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Pubbl. Mer, 6 Nov 2019

Il diritto alla vita del feto nascente

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Federica Scordino


In tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell´inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell´autonomia del feto, coincidendo quindi con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina.


Sommario: 1. Legge 194/78: prevalenza della vita della donna su quella del feto; 2.Differenze tra l’aborto colposo, l'omicidio e l'infanticidio; 3. Sentenza n°27539/2019; 4. Cassazione: il termine “feto” non deve creare confusione, le fattispecie di omicidio ed infanticidio tutelano lo stesso bene giuridico.

1. Legge 194/78: prevalenza della vita della donna su quella del feto. 

La legge 194/1978[1] è stata il frutto di dibattiti storici su un tema che ancora oggi lascia perplessi: l’aborto. Il testo normativo ha come filo conduttore il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione, tematiche che hanno reso l’aborto, in determinate condizioni, legale. Infatti, fino alla metà degli anni ’70, l’aborto in Italia era considerato una pratica illegale e perciò perseguibile penalmente.

Già la Consulta con la sentenza n° 27 del 1975[2], dopo avere riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela del concepito nell’art. 2 Cost[3]. consentiva la soppressione del feto quando la gravidanza implicasse danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della donna, sancendo così implicitamente il principio poi ripreso dalla successiva legge n° 194/1978, della prevalenza della vita della donna su quella del feto.

Prima del ’78, la disciplina penale, considerava l’aborto volontario come un reato grave tanto che erano previste sanzioni piuttosto severe nel Codice penale. Si possono in particolar modo ricordare alcuni articoli tra cui 545[4], 546[5], 547[6], 548[7], 549[8] e 550[9] poi abrogati con la legge 194/1978. Quest’ultima fu sottoposta a referendum nel maggio del 1981 attraverso il quale gli elettori italiani confermarono il testo della legge: infatti furono due gli orientamenti politici che cercarono di modificare il testo normativo (uno chiedeva l’abrogazione di alcune norme per rendere più libero l’aborto; l’altro invece intendeva restringere i casi di liceità dell’interruzione volontaria di gravidanza); ma nessuno dei due riuscì a raggiungere il proprio scopo. Un obiettivo della legge è stato sicuramente quello di evitare gli aborti definibili “clandestini”, cioè i casi in cui le donne si sottoponevano alle pratiche di “ostetriche-ginecologhe non professioniste” che operando in condizioni igieniche inadeguate sottoponevano la donna a rischi per la sua vita elevatissimi.

La legge n°194 ha dunque rappresentato il primo passo verso una visione più moderna, consentendo l’interruzione della gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione nei casi in cui la sua prosecuzione costituisse gravi rischi per la salute psico-fisica della donna. La stessa legge nel 1° articolo ribadisce che “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”.

Da questo primo articolo può dedursi come l’interruzione volontaria della gravidanza è connotata dalla legge non come diritto esclusivo della madre, ma come una scelta capace di incidere sulla società circostante. Tutto ciò funge da ratio alle limitazioni imposte dalla legge per l’aborto, per cui nell’eventualità che queste non vengano rispettate, l’interruzione di gravidanza sarà perseguibile penalmente ai sensi dell’art. 19[10] della stessa legge.

Quest’ultimo articolo stabilisce al 1° comma che “chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5[11] e 8[12], è punito con la reclusione sino a tre anni”. Gli articoli 5 e 8 fanno rispettivamente riferimento agli obblighi ricadenti sul consultorio e sulla struttura sociosanitaria affinché effettuino tutti i controlli necessari sulla donna e l’aiutino a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza; ed inoltre vengono specificati medici e strutture che sono legalmente considerati idonei ad effettuare l’interruzione di gravidanza.

2. Differenze tra l’aborto colposo, l’infanticidio e l’omicidio.

Fin dalla prima lettura risulta ben chiara la distinzione tra l’art.19 della legge 194 e l’art. 578 c.p. [13] Se il primo articolo descrive una fattispecie che, nonostante sia percepita negativamente, nel pieno rispetto delle condizioni descritte dal legislatore, risulti essere legale; l’art. 578 c.p. descrive una fattispecie di reato per la quale non sono previste condizioni che possano renderla lecita. Si tratta di un reato proprio in quanto può essere commesso solo dalla madre. Il 2°comma prevede l’ipotesi di concorso, secondo il quale ai concorrenti verrebbe applicata la sanzione penale prevista dall’art. 575 c.p. [14] (reato di omicidio), a coloro che agiscono per favorire la madre si applica lo stesso art. 578 c.p.

Una principale differenza tra le due fattispecie riguarda il momento in cui l’azione è compiuta: è elemento fondamentale che nell’ipotesi dell’art. 578 c.p., il fatto sia compiuto immediatamente dopo il parto, momento coincidente con la fase di perturbamento psichico della madre. La legge 194, invece, richiama la fase anteriore al parto e cioè quella della gestazione con diversi riferimenti cronologici indicati negli articoli 4 e 6 che rispettivamente prevedono le ipotesi, con le rispettive indicazioni e limitazioni, dell’interruzione di gravidanza entro i primi 90 giorni e dopo.

Il requisito cronologico sarà elemento di distinzione evidenziato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n° 27539/2019[15], nella quale è attenzionato il momento di acquisizione di autonomia del feto attraverso il quale quest’ultimo rientra perfettamente nella categoria di “uomo” non essendo più tutelato dalle norme di procurato aborto ma da quelle che prevedono la fattispecie di omicidio. Anche il fatto o la ragione che può determinare l’azione cambia nelle due fattispecie. La prima infatti (art. 578 c.p.) fa riferimento a “condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto”, comprendendo sia l’ipotesi di una situazione economica deficitaria, sia l’assenza di qualsiasi assistenza pubblica o privata.

La stessa Corte nella sentenza n°27539/2019 ha in primis escluso ogni valenza al prospettato paragone del caso di specie con l’art. 578 c.p. il quale, per le ragioni esposte, si ricollega ad una situazione particolare. La seconda (legge 194/1978) prevede, nell’ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90 giorni, la condizione che la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.

Nel termine superiore ai 90 giorni, l’aborto può essere praticato soltanto in due casi tassativamente elencati nell’art. 6[16]: quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La legge 194/1978 prevede poi l’ipotesi di interruzione colposa della gravidanza al 1° comma dell’art. 17[17]

Infatti, gli articoli 17-20 sanzionano i reati di così detto “procurato aborto”. Sono questi gli articoli che trovano applicazione ogni qual volta l’aborto si può considerare reato e cioè quando non vengono rispettate le indicazioni e le limitazioni espresse tassativamente dal legislatore. Le differenze tra queste singole fattispecie hanno costituito una parte fondamentale della motivazione esposta dalla Corte di Cassazione, quarta sezione penale, nella sentenza n°27539/2019, nella quale il ricorso viene considerato infondato.

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale il criterio distintivo tra le fattispecie di aborto e omicidio, si individua nell’inizio del travaglio e dunque, nel raggiungimento dell’autonomia del feto coincidendo con la transizione della vita intrauterina e quella extrauterina, ciò vuol dire che l’inizio del travaglio coincide con il momento in cui il feto rientra perfettamente nel concetto di uomo.  È stato infatti preferito tale criterio ai fini della identificazione del minimum temporale della previsione normativa di omicidio, abbandonando quello inizialmente indicato del momento del distacco del feto dall’utero materno, che non offriva riferimenti temporali sufficientemente precisi.

3. Sentenza n°27539/2019.

 Il caso in esame riguarda la responsabilità colposa di un’ostetrica sulla quale, già il Tribunale aveva riscontrato gravi profili di colpa professionale per negligenza ed imperizia, in quanto addetta all’assistenza della partoriente e al controllo delle fasi di travaglio, le era stato addebitato il mancato espletamento dei necessari monitoraggi cardiotocografici soprattutto durante la fase di trasferimento della paziente in sala parto.

La Corte di merito aveva escluso ogni possibilità di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in quanto risultava che la stessa infermiera fosse consapevole del risultato della propria negligenza: infatti, immediatamente dopo al parto, avrebbe riferito lei stessa che il bambino era vivo e di aver controllato personalmente il battito cardiaco. I tracciati eseguiti mostravano chiare anomalie in quanto non registravano contrazioni uterine, che sicuramente erano presenti, ciò non può essere ricondotto ad un cattivo funzionamento degli apparecchi, che non solo erano diversi tra loro, ma inoltre, nel caso di mancato funzionamento, non avrebbero rilevato il battito fetale. Se l’ostetrica, con la diligenza professionale richiesta, avesse effettuato una corretta rilevazione del battito cardiaco fetale, con una tempestiva diagnosi, il ginecologo sarebbe potuto intervenire evitando l’esito letale del feto. Omettendo l’ostetrica il monitoraggio fetale non aveva consentito di rilevare la sofferenza del feto, la quale ha condotto quest’ultimo alla morte per asfissia perinatale.

Ad avviso della Corte Salernitana l’ostetrica, avendo preso in carico la gestione del travaglio della paziente, avrebbe dovuto monitorare la paziente continuamente, assicurandosi con l’esecuzione corretta e ripetuta dei CTG dell’andamento delle contrazioni e della stabilità del benessere del feto. Per questo l’ostetrica versava in ipotesi di colpa per violazione di norme precauzionali, potendosi escludere nel caso di specie il così detto “principio di affidamento” su altri che potevano assumere la posizione di garanzia. La posizione di garanzia rivestita dall’ostetrica, inoltre, è ricavabile dallo statuto regolamentare della sua figura professionale.

La Corte ha inoltre confermato quanto già esposto in secondo grado di giurisdizione: e cioè ha escluso la possibilità per la ricorrente di sindacare la decisione del Tribunale della condanna pari ad un anno e nove mesi. Infatti, spiega la Corte, la scelta di quantificazione della pena all’interno del compasso edittale è un potere discrezionale del giudice che tuttalpiù lo stesso ha ben motivato; il sindacato di legittimità sussiste solo quando la quantificazione costituisce il frutto di mero arbitrio e di ragionamento illogico, fattispecie che non ricorre nel caso di specie, laddove la commisurazione della pena è stata correttamente giustificata in riferimento alla complessiva negativa valutazione della vicenda criminosa e della personalità dell’imputata.

La ricorrente ha inoltre sollevato un’errata qualificazione giuridica della fattispecie sostenendo che la stessa non poteva rientrare nell’ipotesi di reato di cui all’art. 589 c.p.[18] ma nell’art. 17 della legge 194/1978 (reato che tuttalpiù prevede un compasso edittale notevolmente più ridotto), in quanto la nascita del feto, e dunque la possibile applicazione dell’art. 589 c.p., si realizza esclusivamente con la fuoriuscita del feto dall’alveo materno e col compimento di un atto respiratorio, accertabile con la docimasia polmonare. Al momento dell’estrazione del feto dall’utero, quest’ultimo era già senza vita, per cui ad avviso della ricorrente, il reato doveva essere qualificato come aborto colposo e non come omicidio colposo. 

4. Cassazione: il termine “feto” non deve creare confusione, le fattispecie di omicidio ed infanticidio tutelano lo stesso bene giuridico.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso chiarendo che i reati di omicidio e infanticidio tutelano lo stesso bene giuridico, cioè la vita dell’uomo nella sua interezza. Ciò si desume anche dalla terminologia adoperata dall’art. 578 c.p. “cagiona la morte”, identica a quella adottata per il reato di omicidio, in quanto si può evidentemente cagionare la morte solo ad un essere vivo. Il legislatore, quindi, ha riconosciuto anche al feto la qualità di uomo vero e proprio, giacché la morte è l’opposto della vita.

Ad avviso della Corte, non deve inoltre confondere l’utilizzo del termine feto nell’art. 578 c.p. poiché il nascente vivo non è più feto, né in senso biologico, né in senso giuridico, bensì persona. Ciò spiega sicuramente il rigetto da parte della Corte della tesi difensiva secondo la quale includere il feto nel concetto di uomo rappresenterebbe un’analogia in malam partem.

La Corte, a tal proposito ha ribadito che è impossibile riscontrare profili di incostituzionalità in questo quadro normativo che ha avuto, invece, come obiettivo quello di incrementare la tutela dell’uomo come persona, anche in conformità al diritto internazionale, ampliando la nozione di soggetto meritevole di tutela fino a ricomprendere l’embrione. Questo ampliamento avrebbe inoltre evitato il rischio di vuoti normativi, poiché stando alla fattispecie di aborto, il feto sarebbe stato assurdamente tutelato, contro i fatti lesivi della vita individuale, solo nell’ipotesi di morte cagionata nelle predette condizioni di abbandono morale e materiale connesse al parto, con la conseguenza che in tutti i casi di morte del feto non legata a tali condizioni ci si verrebbe a trovare in situazioni ambigue in cui non risulterebbe applicabile né la fattispecie di aborto e neanche quella di omicidio. Così l’individuazione del momento in cui il feto assume la qualifica di uomo a tutti gli effetti, non è soltanto il criterio di distinzione tra due fattispecie penali, ma diviene un requisito che incorpora la tipicità della fattispecie in modo tale che chiunque possa percepire il momento in cui, una volta compiuta una certa azione, questa verrebbe poi punita in qualità di omicidio. Quindi l’aver inserito il feto, in un certo momento (inizio del travaglio), nella qualifica di uomo, non soltanto ha permesso alla Corte di precisare il significato stesso della parola, ma ha consentito al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo della fattispecie penale.

Dunque, in caso di parto che si concluda con la morte del prodotto del concepimento, l’illecito sarà omicidio o procurato aborto a seconda che il nascente abbia goduto di vita autonoma o meno. Volendo così semplificare la decisione della Corte, il feto raggiunge l’autonomia all’inizio del travaglio, momento che distingue l’aborto dall’omicidio. Infatti, il feto che nasce, dopo la rottura del sacco amniotico è una persona e come tale se l’ostetrica ne procura la morte per asfissia perinatale non è “aborto colposo”, ma omicidio colposo. In conclusione, il feto durante il travaglio rientra dunque nel concetto di “uomo”. Qualora la condotta criminosa sia realizzata dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall’utero materno e qualora non sussistano le specifiche condizioni previste dall’art. 578 c.p. il fatto configura il reato di omicidio di cui all’art. 589 c.p. Soltanto prima di tale limite temporale la vita del feto è tutelata da reato di procurato aborto.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Legge n°194/1978: prima legge italiana che ha depenalizzato e disciplinato l’aborto.

[2] Sentenza n°27/1975: ha avuto ad oggetto la questione di costituzionalità dell’art. 546 c.p. nella parte in cui puniva chi cagionasse l’aborto di una donna consenziente anche nel caso in cui fosse stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico e psichico della gestante, senza che ricorressero gli estremi della necessità.

[3] Art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

[4] Art. 545 c.p. (abrogato): “Chiunque cagiona l’aborto di una donna, senza il consenso di lei, è punito con la reclusione da sette a dodici anni”.

[5] Art. 546 c.p. (abrogato): “Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni”.

[6] Art. 547 c.p. (abrogato): “La donna che si procura l’aborto è punita con la reclusione da uno a quattro anni”.

[7] Art. 548 c.p. (abrogato): “Chiunque fuori dai casi di concorso nel reato preveduto dall’articolo precedente, istiga una donna incinta ad abortire, somministrandole mezzi idonei, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.

[8] Art. 549 c.p. (abrogato): “Se dal fatto preveduto dall’articolo 545 deriva la morte della donna, si applica la reclusione da dodici a venti anni; se deriva una lesione personale, si applica la reclusione da dieci a quindici anni. Se dal fatto preveduto dall’articolo 546 deriva la morte della donna, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni; se deriva una lesione personale, è della reclusione da tre a otto anni”.

[9] Art. 550 c.p. (abrogato): “Chiunque somministra a una donna creduta incinta mezzi diretti a procurarle l’aborto, o comunque commette su di lei atti diretti a questo scopo, soggiace, se dal fatto deriva una lesione personale o la morte della donna, alle pene rispettivamente stabilite dagli articoli 582, 583 e 584. Qualora il fatto sia commesso col consenso della donna, la pena è diminuita”.

[10] Art. 19, legge 194/78: “Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni. La donna è punita con la multa fino a lire centomila. Se l’interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6 o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi. Quando l’interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l’osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile. Se dai fatti previsti dai commi precedenti deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita. Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma”.

[11] Art. 5, legge 194/78: “Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. Quando la donna si rivolge al medico di sua fiducia questi compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell’esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie. Quando il medico del consultorio o della struttura sociosanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza. Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell’incontro il medico del consultorio o della struttura sociosanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all’articolo 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate”.

[12] Art. 8, legge 194/78: “L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell’articolo 20 della legge 12 febbraio 1968, numero 132, il quale verifica anche l’inesistenza di controindicazioni sanitarie. Gli interventi possono essere altresì praticati presso gli ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti di cui all’articolo 1, penultimo comma, della legge 12 febbraio 1968, n. 132, e le istituzioni di cui alla legge 26 novembre 1973, numero 817, ed al decreto del Presidente della Repubblica 18 giugno 1958, n. 754, sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta. Nei primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza può essere praticata anche presso case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico-ginecologici. Il Ministro della sanità con suo decreto limiterà la facoltà delle case di cura autorizzate, a praticare gli interventi di interruzione della gravidanza, stabilendo: 1) la percentuale degli interventi di interruzione della gravidanza che potranno avere luogo, in rapporto al totale degli interventi operatori eseguiti nell’anno precedente presso la stessa casa di cura; 2) la percentuale dei giorni di degenza consentiti per gli interventi di interruzione della gravidanza, rispetto al totale dei giorni di degenza che nell’anno precedente si sono avuti in relazione alle convenzioni con la regione. Le percentuali di cui ai punti 1) e 2) dovranno essere non inferiori al 20 per cento e uguali per tutte le case di cura. Le case di cura potranno scegliere il criterio al quale attenersi, fra i due sopra fissati. Nei primi novanta giorni gli interventi di interruzione della gravidanza dovranno altresì poter essere effettuati, dopo la costituzione delle unità sociosanitarie locali, presso poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati, funzionalmente collegati agli ospedali ed autorizzati dalla regione. Il certificato rilasciato ai sensi del terzo comma dell’articolo 5 e, alla scadenza dei sette giorni, il documento consegnato alla donna ai sensi del quarto comma dello stesso articolo costituiscono titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento e, se necessario, il ricovero”.

[13] Art. 578 c.p.: “La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni”.

[14] Art. 575 c.p.: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”.

[15] Sentenza n°27539/2019: strumento mediante il quale la Corte di Cassazione ha stabilito che il feto, anche se ancora nell’utero, una volta iniziato il travaglio deve essere considerato una persona.

[16] Art. 6, legge 194/78: “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.

[17] Art. 17, legge 194/78: “Chiunque cagiona ad una donna per colpa l’interruzione della gravidanza è punito con la reclusione da tre mesi a due anni. Chiunque cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro è punito con la pena prevista dal comma precedente, diminuita fino alla metà. Nei casi previsti dai commi precedenti, se il fatto è commesso con la violazione delle norme poste a tutela del lavoro la pena è aumentata”.

[18] Art. 589 c.p.: “Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni. Se il fatto è commesso nell'esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un'arte sanitaria, la pena è della reclusione da tre a dieci anni.

[Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:

1.       1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;

2.       2) soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici.