ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Ven, 4 Ott 2019

Il potere discrezionale e la sua consumazione

Modifica pagina

Giovanni Maria Sacchi
Magistrato OrdinarioUniversità degli Studi di Napoli Federico II


Con la Sentenza 1321 del 25.02.2019 il Consiglio di Stato interviene sul delicato equilibrio esistente fra la limitata sindacabilità della discrezionalità tecnica ed il principio di effettività della tutela giurisdizionale, compiendo un innovativo passo in avanti verso questa seconda esigenza nel caso in cui si verifichi un susseguirsi di giudicati


Sommario: 1. Il fatto e la decisione del Consiglio di Stato 2. Le critiche della dottrina 3. Il sindacato sulla discrezionalità tecnica 4. Il giudicato amministrativo e la discrezionalità “esaurita” 5. Conclusioni: nuove prospettive all’orizzonte.

1. Il fatto 

La decisione in commento trae origine da una vicenda estremamente lunga e complessa che vede come protagonista una Professoressa associata, la quale era portatrice di un interesse legittimo al conseguimento della Abilitazione Scientifica Nazionale per esercitare le funzioni di docente universitario di prima fascia. Nel 2014 la Professoressa riceveva dalla Commissione scientifica un giudizio negativo che provvedeva tempestivamente ad impugnare mediante ricorso al TAR Lazio, sostenendo la contraddittorietà del diniego dell’abilitazione (espressione di scelta, e quindi di discrezionalità amministrativa pura) rispetto ai giudizi formulati dalla Commissione sul livello raggiunto dalla docente (espressione di discrezionalità tecnica), sintetizzati nelle espressioni “buono” e “accettabile”.

Con una prima Sentenza il Tar Lazio accoglieva il ricorso condannando il Ministero, ex art. 34, co.1, c.p.a., a nominare una nuova Commissione, in diversa composizione, che avrebbe dovuto formulare una nuova valutazione sulla base di quegli stessi parametri di giudizio.

La Commissione nuovamente formata nel 2017 dal MIUR formulava un diverso giudizio, parimenti negativo, che veniva anche questo impugnato dinanzi al TAR Lazio. Quest’ultimo accoglieva il ricorso evidenziando che la Commissione, lungi dal formulare una rivalutazione della posizione della docente sulla base degli stesi criteri di giudizio, aveva introdotto ulteriori parametri di valutazione quantitativamente diversi rispetto a quelli che erano stati fissati nel 2014, in violazione dell’art. 3, co.3, del D.M. 76/2012.

Questa seconda pronuncia, diversamente dalla prima Sentenza, non prevedeva la nomina di una nuova Commissione e la Sentenza passava in giudicato. Nelle more del giudizio di ottemperanza promosso dalla Professoressa il Ministero nominava una Terza Commissione e pubblicava l’esito di una nuova valutazione, questa volta semplicemente di carattere negativo. Questo provvedimento veniva nuovamente impugnato dinanzi al TAR Lazio, che questa volta respingeva il ricorso.

In quest’ultima Sentenza il TAR affermava che il giudizio della Commissione costituiva una tipica espressione di discrezionalità tecnica, come tale sindacabile solo in caso di vizi particolarmente evidenti, come l’illogicità manifesta, la incongruenza e la palese contraddittorietà della motivazione.

In particolare, il Giudice Amministrativo riteneva che – per quanto il giudicato in precedenza formatosi potesse costituire un punto fermo in ordine ai fatti in precedenza accertati e all’effetto conformativo, dato dal dover procedere alla nomina di una nuova Commissione e ad una nuova valutazione che non doveva in alcun modo riportare i precedenti vizi macroscopici (la contraddittorietà evidenziata nel 2014 e la illogicità manifesta data dai diversi criteri di giudizio adottati nel 2017) – la valutazione della terza Commissione non poteva essere sindacata sul piano della sua intrinseca correttezza, essendo questa riservata alla sfera di discrezionalità tecnica della P.A. e come tale sindacabile solo per palesi illogicità, come quelle manifestatisi in precedenza.  

Questa decisione veniva impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, il quale, con la Sentenza 1321 del 2019 che qui si commenta, non solo ribaltava il decisum del TAR Lazio – affermando che non è dato comprendere come la medesima comunità scientifica, sia pure a mezzo di studiosi differenti, abbia potuto valutare, applicando i medesimi parametri di giudizio, in modo così divaricato le pubblicazioni dell’appellante, formulando: le prime volte i giudizi “buono” ed “accettabile”; la terza volta una valutazione di segno assolutamente negativo, con l’utilizzo del livello di classificazione “limitato” – ma, ex art. 34, co.1 c.p.a., condannava direttamente il Ministero a rilasciare la tanto agognata abilitazione alla Professoressa.

In particolare, i Giudici di Palazzo Spada hanno statuito in punto di diritto che: “il susseguirsi di una pluralità di giudicati amministrativi di annullamento di procedure di aggiudicazioni scientifiche nazionali e la nomina di altrettante Commissioni di valutazione non determina, di per sé, l’insorgere di un vizio di violazione del giudicato nel provvedimento che ulteriormente nega l’abilitazione nazionale. Tuttavia, il medesimo susseguirsi di giudicati ha l’effetto di svuotare l’amministrazione del proprio potere discrezionale”.

Per quanto il Consiglio di Stato fosse mosso dall’esigenza di rendere concreto il raggiungimento del bene della vita a cui la docente aspirava, una statuizione così innovativa non ha mancato di suscitare più di una perplessità fra i primissimi commentatori, dubbi che in questa sede proveremo a riepilogare brevemente.

2. Le critiche della dottrina

All’indomani della suddetta Sentenza del Consiglio di Stato, alcuni autori[1] ne hanno subito segnalato – occorre aggiungere, con estremo garbo – alcune criticità così sintetizzabili:

in primo luogo, è stato evidenziato che il primo motivo di appello, ovvero la violazione del giudicato, è stato respinto in considerazione del fatto che il contenuto del giudicato in questione avesse una portata piuttosto ristretta, difettando qualsivoglia statuizione sulla fondatezza della pretesa. Ciò nonostante, in accoglimento del secondo motivo di appello, ex art. 31 co.3 c.p.a. l’ambito della discrezionalità tecnica si sarebbe “progressivamente esaurito, fino a svuotarsi del tutto”. Conclusione che potrebbe apparire contraddittoria rispetto alla premessa. In effetti, lo stesso Consiglio di Stato ha rilevato che detto “auto-vincolo” dell’organo di riesame, emergente dal verbale n.2, sarebbe consistito nell’ “esaurimento dell’esito della procedura tenendo fermi i criteri e i giudizi formulati dalla prima Commissione”, ovvero un auto-vincolo avente ad oggetto criteri e giudizi, non l’esito della valutazione.

In secondo luogo, l’autore si dichiara perplesso in merito al fatto che il Consiglio di Stato “si sia calato in apprezzamenti lasciati alla discrezionalità tecnica dell’amministrazione, senza chiarire per quale ragione tecnica debbano essere preferiti i primi giudizi positivi, ancorché già annullati poiché illegittimi, piuttosto che l’ultimo negativo”. Considerando che, come si è detto, nessuna delle precedenti Sentenze era scesa nel merito della valutazione, la preferenza dei primi giudizi sembra scaturire dal semplice susseguirsi di giudicati e dinieghi amministrativi privi di una reale statuizione sulla fondatezza della pretesa.[2]

Infine, sempre secondo tale autorevole posizione, potrebbe dar luogo a perplessità la riconduzione delle commissioni giudicatrici delle procedure di abilitazione scientifica nazionale nell’ambito della medesima comunità scientifica di settore, considerando che le diverse composizioni possono esprimere un giudizio finale talvolta all’unanimità, altre volte a maggioranza dei suoi membri, sintomo della non riconducibilità di tutti gli studiosi della materia ad un unico pensiero.

Alla luce di tali riflessioni l’autore, giungendo ad ipotizzare una possibile ricorribilità in cassazione per eccesso di potere giurisdizionale, conclude che “sarebbero stati accoglibili i morivi di ricorso in appello consistenti nel difetto di motivazione del giudizio espresso dalla terza commissione: stante la contraddittorietà – intrinseca – tra la valutazione finale, unanimemente negativa, e almeno un giudizio sostanzialmente positivo. La pronuncia però non avrebbe potuto spingersi fino alle conclusioni cui è pervenuta, ossia fino all’attribuzione, ope iudicis, dell’abilitazione scientifica nazionale”.  Secondo tale dottrina, la Sesta Sezione avrebbe potuto seguire un’altra via, ovvero quella di esaltare al massimo l’effetto conformativo delle sentenze di annullamento “descrivendo dettagliatamente ogni passaggio logico della procedura e nominando un commissario ad acta che ne facesse puntuale applicazione entro termini brevissimi”.

Per certi versi le suddette conclusioni, seppur pregevolmente argomentate, non convincono del tutto. Non possiamo però in questa sede esimerci dal riepilogare brevemente alcuni punti di partenza prima di tentare di ricondurre a sistema la conclusione dei giudici di Palazzo Spada.

3. Il sindacato sulla discrezionalità tecnica

Il tema della discrezionalità tecnica costituisce un ambito in cui, per antonomasia, si contrappongono due opposte esigenze: il principio di origine illuministica di divisione dei poteri ed il principio di effettività della tutela giurisdizionale, quest'ultimo così come galvanizzato dalla giurisprudenza, anche sovranazionale, fino al punto da trovare espressa codificazione nel codice del processo amministrativo (art. 1 c.p.a.). In altri termini, da un lato vi è l’esigenza di garantire al privato il concreto raggiungimento del bene della vita cui egli aspira, dall’altro lato vi è la necessita di garantire che l’attività giurisdizionale, nel perseguire tale nobile intento, non invada spazi di gestione riservati alla P.A.

In estrema sintesi, possiamo con decisione affermare che il giudizio espressione di “discrezionalità tecnica” non è una scelta. Con esso la P.A. compie una valutazione applicando regole di carattere specialistico intrise di un inevitabile margine di opinabilità. Se mediante la spendita di una discrezionalità “pura” la P.A. compie una vera e propria scelta all’esito di un bilanciamento tra l’interesse pubblico primario e gli interessi dei singoli, con la spendita della discrezionalità tecnica la P.A. compie una attività esclusivamente valutativa, alla stregua di canoni scientifici e tecnici, che può essere servente sia ad una scelta di carattere discrezionale pura (ad in quel caso si suole parlare di discrezionalità “mista”), sia ad una attività vincolata per legge (come accade frequentemente in materia di edilizia ed urbanistica).[3]

In entrambi i casi la discrezionalità tecnica non potrà esser confusa con il merito amministrativo, ovvero con quelle valutazioni di opportunità e di convenienza precluse al giudice amministrativo, quantomeno in sede di legittimità.  

Nell’esercitare la discrezionalità tecnica la P.A. segue un preciso schema logico: 1) accertamento dei fatti; 2) contestualizzazione della norma, ovvero specificazione di concetti giuridici indeterminati; 3) confronto dei fatti con la norma contestualizzata; 4) applicazione della norma ai fini dell’adozione del provvedimento amministrativo. Di qui ci si è interrogati sul tipo di intervento e di sindacato giurisdizionale concesso al giudice per non violare il principio di divisione dei poteri, principio non espressamente affermato dalla Costituzione Italiana ma individuabile grazie ad un esame complessivo dell’assetto istituzionale così come previsto in Costituzione.

L’evoluzione giurisprudenziale a riguardo è stata lunga e complessa. In sintesi, possiamo individuare tre fasi: in un primo momento, la discrezionalità tecnica veniva identificata con il merito amministrativo e pertanto veniva ritenuta non sindacabile. Successivamente la si è identificata mediante la definizione sopra riportata, ovvero un ambito in cui la P.A. compie valutazioni discrezionali spendendo giudizi fondati su regole tecniche opinabili, senza (ancora) scegliere. Giudizi che, come tali, devono essere sindacabili.

Per lungo tempo la giurisprudenza ha affermato la possibilità di un sindacato solo “estrinseco”, ovvero afferente alla verifica della esistenza di un percorso logico razionale adeguatamente motivato. Nell’ultimo ventennio, a partire dalla nota Sentenza del Cons. St. 601/1999, si è giunti a riconoscere al giudice amministrativo la possibilità di esercitare un controllo “intrinseco debole”, ovvero di verificare la coerenza, la congruità e la non manifesta contraddittorietà delle conclusioni raggiunte dalla P.A. rispetto ai fatti accertati, con il solo limite della non sostituzione del giudice alla P.A.

Quindi, i tre punti chiave del sindacato giurisdizionale sono: 1) accertamento dei fatti 2) analisi dell’operato valutativo della P.A. 3) non sostituzione del giudice alla P.A. Il terzo punto merita, però, una ulteriore ed importante precisazione.

“Non sostituzione” del giudicante è un’espressione che non va intesa ovviamente in senso letterale, ma neanche in senso semi-letterale – ovvero impossibilità in assoluto per il giudice di ordinare alla P.A. di adottare un dato provvedimento – anche perché si giungerebbe ad un’interpretazione riduttiva che sacrificherebbe eccessivamente l’interesse del privato, oltre ad entrare in conflitto con i più recenti approdi normativi (in particolare, il codice del processo riconosce la possibilità di una azione di condanna “contestualmente ad altra azione”, ex art. 30, co.1, e 34 lett. c).

Nel senso sostanziale del termine, l’espressione “non sostituzione” esprimerebbe la necessità che il giudice non sostituisca proprie valutazioni a quelle della P.A. ove esistano (ancora) spazi di discrezionalità ad essa riservati (e ciò spiega il riferimento all’art. 31, co.3, contenuto nell’art. 34 lett. c) del c.p.a. e correttamente riportato dalla Sentenza in commento). Tuttavia detto limite – anche per non svuotare il principio di effettività della tutela giurisdizionale – non impedirebbe al giudice di verificare se quella soluzione opinabile sia plausibile perché rientrante nel novero delle possibili conclusioni opzionabili dalla P.A. Se ci si limitasse, invece, ad un riscontro di macroscopici difetti di coerenza logica e motivazionale (come, per certi versi, sembra fare il TAR Lazio con la sentenza di rigetto poi riformata dal Consiglio di Stato) non ci si discosterebbe poi tanto dalla teoria del sindacato meramente estrinseco sulla discrezionalità tecnica.

Detto concetto è ben spiegato dalla Sentenza della Cass. a SS.UU.  1013 del 2014 in tema di sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’AGCM.

Secondo tale pronuncia, “quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni e apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità Garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini”.[4]

Ciò significa che quella valutazione adottata dalla P.A. (nella specie una Autorità Garante), deve rientrare nel ventaglio delle possibili soluzioni adottabili concesse dall’ordinamento e che quindi sia plausibile. Se vi rientra, il giudice non potrà preferire un’altra soluzione tecnica a quella in concreto adottata dalla P.A. ritenendo la propria migliore, perché facendo ciò sconfinerebbe dal limite, appunto, della “non sostituzione”.

Tale sindacato è possibile proprio perché l’esercizio di un potere discrezionale tecnico non è esso stesso scelta, bensì è un potere servente a quest’ultima attività.

Se ciò può apparire di agevole comprensione nei casi in cui vengono in rilievo regole tecniche empiriche, seppur opinabili concretamente riscontrabili nella realtà fenomenica, il discorso diviene più complesso quando vengono in rilievo giudizi tecnici su elaborati concorsuali o comunque su produzioni scientifiche, come nel caso di specie, in cui si devono formulare giudizi ad alto grado di soggettività. In questi casi il rischio di cadere in un sindacato sostitutivo è alto. Ecco perché in questi casi i parametri di valutazione non sono forniti dalla legge o da regole scientifiche, bensì dalla stessa P.A., la quale di volta in volta (nei regolamenti, nei decreti ministeriali, nei bandi di concorso, ecc.) si “auto-vincola”, ovvero si pone essa stessa dei criteri di selezione dai quali non poter sconfinare. Ecco perché – con riferimento al voto numerico espresso come forma di motivazione degli elaborati scientifici – non senza suscitare alcune perplessità si afferma che se tali parametri sono chiaramente predeterminati e fissati in modo inequivoco, i giudizi numerici a valle formulati in osservanza di quei parametri non possono che essere ritenuti motivazioni adeguate, anche in considerazione della economicità e speditezza dell’azione amministrativa.[5]

Fermo tutto quanto appena esposto, occorre capire come interagisce questo discorso con il modello di giudicato amministrativo fornito dal nostro ordinamento.

4. Il giudicato amministrativo e la “discrezionalità esaurita”

Il giudicato amministrativo, proprio in virtù del più volte menzionato principio di divisione dei poteri, si atteggia in modo particolare rispetto al giudicato civilistico rinvenibile nell’art. 2909c.c.

Sotto il profilo oggettivo, infatti, si dice che esso copre il dedotto ma non sempre il deducibile[6]. Questo perché si rende necessaria la riedizione del potere da parte della Pubblica Amministrazione, la quale – muovendosi entro le coordinate tracciate dal giudice come se fossero delle linee guida idonee a garantire il c.d. effetto conformativo della sentenza – può rispendere la propria discrezionalità.

In virtù di queste ragioni, si afferma che il giudicato in questione è un “giudicato a formazione progressiva”, in quanto – pur costituendo un punto fermo sulla caducazione del provvedimento (effetto demolitorio costitutivo), sulla impossibilità di nuovi giudizi sulla medesima questione (effetto preclusivo) e sulla riedizione del potere entro le linee guida che devono essere seguite (effetto conformativo) – residuerà spazio operativo in capo all’Amministrazione per le questioni non trattate e, in caso di inottemperanza, il giudice amministrativo può integrare l’originario disposto del giudicato rimodellandolo progressivamente.[7]

Questo spiega perché il giudizio di ottemperanza previsto agli artt. 112 e ss. del c.p.a. presenta profili in parte esecutivi ed in parte cognitori. Se esso costituisce la sede in cui si decide circa l’attuazione del giudicato amministrativo, anche mediante la nomina di un commissario ad acta, contemporaneamente costituisce anche il luogo naturale in cui vengono gestite le sopravvenienze, le quali varieranno anche in base alla portata, ampia o ristretta del giudicato, nel limite della inscalfibilità degli accertamenti già compiuti in sede giurisdizionale.[8] Ovviamente, trattandosi di discrezionalità tecnica il giudicato non potrà che avere una portata di più ampio respiro, dovendo esso concedere alla P.A. la massima esplicazione del suo potere valutativo anche in ordine agli aspetti non ancora esaminati (come si è verificato nel caso di specie).

Tuttavia – ed è questo il punto che ci preme evidenziare – la massima estensione del concetto di giudicato a formazione progressiva connessa alla riedizione di una discrezionalità di tipo “tecnico” potrebbe pregiudicare il principio di effettività della tutela giurisdizionale, dando luogo ad una riedizione ad libitum del potere amministrativo senza che per ciò solo possa concretizzarsi una elusione del giudicato stesso. Ecco perché occorre porre un limite a tale progressività.

A tal proposito può essere utile richiamare un precedente ultimamente un po’ trascurato dalla più recente dottrina, ovvero la Sentenza del Consiglio di Stato 134 del 1999, la quale si è posta il problema di assicurare al privato che l’iter giurisdizionale trovi ad un certo punto uno sbocco definitivo. In particolare, il Collegio afferma che, quando dopo un annullamento giurisdizionale l’autorità amministrativa debba riesaminare la vicenda, la stessa è obbligata a far ciò con un’attenzione tutta particolare. Essa non deve negativamente apparire prevenuta nei confronti dei privati e non deve esporli alla prospettiva di una pluralità di giudizi senza via di uscita. Di conseguenza, una volta ottenuto la possibilità di riedizione del potere discrezionale la P.A. deve esaurire ogni possibile questione non ancora esaminata perché essa, in caso di annullamento giurisdizionale, non avrà una terza chance di riedizione del potere ed ogni provvedimento ulteriormente negativo sarebbe negativamente nullo ed attratto nell’area del giudizio di ottemperanza.[9]

5. Conclusioni: nuove prospettive all’orizzonte

Certamente non può non condividersi l’affermazione secondo la quale la Sentenza 1321/2019 che qui si commenta abbia optato per una soluzione fortemente innovativa, laddove ordina alla P.A. di emettere direttamente il provvedimento di abilitazione nei confronti della docente universitaria, e quindi l’utilità finale cui essa aspirava.

Tuttavia, per provare a rispondere all’interrogativo di chi si è chiesto perché il Consiglio di Stato “si sia calato in apprezzamenti lasciati alla discrezionalità tecnica dell’amministrazione, senza chiarire per quale ragione tecnica debbano essere preferiti i primi giudizi positivi, ancorché già annullati poiché illegittimi, piuttosto che l’ultimo negativo”, una sola può essere la conclusione: perché non avrebbe potuto.   

Come si è detto, infatti, il giudice adito in sede di legittimità non può esprimere una preferenza per i primi giudizi rispetto ai secondi perché solo allora esprimerebbe un sindacato di tipo “sostitutivo”. Il collegio ha semplicemente riscontrato che, dopo un primo annullamento in cui era ancora integra la possibilità per la P.A. di spendersi ogni possibile ed ulteriore analisi tecnica entro i parametri fissati in origine, e a cui essa si era auto-vincolata, quest’ultima invece era andata in tutt’altra direzione, modificando i parametri di valutazione senza esprimere diversi giudizi sulla idoneità o meno degli elaborati scientifici rispetto ai precedenti parametri. Essa, pertanto, aveva esaurito la sua discrezionalità (parliamo della seconda Sentenza del TAR emessa nel 2017).

In terza battuta il Comitato scientifico, seppur in diversa composizione, ha riesumato quel potere di giudizio tecnico intrinseco alle prime valutazioni che, invece, avrebbe dovuto spendere in seconda battuta. Esaurita la seconda chance di riedizione del potere, e questa conclusione appare condivisibile, non residua altro rimedio che il giudizio di ottemperanza.[10] Forse può condividersi l’alternativa proposta, che vede Sesta Sezione esaltare al massimo l’effetto conformativo delle sentenze di annullamento “descrivendo dettagliatamente ogni passaggio logico della procedura e nominando un commissario ad acta che ne facesse puntuale applicazione entro termini brevissimi”. Due le risposte plausibili sul perché i giudici di Palazzo Spada non si siano mossi in questo senso: una prima è legata ad una esigenza di opportunità, ovvero quella di non lasciare il privato, ormai devastato da una giustizia antieconomica, alla gogna di una quarta rideterminazione amministrativa, seppur orientata da una più stringente pronuncia. In secondo luogo, se è pur vero che dal giudizio di ottemperanza si può transitare ad un giudizio di annullamento in virtù del principio di effettività della tutela giurisdizionale – come statuito dalla Ad. Plen. 2/2013 – non pare plausibile l’opzione contraria, ovvero il passaggio da un giudizio di annullamento/nullità direttamente alla nomina del commissario ad acta, se non mediante una forzatura delle norme processuali.[11]

Note e riferimenti bibliografici

[1] M. TIMO, Il ruolo del giudice amministrativo e l’esaurimento della discrezionalità tecnica, in Giurisp. It., 2019, 6, 1405

[2] M. TIMO, op. cit., p.1412

[3] R. GAROFOLI – G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, VI ed., 2012, 898; P. CARPENTIERI, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica, in www.giustamm.it, 7, 2016; F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, VI ed., Giuffrè, 2010, II, 1460; M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, Giuffrè, 1939, 103; id., Istituzioni di diritto amministrativo, II ed. Milano, Giuffrè, 2000, 296.

[4] Cass. SS.UU. 1013/2014, in F. CARINGELLA – L. TARANTINO, Giurisprudenza ragionata di diritto amministrativo, DIKE, 2014, 29.

[5] Cons. St. Ad. Plen. 7/2017; nello stesso senso Cons. St. 5639/2015, 913/2011, 5447/2009, oltre alla storica sentenza della Corte Cost. 328/2008. 

[6] Cons. St., IV sez., 5176/2014, 7816/2006

[7] C.g.a. 406/1994; R. GAROFOLI – G. FERRARI, op. cit., VI, 2358.

[8] Innovativa è la Sentenza dell’Ad. Plen. Del Cons. St. n.11/2016, la quale, individuando nel giudizio di ottemperanza il campo di elezione per consentire l’adeguamento del giudicato alle sopravvenienze inderogabili di matrice comunitaria, chiarisce che “l’interpretazione del giudice nazionale di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, secondo quanto risultante da una sentenza della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, da luogo alla violazione di un limite esterno della giurisdizione, rientrando in uno di quei casi estremi in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme […]. Ne deriva l’esigenza che tutti gli organi dello Stato, a cominciare da quelli giurisdizionali, si adoperino nei limiti delle rispettive competenze per evitare il consolidarsi di una violazione del diritto comunitario”.

[9] Cons. St. 134/1999

[10] Si rammenta in proposito quanto pregevolmente affermato dal Cons. St., Ad. Plen. 2/2013, secondo il quale "1. L’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. c.p.a. (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del “giudizio” e dell’“azione di ottemperanza”: sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 c.p.a, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto. 2. L’instaurazione di due distinti giudizi – volti a definire la concreta e precisa configurazione della patologia dell’atto adottato successivamente al giudicato, ovvero se esso debba essere considerato nullo, in quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero illegittimo per vizi propri e per la prima volta rilevabili - non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia dell’azione. Il che, come è evidente, non può che avvenire se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande, ancorché le stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza. Ciò appare coerente con il principio di effettività (completezza) della tutela giurisdizionale, rendendo possibile la valutazione complessiva del giudice di una pretesa di parte sostanzialmente unitaria. 3. Al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative devono essere dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità. Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione. 4. In caso di rigetto della domanda di nullità la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21-septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), c.p.a., è competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e dunque della più grave delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti. 5. Non può escludersi, in via generale, la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice; tuttavia, la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli: l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa. Tale assetto appare, oltretutto, coerente con l’impostazione soggettiva dell’azione giudiziale amministrativa e in linea con l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui l’amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale.

[11] Ciò accade solo nel rito avverso il silenzio, ex art. 117, co. 3, c.p.a.

M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, Giuffrè, 1939

M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, II ed., Milano, Giuffrè, 2000

F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, VI ed., Giuffrè, 2010 

R. GAROFOLI – G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, VI ed., 2012

F. CARINGELLA – L. TARANTINO, Giurisprudenza ragionata di diritto amministrativo, DIKE, 2014

P. CARPENTIERI, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica, in www.giustamm.it, 7, 2016

M. TIMO, Il ruolo del giudice amministrativo e l’esaurimento della discrezionalità tecnica, in Giurisp. It., 6, 2019