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Pubbl. Lun, 14 Ott 2019

Suicidio assistito: il decisum della Consulta

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Eleonora Zizzo


Con sentenza del 25.09.2019 n. 214, la Corte Costituzionale è nuovamente e definitivamente intervenuta sull´annosa vicenda ”Cappato”, stabilendo che chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile” può non essere punibile a determinate condizioni.


Sommario: 1. Premessa; 2. La cd. scriminante medica; 3. Da Welby a Dj Fabo: il dissenso quale elemento dell’art. 51 c.p.; 4. Tra inerzia dello Stato italiano e decisum della Corte Costituzionale.

1. Premessa

L’esercizio dell’attività medico – chirurgica provoca sempre una qualche forma di alterazione anatomica o funzionale dell’organismo[1], pertanto si pone la necessità di ricostruire una giustificazione logico – giuridica che valga a rendere lecita entro certi limiti la condotta del sanitario[2]. Ruolo decisivo assumono i principi costituzionali del diritto alla salute, i doveri di solidarietà, l’inviolabilità della libertà personale e il progresso della medicina. In particolare dal primo si fa tradizionalmente discendere la valenza decisiva del consenso del paziente che, secondo l’ormai dottrina prevalente, in campo medico integra requisito essenziale della scriminante dell’esercizio del diritto.

2. La cd. scriminante medica

La concezione, dunque, dell’attività medica come autorizzata, quale esercizio di una facoltà legittima[3], pare finalmente essere stata consacrata ed accolta nel nostro ordinamento giuridico dalla L. 219/2017[4]. Nel quadro di collaborazione terapeutica tra medico e paziente, di fondamentale importanza, per quanto di interesse in questa sede, appaiono gli artt. 5 e 6: si afferma che ogni persona capace di agire ha diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o terapeutico ed ha il diritto di revocare in qualunque momento il consenso in precedenza prestato ovvero di interrompere il trattamento; specificatamente, sono da considerarsi “trattamenti sanitari” anche la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Il medico deve attenersi alla volontà espressa del paziente andando incontro ad una “esenzione” da responsabilità civile o penale. La legge cristallizza e ribadisce la centralità del consenso rilevante quale atto di volontà, frutto di una consapevole e ponderata manifestazione di libertà individuale che si caratterizza come personale, esplicito, specifico, libero, attuale, informato e consapevole.

Il tema si intreccia strettamente con le complesse questioni concernenti la legittimità delle pratiche di eutanasia, in relazione alle quali giova preliminarmente distinguere tra eutanasia cd. attiva ed eutanasia cd. passiva: alla prima generalmente vengono ricondotte le pratiche di soppressione, motivate da sentimenti di pietà, della vita di un individuo gravemente malato, realizzata attraverso comportamenti positivi; alla seconda si riconducono tradizionalmente le omissioni delle terapie essenziali per il mantenimento in vita del paziente, con conseguente decorso “naturale” della malattia sino all’evento – morte. Si tratta, invero, di una distinzione rilevante, ammettendo il nostro ordinamento il rifiuto o le interruzioni delle cure, anche quando da esso scaturisca la morte del paziente, ma non certamente le pratiche di eutanasia cd. “attiva”.

3. Da Welby a Dj Fabo: il dissenso quale elemento dell’art. 51 c.p..

Ictu oculi, viene in rilievo il caso di Piergiorgio Welby: affetto da anni da un gravissimo stato morboso degenerativo, a causa del decorso della malattia, non poteva più effettuare alcun movimento ad eccezione di quelli oculari e labiali, tanto che la sua permanenza in vita era invero garantita da un respiratore automatico; all’epoca, si riteneva che i trattamenti sanitari praticabili non potessero comunque arrestare l’evoluzione della malattia, ma restava in grado di esprimere una volontà pienamente informata e consapevole quanto all’accettazione o al rifiuto dei trattamenti praticati; dunque, all’esito di una completa ed esaustiva informazione sul suo stato di malattia, aveva espresso la richiesta di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto e di voler ricevere assistenza al sol fine di lenire le sofferenze fisiche, ossia il distacco del ventilatore polmonare sotto sedazione.

Giunto il rifiuto opposto dalla struttura sanitaria ad assecondarlo, Welby propone ricorso al Tribunale di Roma che conclude per la non azionabilità del diritto e per l’inammissibilità del rimedio proposto. Contattato un nuovo sanitario, lo stesso dà, invece, esecuzione alle sue volontà, seguita dal decesso del paziente. Il G.U.P di Roma, a seguito di imputazione coatta nei confronti del medico in relazione alla fattispecie di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p., dichiarava il non luogo a procedere.

In sintesi, il medico che asseconda la volontà manifestata dal paziente, contrario alla sottoposizione a cure di cd. sostegno vitale, fruisce della causa di giustificazione ex art. 51 c.p.: punto di partenza è l’inquadramento costituzionale del “diritto alla persona di rifiutare le terapie mediche” che, avendo base giuridica nell’art. 32, co 2. Cost., è inquadrato tra quelli inviolabili della persona e correlato al principio della libertà personale ex art. 13 Cost..

Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l’esercizio, con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere contribuisse a determinare la morte del paziente per l’interruzione della terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall’art. 51 c.p.. 

In secondo luogo merita di essere richiamata la vicenda di dj Fabo. Fabiano Antoniani, coinvolto in un incidente stradale, rimaneva tetraplegico e affetto da cecità bilaterale permanente, non autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione. Costretto a letto la malattia gli procurava frequentemente contrazioni e spasmi, incoercibili e causativi di sofferenze non lenibili con i farmaci; decideva quindi, in autonomia di porre termine alla propria esistenza chiedendo di essere “lasciato morire”; tramite la fidanzata, contattava alcune Strutture svizzere per attivare l’iter per l’assistenza al suicidio e contestualmente entrava in contatto con Marco Cappato, esponente dell’associazione “Luca Coscioni” il quale, in particolare, gli esponeva la possibilità di essere sottoposto in Italia alla sedazione profonda con interruzione dell’alimentazione e della respirazione artificiali, ovvero di recarsi in Svizzera per porre fine alla propria vita appunto attraverso il suicidio assistito, offrendosi in tal caso di accompagnarlo.

Una volta ottenuta l’autorizzazione dalla Struttura a recarsi in Svizzera e fissata la data, Fabo ribadiva a più riprese la propria volontà di morire così, Cappato, alla guida di un’auto attrezzata lo accompagnava in Svizzera.

Il dj accolto dal personale sanitario e ribadita nuovamente la volontà di procedere con il suicidio assistito, ingeriva il farmaco letale che ne provocava il decesso.

Rinviato a giudizio a seguito di imputazione coatta formulata dal G.i.p presso il Tribunale di Milano, a Cappato viene contestato ex art. 580 c.p. di aver rafforzato il proposito suicidario di Fabiano Antoniani e di aver agevolato materialmente il suicidio stesso, avendolo trasportato in auto da Milano a Zurigo[5].

Mentre nel caso Welby si è discusso della prevalenza sull’indisponibilità del bene vita di un diritto a lasciarsi morire, nel caso Fabo si discute del rapporto tra l’indisponibilità del bene vita e il diritto di decidere tempi e mezzi della propria morte senza che questa passi per interruzione di un processo terapeutico in atto, ma al contrario di una morte che realizza una condotta suicidaria.

Anzitutto, la Corte d’Assise di Milano riduce gli addebiti a Cappato escludendo la prima delle due ipotesi di cui all’art. 580 c.p., quella cioè di rafforzamento del proposito suicidario sulla base della lettura del fatto che, come emerso processualmente, questo proposito in Fabo fosse ormai autonomamente esistente ed anzi il Cappato gli avrebbe prospettato la doppia possibilità o di ottenere in Italia il distacco dalla strumentazione che lo manteneva in vita accompagnato dall’approntamento di terapie palliative, lasciandosi dunque morire, oppure quella del suicidio assistito da realizzare altrove perché non previsto nel nostro ordinamento.

In riferimento alla seconda delle ipotesi, la Corte d’Assise di Milano solleva questione di costituzionalità in quanto, recuperando un precedente giurisprudenziale della Cassazione risalente all’89, fornisce una lettura estensiva di agevolazione secondo la quale questo aiuto al suicidio è fattispecie alternativa rispetto all’istigazione e dunque integrata da ogni condotta che sul piano causale e materiale abbia fornito un’agevolazione anche qualora posta in essere da un soggetto che in alcun modo sul piano morale abbia determinato rafforzamento del proposito.

In conclusione la Corte deduce un contrasto tra art. 580 c.p., interpretato come reato di chi agevola materialmente altri a portare avanti un proposito suicidario autonomamente e consapevolmente deliberato, con gli artt. 2, 8, 13, 32, 117 Cost. perché dall’ordinamento costituzionale, così come interpretato anche dalla giurisprudenza penale italiana in casi pregressi, si deduce che l’art. 580 c.p. muove dall’assunto secondo cui il suicidio è un disvalore, essendo il nostro, un ordinamento improntato al bene dell’indisponibilità della vita di cui nemmeno il soggetto titolare può disporre.

Tale assunto, però, pare ormai contraddetto dall’interpretazione che i giudici europei stanno dando di alcuni parametri CEDU ed in particolare degli artt. 2 e 8: sul primo versante si sostiene che l’indisponibilità della vita entra in rotta di collisione con la libertà personale che implica libertà da ogni interferenza altrui e che nel campo medico si concretizza nell’assoluta libertà di autodeterminazione terapeutica sicché ogni volta che il proposito suicidario sia espressione di questo diritto non può incriminarsi l’aiuto che altri abbia materialmente dato; sul secondo versante la giurisprudenza CEDU sostiene ormai pacifico il diritto di ciascuno a decidere tempi e mezzi di conclusione della propria vita.

 4. Tra inerzia dello Stato italiano e decisum della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, dal canto suo, non accoglie la questione di legittimità costituzionale così come formulata nella sua interezza altrimenti avrebbe dovuto dichiarare l'illegittimità dell’art. 580 c.p. così come interpretato, ma sostiene vi sia ancora oggi un fondamento costituzionale dell'aiuto al suicidio perché, è vero che il principio di indisponibilità della vita si è evoluto a tal punto da non essere più reputato assoluto, ma è vero anche che la ratio dell'art. 580 c.p. è quello di tutelare il diritto alla vita soprattutto delle persone più deboli e più vulnerabili, psicologicamente fragili, vietando ad altri di agevolare la realizzazione del proposito suicidario.

In verità, la Corte ritaglia un ambito soggettivo con riferimento al quale soltanto ritiene il contrasto della art. 580 c.p. con alcuni principi come nel caso di soggetti affetti da patologie irreversibili, fonti di intollerabili sofferenze, tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale, capaci di prendere decisioni liberi e consapevoli, soggetti per i quali, insomma,  l'assistenza di terzi nel porre fine alla vita è l'unica via d'uscita per sottrarsi a una mantenimento artificiale in vita non più voluto.

Definito l'ambito, la Corte riconosce che già da Welby per tali soggetti prevale sull’ indisponibilità della vita il diritto a lasciarsi morire, ma ciò che non è consentito al paziente è di seguire una via d'uscita diversa. Tuttavia, se il rilievo fondamentale della vita non esclude nel nostro ordinamento l'obbligo di rispettare la decisione del malato di interrompere i trattamenti di sostegno vitale, non c'è ragione per la quale il medesimo valore dell’ indisponibilità della vita debba essere uno stato assoluto penalmente presidiato dall’ art. 580 c.p. all'accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo ad un decorso più lento e doloroso fino all'evento morte.

A fronte di quanto detto la Corte ritiene di fatto l'incostituzionalità ma non la dichiara rilevando l'esistenza di uno spazio di discrezionalità legislativa nel disciplinare il suicidio assistito. La Corte si pone, inoltre, il problema di tutti gli altri processi pendenti in attesa che decorra il termine perentoriamente fissato al 24 settembre 2019: il giudice dovrà fondamentalmente sollevare questione di legittimità costituzionale[6].

Data l’inerzia del legislatore, la Corte è nuovamente intervenuta in materia stabilendo chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” può non essere punibile a certe condizioni, per evitare abusi: la piena consapevolezza del malato, il rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua, la verifica di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale e infine il parere del comitato etico territorialmente competente”.[7].

La Consulta comunque chiede ancora una legge, indispensabile a questo punto, ma la avvia per la prima volta sui binari che fin qui nessun parlamento e nessun governo era riuscito a costruire.

Note e riferimenti bibliografici

[1] F. Grispigni, “La liceità giuridico – penale del trattamento medico – chirurgico”, in Riv. dir. proc. pen., 1914; F. Grispigni, “La responsabilità penale per il trattamento medico – chirurgico arbitrario”, in Sc. pos., 1914; B. Petrocelli, “Il consenso del paziente nell’attività medico – chirurgica”, in Annali, 1932; A. Crespi, “La responsabilità penale nel trattamento medico – chirurgico con esito infausto, Priulla, 1955; A. Vassalli, “ Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico – chirurgico”, in Arch. pen., 1973; R. Riz, “Il consenso dell’avente diritto”, CEDAM, 1979; A. Manna, “ Profili penalistici del trattamento medico - chirurgico”, Giuffrè, 1984; G. Iadecola, “La rilevanza del consenso del paziente nel trattamento medico – chirurgico, in Riv. di medicina legale, 1986; S. Del Corso, “Il consenso del paziente nell’attività medico – chirurgica”, in Riv. it, 1987.

[2] A. Vallini, “ Trattamento medico e consenso informato del paziente”, in Libro dell’anno del diritto, 2012.

[3] F. Mantovani, “Diritto Penale. Parte generale”, CEDAM, 2017.

[4] C. Cupelli, “Libertà di autodeterminazione e disposizioni anticipate di trattamento: i risvolti penalistici”, in Dir. pen. cont., 2017.

[5] R. Garofoli, “Manuale di diritto penale. Parte generale”, Nel diritto, 2018.

[6] Corte Cost., 24/10/2018, ord. n. 207.

[7] Corte Cost., 25/09/2019, n. 214.