrapposizione con quanto previsto nel suo enunciato normativo, all’interno del quale compare la locuzione “chi appare legittimato a ricevere”, la rubrica dell’art. 1189 c.c. fa esclusivo riferimento “creditore apparente”.

A fronte di questa contrapposizione, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza ci si è chiesti se la disposizione dovesse essere interpretata in modo restrittivo, limitando l’effetto liberatorio ivi previsto alle sole prestazioni effettuate nei confronti di colui che appare come creditore e non come mero adiectus solutionis causa, ai sensi dell’art. 1188 c.c. Si tratta di questione non priva di riflessi concreti, atteso che, ai sensi del secondo comma di quest’ultima disposizione, il debitore che si pretenda liberato nei confronti del creditore per aver adempiuto ad un soggetto che non era legittimato a ricevere il pagamento avrebbe l’onere di provare l’approfittamento del creditore, e non invece una mera situazione di apparenza ex art. 1189 c.c. In questo senso si è peraltro espressa anche la recente giurisprudenza[5].

Tuttavia, proprio in virtù del collegamento sistematico con l’art. 1188 c.c., dottrina e giurisprudenza ad oggi prevalenti, ivi compresa la pronuncia in esame, sembrano propendee per un’interpretazione estensiva dell’art. 1189 c.c., ritenendo che tale norma applicabile sia ai pagamenti effettuati nei confronti del creditore apparente, sia nei confronti di colui che appaia legittimato a ricevere il pagamento per conto del creditore. Tale conclusione troverebbe fondamento nella ratio della norma, volta a tutelare la buona fede richiesta in chi esegue il pagamento: con l’art. 1189 c.c. il legislatore avrebbe infatti inteso comprendere una cerchia di soggetti più ampia rispetto a quella dei “creditori apparenti” cui fa riferimento la rubrica della disposizione in parola [6]

5. Apparenza giuridica: l’onere della prova ed il fatto colposo del creditore

Per quanto riguarda l’onere della prova della buona fede nella fattispecie di cui all’art. 1189 c.c., la giurisprudenza prevalente sembra ammettere, in favore del debitore, l’operatività della presunzione ex art. 1147 comma terzo c.c. Si ritiene cioè che incomba sul creditore che contesti l’efficacia liberatoria del pagamento l’onere di provare la mala fede del debitore, o quantomeno, il colposo affidamento circa legittimazione del terzo a ricevere il pagamento per conto del creditore[7].

Anche con riferimento al presupposto dell’apparenza sembra esservi sostanziale concordia nella giurisprudenza di legittimità: il relativo onere probatorio viene infatti generalmente posto a carico del debitore, essendo quest'ultimo ad invocare l’effetto liberatorio ex art. 1189 c.c. nei confronti del creditore.

Sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, occorre sottolineare come tale onere probatorio non si limiti alla dimostrazione di una situazione di apparenza avente ai requisiti sopra richiamati, e cioè suscettibile di ingenerare nel debitore il ragionevole convincimento di adempiere ad un soggetto all’uopo autorizzato, in qualità di adiectus solutionis causa. Ciò è quanto affermato, nel caso di specie, dalla Cassazione: nell’accogliere i motivi di censura proposti dal ricorrente e nel rimettere le parti dinanzi alla Corte territoriale, gli ermellini hanno infatti sottolineato la necessità di verificare, in sede di merito, se la creditrice effettiva (la Martingom S.r.l.) avesse concorso nel determinare l’errore in base al quale il solvens (la S. Pneumatici) aveva effettuato il pagamento nelle mani del legittimato apparente (l’agente B.A.).

Questa decisione, invero, sembra allinearsi con l'orientamento giurisprudenziale maggioritario.

In tema di effetto liberatorio dell’adempimento ex art. 1189 c.c., la giurisprudenza ad oggi prevalente è infatti ferma nell’attribuire rilevanza alle sole situazioni di c.d. apparenza colposa[8], caratterizzate cioè dalla presenza di un comportamento colposo del creditore in grado di far sorgere nel solvens la ragionevole presunzione in ordine alla giuridica esistenza dei poteri rappresentativi dell’accipiens[9], o, più in generale, l’erroneo convincimento circa la legittimazione del terzo a ricevere il pagamento[10]. Tale impostazione sembra peraltro essere condivisa anche dalla dottrina più autorevole, secondo cui l’apparentia iuris costituisce un principio in base al quale chiunque contribuisca a creare una situazione di apparenza di diritto o di fatto, è assoggettato alle conseguenze di tale condizione nei riguardi di chi vi ha riposto un ragionevole affidamento[11].

In linea con queste argomentazioni, l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato pone a carico del debitore l’onere di dimostrare sia l’esistenza di una situazione di apparenza, sia il comportamento colposo del creditore in conseguenza del quale tale situazione si è concretamente determinata.

In senso difforme rispetto a questo orientamento, ormai pressoché unanime, si rinviene soltanto un’isolata e risalente pronuncia avente oggetto il contratto concluso con il rappresentante apparente. In tale occasione il Supremo Collegio affermò infatti che, ai fini del riconoscimento della validità del contratto, il debitore potesse limitarsi a fornire la prova di aver confidato senza colpa nella situazione apparente, senza necessità di dimostrare, come elemento ulteriore, il comportamento colposo del soggetto nei cui confronti era invocata l’apparenza. Secondo la Corte, infatti, “la posizione di colui al quale la situazione giuridica appare, senza sua colpa, esistente, deve essere tutelata, nel conflitto di interessi contrapposti, anche senza ed indipendentemente dal concorso di un simile elemento, se si vuole evitare che la sua protezione divenga evanescente[12]. Argomentazioni di questo tipo, tuttavia, non sembrano aver avuto seguito nel successivo sviluppo giurisprudenziale: ad oggi la rilevanza dell’apparenza c.d. “pura”, ossia indipendente dall’altrui fatto colposo, sembra essere confinata ad alcune ipotesi specifiche, tra cui quella degli acquisti a titolo oneroso compiuti dai terzi di buona fede nei confronti dell’erede apparente, fattispecie disciplinata dall’art. 534 comma 2 c.c.[13].

6. Circostanze univoche in grado di determinare una situazione di apparenza

Un ultimo profilo di interesse è rappresentato dall’individuazione degli elementi concreti ed obiettivi dai quali può dedursi la sussistenza in capo all’accipiens della legittimazione a riscuotere i pagamenti. Al riguardo la pronuncia in esame, limitandosi a statuire in punto di legittimità, non offre specifiche indicazioni concernenti il caso concreto.

La decisione presenta tuttavia numerosi passaggi dai quali si può evincere la necessità, per il giudice del rinvio, di valutare una particolare circostanza erroneamente trascurata dalla Corte d’Appello: la prassi commerciale instaurata tra le parti. Nel caso di specie infatti, prima che insorgesse la lite in ordine al pagamento delle fatture, i rapporti tra la Martingom S.r.l. e la S. Pneumatici sembrano essere stati caratterizzati da una serie di pagamenti che la ditta effettuava all’impresa fornitrice a mezzo dell’agente B.A., a prescindere dall’effettiva legittimazione di quest’ultimo di ricevere gli esborsi per conto della società preponente, secondo la disciplina del rapporto di agenzia allora in essere.

Orbene, la situazione di apparenza derivante dalla prassi instaurata tra i contraenti, secondo la Cassazione, non risulterebbe del tutto vanificata dall’esistenza di una comunicazione con cui la Martingom aveva informato la S. Pneumatici circa l’interruzione dei rapporti con B.A.. Viceversa, in assenza di ulteriori precisazioni, è possibile ipotizzare che tale comunicazione, verosimilmente a causa del contenuto, dei tempi o delle modalità di effettuazione, in sede di merito non potrà ritenersi idonea ad escludere il concorso del fatto del creditore nel determinare la situazione di apparenza. In altri termini, secondo la Cassazione il messaggio inoltrato non potrebbe ritenersi sufficiente ad escludere il ragionevole affidamento riposto dal debitore nell’adempiere nei confronti dell'agente apperentemente legittimato.

L’esistenza di una prassi nelle modalità dei pagamenti, del resto, è stata ritenuta sufficiente a consolidare una situazione di apparenza anche dalla recente giurisprudenza, secondo cui “elementi idonei ad ingenerare l’affidamento del debitore di buona fede possono essere desunti, in via presuntiva, anche dal fatto che precedenti e ripetuti pagamenti, tutti andati a buon fine, siano stati eseguiti per il tramite della stessa persona senza che il creditore abbia mai mosso rilievi circa la loro regolarità[14].

In altra occasione, la Cassazione ha invece riconosciuto l’esistenza di circostanze univoche idonee ad ingenerare un affidamento incolpevole del creditore, riconoscendo quindi l’effetto liberatorio ex art. 1189, nel caso del pagamento effettuato nelle mani del padre di uno dei soci di una società venditrice, avendo in tal caso l’accipiens condotto personalmente le trattative per la conclusione dell’affare, operando all’interno degli uffici della società per l’invio di alcuni fax all’acquirente[15].

7. Conclusioni

la sentenza in commento non sembra dunque discostarsi dall'indirizzo consolidato in materia di effetto liberatorio del pagamento al soggetto apparentemente legittimato alla ricezione, attribuendo rilevanza al comportamento del creditore.

V'è da chiedersi, tuttavia, se la Corte non abbia perso un'occasione per individuare ed elencare, anche con approssimativa generalizzazione, quali circostanze concrete il giudice di merito debba tenere in debita considerazione al fine di ravvisare l'esistenza di una situazione di apparenza suscettibile di ingenerare nel debitore il ragionevole convincimento di effettuare il pagamento ad un soggetto legittimato. Considerando la funzione nomofilattica del giudizio di legittimità e le generali esigenze sottese al principio qui esaminato, quale quella della speditezza e certezza dei traffici economico-commerciali, alcune indicazioni più precise sulla concreta operatività dell'effetto liberatorio ex art. 1189 c.c., a parere di chi scrive, sarebbero state certamente apprezzabili. 

Note e riferimenti bibliografici 

[1] Cass., Sez. II, n. 15339 del 13/09/2012; Cass., Sez. III, n. 17484 del 09/08/2007

[2] Cass., Sez. Civile, n. 1869 del 25/01/2018.

[3] Cfr. VERARDI, Apparenza del diritto, affidamento e pubblicità nel condominio, in Immobili e Proprietà, n. 3, 2018, pp. 157-160.

[4] CHINE’, FRATINI, ZOPPINI, Manuale di Diritto Civile, Edizione 2018-2019, pag. 926-927.

[5] Cass., Sez. L, n. 13113 del 05/06/2007.

[6] Cass., Sez. 3, 24/11/2006, n. 4794; Cass. Sez. 3, 27/10/2005, n. 20906.

[7] Cass., Sez. II, n. 3287 del 03/04/1999; Cass., Sez. II, n. 2732 del 25/02/2002; Cass., Sez. L, n. 20735 n. 03/10/2007; Trib. Bari, sez II, n. 323 del 07/02/2008.  

[8] CHINE’, FRATINI, ZOPPINI, Manuale di Diritto Civile, Edizione 2018-2019, pag. 927.

[9] Cass., Sez. III, n. 14028 del 04/06/2013; Cass., Sez. I, n. 9758 del 19/04/2018.

[10] Cass., Sez. I, n. 20735 del 03/10/2007.

[11] V. C.M. BIANCA, Diritto civile - Il contratto, Milano, 2000, 119.

[12] Cass., Sez. II, n. 2020 del 19/02/1993.

[13] Cfr. V. F. CARINGELLA - L. BUFFONI, Manuale di Diritto Civile, 2013, 1947 ss. 

[14] Trib. Trani, 19/05/2007 n. 52; cfr. anche, Trib. di Trento 04/12/2015 n. 1159.

[15] Cass., Sez. III, 30/10/2008 n. 26052.