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Pubbl. Mer, 15 Gen 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

Il conflitto di interessi nella società per azioni ex art. 2373 c.c.

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Elena Laudani


Un’analisi completa sul conflitto di interessi nella Società per azioni ex art. 2373 c.c.. Dal codice del commercio ai recenti approdi, l´idoneità della disciplina a regolamentare ogni ipotesi di deviazione del procedimento deliberativo assembleare, i limiti denunciati dalla dottrina in ordine alle recenti problematiche e le relative soluzioni.


Sommario: 1.La disciplina del codice del 1942 e le successive modifiche: il d.lgs.17/01/2003 n.6 e il d.lgs.27/01/2010 n.27; 2.Divieto di voto: si o no?; 3. Il divieto di voto per gli Amministratori e i componenti del Consiglio di gestione: conflitti tipici, ratio a confronto; 4.Il paradigma del conflitto rilevante: l’interesse del socio e della società; 4.1.L’interesse della società; 4.2.L’interesse del socio; 5.I Rimedi; 6.Risarcibilità ai soci di minoranza; 7.Abuso della regola di maggioranza a danno della minoranza e giustificazione sistematica dell’art. 2373 c.c. quale norma espressiva di un più generale principio e il superamento dei suoi limiti applicativi.

Abstract (ITA): Per una disamina della travagliata evoluzione dottrinale, giurisprudenziale e legislativa della disciplina del conflitto di interessi del socio nella Società per azioni, occorre partire anzitutto dall’individuare le ratio sottese alle riforme del diritto societario del 2003 e del 2010, che hanno fortemente inciso sulla formulazione dell’art. 2373 c.c.  nel senso, almeno nelle intenzioni del legislatore, di renderlo idoneo alla regolamentazione di ogni ipotesi di deviazione del procedimento deliberativo assembleare.  Effettività però tutta da verificare e della quale, invero, la dottrina non ha esitato a denunciarne i limiti, in ordine soprattutto a tutte quelle nuove problematiche emerse nel panorama societario e rimaste prive di copertura, quali per esempio quelle derivanti dall’empty voting ed hidden ownership. Tali limiti di operatività, hanno determinato quale conseguenza principale pronunce giurisprudenziali spesso incompatibili con i limiti testuali, originate da applicazioni analogiche, a fronte delle innumerevoli e mutevoli forme di manifestazione del conflitto, non sempre di facile ed immediato riconoscimento come per esempio avviene nelle delibere con cd. conflitto neutro, fino all’elaborazione di quei principi di buona fede e correttezza che oggi costituiscono i cardini della tutela, stante l’impossibilità di far operare l’art. 2373 c.c. quale norma di sistema.

Abstract (ENG): In order to make a complete examination about the troubled doctrinal, jurisprudential and legislative evolution of the regulation of shareholders’ conflict of interest in the joint-stock company, is necessary to start from identifying the reasons behind the corporate law reforms in 2003 and 2010, which have strongly affected the formulation of the art. 2373 of the Italian Civil Code with a view to make it suitable for the regulation of any “deviation hypothesis” of the shareholders' meeting deliberative procedure, at least in the legislator’s intentions. Notwithstanding this, the doctrine did not hesitate to denounce its limits, with particular reference to all the new problems emerged and remained without legal protection, such as those deriving from “empty voting” and “hidden ownership”. These limits have determined, as a main consequence, cases law often incompatible with textual limits of the article (originated by application by analogy). Therefore, the principles of bona fide and correctness have been used to guarantee a protection in every case of conflict of interest, so that, to date, they can be considered the cornerstones of social protection.

1. La disciplina del codice del 1942 e le successive modifiche: il d.lgs.17/01/2003 n.6 e il d.lgs.27/01/2010 n.27.

La disciplina generale del conflitto di interessi del socio nelle deliberazioni assembleari è stata per la prima volta introdotta nel nostro ordinamento con il codice civile del 1942, precisamente all’art. 2373 c.c.. Una norma che la stessa Relazione al codice qualifica come di “nuova e notevole portata”[1], in ragione della inesistenza nella previgente normativa commerciale[2] di un regime che disciplinasse adeguatamente un tale conflitto e che prevedeva una mera limitazione alla legittimazione al voto in capo ai soci amministratori per quelle delibere inerenti alla loro responsabilità, secondo il generale principio del nemo iudex in causa propria. Obbiettivo della nuova disposizione era quello di colpire “quei flagranti attentati” al patrimonio sociale che venivano a compiersi in nome di un interesse manifestatamente in conflitto con quello della società e gli strumenti individuati a tale scopo si sostanziarono nella interdizione dall’esercizio del diritto di voto e nella impugnabilità della delibera se potenzialmente dannosa alla società, qualora assunta con voto decisivo[3] del socio in conflitto.  La struttura dell’art. 2373 c.c. così delineata è stata recentemente oggetto di due interventi di modifica datati rispettivamente 2003, in applicazione della riforma delle società di capitali del d.lgs.17/01/2003 n.6, e 2010 con il d.lgs.27/01/2010 n.27 normativa di attuazione della Direttiva 2007/36/CE (la cd. Shareholders’ Rights Directive[4], la tutela degli azionisti è infatti un tema da sempre molto importante per le istituzioni comunitarie) specificamente mirata al rafforzamento di alcuni dei diritti degli azionisti di società quotate, tra i quali il diritto di voto in termini di superamento del problema relativo al suo esercizio transfrontaliero, e ad agevolare il c.d. Attivismo degli azionisti.  Con il primo si è proceduto:

a) alla eliminazione dell’originario divieto di voto in capo al socio, mentre l’impugnabilità della decisione rimane subordinata ai requisiti della potenziale dannosità della delibera per la società e della decisività del voto in ordine alla sua assunzione, ma quest’ultimo carattere (prima ancorato al raggiungimento della “necessaria maggioranza”) viene adesso aggettivato come “determinante”. Tale riformulazione però non sembra averne modificato tratti e contenuti, invero l’art. 2377 c.c., richiamato dall’articolo in questione conferma la significatività aritmetica del voto determinante;

b) a formulare un nuovo secondo comma, dove il divieto di voto per gli amministratori in conflitto di interessi permane ma viene accompagnato dalla inedita ed ulteriore disposizione secondo la quale “I componenti del Consiglio di Gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca, la responsabilità dei Consiglieri di Sorveglianza”, modifica dettata dalla necessità di adeguare l’articolo, e dunque estendere la disciplina del cd. conflitto tipico, ai nuovi modelli di corporate governance varati dalla legge e tra i quali ritroviamo il sistema dualistico di amministrazione;

c) ad abrogare il vecchio comma quarto sui criteri di computazione delle azioni per le quali operava il divieto di voto, ai fini del raggiungimento del quorum costitutivo di assemblea perché confluito nell’art. 2368 c.c. rubricato “Costituzione dell’Assemblea e validità della deliberazione”.

La seconda riforma, consistente nella sostituzione del termine “soci” con “coloro” i quali abbiano “per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto” operata nel primo comma, appare decisamente meno significativa di quanto in realtà non sia[5]. La sua giustificazione va ricercata nell’adeguamento della disciplina al meccanismo di matrice nord-americana della record date, attraverso il quale viene stabilita la legittimazione all’intervento e al voto in assemblea delle società quotate.  Senza poterci troppo dilungare, basti qui ricordare che la sua introduzione è avvenuta per mezzo dello stesso decreto di attuazione della SHRD, all’art. 83-sexies T.u.f.[6], e riconosce la legittimazione ai soci che alla chiusura della giornata contabile del settimo giorno di mercato aperto prima dell’assemblea (cd. Record date) risultino titolari del conto sul quale sono registrate le azioni che conferiscono tali diritti, conseguendone che le cessioni di titoli successive alla data di registrazione ma antecedenti all’assemblea e quelle che intervengano fra una convocazione e l’altra non rilevano ai fini della legittimazione in parola. Ma la generalità del nuovo termine sembra estendere l’operatività dell’art. 2373 c.c. anche nei confronti di coloro che non possono essere qualificati soci ma comunque risultano legittimati all’esercizio del diritto di voto, come ad esempio i titolari di strumenti finanziari partecipativi (i quali possono esercitarlo limitatamente a determinati argomenti), l’usufruttuario, il creditore pignoratizio, ecc. In definitiva, per mezzo di tale semplice sostituzione si sono di fatto risolte alcune problematiche originate in passato sulla possibile dissociazione tra titolarità delle azioni ed esercizio del diritto di voto ed è il caso di osservare che la nuova disciplina degli azionisti e il potenziamento della partecipazione assembleare inevitabilmente si rifletterà sugli equilibri stessi del funzionamento societario e “potrebbe incidere anche sulla individuazione degli interessi legittimamente perseguibili in ambito assembleare” nonché “segnare una svolta significativa nelle scelte di politica legislativa in materia di corporate governance[7]. Sotto il profilo applicativo, restando ferma l’ipotesi del socio (propriamente inteso) detentore dell’interesse in conflitto e il caso delle dissociazioni determinate dal meccanismo del record date, andiamo ad analizzare le ulteriori declinazioni adesso possibili:

- All’ampliamento deve certamente riconoscersi il merito di aver risolto positivamente i dubbi passati circa l’applicazione della disciplina alle ipotesi per le quali legittimati all’esercizio del voto siano l’usufruttuario e il creditore pignoratizio: invero, dalla costituzione di un diritto reale sulle azioni discende uno scorporamento del complesso di diritti attribuiti dalla titolarità della partecipazione sociale, come d’altronde immediatamente rilevabile dall’art. 2352 co.1 c.c. - “Nel caso di pegno o usufrutto sulle azioni, il diritto di voto spetta, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio o all'usufruttuario. Nel caso di sequestro delle azioni il diritto di voto è esercitato dal custode”. A riguardo, si è molto discusso in ordine alla duplice possibilità che i soggetti indicati dalla norma debbano considerarsi in tale esercizio quali meri “rappresentanti” del titolare delle azioni che legittimano al voto (e dunque se si tratti di voto espresso per delega) ovvero se debbano ritenersi legittimati all’esercizio di un diritto proprio e la tesi maggiormente condivisa in dottrina e in giurisprudenza verte per la soluzione del frazionamento[8]. Si è inoltre proceduto ad individuare gli interessi tipici legittimamente perseguibili da tali soggetti (e generalmente in confitto con l’interesse del socio titolare) che possono quindi ravvisarsi i) nella conservazione del valore patrimoniale delle azioni oggetto di garanzia, per il creditore pignoratizio, a fronte del favore che potrebbe mostrare il socio titolare ad operazioni altamente rischiose ancorché volte all’incremento del valore della partecipazione stessa, ii) nel godimento dei “frutti”[9] delle azioni oggetto di usufrutto, per l’usufruttuario. Ma nulla impedisce che, non operando uti soci, i soggetti sub i) e sub ii) possano essere portatori di un “interesse atipico” potenzialmente in conflitto con l’interesse sociale, rilevante ex art. 2373 c.c. e che dunque renderà applicabile la relativa normativa;

- Risulta rafforzata dalla nuova formulazione anche la tesi dell’applicabilità a tutti i portatori di strumenti finanziari con diritto di voto sia per specifici argomenti che nell’assemblea generale, art. 2351 ult. co. “Gli strumenti finanziari di cui agli articoli 2346, sesto comma, e 2349, secondo comma, possono essere dotati del diritto di voto su argomenti specificamente indicati e in particolare può essere ad essi riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco. Alle persone così nominate si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell'organo cui partecipano”;

- Nessun dubbio è invece mai sussistito sulla configurabilità di un conflitto di interessi nei casi di “voto per delega”. A riguardo occorre, tuttavia, operare una distinzione tra: a) la situazione di conflitto di interessi tra rappresentato e società, b) la situazione di conflitto di interessi tra rappresentante e società, c) la situazione di conflitto tra rappresentante e rappresentato. Può dirsi obbiettivo della legge quello di evitare deviazioni o subordinazioni della volontà sociale, dunque ferma restando la diretta rilevanza delle ipotesi sub a) e sub b) ai fini dell’art. 2373 c.c., pur non essendo il conflitto sub c) di per sé lesivo di interessi rilevanti per il diritto societario, qualora possa determinare direttamente o indirettamente situazioni suscettibili di essere autonomamente ricomprese nel regime del conflitto di interessi in esame allora è soggetta all’applicazione della disciplina. Non è un caso, infatti, che la specifica ipotesi del conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato sia oggi regolata dall’art. 135-decies t.u.f.[10] introdotto dall’art. 3 d.lgs. n. 27/2010. Questo, sebbene rilevante ai fini della disciplina relativa alle deleghe di voto, può a pieno titolo inquadrarsi negli schemi delineati dalla Direttiva 2007/36/CE circa il conflitto di interessi. Modellato sull’art. 31 Legge comunitaria 2008[11] che sottolinea l’esigenza di elaborare procedure agevoli ed efficienti per l’esercizio del voto ponendo però l’attenzione sulla necessità di “individuare opportune salvaguardie contro eventuali abusi di voto” ordinati al perseguimento di un interesse diverso da quello dell’azionista e in ragione dell’art. 10 della Direttiva, rubricato “Voto per delega” , che stabilisce espressamente al suo punto n.3 “(…)gli Stati membri non possono limitare, o consentire alle società di limitare, l’esercizio dei diritti dell’azionista tramite un rappresentante per fini diversi da quelli volti a risolvere i potenziali conflitti di interesse tra il rappresentante e l’azionista nell’interesse del quale il rappresentante è tenuto ad agire(…)”, l’art 135-decies t.u.f. elenca tutta una casistica che a ben vedere assume rilievo non soltanto con riferimento al rapporto tra rappresentante e rappresentato ma anche nei confronti della società.

Nonostante la molteplicità delle ipotesi attratte dalla disciplina, parte della dottrina si è espressa duramente sulla modifica ravvisandone una generale inadeguatezza[12]. L’intervento è stato infatti definito come limitato, inidoneo a ricomprendere tutte le situazioni ancorché non tecnicamente qualificabili come conflitto ma che dal punto di vista fattuale integrano il perseguimento di un interesse a danno della società. A titolo esemplificativo e con riguardo al sistema della record date, può rilevarsi che se da una parte risulta essere senz’altro efficace sotto il profilo organizzativo assembleare, “fotografando” la compagine sociale legittimata ad intervenire, si presta facilmente ad abusi. Basti pensare che negli Stati Uniti, legislazione ab origine del meccanismo, ne è stata sottolineata la pericolosità in ragione dei fenomeni determinatisi dei cc.dd. empty voting e hidden ownership derivanti da operazioni di prestito titoli o la stipulazione di contratti derivati azionari. Parliamo di due situazioni differenti, prima facie apparentemente neutre rispetto al conflitto, ma capaci di destare non lievi preoccupazioni: queste si verificano in maniera unitaria e contestuale a seguito di decoupling[13], l’empty voting indica lo “svuotamento” del voto da ogni correlativo interesse economico in ragione dell'attribuzione ad un altro soggetto della proprietà delle azioni (comportando praticamente una legittimazione dell’“ex” socio eccedente la sua proprietà economica) e il verificarsi della conseguente cd. proprietà nascosta (“hidden ownership”) dell’acquirente dei titoli azionari che, pur sopportando il rischio d'investimento proprio dell’azionista, tuttavia non risulta essere legittimato al voto. Per quanto interessa la presente analisi, al di là della certa rilevanza del conflitto del soggetto legittimato al voto, non può non rilevarsi che una ulteriore ipotesi potenzialmente ricomprendibile nell’art. 2373 c.c. sia quella del “proprietario economico” delle azioni che eserciti una influenza sul legittimato al fine di garantire e perseguire i propri interessi (ad esempio” suggerendo” una determinata modalità di voto, cd. hidden morphable ownership). Come puntualizzato[14] , “il problema” non è quello dell’esercizio sporadico del voto da parte del non più titolare, ma quello del possibile approfittamento intenzionale della norma di legge. Si pensi concretamente all’azionista che intende concorrere all’assunzione di una delibera (ad esempio l’adozione di misure difensive in caso di OPA), garantendosi allo stesso tempo il diritto di impugnarla o di recedere dalla società. Tale, potrebbe accreditare le azioni ad un terzo entro la data di registrazione, impartire a questo istruzioni di voto e farsi successivamente retrocedere la partecipazione. Inoltre, il fatto che chi compra dopo la data di registrazione non possa acquistare legittimazione all’esercizio del diritto di voto può costituire elemento di disordine nella regolarità dei corsi di borsa e fomentare operazioni meramente speculative[15]. Il fenomeno del “commercio del voto” e delle nuove fattispecie di vendita ha suscitato un forte interesse in dottrina, data la diretta incidenza su alcuni aspetti fondamentali del diritto societario[16] e sembra essere più recentemente approdata alla loro ammissibilità purché non integranti, direttamente o indirettamente, una ipotesi di conflitto di interessi fra il terzo compratore e la società.

2. Divieto di voto: si o no?

Ante riforma, la disciplina previgente contemplava un dovere di astensione del socio in conflitto. La effettiva configurabilità, quale divieto di voto in senso proprio ovvero di un più generale dovere di astensione in capo al socio, è stata a lungo dibattuta dalla dottrina[17]:  una parte, argomentando su una ricostruzione che configurava i primi due commi della norma come disposizioni differenti e diverse, riteneva gravante sul socio una sospensione del diritto al voto con conseguente obbligo di astensione e la cui in inosservanza, non essendone prevista espressamente alcuna sanzione, legittimava il presidente dell’assemblea ad impedire al soggetto di votare (a garanzia dell’interesse sociale)[18];  altra parte, invece, riteneva operativo tale divieto esclusivamente nelle ipotesi in cui il socio fosse nella delibera controparte della società. I sostenitori del primo orientamento “giustificavano” un tale potere del presidente su differenti basi, dal dovere di perseguire l’interesse sociale all’impedimento che poteva essere causato alla minoranza e, altri ancora, facevano leva sulla similarità intercorrente con l’art. 2391 c.c. in tema di conflitto di interessi degli amministratori. Le tesi provenienti dal fronte opposto, invece, sottolineavano come il voto del socio non potesse aprioristicamente considerarsi esercitato in favore dell’interesse personale (in conflitto con quello sociale) prima della sua stessa ed effettiva espressione in sede assembleare e che, pertanto, non vi erano gli estremi per potere operare un divieto assoluto. Ciò si traduceva nella configurazione di una “semplice” limitazione alla quale conseguiva la duplice possibilità di votare favorevolmente all’interesse sociale ovvero nell’assumere la possibilità[19] di rendere la delibera impugnabile. Veniva poi ulteriormente sottolineato come impedire alla maggioranza di esercitare il voto, per ragioni di conflitto, “aumentava il rischio di una erronea valutazione dell’interesse sociale affidata verosimilmente ai soci non imprenditori”[20]: si denunciava, cioè, il fatto di porre la minoranza nella discrezionalità di identificare e perseguire l’interesse sociale e di adottare deliberazioni contro la volontà della maggioranza[21]. La dottrina e giurisprudenza maggioritarie avvallarono l’impostazione meno rigida per il socio in conflitto, che quindi subirebbe un “mero” condizionamento al voto. Né divieti, né obblighi di astensione, né delegittimazioni, questi può liberamente scegliere di esercitare il suo diritto di voto, si tratterà poi di verificare (ed eventualmente “sindacare”) quale interesse avesse effettivamente fatto prevalere, previa sussistenza dei requisiti previsti per l’impugnabilità[22]. Tale ultimo è l’orientamento che risulta essere stato recepito dal legislatore con dalla novella del 2003 al fine di risolvere ogni dubbio interpretativo, anche se parte della dottrina non la pensa allo stesso modo. Alcuni ritengono che questa addirittura avesse aggravato i termini del dibattito (attribuendo al presidente di assemblea un non meglio specificato potere di “accertare l’identità e la legittimazione dei presenti” che poteva avvalorare la tesi dell’obbligo di astensione) e che l’intervento risolutivo si sia avuto soltanto con la riforma del 2010[23]. Ad ogni modo, la disciplina sul conflitto di interessi non era contemplata tra gli istituti interessati dalla riforma del d.lgs. n. 06/03 (come può verificarsi nella “Delega al Governo per la riforma del diritto societario”) quindi l’intervento non può che giustificarsi in ottica di conformarne l’interpretazione all’indirizzo consolidatosi in giurisprudenza[24]. Occorre infine segnalare che all’insussistenza di un divieto di voto o di un dovere di astensione, si accompagna la mancata previsione di un dovere di informazione verso l’assemblea della posizione conflittuale come previsto nel corrispondente art. 2391 c.c. sugli interessi degli amministratori[25]. Una siffatta impostazione normativa non deve però indurre a ritenere che al soggetto legittimato sia impedito di dichiarare una astensione al voto[26] ove dovesse ritenerlo opportuno, quanto emerge chiaramente dalla citata Relazione[27] e dall’art. 2368 c.c. che nel sancire i criteri di computazione dei  quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea, individua e regola anche le azioni “per le quali il diritto di voto non è stato esercitato a seguito della dichiarazione del soggetto al quale spetta il diritto di voto di astenersi per conflitto di interessi[28]”. Eliminato testualmente ogni riferimento al dovere di astensione, la novella del 2003 ha praticamente spostato il baricentro della norma sul requisito della potenziale dannosità della delibera e ciò implica la necessità, in ordine all’applicazione dell’art. 2373 c.c., di determinare cosa vada inteso per interesse sociale, interesse del socio, voto determinante nonché quali siano gli estremi di configurabilità del danno.

3. Il divieto di voto per gli Amministratori e i componenti del Consiglio di gestione: conflitti tipici, ratio a confronto.

Abbiamo avuto modo di osservare che è rimasto intatto il divieto di voto in capo agli amministratori per le delibere concernenti la loro responsabilità e che il nuovo comma secondo si è “arricchito” di una previsione[29] inedita e consistente nel divieto di voto per i componenti del Consiglio di gestione circa la nomina, revoca e la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza. La prima di queste interdizioni è già rinvenibile nel codice del commercio nel 1882, art. 161, con una formulazione ricomprendente anche le deliberazioni di approvazione del bilancio[30] ed era fondata sul principio del nemo iudex in causa propria che possiamo dire ordinatorio ed esauriente di tutta la disciplina del conflitto di interessi. Oggi, invece, quella degli interessi degli amministratori è una regolamentazione molto articolata, data in primo luogo dall’art. 2391 c.c. evidenziante una serie di misure cautelari a tutela della società, (quali per esempio un ampio obbligo di disclosure), al fine di limitare i danni che possono derivarle dalle azioni od omissioni di questi. Non possiamo in questa sede approfondire la materia degli “Interessi degli amministratori”, tuttavia è spontaneo e legittimo interrogarsi circa il rapporto intercorrente tra le discipline rispettivamente contenute nei due articoli in parola: può dirsi che l’art. 2391 c.c. è volto a regolare in linea generale l’ipotesi in cui l’amministratore sia portatore di un interesse (non necessariamente in conflitto) in una operazione della società, mentre l’articolo oggetto della nostra trattazione tipizza uno specifico, “classico”, manifesto o come dir si voglia, caso di conflitto di interessi tra amministratore e società. L’art. 2373 c.c. cioè risolve a monte la problematica dei cd. conflitti nominati introducendo una presunzione legale assoluta di rilevanza e la conseguente interdizione al voto. La ratio della seconda proibizione va ricercata nell’intenzione di garantire l’indipendenza ed il corretto esercizio dei poteri di vigilanza da parte del Consiglio di sorveglianza, dunque nel rapporto istituzionale intercorrente tra gli organi citati nella norma. Invero, con la riforma del 2003, sono stati introdotti due nuovi modelli di corporate governance delle società, alternativi a quello tradizionale e denominati rispettivamente monistico e dualistico. Quest’ultimo si caratterizza per l’ istituzione di un Consiglio di gestione, cui sono attribuite le funzioni proprie del Consiglio di amministrazione nel sistema tradizionale, e un Consiglio di sorveglianza, con funzioni di controllo (proprie del collegio sindacale) e di indirizzo (generalmente attribuite all’Assemblea dei soci quali per esempio, e per quel rileva in questa sede, la nomina e la revoca dei componenti del Consiglio di gestione), mentre la revisione dei conti è affidata senza eccezione alcuna ad un revisore o società di revisione. Nel sistema dualistico, dunque, il Consiglio di sorveglianza opera un controllo diretto sul Consiglio di gestione e di conseguenza è impedito ai membri di questo organo, a norma dell’art. 2373 c.c., di esercitare il loro diritto di voto nelle deliberazioni di nomina, revoca e responsabilità di coloro che saranno i controllori. E quanto al fine di garantire “funzionalità del modello organizzativo prescelto”[31]. In definitiva, da entrambe le fattispecie prese in considerazione dal 2° comma dell’articolo, consegue un difetto di legittimazione accertabile dal presidente dell’assemblea[32], compito affidatogli ex art. 2371 c.c.[33], e la delibera assunta nell’inosservanza del divieto è annullabile a prescindere dall’esistenza degli ulteriori requisiti pervisti dal comma 1[34]. Se i caratteri così descritti della disciplina risultano essere abbastanza chiari e lineari, resta il problema della determinazione di quali siano, se esistono, le altre ipotesi che debbano ritenersi soggiacere alla previsione[35]. In particolare:

- Anzitutto ci si è chiesti se le regole inerenti al conflitto tipico degli amministratori vadano considerate operative per tutte quelle decisioni che, anche indirettamente, risultino prodromiche all’esercizio dell’azione di responsabilità degli amministratori e la dottrina e giurisprudenza maggioritaria propendono per la soluzione affermativa. A titolo esemplificativo: rientra certamente in questa ipotesi la delibera di revoca dell’amministratore[36];

- Esulano invece dall’ambito di applicazione della norma quelle deliberazioni in cui “emerge l’interesse del socio ad amministrare o a partecipare con modalità fisiologiche al funzionamento della società”[37] quali per esempio la delibera di approvazione del bilancio[38], di nomina dell’amministratore stesso[39] ovvero di determinazione del suo compenso[40];

- Si è poi molto dibattuto circa la sua possibile estensione alle ipotesi di voto del socio-amministratore nelle delibere riguardanti altri amministratori. A riguardo si è espresso negativamente un importante lodo arbitrale del 2009: “in conformità al principio della responsabilità per fatto proprio, il voto del socio-amministratore sulla responsabilità degli altri amministratori è ammissibile e dovrà pertanto essere computato ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo, trovando invece applicazione il divieto previsto dall’art. 2373, comma 2, c.c. unicamente nel caso in cui la deliberazione abbia a oggetto la responsabilità dello stesso socio-amministratore votante e non quando la deliberazione abbia a oggetto la responsabilità di altro amministratore” (Collegio arbitrale, 2 luglio 2009, Giur. comm. 2010, 5, 911, nota De Pra).

Nulla quaestio, invece, con riferimento alla seconda ipotesi di conflitto tipizzata dal secondo comma dell’art. 2373 c.c.: le due fattispecie sono strutturalmente diverse e, come abbiamo detto, questa serve a garantire l’indipendenza dei futuri controllori rispetto ai controllati.

4. Il paradigma del conflitto rilevante: l’interesse del socio e della società.

4.1. L’interesse della società.

Come anticipato nel capitolo precedente, per poter delimitare il campo di applicabilità della disciplina racchiusa nell’art. 2373 c.c. è imprescindibile e necessario precisare il contenuto sostanziale dei due termini che consentono di rilevare l’esistenza o meno di una situazione di conflitto: l’interesse sociale e l’interesse del socio.

In relazione al primo, emerge un aspro dibattito dottrinale lungo almeno un quarantennio in ragione della sua centralità nel sistema del diritto societario e per l’intero ordinamento delle società per azioni[41]. La mole della elaborazione, oggi in teoria definitivamente approdata ad una soluzione, si caratterizzava per l’esasperato scontro concettuale tra il c.d. istituzionalismo e contrattualismo dell’interesse sociale. In realtà non esistono delle correnti “pure”, ma una eterogeneità di posizioni la cui ricostruzione richiede una operazione di ricerca a sé, visto anche il suo carattere transnazionale[42], pertanto ci limiteremo a individuarne le linee principali avendo cura di sottolineare come, talvolta, dottrine dello stesso segno conducevano a risultati molto differenti e magari anche vicine alle tesi contrapposte:

  1. Le tesi istituzionaliste, muovendo da un’analisi dell’impresa intesa universalmente, indentificavano l’interesse sociale nell’insieme di tutti quegli interessi variamente coinvolti e ad essa collegati: dunque non solo quello degli azionisti (cd. Shareholders, il cui interesse tipico è rivenuto nella massimizzazione del lucro) ma anche quelli propri ai dipendenti della società, dei consumatori, ecc. (cd. Stakeholders). Un tale tipo di impostazione postulava strumenti normativi in grado di incidere sull’assetto organizzativo e decisionale delle società in termini di limitazione dell’esercizio di voto, dell’affidamento all’organo direzionale del perseguimento e bilanciamento di tutti gli interessi, impugnabilità delle delibere contrarie all’interesse sociale con conseguente controllo giurisdizionale;
  2. Le tesi contrattualiste ipotizzavano un modello teorico governato dalla proprietà e dal principio di libertà economica. Un concetto di impresa, dunque, quale frutto di un accordo contrattuale e del quale se ne impone l’osservanza e il rispetto ed una esecuzione secondo principi di buona fede, correttezza, obbligo di collaborazione, ecc. Tali doveri sarebbero insiti nella natura stessa del contratto di società, attraverso il quale le parti comunemente circoscrivono e “consacrano” una serie di interessi, che formano l’interesse sociale, alla cui realizzazione è interamente tesa la regolamentazione ed organizzazione data alla società.

A chiudere la partita tra le opposte scuole di pensiero è stato il legislatore con la promulgazione del codice civile unificato del 1942, prendendo le parti della seconda tesi analizzata e la cui massima espressione viene rivenuta nell’art 2247 rubricato “Contratto di società” e il cui contenuto smentisce palesemente una qualsiasi deriva istituzionalista. Ma se in dottrina era ormai chiara l’impostazione codicistica di tipo contrattualista, differente è il discorso per la giurisprudenza che almeno fino alla metà degli anni ’90[43] insistette imperterrita con pronunce di stampo contrario[44] per poi mutare indirizzo solo a partire dalle sentenze Cass. 21/12/1994 n. 11017 e Cass. 26/10/1995 n. 11151[45], neutralizzando ogni ostacolo all’applicazione dell’art 1375 c.c.. ( che costituisce specificazione di un più generale principio di solidarietà che abbraccia tutti i rapporti giuridici obbligatori, anche di origine non contrattuale, art. 1175 c.c.). Ma è ancor più importante sottolineare come la Suprema Corte abbia dichiarato che “l’esistenza di un dovere di lealtà e correttezza a carico dei soci,(…) è desumibile (…) anche dalle norme che più direttamente riguardano il diritto delle società. (…) Con il contratto di società viene costituita, in effetti, una comunione di interessi, la cui esistenza, mentre dà ragione alla subordinazione della volontà del singolo socio a quella della maggioranza, esclude al tempo stesso che il voto possa essere legittimamente esercitato per realizzare finalità particolari, estranee alla causa del contratto di società: come è confermato dall’art. 2373 c.c., che non va pertanto riguardato come norma eccezionale, ma quale espressione dell’esigenza che i rapporti all’interno della società si realizzino attraverso comportamenti coerenti con gli scopi per i quali il contratto sociale è stato stipulato. (…) Non può dunque dubitarsi dell’illegittimità di una delibera assembleare che, per quanto formalmente regolare, risulti in concreto preordinata ad avvantaggiare alcuni soci in danno di altri. Ed è appena il caso di osservare che l’accertamento di questo vizio non comporta alcun sindacato di merito (…), poiché presuppone che il voto sia stato esercitato dalla maggioranza in danno di alcuni soci, al fine di conseguire obbiettivi del tutto estranei all’interesse sociale”. La sentenza riportata è certamente di grande e fondamentale importanza, sia per il ravvedimento della Cassazione sulla impostazione contrattualista che per le implicazioni stesse delle argomentazioni svolte. Da questo riconoscimento ad oggi, sono trascorsi ormai più di 20 anni  e ulteriori pronunce ne hanno confermato l’impostazione alla luce delle evoluzioni che sono intervenute nel contesto socio-economico delle società di capitali e a seguito della riforma del diritto societario del 2003. Un esempio è dato dalla sentenza Cass., Sez I, 17/07/2007 n. 15942[46] - “L’interesse sociale è l’insieme di quegli interessi comuni ai soci, in quanto parti del contratto di società, che concernono la produzione del lucro, la massimizzazione del profitto sociale(ovverosia del valore globale delle azioni o delle quote), il controllo della gestione dell’attività sociale, la distribuzione dell’utile, l’alienabilità della propria partecipazione sociale e la determinazione della durata del proprio investimento”. Naturale conseguenza è che la disposizione ex art. 2373 c.c. è diretta ad affermare che il socio nell’esercizio del voto deve tener conto della pluralità di interessi tipici. In altre parole, l’interesse alla massimizzazione del valore attuale delle azioni va contemperato con le esigenze di una efficiente gestione dell’impresa sociale[47] secondo le determinazioni dello statuto.

4.2. L’interesse del socio.

Andando al secondo termine della relazione conflittuale, ricordiamo anzitutto che, a seguito della riforma del 2010, l’operatività dell’art. 2373 c.c.[48] non è limitata alla relazione socio-società ma è stata estesa a tutti coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto. Per tale ragione oggi è più corretto parlare di interesse del legittimato al voto[49]. Vediamone le caratteristiche. La dottrina prevalente elabora un paradigma di interesse particolare come concreto e atipico, una condizione obiettiva e preesistente alla deliberazione[50],  sull’assunto che se la disciplina del conflitto postula un “pilotaggio” del procedimento deliberativo, perché ciò si verifichi questo deve essere anteriore e obiettivo sul piano della realtà esterna[51]. Inoltre, con riferimento alla valutazione del suo “potenziale conflittuale” è ormai abbandonata la tesi che ancorava l’esistenza del conflitto alla posizione negoziale del socio rispetto alla società[52], invero è oggi consolidato quell’orientamento secondo il quale un tale apprezzamento non può che essere subordinato all’oggetto concreto e al contenuto della delibera[53].  Infine, il vantaggio perseguito dal socio può anche consistere nell’evitare un sacrificio che si sarebbe dovuto sostenere e non deve necessariamente essere di tipo patrimoniale[54]. Sulla scorta di queste caratteristiche la giurisprudenza ha escluso, per esempio, la sussistenza (di per sé) di un conflitto tra il socio amministratore e la società in occasione della delibera sulla determinazione del compenso di questi, subordinandolo alla accertata irragionevolezza della misura di tale compenso[55], così come ha rigettato l’annullamento della deliberazione con la quale si invita l’organo amministrativo a riformulare il bilancio di esercizio iscrivendo nello stesso i crediti vantati (nei confronti della società) da quel socio il cui voto è risultato determinante per l’assunzione o, ancora, è stata negata l’impugnabilità della delibera di scioglimento anticipato della società giacché la stessa disciplina legale prevede il diritto dei soci a porre fine all’impresa comune[56] e si è ammesso che la società controllante voti nell’assemblea della controllata per il progetto di fusione con cui incorpora quest’ultima[57]. Infine, ci resta da definire cosa voglia significare la formula “essere titolari, per conto proprio o di terzi, di un interesse in conflitto”. Tale espressione normativa va intesa nel senso più ampio dell’agire e, cioè, comprende tutte quelle ipotesi di conflittualità con l’interesse sociale che possano a) determinarsi in ragione della titolarità di una propria situazione giuridica; b) conseguire ad una relazione giuridica tra il votante e un terzo, tale da poter condurre ad una deviazione dell’attività sociale. Rispetto a quest’ultima ipotesi, dobbiamo ulteriormente distinguere tra: i) il conflitto per conto proprio, sussistente tutte le volte in cui il soggetto legittimato al voto sia legato ad un terzo (in conflitto) da un rapporto giuridico, per il quale l’esercizio del voto nell’interesse della società lo rende inadempiente alle obbligazioni assunte e subisca, per questo, un pregiudizio economico; ii) il conflitto per conto di terzi, che sussiste invece quando il voto sia diretto alla realizzazione dell’interesse di un terzo in contrasto con l’interesse sociale, anche in mancanza di un preciso obbligo giuridico in tal senso.

Dal canto suo, la giurisprudenza[58] ha specificato come, nell’ambito dei molteplici ed eterogenei rapporti giuridici che possono portare alle situazioni sub ii), sia necessario individuare indici precisi ed univoci in base ai quali accertare la strumentalizzazione del voto in funzione dell’interesse altrui preoccupandosi di rilevare come sia “quanto meno dubbio”, in assenza di altri e diversi elementi di giudizio, ritenere corretto dedurre un indice significativo nel mero rapporto di parentela tra legittimato e altro soggetto, estraneo alla società e con essa in conflitto. In sostanza, è esclusa la diretta rilevanza di un rapporto di parentela, rendendosi necessaria una corroborazione con altri elementi significativi.

5.  I Rimedi.

Acclarato che l’azionabilità della norma consegue necessariamente al presentarsi di una relazione detta di conflitto (che secondo il comune intendere si verifica laddove la soddisfazione di un bisogno, c.d. interesse, esclude il soddisfacimento dell’altro) rinveniamo differenti opinioni dottrinali in merito al tipo di contrasto postulato dalla norma: i) alcuni Autori lo rilevavano anche nelle ipotesi di cd. incompatibilità relativa; ii) altri lo limitavano alle sole ipotesi di una relazione tipica di assoluta incompatibilità. La divergenza nasceva dalla diversa ricostruzione operata dalle due correnti della nozione di interesse sociale, rispettivamente, una in senso concreto e l’altra in senso astratto[59]. Secondo i sostenitori dell’interesse concreto, questo va valutato con riferimento al contenuto particolare e specifico della delibera, invece, i sostenitori della incompatibilità assoluta facevano ricorso ad una nozione di interesse sociale nella sua accezione astratta, slegata dal particolare oggetto della deliberazione. La scelta tra l’una e l’altra alternativa non è affatto priva di risvolti pratici, infatti sebbene la tesi della rilevanza della sola incompatibilità assoluta sembra muovere anche dalla preoccupazione di limitare il potere di intervento del giudice (che è tenuto a svolgere una valutazione per la verifica della sussistenza del conflitto) e dunque a garanzia della autonomia sociale, tuttavia non può non sottolinearsi come questa restringa enormemente l’ambito applicativo dell’articolo in parola, lasciando la minoranza sfornita di quelle idonee guarentigie utili a fronteggiare tutte le ipotesi di abuso dell’esercizio di voto poste in essere dal gruppo di controllo. Pertanto, se storicamente la ratio della disposizione è ravvisata nella esigenza di evitare influenze distorsive nel procedimento deliberativo assembleare, si comprende come una tale soluzione non abbia trovato accoglimento nella dottrina e giurisprudenza[60] prevalenti che, invece, optano per il primo indirizzo volto a riconoscere un conflitto in tutte quelle incompatibilità tali (e quindi anche relative) da comportare un’apprezzabile deviazione (del procedimento deliberativo) nella libera determinazione del concreto interesse della società[61]. Sul punto inerente all’interpretazione sistematica dell’art. 2373 c.c. e sulle ipotesi di abuso deliberativo occorrerebbe svolgere alcune puntualizzazioni e che tratteremo al par. 7, qui basti sottolineare quale è stato il procedimento argomentativo che ha indotto ad affermare la rilevanza della incompatibilità relativa.

Ma se l’esistenza della relazione conflittuale tra i due interessi è certamente condizione fondamentale ai fini dell’impugnazione, non è da sola sufficiente a legittimarne l’annullamento. Abbiamo accertato come, ad opera della riforma del 2003, il baricentro della disciplina si sia spostato sulla potenziale dannosità della delibera assunta con il voto determinante del soggetto in conflitto di interessi, centralità ampiamente confermata anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Possiamo citare, a proposito, la sentenza del 17/07/2007 n. 15950[62] che dà una chiara definizione dei requisiti richiesti: “L’annullamento della delibera adottata da una società di capitali, ai sensi dell’art. 2373 c.c., richiede, oltre all’esistenza del conflitto di interessi, due distinte condizioni che devono sussistere entrambe: la decisività del voto espresso dal socio in conflitto di interessi[63](da intendersi in termini strettamente aritmetici, cd. prova di resistenza) e la dannosità, almeno potenziale della deliberazione medesima per la società. Per l’annullamento della delibera è, pertanto, irrilevante che la medesima consenta al socio il conseguimento di un suo personale interesse, se, nel contempo, non risulti pregiudicato l’interesse sociale”. Inoltre, la stessa Corte, ha precisato che la delibera non deve essere valutata in astratto ma in connessione ai suoi effetti, anche potenziali, diretti o indiretti sulla situazione esterna alla società e sui riflessi che la situazione modificata dalla delibera produce sulla società (Cass. s.n. 4927/1992)[64]. In realtà, già nel periodo antecedente alla riforma si sottolineava il fondamentale ruolo svolto dalla potenziale dannosità della delibera, “perno concettuale”[65] necessario a dar rilevanza giuridica al conflitto di interessi, che di per sé non avrebbe potuto comportare alcun annullamento[66]. Vediamo di seguito quali sono state le applicazioni che la giurisprudenza di merito ne ha fatto. Abbiamo già visto come: 

  • sia stata esclusa l’esistenza di un conflitto tra il socio amministratore e la società in occasione della delibera sulla determinazione del compenso di questi, subordinandola alla accertata irragionevolezza della misura di tale compenso[67]. In particolare, il conflitto non sussiste qualora la delibera persegua finalità differenti da quella della mera remunerazione dell’amministratore e non risulti essere irragionevole tenuto conto del fatturato, della dimensione economica e finanziaria dell’impresa e dell’impegno richiesto per la sua gestione[68]. Il Tribunale di Roma[69], con riferimento ad una S.r.l., ha avuto modo di specificare che, in linea di principio, la partecipazione del socio-amministratore unico alla deliberazione assembleare di determinazione del compenso dell’amministratore nonché l’approvazione di tale delibera con il voto decisivo di questi, non integra gli estremi del conflitto di interessi ex art. 2373 c.c., potendo trattarsi di una semplice duplicità di posizione di interesse in capo ad uno stesso soggetto. Tuttavia, quando la società versa in condizioni problematiche dal punto di vista economico-finanziario, se l’amministratore-socio percepisce un compenso oggettivamente e concretamente sproporzionato rispetto al patrimonio della società, tanto più in considerazione dell’ordinarietà e non eccezionalità delle attività espletate nonché della circostanza che le funzioni di amministratore svolte dal socio non necessariamente debbono essere retribuite, tali circostanze legittimano l’accoglimento della richiesta di sospensione della delibera poiché assunta con il voto determinante del socio in conflitto d’interessi (che, quindi, assume rilevanza);
  • sia stata esclusa l’esistenza di un conflitto nelle ipotesi di approvazione del rendiconto (di una s.r.l.) assunta col voto determinante della società (altra s.r.l.) che è socio-amministratore[70] perché necessario in concreto verificare e dimostrare la dannosità, anche solo potenziale, della delibera. Inoltre, non sussiste un conflitto di interessi nel caso in cui l’amministratore unico, nonché socio di maggioranza, convochi un’assemblea e approvi un aumento di capitale per far fronte alle problematiche in cui versa la società amministrata, restando irrilevante su questo piano l’eventuale imputabilità delle stesse a responsabilità della condotta gestoria[71];
  • sia stata esclusa l’esistenza di un conflitto nella deliberazione con la quale si invita l’organo amministrativo a riformulare il bilancio di esercizio iscrivendo nello stesso i crediti vantati (nei confronti della società) da quel socio il cui voto è risultato determinante per l’assunzione;
  • sia stata esclusa l’esistenza di un conflitto nella delibera di scioglimento anticipato della società[72], che in questo caso non è neanche astrattamente configurabile, difettando la possibilità stessa di individuare un interesse sociale alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale giacché la stessa disciplina legale prevede il diritto dei soci a porre fine all’impresa comune, art. 2484 n. 6 c.c., senza subordinare tale decisione ad alcuna condizione[73],
  • sia stato ammesso che la società controllante voti nell’assemblea della controllata per il progetto di fusione con cui incorpora quest’ultima, non essendo ipotizzabile in linea di principio la sussistenza di conflitto di interessi suscettibile di arrecarle danno[74],
  • sia stata esclusa l’esistenza di un conflitto nella deliberazione assembleare di una società a responsabilità limitata, avente per oggetto la concessione in affitto dell’azienda sociale ad altra società, presa con il voto determinante di un socio il cui figlio a sua volta socio dell’affittuaria. E ciò in quanto è stata esclusa la rilevanza diretta del solo rapporto di parentela perché un socio (votante) possa essere ritenuto titolare di un interesse in conflitto “per conto di terzi”[75]. Similmente, il Tribunale di Milano[76], ha escluso il conflitto di interessi (ma anche l’ipotesi di abuso di maggioranza) per quelle delibere assunte con voto determinante dei soci legati da rapporto di amicizia (e parentela), in quanto non corroborati da ulteriori elementi.

Secondo il Tribunale di Bologna, non è viziata di per sé la deliberazione sull’azione di responsabilità promossa nei confronti di un amministratore che sia (in quel momento) debitore dell’azionista votante, in quanto la contrapposizione degli interessi, quello creditorio alla conservazione dell’integrità del patrimonio del debitore e quello sociale al risarcimento dei danni in esito all’esercizio dell’azione di responsabilità, esige un vaglio in concreto sull’entità del debito, sulla consistenza del patrimonio del debitore e sulla presenza di eventuali garanzie rilasciate a tutela delle ragioni creditorie. Inoltre, nella medesima sentenza, è stata ritenuta legittima la deliberazione di nomina di un amministratore approvata con il voto favorevole di egli stesso socio-amministratore, appena revocato di diritto ex art. 2393, c. 5, c.c., in quanto ciò non costituirebbe illecita elusione di detta disposizione. Tale tesi sarebbe sostenuta sia dall’assenza di una simile circostanza dal catalogo delle cause di ineleggibilità degli amministratori ex art. 2382 c.c. sia dall’assenza di un esplicito divieto in tal senso nell’art. 2373 co. 2 c.c.[77].

La Suprema Corte ha, inoltre, escluso l’annullabilità per mancata configurazione del conflitto di interessi della delibera di espunzione del nome di uno dei soci dalla denominazione sociale. Si è osservato che, qualora non venga dimostrata un’influenza diretta del nome rispetto la floridezza ed il prestigio della società[78], questo non può integrare un interesse sociale e, di conseguenza, non si potrebbe neanche (potenzialmente) causare un danno, né quest’ultimo può rinvenirsi nelle spese derivanti dalle conseguenti comunicazioni e dal cambio modulistica ovvero basarsi su una mera ipotesi (non dimostrata) di incidenza negativa del mutamento del risultato economico della società[79].

È stata esclusa la sussistenza di un conflitto di interessi, nel caso di deliberazione di cessione d’azienda presa col voto determinante dei soci che sarebbero stati assunti in qualità di dipendenti dalla cessionaria. In particolare, secondo il Tribunale di Milano[80], l'interesse della società nella vendita dell'azienda è da individuare nell'ottenimento della migliore controprestazione possibile alle condizioni di mercato presenti al momento della adozione della delibera e l'interesse personale del socio ad essere assunto dall'acquirente come dipendente non è con questo incompatibile, nemmeno in astratto. Anzi, i due interessi sarebbero componibili. È infatti ben possibile che, per l'acquirente, l'assunzione dei soci della società e la continuità di chi a vario titolo opera nell'azienda ceduta costituisca (come avviene nella maggior parte dei casi) un elemento neutro o addirittura un elemento di pregio ai fini del mantenimento dell’avviamento commerciale, degno dunque di valutazione positiva e di remunerazione nell'economia complessiva dell'affare. In questo modo l’interesse personale dei soci si coniuga, in quanto interesse comune a quello dell’acquirente, all’interesse stesso della società a conseguire la vendita a quel soggetto[81]. Si deve concludere, quindi, che l'interesse dei soci a divenire dipendenti dell'acquirente dopo la cessione dell'azienda, così proseguendo nell'attività all'interno dell'azienda, non si pone in conflitto ma è invece compatibile con quello sociale di vendere all’acquirente se in concreto riscontrato aliunde e sussistente.

Con riferimento alla raccolta delle deleghe di voto, la giurisprudenza sottolinea come il rispetto della procedura sia strumentale alla realizzazione, oltre che dell’interesse del socio rappresentato, anche dell’interesse di generale rilevanza alla funzionalità dell’organizzazione societaria. L’eventuale irregolarità pertanto può incidere sulla validità della delibera assembleare, la quale può essere impugnata non solo dai soci deleganti o falsamente rappresentati, ma da qualunque socio. Ai sensi dell’art. 135-decies t.u.f., l’eventuale sussistenza di una posizione di conflitto di interessi non è riconosciuta dall’ordinamento come impeditiva dell’attività di sollecitazione di deleghe, ma è piuttosto individuata come presupposto per l’imposizione di specifici obblighi nei confronti del promotore (in particolare, la raccolta di specifiche istruzioni di voto per ciascuna delibera e comunicazione delle circostanze che danno luogo al conflitto). Pertanto, è irrilevante (ai fini dell’annullamento) che nel prospetto sia espressamente riconosciuta la sussistenza di una situazione di asserito conflitto se non vi è alcuna carenza di informazioni rispetto alle circostanze rilevanti e, in ogni caso, il conflitto deve essere valutato sempre con riferimento allo specifico oggetto della delibera sottoposta a votazione.

Merita di essere segnalata anche una pronuncia del Tribunale di Milano[82] che ha recentemente statuito sul conflitto di interessi in materia di delibera degli obbligazionisti di S.p.A., fattispecie non specificamente regolata dal codice civile. Secondo i giudici meneghini, è ricavabile nell’ordinamento societario un principio generale che vale a regolare le ipotesi di conflitto di interessi nelle decisioni di tutti gli organi assembleari (o collegiali) e che, facendo leva sulle disposizioni di cui agli artt. 2373 c.c., 2475-ter, co. 2° c.c. e 2479-ter co. 2° c.c., stabilisce che il conflitto di interessi non rappresenta ex se una condizione in grado di inficiare la votazione (sia essa una delibera dell’assemblea dei soci, del consiglio di amministrazione o anche dell’assemblea degli obbligazionisti). In definitiva, da quanto esposto, possiamo dedurne che la giurisprudenza ha correttamente: individuato ipotesi di insussistenza stessa del conflitto nonché alcuni indici in grado di valutarlo e altre dove il conflitto è riconoscibile ma per le quali, in assenza di dimostrazione della almeno potenziale dannosità della delibera per la società, ha rigettato le richieste di annullamento.

6. Risarcibilità ai soci di minoranza.

L’art. 2373 co. 1 c.c. rinviando alla disciplina generale della invalidità delle delibere assembleari, statuisce che al ricorrere di tutti i presupposti elencati, la decisione collegiale è impugnabile ai sensi dell’art. 2377 c.c. (cd. rimedio reale). Il potere di iniziativa è affidato alle persone degli amministratori, al consiglio di sorveglianza, al collegio sindacale e ai soci (assenti, dissenzienti od astenuti). Ma per quest’ultima categoria, viene a imporsi una limitazione che riserva l’impugnativa ai soli titolari di una partecipazione qualificata[83] e che discende dalla specificazione del comma quarto, secondo il quale “i soci che non rappresentano la parte di capitale indicata nel comma precedente e quelli che, in quanto privi di voto, non sono legittimati a proporre l'impugnativa hanno diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto”, cd. rimedio risarcitorio, introdotto nel 2003[84].  Ferma restando la possibilità, indicata dallo stesso art. 2377 co. 2 c.c., di “ridurre o escludere” in sede statutaria il requisito della percentuale minima per la proposizione della impugnazione, la formulazione appena esposta ha portato la dottrina ad interrogarsi circa l’estensione del “nuovo” rimedio risarcitorio, proponibile entro novanta giorni dalla data della deliberazione ovvero, se prevista, dall’iscrizione della stessa nel registro delle imprese. In particolare, ci si è chiesti se tale tutela spetti solo alla minoranza non qualificata od anche alla porzione legittimata al rimedio caducatorio e se, in caso di risposta affermativa, i rimedi siano tra di essi alternativi o cumulativi. Per rispondere a tali interrogativi occorre prima stabilire se il risarcimento previsto dalla norma comprenda solo il danno diretto o anche quello indiretto. Infatti, qualora si ritenesse che la norma intenda risarcire anche il danno indiretto, consistente nella riduzione del valore della partecipazione conseguente al pregiudizio patrimoniale subito dalla società in ragione della delibera viziata, ne deriverebbe che la società stessa e gli altri soci di minoranza subirebbero un ulteriore danno[85]. E, a ben vedere, una tale interpretazione renderebbe dubbia la stessa legittimità costituzionale dell’art. 2373 c.c.[86] Pertanto, appare più corretta quella interpretazione che limita il risarcimento al solo danno diretto (inteso come perdita nel proprio patrimonio). Una conferma in questa direzione è arrivata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che, a Sezioni Unite con sentenza del 24/12/2009 n.27364, ha superato il contrasto tra i due indirizzi. Il danno indiretto può essere risarcito solo nei casi espressamente contemplati da una disciplina positiva, come avviene per esempio per i Gruppi di società. Delineata la portata del danno risarcibile, siamo in grado di rispondere positivamente a entrambi i quesiti posti. La soluzione muove dalla disposizione contenuta nell’art. 2378 co. 2 c.c. il quale, regolando il procedimento di impugnazione, statuisce che fermo restando quanto prescritto dall’art. 111 c.p.c., “qualora nel corso del processo venga meno la partecipazione necessaria ex art. 2377 co.2 c.c., il giudice non può pronunciare l’annullamento e provvede sul risarcimento dell’eventuale danno, ove richiesto”. È evidente come formulazione postuli l’esperimento congiunto dell’impugnazione e dell’azione di risarcimento dei danni da parte del socio con partecipazione qualificata. Pertanto, possiamo concludere che:

  • al socio con partecipazione non qualificata spetti esclusivamente l’azione di risarcimento ex art. 2377 co. 4 c.c.,
  • al socio con partecipazione qualificata spetti a) l’azione di annullamento ex artt. 2373 e 2377 co. 3 c.c., b) qualora venga meno quel requisito, il giudice può disporre sul risarcimento del danno, c) ove l’annullamento della deliberazione non risulti essere sufficiente ad eliminare il danno causato al socio procedente, questi potrà muovere contro la stessa società un’azione generale di risarcimento per danno ingiusto ex art. 2043 c.c. (purché si tratti di danno diretto, cioè determinatosi nella sfera patrimoniale del socio direttamente dalla esecuzione della delibera invalida)[87].

Diverso è il problema se manchi la deliberazione assembleare poiché la decisione proposta dalla minoranza è stata respinta dalla maggioranza in conflitto di interessi. Cioè, la quaestio è se rilevi non soltanto il voto decisivo del soggetto in conflitto ai fini dell’approvazione della delibera ma anche quello esercitato a favore del suo respingimento. E dalla possibilità o meno di annullare la cd. deliberazione negativa, dipende la soluzione di due ulteriori quesiti: a) se il giudice, accertato il conflitto, debba dichiarare approvata la delibera illegittimamente respinta; b) se possa esperirsi il rimedio risarcitorio. Procediamo con ordine.

Con riferimento al quesito sub a), la soluzione non può che essere negativa[88] per due fondamentali ordini di ragioni. Anzitutto è parecchio difficile, de iure condito, ricostruire un meccanismo tale che attribuisca al giudice il potere di valutare positivamente gli effetti potenziali di una delibera rigettata e “imporla” a mezzo sentenza[89], ed infatti la recente giurisprudenza della Cassazione ha sottolineato come non sarebbe proprio possibile una sentenza di accertamento di una deliberazione assembleare opposta a quella non approvata dalla maggioranza in conflitto di interessi, in quanto le deliberazioni assembleari completerebbero il loro iter formativo con la proclamazione dei risultati della votazione (elemento costitutivo della deliberazione per la sua natura di atto collegiale) non surrogabile da un atto giudiziale[90], né può, de iure condendo, prospettarsi e auspicarsi un intervento legislativo in questi termini in quanto verrebbe a ribaltarsi uno dei fondamenti a reggimento dell’intera disciplina societaria, il principio maggioritario[91].  Accertato che non si possa procedere ad una sentenza di annullamento, andiamo a rispondere al quesito sub b). Secondo l’orientamento affermatosi in dottrina e in giurisprudenza, nulla osta al riconoscimento del risarcimento del danno diretto così determinato, ma tale tutela viene inquadrata non nei termini degli art. 2373 e 2377 c.c. ma nell’ambito della più ampia “fattispecie” (sebbene priva di riscontro normativo) dell’abuso del diritto ad opera della maggioranza in danno alla minoranza (e di cui ci occuperemo nel successivo paragrafo). Per concludere, la tutela che viene a delinearsi riconosce i) un’azione risarcitoria proponibile dai soci di minoranza; ii) un’azione risarcitoria proponibile dalla società per il comportamento illegittimo dei soci di maggioranza, in termini di perdita di chances conseguenti alla mancata deliberazione.

7. Abuso della regola di maggioranza a danno della minoranza e giustificazione sistematica dell’art. 2373 c.c. quale norma espressiva di un più generale principio e il superamento dei suoi limiti applicativi.

La necessità a scopi tutelativi di arginare gli innumerevoli fenomeni di alterazione del procedimento deliberativo ha spesso indotto ad una interpretazione estensiva ed analogica dell’art. 2373 c.c.. Una soluzione che si è presto rivelata insufficiente per via dei limiti strutturali della stessa in quanto non consente tecnicamente di assumerla, stante la sua natura di disposizione particolare, a norma di sistema. È da questa considerazione che muove quello sforzo dottrinale e giurisprudenziale volto a rivedere il ruolo sistematico della disciplina del conflitto nell’ambito della materia societaria e secondo il quale, il conflitto di interessi costituisce solo l’ipotesi più grave di abuso del voto nel procedimento assembleare. Da qui ha origine quella “denuncia” al Codice della mancanza di una disciplina più generale che sanzioni tutte quelle fattispecie di devianza deliberativa eventualmente poste in essere dalla maggioranza (con ciò intendendosi un abuso del diritto di voto ad opera della maggioranza mirato non al conseguimento di uno scopo sociale, ma al solo e specifico obiettivo di vessare i soci di minoranza)[92] che la pratica ha messo in luce. Per far fronte a tale carenza, dottrina e giurisprudenza maggioritarie hanno catalogato l’art. 2373 c.c. quale espressione particolare[93] di un più generale principio secondo il quale il criterio regolatore dei rapporti all’interno della società va ravvisato nei principi di buona fede e correttezza. Ci ritroviamo di fronte due diverse “fattispecie”: da una parte il conflitto di interessi regolato ex art. 2373 c.c. e dall’altra l’abuso della regola di maggioranza regolato dai principi di correttezza, buona fede e solidarietà.  Facendo ricorso a questa più ampia categoria non vi è ulteriormente motivo di ricomprendere nella prima anche quelle delibere che presentando una cd. neutralità del conflitto (per la difficoltà di ravvisare una manifesta lesione di un interesse sociale, e di conseguenza, un danno anche solo potenziale), perché ora “assorbite” dal generale dovere di comportamento secondo correttezza. Ad ogni modo, non è inutile sottolineare come il socio che invochi “l’abuso del diritto” si trovi di fronte una sorta di probatio diabolica: in ragione della neutralità della determinazione dei soci[94], vi sarà una evidente difficoltà in termini probatori di dimostrazione dell’intento fraudolento di mortificazione della minoranza. Difficoltà in qualche modo aggravate dalla impostazione giurisprudenziale, infatti, secondo la Cassazione il socio di minoranza deve indicare i “sintomi di illiceità deducibili non solo da elementi di fatto esistenti al momento della approvazione della delibera ma anche da circostanze successive[95]. Né può tacersi sul fatto che così si accentua il rischio di un sindacato di merito da parte del giudice. A riguardo, il richiamo ai principi di buona fede e correttezza per sanzionare le ipotesi non rientranti nell’art. 2373 c.c. non è sempre apparso appropriato[96] ma la Corte di Cassazione sembra ormai orientata in tal senso[97] e, secondo la dottrina prevalente, nel silenzio del legislatore deve comunque e in qualche modo rinvenirsi nell’abuso della regola di maggioranza un vizio di legittimità della delibera, dovendosi evitare che l’esercizio del diritto possa sconfinare nell’arbitrio, poiché l’individuazione di strumenti e tecniche idonee a perseguire la totalità degli abusi di maggioranza è considerata (come già all’indomani della pubblicazione del codice del ’42) operazione essenziale in ordine al corretto sviluppo del modello azionario[98]. In definitiva, l’abuso di potere è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari quando la deliberazione: a) non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, deve pertanto trattarsi di una deviazione dell’atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società, per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale e, congiuntamente, b) sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli poiché è rivolta al conseguimento di interessi extrasociali.[99]

Volendo riportare per completezza una casistica di alcuni dei più frequenti comportamenti abusivi[100], questi sono stati individuati, per esempio, nella pratica dell’aumento di capitale a pagamento. Alcuni fra i soci, infatti, possono approfittare dell’esigenza di nuovi investimenti nella società per accrescere la propria forza sugli altri soci, incrementando il divario fra le percentuali di partecipazione al capitale sociale. In tali casi l’aumento di capitale, pur economicamente produttivo (ecco rappresentato un esempio di neutralità del conflitto), può consentire alla maggioranza di ridurre la partecipazione degli azionisti di minoranza agli utili e al patrimonio sociale, approfittando della loro temporanea impossibilità di sottoscrizione ovvero bloccare la loro possibilità di esercitare le forme di controllo di cui agli artt.2408 e 2409 c.c.[101]. La Corte di Cassazione sul punto ha affermato che “le deliberazioni dell’assemblea di una società aventi ad oggetto l’aumento del capitale, ove siano frutto di un accordo di maggioranza diretto a realizzare non l’interesse sociale ma quello personale dei partecipanti all’accordo medesimo di accentramento in proprie mani del capitale azionario, con conseguente riduzione della partecipazione percentuale di soci impossibilitati ad esercitare il diritto d’opzione, sono viziate da eccesso di potere e, pertanto, annullabili ex art. 2377 c.c.” e che “ai fini dell’invalidità per abuso od eccesso di potere della delibera di aumento di capitale di una società per azioni, la lesione dei diritti del socio di minoranza deve emergere sia sotto il profilo soggettivo (intenzionalità del pregiudizio e consapevolezza del socio di maggioranza di poter sfruttare una situazione di illiquidità del socio di minoranza), sia sotto il profilo oggettivo (reale illiquidità del socio di minoranza, sproporzione rilevante tra la sua situazione finanziaria e l’importo da sottoscrivere, nonché sussistenza di un motivo pretestuoso per l’aumento del capitale), in assenza delle predette condizioni la mera situazione di difficoltà finanziaria del socio non costituisce motivo per dichiarare l’illegittimità della delibera”.

Altri non infrequenti casi sono stati rinvenuti nell’assunzione di delibere di scioglimento anticipato della società che può rivelarsi strumentale non solo al perseguimento di interessi extrasociali personali (quindi costituire una vera e propria ipotesi di conflitto) ma anche al (solo) scopo di estromettere i soci sgraditi[102]. I giudici di merito hanno ravvisato, quindi, il vizio di abuso di maggioranza “quando lo scioglimento sia in realtà fittizio, in quanto preordinato alla eliminazione della società per sgombrare il campo all’attività concorrenziale di altra e diversa società, già costituita dai medesimi soci di maggioranza, con lo stesso oggetto sociale e la medesima sede, escludendo dalla nuova compagine sociale i soci dissenzienti. In tal caso lo scioglimento della società non è diretto a realizzare l’anticipata cessazione dell’attività comune rivolta al perseguimento dell’oggetto sociale, bensì alla continuazione della medesima attività con la preventiva esclusione dei soci minoritari non graditi, ai quali resta preclusa la continuazione in altra forma della medesima società senza incorrere nella violazione del divieto alla concorrenza sleale”.

Emergono, poi, numerose ipotesi di reiterato accantonamento di utili a riserva preordinato a diminuire il valore di mercato delle azioni (e ad indurre così il socio di minoranza a vendere i propri titoli, permettendo alla maggioranza di acquistarli a prezzo di favore), di riduzione o azzeramento del capitale sociale, soprattutto in presenza di una contestuale ricapitalizzazione. È infatti evidente come nel caso in cui le perdite fossero artificiosamente gonfiate o le attività celate, la perdita del capitale sarebbe solo apparente o comunque di proporzioni diverse da quelle rappresentate e, conseguentemente, la delibera di riduzione o azzeramento sarebbe illegittima. Una pronuncia del giudice afferma che “le fattispecie previste dagli artt. 2446 e 2447 c.c. non sono configurabili nell’ipotesi in cui le perdite sono in realtà assorbite dalle riserve, avendo, sia la riserva legale che quella statutaria e facoltativa, la funzione di precostituire (in epoche di segno positivo) un sistema di salvaguardia per il futuro (…) inoltre, ove non si tenesse conto delle riserve, il sistema si presterebbe ad essere agevolmente utilizzato come strumento surrettizio ed ingiusto di estromissione dalla compagine sociale (o di ridimensionamento delle partecipazioni) dei soci impossibilitati ad eseguire in tutto o in parte nuovi conferimenti” .

Per concludere, quindi possiamo oggi affermare che il principio di correttezza viene a configurarsi come specificazione degli obblighi di solidarietà Costituzionali e, pertanto, destinato ad esplicarsi in ogni rapporto civile senza possibilità di eccezioni. Ne consegue che le violazioni di disposizioni di legge o statuto non sono uniche cause di annullabilità della delibera[103], dovendo ad esse affiancare l’inosservanza dei principi generali di buona fede e di parità di trattamento dei soci in tutte le fasi del procedimento (dalla prima convocazione assembleare, alla regolarità di tutte le procedure di intervento e voto, alla verbalizzazione). In questa cornice viene meno la necessità di prospettare l’applicazione analogica o estensiva dell’art. 2373 c.c. a situazioni tecnicamente in essa non ricomprendibili e la libertà del voto perde quel carattere di assolutezza per soggiacere al limite della corretta gestione societaria e imprenditoriale (o anche detto criterio di ragionevolezza economica[104], cui è sottoposta la maggioranza). Una recente sentenza conferma, ancora una volta, tutto l’impianto inerente al conflitto di interessi e l’abuso deliberativo descritto finora: Cassazione Civile, Sez. I, 14 marzo 2016, n. 4967. 

 

Note e riferimenti bibliografici 

[1] Vedi la Relazione al codice civile 1942, par. 971.

[2] Codice di commercio del 1882.

[3] Da intendersi in termini numerici, la deliberazione è cioè impugnabile qualora il voto del socio in conflitto sia stato decisivo nel raggiungimento del quorum previsto per l’assunzione della delibera stessa.

[4] Indicata anche con gli acronimi SHRD ovvero SRD, è stata di recente modificata con la Direttiva 2017/828 (cd. SRD II) del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2017, pubblicata in Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea del 20 maggio 2017. La riforma si propone di incoraggiare l’impegno a lungo termine degli azionisti e l’adeguamento degli ordinamenti statali è fissato al 10 giugno 2019.

[5] Sono stati parallelamente modificati, sostituendo il termine “socio” con il “soggetto al quale spetta il diritto di voto”, gli artt. 2366-2369 c.c. sulla convocazione e i quorum costitutivi e deliberati dell’assemblea, l’art. 2370 c.c. sul diritto di intervento, l’art. 2372 sulla rappresentanza in assemblea e, infine l’art. 2377 co. 4 sull’impugnabilità della deliberazione e il risarcimento dei danni.

[6] Art. 83 sexies T.u.f stabilisce al primo comma che “La legittimazione all'intervento in assemblea e all'esercizio del diritto di voto è attestata da una comunicazione all'emittente, effettuata dall'intermediario, in conformità alle proprie scritture contabili, in favore del soggetto a cui spetta il diritto di voto” e poi specifica “ (..)per le assemblee dei portatori di strumenti finanziari ammessi alla negoziazione con il consenso dell’emittente nei mercati regolamentati o nei sistemi multilaterali di negoziazione italiani o di altri Paesi dell’Unione europea, la comunicazione(…) è effettuata dall’intermediario sulla base delle evidenze dei conti indicati all’articolo 83-quater, comma 3, relative al termine della giornata contabile del settimo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea. Le registrazioni in accredito o in addebito compiute sui conti successivamente a tale termine non rilevano ai fini della legittimazione all’esercizio del diritto di voto nell’assemblea, “per le assemblee diverse da quelle indicate(…), le comunicazioni indicate nel comma 1 devono pervenire all'emittente entro la fine del terzo giorno di mercato aperto precedente (…) ovvero nel  diverso termine stabilito dalla Consob, d'intesa con la Banca d'Italia con regolamento, oppure entro il successivo termine indicato nello statuto ai sensi del comma 3 e del comma 5. (…)”

[7] M. Cirenei, “Conflitto di interessi”, in Commentario romano al nuovo diritto delle società, diretto da F. D’Alessandro, 2009, Vol. II, pag. 759.

[8] Cass., Sez. I, 19/08/1996, n. 7614 e Cass. Sez. I, 10/03/1999, n. 2053, fermo restando l’esercizio deve svolgersi secondo i generali principi di correttezza e buona fede e che l’eventuale danno arrecato al socio, esporrà il titolare del diritto frazionato al risarcimento dei danni nei suoi confronti.

[9] Es. i dividendi.

[10] “1. Il conferimento di una delega ad un rappresentante in conflitto di interessi è consentito purché il rappresentante comunichi per iscritto al socio le circostanze da cui deriva tale conflitto e purché vi siano specifiche istruzioni di voto per ciascuna delibera in relazione alla quale il rappresentante dovrà votare per conto del socio. Spetta al rappresentante l'onere della prova di aver comunicato al socio le circostanze che danno luogo al conflitto d'interessi. Non si applica l'articolo 1711, secondo comma, del codice civile.

2. Ai fini del presente articolo, sussiste in ogni caso un conflitto di interessi ove il rappresentante o il sostituto:

a) controlli, anche congiuntamente, la società o ne sia controllato, anche congiuntamente, ovvero sia sottoposto a comune controllo con la società;

b) sia collegato alla società o eserciti un'influenza notevole su di essa ovvero quest'ultima eserciti sul rappresentante stesso un'influenza notevole;

c) sia un componente dell'organo di amministrazione o di controllo della società o dei soggetti indicati alle lettere a) e b);

d) sia un dipendente o un revisore della società o dei soggetti indicati alla lettera a);

e) sia coniuge, parente o affine entro quarto grado dei soggetti indicati alle lettere da a) a c);

f) sia legato alla società o ai soggetti indicati alle lettere a), b), c) ed e) da rapporti di lavoro autonomo o subordinato ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza.

3. La sostituzione del rappresentante con un sostituto in conflitto di interessi è consentita solo qualora il sostituto sia stato indicato dal socio. Si applica in tal caso il comma 1. Gli obblighi di comunicazione e il relativo onere della prova rimangono in capo al rappresentante.

4. Il presente articolo si applica anche nel caso di trasferimento delle azioni per procura.

[11] Delega al Governo per l'attuazione della direttiva 2007/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa all'esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate.

[12] Sulla centralità del conflitto di interessi nel diritto societario vedi F. D’Alessandro, “Società per azioni: le linee generali della riforma”, in La Riforma del diritto societario, Atti del Convegno di Courmayeur, Milano, 2003.

[13] Termine usato dalla dottrina americana per indicare la possibilità di scindere la partecipazione azionaria separando il diritto di voto dalla proprietà economica dei titoli.

[14] N. De Luca, “Titolarità vs. legittimazione: a proposito di record date, empty voting e “proprietà nascosta” di azioni”, RDS, 2010.

[15] Così N. Del Luca (supra).

[16] A. Gambino, “Nuove prospettive del conflitto di interessi assembleare nella società per azioni”, in Riv. Dir. Comm., 2011, pag. 379 e ss., concorde sulla incontrovertibilità della possibile incidenza di tali negozi sui meccanismi di corporate governance quanto sulla trasparenza degli assetti proprietari, nonché sulla problematica applicazione della disciplina del conflitto di interessi assembleare alle società che fanno ricorso la mercato del capitale di rischio, rileva come in queste si sia “ceduto il passo ad una diversa logica di prevenzione e regolazione dei fenomeni di dissociazione” attraverso  nuove discipline, quale ad esempio l’art. 2391 bis c.c. sulle operazioni con parti correlate.

[17] La questione nasceva anche in ragione della formulazione dell’ultimo comma dell’articolo (ora confluito nell’art.2368 c.c.) che, disciplinando il quorum costitutivo di assemblea, prevedeva il computo delle azioni per le quali non poteva essere esercitato il voto a causa del conflitto di interessi. Se ne ricavava, quindi, che questo andasse calcolato secondo una mera operazione aritmetica, non rilevando né la situazione personale degli intervenuti né le materie all’o.d.g.. La difficoltà interpretativa che nasceva investiva (nè poteva prescindere) una ricostruzione della fattispecie del conflitto di interessi, riflettendosi su un piano decisamente più generale del rapporto tra quorum costitutivo e deliberativo. Così A. Blandini, “Conflitto di interessi ed interessi degli amministratori di società per azioni: prime riflessioni”, in Riv. Dir. Comm., 2004, pag. 407 e ss.

[18] Cass. Civ. s. n. 853/1961 in F. it., 1961, pag. 571 e ss.

[19] È fuor dubbio che l’assemblea possa adottare una deliberazione in relazione alla quale un socio sia portatore di un interesse extrasociale in conflitto con l’interesse della società, la stessa infatti sarebbe “annullabile”.

[20] Il testo è riportato da M. Cirenei, ult. op. cit.

[21]Sull’argomento si è molto insistito. Invero, consentire una tale possibilità implicava sostanzialmente una violazione del principio di maggioranza che pure è fondamento della disciplina della società per azioni. V. A. Gambino, ult. op. cit.,

[22] Danno potenziale arrecato e decisività del voto per l’approvazione della delibera.

[23]Vedi A. Gambino, “Conflitto di interessi”, in Commentario del Codice Civile, Delle società, dell’azienda, della concorrenza a cura di Daniele U. Santosuosso, diretto da Enrico Gabrielli, vol. III, 2015.

[24] Vedi la Relazione allo schema di delega al Governo.

[25] La riforma del 2003 ha profondamente riformato la fattispecie, introducendo, tra le importanti novità, un dettagliato e specifico obbligo per l’amministratore delegato di investire l’assemblea della deliberazione di operazioni della società  in cui questi abbia un qualsiasi interesse (astenendosi dal compierle fino a decisione dell’organo collegiale) specificandone “… la natura, i termini, l’origine e la portata”, in luogo del previgente obbligo di notiziare del conflitto “solo” gli altri amministratori e il collegio sindacale (comunque ancora previsto nella prima parte del primo comma). L’amministratore risponde della verità e completezza delle informazioni così rese civilisticamente, attraverso l’esercizio dell’azione di responsabilità ex artt. 2393 e 2393-bis, e penalmente per l’illecito di infedeltà patrimoniale ex art. 2364 c.c..

[26] Posto che un tale dovere di informazione può essere previsto nello Statuto.

[27] Par. 5, Relazione allo schema di delega al Governo, che riporta in merito “(…) Ciò non toglie che il socio, il quale si ritenga in conflitto di interessi con la società, possa dichiarare di astenersi dal voto (…)”

[28] Il testo riportato è aggiornato alla modifica intervenuta nel 2010, la previgente versione indicava come soggetto legittimato all’astensione il “socio”.

[29] Con d.lgs. 27/01/2007 n. 27.

[30] Nel testo vigente tale riferimento è sparito.

[31] M. Cirenei, ult.op.cit., 778 e ss.

[32] Da intendersi come vero e proprio potere di esclusione dei soggetti non legittimati dalla votazione. Queste sono, oltretutto, le uniche ipotesi in cui il presidente ha la possibilità di procedere in tal senso.

[33] “L'assemblea è presieduta dalla persona indicata nello statuto o, in mancanza, da quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti. (…) Il presidente dell'assemblea verifica la regolarità della costituzione, accerta l'identità e la legittimazione dei presenti, regola il suo svolgimento ed accerta i risultati delle votazioni; degli esiti di tali accertamenti deve essere dato conto nel verbale.”

[34] Se ne fa derivare dunque che i commi dell’art. 2373 c.c. racchiudono due disposizioni differenti tra loro.

[35] Un’ampia e articolata casistica delle ipotesi ricomprese nel conflitto tipico può ritrovarsi in R. Rordof, sub art. 2373 c.c., in “La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina”, Libro V, a cura di Marziale, Rordof, Ruperto.

[36] La Cassazione applica la regola anche alle società di persone.

[37] M. Cirenei, ult. op. cit., pag. 779.

[38] Che, al contrario, figurava nel codice del commercio del 1882, e che oggi ha, tuttavia, perso il suo potenziale conflittuale dato che l’approvazione del bilancio non libera gli amministratori dalle responsabilità.

[39] L’interesse del socio ad amministrare la società non è necessariamente confliggente con quello della società.

[40] Fermo restando che la previsione di un alto compenso all’amministratore può corrispondere ad un interesse della società, il conflitto si configura nel momento in cui questo è talmente sproporzionato e irragionevole da arrecarle un danno.

[41]Il problema della ricostruzione della nozione di interesse sociale è questione coeva con la nascita del diritto azionario moderno”, P. Montalenti, “Interesse sociale e amministratori”, in L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders, Giuffrè, 2010.

[42] La contrapposizione tra istituzionalismo e contrattualismo, infatti, è quella riconosciuta nella dottrina italiana e che ha mutuato dalle teorie tedesche le principali concezioni istituzionaliste, mentre decisamente preminente in Italia è la concezione contrattualista. Per una completa analisi delle posizioni dottrinali straniere si veda P. Jaeger,“L’interesse sociale”, 1964, Giuffrè, pag 13 e ss.

[43]Per una rassegna delle decisioni giurisprudenziali (italiane e non) in materia di comportamenti abusivi della maggioranza a danno della minoranza, vedi A. Gambino, ult. op. cit.

[44]P. Jaeger parla di un “istituzionalismo arretrato e duro a morire”.

[45] La Suprema Corte, nel 1995, afferma (finalmente) di non potere condividere quell’orientamento che ritiene inapplicabile l’art 1375 c.c. alla materia societaria: “invero, a seguito dell’esplicito riconoscimento legislativo dell’esistenza di contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune (artt. 1420, 1446,1459, 1466 c.c.), l’appartenenza all’area contrattuale dell’atto costitutivo delle società, quando sia stipulato da più soggetti, non è più revocabile in dubbio(…). (…) Il contratto di società e gli altri contratti plurilaterali con comunione di scopo (…) presentano la caratteristica di esigere, per la loro attuazione, una serie indefinita di nuovi atti giuridici e, appunto per questo, (…) danno vita ad una organizzazione che ha il compito di regolare lo svolgimento dell’attività programmata e che, nelle società di capitali, è caratterizzata dall’attribuzione alla maggioranza dei soci di un potere dispositivo il quale si estende fino alla modifica dello stesso contratto originario. (…) Pertanto, (…), anche le determinazioni prese dai soci durante lo svolgimento del rapporto associativo debbono essere considerate, a tutti gli effetti, come veri e propri atti di esecuzione, perché preordinati alla migliore attuazione del contratto sociale: le stesse modifiche dell’atto costitutivo trovano la loro ragion d’essere nell’esigenza di adeguare le caratteristiche dell’impresa alle condizioni, rapidamente mutevoli del mercato, al fine di salvaguardarne la redditività e sono quindi sempre riconducibili allo scopo ultimo (ed essenziale) che i soci si sono prefissi quando hanno dato vita alla società. In commento di A. Gambino, C. Angelici, P. Jaeger, R. Costi, F. Corsi “Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?”, in G. Comm.,I, 1996, pag, 329 e ss.

[46] In Riv. Not., 2009, pag 641 e ss.

[47] Per completezza, occorre osservare come queste considerazioni valgano solo per le società di cui all’art 2247 c.c. e non anche per le società di diritto speciale. “La complessità della tipologia legale della società a partecipazione pubblica sotto il profilo causale riflette la varietà di utilizzazioni da parte di pubblici poteri del modello azionario” e pone un serio problema di conciliazione dell’interesse pubblico con quello sociale nella prospettiva dell’art. 2373 c.c.. Vedi M. Cirenei, op. cit., pag. 769 e ss.

[48] Per una ricostruzione della elaborazione dottrinale in merito vedi A. Gambino, Il principio di correttezza nell’ordinamento della società per azioni, pag 179 e ss.

[49] Così lo definisce A. Gambino, in altri Autori si parla di “interesse particolare” o ancora di “interesse del socio”, ma in tutti è chiaro il senso della riforma operata nel 2010.

[50] Nel senso che, dal punto di vista soggettivo, può identificarsi in un mero movente psicologico ma deve essere obiettivamente rilevabile e tale da porsi in conflitto con l’interesse della società. A. Gambino, nell’opera sopra citata, rilevava come la dottrina non fosse unanime sul punto. Infatti, Alcuni Autori come il Mengoni, ritenevano che affinché tale interesse potesse assumere rilevanza ex art. 2373 c.c., il socio avrebbe dovuto essere (nella deliberazione da votare) controparte della società. Contrasti sussistevano anche con riferimento al tipo di conflitto che dovesse intercorrere ai fini di applicazione della norma e sulla considerazione del danno (che secondo alcuni doveva consistere in un pregiudizio all’interesse sociale, secondo altri una lesione di un interesse patrimoniale). Le ragioni di tale frammentazione erano dovute principalmente dalla preoccupazione di limitare il più possibile l’intervento del giudice, a garanzia dell’autodeterminazione della società stessa, nonché costituiva il riflesso del conflitto sull’interesse sociale tra istituzionalisti e contrattualisti.

[51]Ciò non significa che anche l’oggetto dell’interesse debba anche essere immediatamente conseguibile, quindi potrà anche trattarsi di un interesse attuale, obiettivo e preesistente alla delibera, ad ottenere un vantaggio futuro.

[52] La tesi che circoscriveva l’interesse del socio ex art. 2373 c.c. ai soli casi in cui questi fosse controparte dell’azionista nei confronti della società, muoveva da una ricostruzione storica del codice del commercio (in particolare, dai divieti di voto previsti per gli amministratori) e dalle fattispecie di diritto tedesco. Vedi A. Gambino, ult. op. cit., pag 188 e ss., per la posizione contraria.

[53] Cass. Civ., Sez. I, 12/12/2005, n.27387, Cass. Civ., Sez. I, 17/07/2007 n.15950.

[54] Ancora A. Gambino, fa però notare che smentire la consistenza economico-patrimoniale dell’interesse particolare può significare dar rilevanza ai meri moventi psicologici privi di rilevanza esterna. Secondo altra opinione, l’interesse particolare deve avere necessariamente sostanza economica, perché la normativa richiede (ai fini dell’annullamento) il danno (patrimoniale) per la società. Ma questo argomento non convince perché dimostra soltanto che il conflitto deve avere una incidenza economica nei confronti della società e non del socio.

[55] Cass. Civ., Sez. I, 21/03/2000, n. 3312; Cass., S.U., 9/10/2008, n.28784; Cass. Civ., Sez. I, 17/07/2007, n. 15942.

[56] Cass. Civ., Sez. I, 12/12/2005, n.27387. A proposito, si rende necessaria una precisazione e cioè che un tale tipo di deliberazione può assumere valenza sotto il profilo dell’abuso della regola di maggioranza. Analizzeremo i termini successivamente.

[57] Cass. Civ., Sez. I, 11/12/2000, n.15599.

[58]Cass. Civ. Sez. I, 23/03/1996, n. 2562 in Giust. Civ., I, 1997, pag. 181 e ss.. In particolare, si è negato l’annullabilità di una deliberazione assembleare di una società a responsabilità limitata, avente per oggetto la concessione in affitto dell’azienda sociale ad altra società, presa con il voto determinante di un socio il cui figlio è, a sua volta, socio dell’affittuaria.

[59] Su tale contrapposizione v. D. Preite, “L'abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni”, Giuffrè, 1992.

[60] V. Cass. Civ., Sez. I, 21/03/2000 n. 3312; Cass. Civ., Sez. I, 23/03/1996, n. 2562; Cass. Civ., Sez. I, 21/12/1994, n. 11017.

[61] Così A. Gambino. Concorda anche M. Cirenei che formula come segue “E’ necessario che l’interesse extrasociale si ponga in contrasto con l’interesse sociale inteso come interesse alla realizzazione di un determinato affare alle condizioni che soddisfino l’interesse sociale”.

[62] In Riv. Not., 2009, pag. 641 e ss.

[63] In precedenza, la Corte aveva avuto modo di specificare l’irrilevanza in termini di decisività del voto, del comportamento di quel soggetto che influenzi l’assemblea nella discussione della deliberazione astenendosi, poi, dal votare. Infatti, una valutazione così delicata dovrebbe inopportunamente essere rimessa al presidente dell’assemblea.  M. Cirenei, op. cit, pag 775 e ss, V. Meli, Conflitto di interessi, in Le società per azioni, diretto da P. Abbadessa e G. Portale, tomo I, 2016, pag. 1004.

[64] In G. it., 1992, pag. 1562 e ss.

[65] M. Cirenei, ult. op. cit.

[66]Questa impostazione, che si ricollegava a quella ricostruzione sostanzialista dell’istituto ex art. 2373 c.c., era avvallata anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Un esempio può ricavarsi dalla sentenza dell’11/12/2000 n. 15599 nella quale, con riferimento al rapporto intercorrente tra la il requisito della potenziale dannosità e cd. la prova di resistenza, affermava che, nell’insussistenza della dannosità, “la delibera resta inattaccabile quand’anche approvata col voto determinante del socio in conflitto d’interessi” e, ancora, “né rileva che la delibera stessa consenta al socio di raggiungere un proprio interesse se, nel contempo, non ne risulti pregiudicato quello sociale” (nella sua accezione concreta).

[67] Cass. Civ., Sez I, 21/03/2000, n. 3312, Cass. Civ., Sez. I, 17/07/2007 n. 15942.

[68] Trib. Roma, 08/05/2017, n. 8960, estende la massima anche ai prestatori d’opera. In particolare: “con specifico riguardo all’ipotesi di annullamento della delibera attributiva del compenso dei soci prestatori d’opera ed amministratori, si osserva come la predetta deliberazione, ancorché assunta con il voto determinante dei medesimi soci prestatori d’opera ed amministratori, possa ritenersi viziata, ai sensi dell’art. 2479 ter c.c., solo nel caso in cui sia dato apprezzare la manifesta sproporzione ed irragionevolezza della misura del compenso in concreto determinato, in rapporto alla dimensione economica e finanziaria della società, al fatturato annuo e volume d’affari della stessa e, quindi, alla natura ed al rilievo dell’impegno richiesto al socio prestatore d’opera ed investito di funzioni gestorie”.

[69] Ordinanza del 25/11/2014 di istanza cautelare.

[70] Cass. Civ., Sez. I, 24/05/2013, n. 13011. In particolare, la società svolgeva il triplice ruolo di condomino di maggioranza, di gestore dell'attività alberghiera e di amministratore del condominio.

[71] Trib. Torino, 05/11/2015, n.6473. Nella specie, reati di carattere ambientale e inottemperanze amministrative che avrebbero esposto la società a gravi responsabilità e rischi finanziari. Secondo il Tribunale, non sussiste neppure un abuso di maggioranza, se il socio di minoranza non dimostri che la strada della ricapitalizzazione era perseguita solo al fine di marginalizzare gli altri soci.

[72] Situazione che potrà rilevare, a determinate condizioni, quale abuso deliberativo della maggioranza.

[73] Cass. Civ., Sez. I, 12/12/2005, n.27387.

[74] Cass. Civ., Sez. I, 11/12/2000, n.15599.

[75] Cass. Civ., Sez. I, 23/03/1996, n.2562

[76] Sentenza n. 9771/2015. In particolare, la sostituzione dell’amministratore unico con il consiglio di amministrazione non costituisce, di per sé, abuso di maggioranza. In mancanza di specifica clausola impeditiva, non è vietato all’amministratore di società cooperativa di ammettere a soci soggetti a lui legati da parentela o amicizia, purché rivestano i requisiti definiti nello statuto.

[77] Invero, parte della dottrina e la scarsa giurisprudenza rinvenibile in materia (Trib. Milano, 4.6.1990, in G.it. 91, I, II, 175) ammettono che l'amministratore revocato possa partecipare alla nomina dei nuovi amministratori anche al fine di nominarsi nuovamente.

[78] Come invece potrebbe avvenire per marchi famosi come D&G, Manetti&Roberts, ecc.

[79] Cass. Civ., Sez. I, 17/07/2017, n. 15950.

[80] Sentenza n. 1476/2017.

[81] Tanto risultava accaduto nel caso di specie, in cui l'acquirente, nella proposta di acquisto ha dichiarava "Inoltre, e proprio per garantirci le aspettative di questo investimento, è condizione essenziale e inderogabile della presente proposta l'assunzione, a nostra cura e spese ed in qualità di dipendenti, dei sigg.ri **** e *****”.

[82] Del 12 febbraio 2014, R.G. 629/2014.

[83] Art. 2377 co. 3 c.c. “L'impugnazione può essere proposta dai soci quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente, l'uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il cinque per cento nelle altre; lo statuto può ridurre o escludere questo requisito. Per l'impugnazione delle deliberazioni delle assemblee speciali queste percentuali sono riferite al capitale rappresentato dalle azioni della categoria.”

[84] A proposito, alcuni Autori auspicano e sottolineano la necessità di un controllo severo sul procedimento di deliberazione da parte degli amministratori e degli organi di sorveglianza, sottolineando l’inadeguatezza del rimedio risarcitorio ex art. 2377 c.c.. Questo, infatti, presenta delle evidenti lacune di tutela per tutti quei casi in cui la delibera viziata non si traduca immediatamente in una diminuzione patrimoniale. Pertanto, l’impugnativa da parte degli altri organi sociali finisce per essere uno strumento fondamentale a tutela dei soci non qualificati e dell’interesse sociale, inteso nella sua accezione di conservazione e valorizzazione dell’investimento.

[85] Perché a) il patrimonio della società sarebbe ulteriormente diminuito dal risarcimento dovuto al socio-attore, b) di conseguenze il valore delle partecipazioni subirebbero un’altra deminutio.

[86] Sui profili di illegittimità costituzionale, v. S. D’Alcontres, “L’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea di S.p.A.. La nuova disciplina.”, in Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa, Portale, II, 2006, pagg. 188-189.

[87] A. Gambino, “Nuove prospettive del conflitto di interessi”, cit.

[88] Sebbene non manchino pronunce che sposano la tesi affermativa, V. Trib. Milano 02/06/2000 in F.it., 2000, I, 3638.

[89] Vedi A. Gambino “Nuove prospettive del conflitto di interessi assembleare nella società per azioni”, in Riv. Dir. Comm., 2011, pag 384 e ss. per un tentativo in tal senso.

[90] Cass. Civ., Sez. I, 26/08/2004 n. 16999, in Le Società, 2005, pag 600 e ss.

[91] Di fatto si consegnerebbe nelle mani della minoranza la individuazione dell’interesse sociale. Ma non sono mancate pronunce giurisprudenziali volte a riconoscere l’annullamento della deliberazione negativa e la ragione di tale tendenza, seppur rimasta minoritaria e mai avvallata dalla Corte di Cassazione, va ricercata nel tentativo di impedire che la maggioranza in conflitto riesca a impedire delibere vantaggiose.

[92]Chiaramente, gli abusi deliberativi possono essere posti in essere anche dalla minoranza qualora questa, in violazione dei principi di correttezza e buona fede, decida di fare ostruzionismo (per es. boicottando l’assemblea, impedendo così la formazione del quorum costitutivi e deliberativi, cd. minoranza di bloccaggio) al solo scopo di danneggiare la maggioranza, ma è chiaro che statisticamente tale ipotesi è decisamente poco frequente. Per un approfondimento v. “L’abuso della minoranza. Potere, responsabilità e danno nell’esercizio del voto”, A. Nuzzo, Giappichelli, 2003 e “L’abuso del diritto: la chicane della del socio di minoranza”, A. Martines in CI, 1998, 27.

[93] Essendo il conflitto considerato la forma più grave di abuso, l’ordinamento ne formula una autonoma rilevanza in termini di violazione di legge (e non “soltanto” di principio).

[94] Cd. Neutralità dell’interesse sociale, cioè la delibera non lo danneggia.

[95] Cass. Civ., Sez. I, 12/12/2005, n.27387, Cass. Civ., Sez. I, 17/07/2017, n. 15942.

[96] Un problema su tutti stava, per esempio, nella difficoltà di applicare i principi di buona fede e correttezza alle società unipersonali ma anche nella difficoltà adottare un modello di s.p.a. statico, vincolato al contratto sociale e agli interessi ivi consacrati. Si è molto auspicato per l’introduzione di una norma espressa di sanzionamento dell’abuso di maggioranza, ma attualmente tale richiesta non ha avuto seguito in ambito legislativo.

[97] Le sentenze Cass. Civ., Sez. I, 17/07/2007, n. 15952 e n. 15950 sono in tal senso emblematiche. Nella prima la Suprema Corte, statuisce che “in applicazione al principio di buona fede e correttezza al quale deve essere improntata l’esecuzione del contratto di società, la c.d. regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il proprio voto per il perseguimento di un proprio interesse, fino al limite dell’altrui potenziale danno (…) L’abuso della regola di maggioranza è, quindi, causa di annullamento delle delibere assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, per essere il voto ispirato al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico a quello sociale o per essere il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei medesimi soci diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli”. Nella seconda “La delibera assembleare è invalida per abuso della regola di maggioranza quando il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci ovvero, risulta, in concreto, preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. La clausola generale, (…) ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., impone un vincolo alla maggioranza e svolge una funzione integrativa del contratto sociale.

[98] Il dibattito è molto ampio e abbraccia il tema della responsabilità sociale nel governo dell’impresa e del quale tratteremo nel prossimo paragrafo.

[99] Trib. Roma, 21/07/2015, n. 15923.

[100] Per un’ampia disamina della casistica in tema di abuso della regola della maggioranza si veda E. La Marca, “L’abuso di potere nelle deliberazioni assembleari”, Milano, 2004, pag.151 e ss..

[101] Trib. Monza, 20 febbraio 1998, in Società, 1998, 1314; Cass., Civ. I, 1177/51, in Giur. it., 1951, I, 1, pag.535.

[102] Ovviamente questo implica la costituzione di altra società.

[103] Sarà dunque esperibile per i soci di minoranza la impugnativa ex art. 2373 c.c.

[104] M.Cirenei, op.cit., pag 808.

 

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