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Pubbl. Mer, 28 Ago 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Responsabilità del direttore di testata e giornalisti: è tempo di cambiare. Verso un´inevitabile riforma.

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Benito Bisagni


Applicazione della disciplina dell´omesso controllo ex art. 57 c.p. anche ai direttori di testate giornalistiche online e sentenza Corte Edu n. 22350/2019 sulla generale illegittimità delle pene detentive nei confronti dei giornalisti, per violazione dell´art. 10 Cedu: tra attuali criticità ed interessi da bilanciare, quale possibile riforma?


Sommario: Abstract [ENG]; Abstract [ITA]; 1. Premessa. – 2. Responsabilità del direttore di testata giornalistica, cartacea ed online: lo stato dell’arte. 3. De iure condendo, le possibili strade da percorrere a tutela del principio di uguaglianza. 4. La sentenza n. 22350/2019 della Corte Edu. Dall’illegittimità della pena detentiva per i giornalisti ad una improcrastinabile riforma della diffamazione. 5. Conclusioni.

Abstract [ENG]The consolidated orientation following the pronouncement of the United Sections of the Court of Cassation in 2015, which extends responsibility for omitted control also to the directors of online newspapers, has aroused numerous reflections, also in a critical key, linked to the suspicion of an analog application of the discipline referred to in art. 57 c.p. At this point, isn't legislator intervention desirable?

An equal solicitation to the latter emerges following sentence no. 22350/2019 of the Edu Court, which ascertains the violation by Italy of the art. 10 of the ECHR, by virtue of the provision of the prison sentence for journalists provided for by our law.

This paper intends to indicate some possible reform scenarios, bearing in mind the interests to be balanced and the possible critical issues.

Abstract [ITA]L’orientamento consolidatosi successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2015, che estende la responsabilità per omesso controllo anche ai direttori di testate giornalistiche online, ha suscitato numerose riflessioni, anche in chiave critica, legate al sospetto di un’applicazione analogica della disciplina di cui all’art. 57 c.p. A questo punto, non è forse auspicabile l’intervento del legislatore?

Un’uguale sollecitazione verso quest’ultimo emerge a seguito della sentenza n. 22350/2019 della Corte Edu, che accerta la violazione da parte dell’Italia dell’art. 10 Cedu, in virtù della previsione della pena detentiva per i giornalisti prevista dal nostro ordinamento.

Il presente lavoro intende indicare alcuni possibili scenari di riforma, tenendo presenti gli interessi da bilanciare e le possibili criticità.

1. Premessa

E’ la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi fare niente! Niente!, rispondeva in L’ultima minaccia Humphrey Bogart, nei panni di un giornalista, a chi voleva ostacolarne la libertà. Già, la stampa: da quel 1952 tanto è cambiato, soprattutto nei mezzi di comunicazione: dal metodo tipicamente gutenberghiano si è passati alla realtà telematica[1]. Già, la stampa: un ambito rispetto al quale il diritto penale, anche a causa di questi mutamenti, ha saputo dare risposte talvolta soddisfacenti, altre volte poco efficaci. Per il legislatore risulta particolarmente ardua la “rincorsa” alle nuove forme di comunicazione ed il riuscire ad offrire tutela rispetto agli illeciti commessi a mezzo stampa. Un dato emerge come inconfutabile: l’attuale assetto normativo penalistico non è più in grado, già sul piano della littera legis, di consentire un’agevole operazione di sussunzione, all’interno delle singole fattispecie incriminatrici astratte, dei vari casi concreti. Da un lato, è stato inevitabile che, nel tempo, la giurisprudenza abbia intrapreso un percorso volto ad interpretazioni sempre più estensive ed, in particolare, evolutive; dall’altro, il rischio di “scadere” nella vietata interpretazione di tipo analogico è sempre dietro l’angolo.

Il punctum dolens è sempre lo stesso e sorge “a causa” del web. La posizione del direttore responsabile di testate giornalistiche online (con esclusione di blog et similia) è equiparabile a quella del suo omologo nell’ambito delle pubblicazioni a mezzo del classico – ed ormai romantico – cartaceo? La questione agita non poco dottrina e giurisprudenza, in virtù delle intuitive conseguenze che l’una o l’altra soluzione comportano.

Ora, come si vedrà, gli ultimi approdi giurisprudenziali sembrerebbero aver decisamente privilegiato la via dell’interpretazione estensiva[2]: la disciplina dell’omesso controllo di cui all’art. 57 c.p., quindi, troverebbe applicazione anche nei confronti del direttore di testate online, nonostante la definizione di stampa contenuta dall’art. 1 della L. n. 47/1948: sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione. Eppure, le perplessità non mancano, in quanto il sospetto di aver varcato il confine dell’applicazione analogica è tangibile.

Se le opzioni ermeneutiche sembrano essere essenzialmente riconducibili a due poli e se, dunque, a livello interpretativo tertium non datur, quale soluzione più giusta ed utile per eliminare incertezze vi è, se non quella di un intervento del legislatore? De iure condendo, le prospettive sono molteplici ma destinate a sciogliere un punto nodale: il direttore di un giornale telematico il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati è, sussistendo l’elemento psicologico della colpa, penalmente responsabile o, al contrario, non appare opportuno estendere a costui la disciplina relativa alla stampa “tradizionale”?

In più, in questa prospettiva di riforma, come non tenere conto delle indicazioni ancora una volta provenienti dalla Corte Edu che, seguendo il filone di un orientamento ormai consolidato, ha recentemente ritenuto che una disciplina che preveda pene detentive, salvo casi eccezionali, per il giornalista reo del reato di diffamazione, si ponga in violazione dell’art. 10 Cedu sulla libertà di espressione?

2. Responsabilità del direttore di testata giornalistica, cartacea ed online: lo stato dell’arte.

Come è noto, la materia della responsabilità penale del direttore di una testata giornalistica trova il principale riferimento nell’art. 57 c.p.: salva la responsabilità dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo.

Pertanto, eccettuati i casi previsti dalla clausola di riserva contenuta dal primo periodo – essenzialmente individuabili nei casi di concorso nel reato[3] -, vanno isolati i due elementi fondamentali della disciplina: sul piano oggettivo, la condotta di tipo omissivo (improprio) relativa al controllo sul contenuto della testata; su quello soggettivo, la presenza dell’elemento psicologico della colpa[4]. Naturalmente – ed appare quasi pleonastico ricordarlo -, va completamente superata l’impostazione che dava luogo ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, già rifiutata alla luce dell’avvento dei principi costituzionali e tramontata dopo l’intervento riformatore del lontano 1958[5].

Aspetti, quelli poc’anzi brevemente analizzati, ormai ben presenti a dottrina e giurisprudenza; eppure, questioni che si sono riproposte, come detto, in occasione della rivoluzione copernicana apportata dai mezzi telematici anche nel settore giornalistico e dell’informazione in genere.

L’approdo della giurisprudenza più recente, venuto alla luce come vero e proprio revirement[6], ha condotto all’applicazione del descritto regime di responsabilità penale anche al direttore di testate giornalistiche online, nonostante la carenza di una disposizione normativa che esplicitamente produca un effetto estensivo degli effetti dell’art. 57 c.p. anche a quest’ultima figura. Sono state le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel 2015[7], ad intraprendere la strada dell’interpretazione estensiva. All’interno di una lunga ed elaborata sentenza, la Suprema Corte afferma che è di intuitiva evidenza che un quotidiano o un periodico telematico, strutturato come un vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea), non può certo paragonarsi a uno qualunque dei siti web innanzi citati, in cui chiunque può inserire dei contenuti, ma assume una sua peculiare connotazione, funzionalmente coincidente con quella del giornale tradizionale, sicché appare incongruente, sul piano della ragionevolezza, ritenere che non soggiaccia alla stessa disciplina prevista per quest'ultimo. Peraltro, gli stessi giudici di legittimità sono consapevoli del rischio di varcare le soglie dell’analogia, a ciò ribattendo che tale conclusione è il frutto di una mera deduzione interpretativa di carattere evolutivo, non analogica, la quale fa leva - nel cogliere fino in fondo, in sintonia con l'evoluzione socio-culturale e tecnologica, il senso autentico della L. n. 47 del 1948, art. 1 - sull'applicazione di un criterio storico-sistematico in coerenza col dettato costituzionale di cui all'art. 21 Cost.

Da qui, il principio di diritto secondo il quale la testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile funzionalmente a quella tradizionale, rientra nel concetto ampio di “stampa” e soggiace alla normativa, di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l'attività d'informazione professionale diretta al pubblico. Un orientamento, quest’ultimo, che ha trovato una significativa conferma anche molto recentemente, poiché la pubblicazione telematica ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea e rientra, dunque, nella nozione di "stampa" di cui all'articolo 1 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, con la conseguente configurabilità della responsabilità ex articolo 57 del codice penale ai direttori della testata telematica[8].

La distonia rispetto all’orientamento precedente e che, a sua volta, si dimostrava particolarmente solido, è palese: il direttore di un periodico on line non è responsabile per il reato di omesso controllo, ex art. 57 c.p., sia per l'impossibilità di ricomprendere detta attività on line nel concetto di stampa periodica, sia per l'impossibilità per il direttore della testata on line di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori "postati" direttamente dall'utenza[9].

La parità di trattamento e l’ossequio al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. hanno giocato un ruolo importante nell’operazione interpretativa della Cassazione[10], preoccupata da una lacuna normativa corrispondente ad una sorta di anarchico spazio di impunità. Un’esigenza prevalsa rispetto ai sospetti di aver dato luogo, più che ad un’interpretazione estensiva, ad un’applicazione analogica della disciplina in materia[11]. Ragioni che sono state ritenute prevalenti anche su un’ulteriore tesi avversa, basata sul fatto che per il direttore di testata online, a differenza dell’omologo di testata cartacea, sarebbe di fatto impossibile esercitare un effettivo controllo sulle pubblicazioni, data l’immediatezza dei “tempi telematici”, in particolare sui contenuti inseriti dagli utenti[12].

Pertanto, quando viene a crearsi un dibattito così aspro e, almeno fino ad ora, irriducibile ad una posizione unitaria e condivisa, non può che essere invocato l’intervento del legislatore, non al fine di limitare la “libertà” interpretativa, bensì per conferire certezza ad un ambito di estrema delicatezza.

Sarebbe una preziosa occasione, inoltre, per disciplinare più puntualmente, sul piano della responsabilità penale, anche quella galassia di spazi di informazione che potremmo sinotticamente ricondurre alla categoria dei blog per i quali, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, non vi sarebbero i presupposti per estendere le norme sulla responsabilità del direttore di testate giornalistiche[13]. Ma, per essi, soprattutto quando divengono veri e propri organi di informazione al pari di un giornale, pur non avendo di questo la veste formale, appaiono sufficienti le regole comuni o è necessario un diverso approccio normativo?

3. De iure condendo, possibili strade da percorrere a tutela del principio di uguaglianza.

Alla luce di quanto esposto, l’intervento del legislatore appare l’unico strumento potenzialmente dirimente. Al riguardo, uno dei problemi di maggior consistenza è il seguente: quale potrebbe essere la migliore riforma della responsabilità penale del direttore (rectius, dei direttori)? Un interrogativo che non può non tener conto degli orientamenti fin qui maturati nel corso del tempo[14].

Una delle prime prospettive è quella legata alla parificazione delle posizioni in gioco. Equiparare i due ruoli sul piano penalistico, infatti, escluderebbe ogni rischio di applicazione analogica, giacché l’intervento del legislatore lascerebbe pochi spazi a differenti soluzioni ermeneutiche. Si tratterebbe, sostanzialmente, di aderire all’orientamento proposto dalle Sezioni Unite nel 2015; sul piano legislativo, pertanto, sarebbero due le strade percorribili: modificare il concetto di stampa, disancorandolo da un ormai anacronistico legame con la sola riproduzione tipografica o meccanica ed inserendovi, dunque, il modello telematico[15]; oppure, estendere esplicitamente la disciplina di cui all’art. 57 c.p. anche ai direttori di testate giornalistiche online. La prima soluzione avrebbe risvolti di maggiore organicità, poiché coinvolgerebbe tutte le regole relative alla stampa; la seconda, invece, sarebbe “confinata” al solo ramo penalistico.

Però, prima di giungere a tali conclusioni, sarebbe corretto individuare la ratio della prospettata equiparazione e comprendere se, al contrario, questa sorta di reductio ad unum conduca ad un trattamento uguale di situazioni diseguali, illegittimo alla luce dell’art. 3 Cost.

Il nocciolo della questione risiede nell’eventuale differenza tra i ruoli: il direttore di giornale cartaceo esercita le stesse funzioni del “collega” di testata telematica oppure, più realisticamente, quest’ultimo non può, a priori, compiere il medesimo controllo operabile dal primo? Il problema non è di poco conto, poiché la rapidità del mezzo telematico era già stata individuata dalla precedente giurisprudenza come ostativa all’applicazione dell’art. 57 c.p., per l’impossibilità di un’effettiva e concreta verifica dei contenuti inseriti dagli utenti, sfociante in una vera e propria inesigibilità; la mancata considerazione di questo aspetto condurrebbe all’attribuzione di una responsabilità oggettiva[16]. Continuare a sostenere questa tesi, potrebbe produrre effetti quasi perversi: per i contenuti della testata telematica, quindi, la responsabilità ricadrebbe solo in capo all’autore di questi ultimi mentre, sostanzialmente, verrebbe svuotato l’onere di controllo in capo al direttore. Una conclusione, quest’ultima, palesemente incongrua rispetto ai fini stessi del controllo previsto dal legislatore per la stampa tradizionale. Eppure, non è neppure trascurabile il rilievo opposto, legato all’immediatezza del web: l’abbattimento dei rischi transiterebbe per una non verosimile eliminazione degli spazi interattivi.

Del resto, lasciando per un momento da parte i rilevanti ostacoli derivanti dalla littera legis, l’opinione della giurisprudenza più recente relativa all’esigenza del rispetto del principio di eguaglianza appare fondata; infatti, essendo uguali le funzioni, non si comprende in base a quale altro criterio debba prevedersi un regime differenziato: il percorso ermeneutico privilegiato, per pervenire alla ritenuta equiparazione tra i due prodotti editoriali, è il solo che scongiura tensione con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Carta fondamentale, evitando il rischio di riservare, al di là di qualsiasi ragionevolezza, trattamenti differenziati a due fattispecie praticamente identiche sotto il profilo della loro funzionalità.

Preso atto dell’ineluttabilità del rispetto del principio di uguaglianza, quale soluzione appare più opportuna, de iure condendo? Una modifica del concetto di stampa sarebbe probabilmente quella maggiormente auspicabile, ma certamente potrebbe avere ripercussioni anche su altri settori e, dunque, essere oggetto di un piano riformatore ben più organico. Non resterebbe, dunque, che un intervento “additivo” del legislatore in virtù del quale, agli effetti penali, la disciplina dell’art. 57 c.p. venga estesa anche alle pubblicazioni online[17]. Sulla carta, un’operazione di semplice natura logica; eppure, vi sarebbe una duplice difficoltà: da un lato, quella di definire, ai soli effetti penali, la nozione di pubblicazione giornalistica telematica ed i confini di essa; dall’altro, se pur si riuscisse nel precedente intento, il rischio di una “convivenza forzata” di un concetto di pubblicazione online solo agli effetti penali ed un altro di stampo generale contenuto dall’art. 1 della L. n. 47/1948.

L’intervento riformatore, come accennato, sembra essere la strada principale per non cedere alla “tentazione analogica”. Infatti, pur risultando apprezzabile lo sforzo interpretativo compiuto recentemente dalla Corte di Cassazione, basato sulla coincidenza funzionale dei due veicoli di informazione, tale argomentazione va incontro ad inevitabili perplessità. L’argine tra interpretazione estensiva e di tipo analogico sembra, infatti, essere stato varcato, alla luce del dato letterale. Mentre non desta alcun problema il requisito della pubblicazione, diversamente deve dirsi per quello relativo alle riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici. Pur prendendo atto che il concetto di stampa, a livello comune, è molto cambiato a far data dal 1948, è la peculiarità dei principi penalistici ad impedire un’assimilazione concettuale tra il mezzo cartaceo e quello telematico, almeno ai fini dell’estensione della responsabilità. Alle conclusioni, pur logiche e rispondenti al senso comune, della Suprema Corte, si deve però aggiungere un ulteriore elemento di riflessione: il legislatore non è intervenuto per mera inerzia o, effettivamente, ha deliberatamente voluto non procedere alla modifica del regime vigente? Nel primo caso, l’azione della giurisprudenza di legittimità assumerebbe le sembianze di una vera e propria supplenza, un rimedio rispetto alla scarsa capacità del legislatore stesso di adeguare la disciplina ai nuovi mezzi di informazione; nel secondo caso, invece, la dimensione dell’applicazione analogica delle norme sulla stampa alle testate telematiche si amplierebbe notevolmente, scontrandosi con la voluntas legis[18]. Uno dei rilievi fondamentali a sostegno di quest’ultima posizione potrebbe essere quello già evidenziato dagli orientamenti giurisprudenziali meno recenti, relativi alle differenze tra l’informazione cartacea e telematica[19]; infatti, la scelta del legislatore di lasciare immutate le regole potrebbe avere fondamento proprio in quest’ultima considerazione. Una motivazione che, se tale, sarebbe certamente criticabile e sostanzialmente produttiva di un trattamento diseguale ma che, allo stesso tempo, anche se non condivisibile, non potrebbe legittimare un’interpretazione obliteratrice del dato normativo.

Pertanto, va osservato come le conclusioni a cui è giunta la giurisprudenza siano certamente equilibrate sul concetto corrente di stampa, ma non (ancora) tradotte in disposizioni di rango normativo dal legislatore; da qui, un’oggettiva difficoltà di accettare in toto l’orientamento formatosi.

4. La sentenza n. 22350/2019 della Corte Edu. Dall’illegittimità della pena detentiva per i giornalisti ad una improcrastinabile riforma della diffamazione.

La Corte europea dei Diritti dell’uomo, in una recente pronuncia, è tornata sul tema della pena detentiva prevista ed applicabile per i giornalisti, nel caso in cui commettano il reato di diffamazione. La giurisprudenza sovranazionale non muta, anzi rafforza, l’orientamento già sostenuto anche in occasione del caso Belpietro[20]. La Corte Edu, infatti, è stata chiamata a pronunciarsi in merito al caso Sallusti e, più precisamente, all’eventuale sussistenza di una violazione dell’art. 10 Cedu. La sentenza ha il pregio della chiarezza: da un lato, non è in discussione la colpevolezza del giornalista-ricorrente per il reato di diffamazione a mezzo stampa; dall’altro, però, non ritiene legittima e compatibile, se non per “circostanze eccezionali”, l’applicazione della pena detentiva per il suddetto illecito, sia nel caso di specie sia, di conseguenza, sul piano generale[21].

Il ragionamento dei Giudici di Strasburgo si fonda sul chilling effect[22] che la prospettiva minacciosa del carcere produce sugli operatori della stampa, comprimendone così la libertà e consentendo una non ragionevole ingerenza delle autorità pubbliche, quest’ultima oggetto di un espresso divieto contenuto all’interno dell’art. 10 prima richiamato. Una lettura che, prima facie, potrebbe essere valutata come ossequiosa anche dei principi di sussidiarietà e proporzionalità ma che, effettivamente, non è esattamente ad essi sovrapponibile; al primo, perché la posizione della Corte non sembra essere fondata tanto sull’extrema ratio della sanzione penale, bensì sulla tipologia di essa (pecuniaria e non detentiva); al secondo, poiché le valutazioni espresse nella pronuncia non fanno diretto riferimento al quantum della sanzione da irrogare, bensì all’an della pena detentiva. In realtà, pur osservando ciò, è chiaro che echi di questi due pilastri del diritto penale moderno sono ben presenti nell’orientamento espresso ed, anzi, ne costituiscono il fondamento. Ciò emerge, in particolare, nel riferimento operato dalla Corte Edu alle c.d. “circostanze eccezionali”, le sole che legittimerebbero l’irrogazione di una pena detentiva nei confronti di un giornalista: l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

Relativamente al caso di specie, per la Corte Edu l’irrogazione della pena detentiva si rivela come illegittima e sproporzionata, poiché non ritenuta una misura necessaria, secondo il disposto dell’art. 10. Una conclusione in contrasto con le precedenti pronunce interne e sintomo, dunque, di un approccio in parte differente rispetto a quello adottato dalla giurisprudenza italiana[23]: un’impostazione che, inevitabilmente, si riflette sulla valutazione della gravità delle condotte e sulla tipologia di sanzione applicabile[24].

La pronuncia in esame – peraltro prevedibile, visto il già consolidato orientamento formatosi a livello sovranazionale – dà linfa a diverse problematiche che, ciclicamente, si ripropongono sia a livello dottrinale che giurisprudenziale. La critica alla previsione della pena detentiva nei confronti di un giornalista che commetta il delitto di diffamazione a mezzo stampa non è certamente argomento nuovo; alla luce dell’orientamento Cedu, però, esso deve essere riconsiderato non più solo sul piano meramente interno ed in virtù di valutazioni legate pressoché esclusivamente alla proporzionalità della sanzione prevista, bensì anche alla luce della compatibilità della disciplina interna con le norme sovranazionali[25].

Il nostro ordinamento, infatti, non sembra essere perfettamente in linea con l’art. 10 Cedu e la giurisprudenza che ne è derivata. Da queste ultime si ricava che, sul piano testuale, i limiti alla libertà di espressione sono giustificati solo se costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. Inoltre, dal diritto pretorio sovranazionale emerge che, come visto, solo in casi eccezionali e residuali la pena detentiva potrebbe risultare giustificata, a seguito di un eventuale bilanciamento con la salvaguardia di altri diritti fondamentali di pari o superiore rango. Da qui, le incongruenze con il nostro ordinamento interno: il reato di diffamazione a mezzo stampa prevede, infatti, una pena detentiva che varia da sei mesi a tre anni; qualora sia attribuito un fatto determinato, la legge sulla stampa del 1948, all’art. 13, prevede una cornice edittale che spazia, addirittura, da uno a sei anni di reclusione.

Ora, comparando la disciplina interna con le indicazioni provenienti da quella sovranazionale, appare evidente uno squilibrio in termini, innanzitutto, di sussidiarietà e di proporzionalità. Peraltro, il dato normativo non opera riferimenti o specifiche differenziazioni in base alla condotta posta in essere o ai beni giuridici o diritti violati; piuttosto, la forma libera dell’illecito consentirebbe, in via astratta, di applicare la pena della reclusione ad ogni singolo illecito (salva la valutazione in concreto della gravità della condotta stessa)[26]; né vale il rilievo, ad avviso della stessa Corte Edu, secondo il quale potrebbe usufruirsi del beneficio della sospensione condizionale della pena[27].

Accertata la frizione tra il livello interno e sovranazionale, un’ulteriore riflessione deve compiersi in merito all’efficacia deterrente che un simile regime normativo (nazionale) esercita sui giornalisti. In una prospettiva che tenga conto della funzione della pena – fondamento che deve imprescindibilmente caratterizzare ogni sanzione di natura penale -, può davvero dirsi prevalente la funzione rieducativa nei confronti del diffamatore dinanzi alla severità di tali cornici edittali oppure, come più spesso concretamente accade, è la forza intimidatrice della pena ad essere maggiormente avvertita dall’agente? Nei reati di stampa, tale problema assume valore cruciale, poiché la prospettiva di essere potenzialmente destinatari di tali sanzioni scoraggia non poco il giornalista e ne comprime la libertà di espressione ed informazione[28]; di contro, vi è il bene giuridico della reputazione altrui, degno di essere pienamente tutelato[29]. Ma, viene da chiedersi, la più efficace modalità per garantire tale tutela, è quella di un sistema intimidatorio/repressivo e in palese contrasto con le regole provenienti dall’ordinamento sovranazionale? Sul punto, l’orientamento della Corte Edu appare inequivocabile, soprattutto nella fase di bilanciamento degli interessi in gioco risolto, sul piano generale, in favore della libertà di stampa, ove la legislazione interna preveda pene detentive per il reato di diffamazione. E, si badi, tale posizione non trova il proprio fondamento in una conclusione apodittica o meramente legata a ragioni di equità sostanziale, bensì individua una precisa violazione dell’art. 10 Cedu[30].

Ne deriva che, a volersi mantenere giustamente rispettosi degli obblighi provenienti dai sistemi sovranazionali, l’impianto normativo interno in materia dovrebbe andare incontro, di conseguenza, ad un intervento riformatore organico che sia maggiormente “selettivo” nella formulazione delle fattispecie incriminatrici astratte. I problemi a ciò collegati, pertanto, si manifestano su due piani: quello della tipicità del fatto e della pena ad esso riconnessa. Sul primo punto, infatti, il ripensamento dei reati commessi a mezzo stampa dovrebbe passare da una riformulazione delle fattispecie punitive, operando una  distinzione tra la “mera” diffamazione a nocumento della reputazione altrui dalle condotte lesive su cui si innesta, invece, la lesione di un diritto fondamentale, meritevole di un trattamento sanzionatorio più aspro ed, eventualmente, capace di giustificare una privazione della libertà personale[31]. Se una conclusione di questa natura può apparire eccessivamente “permissiva” e favorevole nei confronti dell’agente, non bisogna dimenticare che, talvolta, la previsione della pena pecuniaria (in aggiunta al parallelo regime della responsabilità risarcitoria a tutela del danneggiato) ha un effetto ancor più intimidatorio, specie se si riflette sul fatto che il giornalista può realisticamente fare affidamento sulla sospensione della pena.

Ancora, il segno che i tempi per una riforma organica della fattispecie di diffamazione sono ormai più che maturi è dato anche dal fatto che la stessa Corte Edu, nella sentenza, ha tenuto in debito conto i progetti riformatori già presentati in sede legislativa a livello interno: la Corte rileva le recenti iniziative legislative da parte delle autorità italiane finalizzate, in linea con le recenti pronunce della Corte contro l’Italia, a limitare il ricorso a sanzioni penali per il reato di diffamazione, e a introdurre un’importante misura positiva, ovvero l’abolizione della pena della reclusione per il reato di diffamazione[32].

Peraltro, va sottolineato che l’orientamento in esame non trascura neppure la peculiare posizione del direttore di giornale; la Corte, infatti, non critica la presenza, all’interno dell’ordinamento italiano, di una fattispecie di “omesso controllo”; anzi, al contrario, si esprime in modo favorevole ad una simile previsione (il direttore di un giornale non può essere dispensato dall’obbligo di esercitare un controllo sugli articoli pubblicati da esso ed è responsabile del loro contenuto), consapevole che il controllo rappresenta una fase necessaria precedente alla pubblicazione di un contenuto[33]. Tale consapevolezza dimostra ulteriormente che la ratio alla base dell’iter logico-giuridico seguito dai Giudici di Strasburgo non è ancorata alla volontà di creare spazi di impunità o di rivoluzionare il regime di responsabilità penale attualmente previsto, bensì fare da stimolo ad una rimodulazione del trattamento sanzionatorio ed ad una maggiore attenzione nella formulazione delle fattispecie incriminatrici da parte del legislatore interno.

Infine, a tal proposito, riemerge una vecchia questione, legata anche ai mai del tutto sopiti “sentori” di responsabilità oggettiva legati alla previsione di cui all’art. 57 c.p.: alla luce delle osservazioni della Corte Edu, è ancora giustificabile che il direttore responsabile per omesso controllo sia punibile con la pena detentiva per un contenuto diffamatorio da lui non scritto o comunque prodotto?[34] Che costui, per il ruolo rivestito, debba essere investito dell’onere del controllo e, di conseguenza, destinatario una sanzione per l’omissione (colposa) di quest’ultimo, appare fuor di dubbio; però, dall’altro lato, l’irrogazione della reclusione per tale condotta può apparire contraria alle ragioni di proporzionalità sostenute dalla Corte Edu. E qui, dunque, torna in gioco l’indirizzo consolidatosi prima del sopra descritto revirement giurisprudenziale di cui si è resa protagonista la Corte di Cassazione: soprattutto in relazione alle testate telematiche, l’esigenza di celerità può condurre ad un inserimento a ciclo continuo di contenuti informativi, materialmente ingestibili da parte del direttore il cui controllo, pertanto, avviene sovente ex post[35]. In questa eventualità concreta, appare ancora una volta proporzionale al fatto la pena detentiva? E, sul punto, nemmeno una struttura redazionale complessa a cui “trasferire” l’onere del controllo potrebbe condurre a riconsiderare la questione atteso che, come concluso recentemente dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di omesso controllo produttivo di un reato a mezzo stampa (art. 57 cod. pen.), non spiega alcun rilievo il conferimento delle funzioni di controllo al redattore capo delle edizioni decentrate, in quanto il controllo sul giornale, unitariamente considerato, compete, ex art. 57 cod. pen. e 3 della legge n. 47 del 1948, in via esclusiva al direttore responsabile, con la conseguenza che non sussiste alcuna possibilità di delegarlo ad altri soggetti[36].

5. Conclusioni

Gli aspetti analizzati costituiscono solo una parte dell’insieme dei problemi relativi alla responsabilità penale dei direttori di testate e dei giornalisti; eppure, visti i contrasti ermeneutici e le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale, i temi dell’omesso controllo e della diffamazione appaiono quelli che richiedono la maggior sollecitudine da parte del legislatore. D’altronde, considerato il proliferare delle testate giornalistiche online, il problema emerge anche per la sua dimensione “numerica”, poiché ogni testata giornalistica è verosimilmente direttamente e concretamente interessata dall’applicazione delle discipline prima analizzate.

Alcuni canoni non devono essere persi di vista dall’interprete: il divieto di applicazione analogica, la tassatività delle fattispecie incriminatrici astratte, la proporzionalità e la sussidiarietà del diritto penale devono rimanere i criteri fondamentali in ottica riformatrice; peraltro, in un delicato settore come quello della stampa, in cui vengono in gioco i fondamentali beni della libertà di espressione e di informazione, dare luogo ad un sistema penale particolarmente repressivo sarebbe certamente di ostacolo ad un concreto e libero esercizio di dette libertà. È pur vero che non si può lasciare sfornita di tutela la posizione del soggetto leso dal delitto di diffamazione; ma non è assolutamente detto che la protezione di costui passi attraverso un sistema che, come rilevato dalla Corte Edu, preveda l’applicazione di una pena detentiva per i giornalisti. Compito del legislatore – non semplice, naturalmente – è quello di individuare il giusto bilanciamento delle varie posizioni, oltre a quello di adeguarsi agli obblighi derivanti dagli ordinamenti sovranazionali.

Note e riferimenti bibliografici

[1] V. Cass. 23 ottobre 2018, in CED: deve, pertanto, ritenersi superato il concetto di stampa di "gutenberghiana" memoria, per approdare ad un concetto in linea con la evoluzione, anche tecnologica, degli attuali mezzi di informazione telematica.

[2] Il riferimento è legato, in particolare, al recente orientamento formulato dai Giudici di legittimità a Sezioni Unite nel 2015 e successivamente confermato nel 2018, infra analizzato.

[3] Cfr., fra le altre, Cass. 7 luglio 1981, in CED: perché si configuri il concorso del direttore del giornale nel reato commesso dall'autore della pubblicazione, in luogo della responsabilità colposa per omesso controllo, occorre che la condotta omissiva del direttore sia animata dalla coscienza e volontà di cooperare, con la sua omissione, alla commissione del reato che avrebbe dovuto impedire. In particolare, per affermare il concorso del direttore nella diffamazione commessa dall'autore dello scritto occorre dimostrare che il direttore abbia voluto la pubblicazione nell'esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui.

[4] Per un’approfondita analisi delle fattispecie di omesso controllo, v. A. MASSARO, La responsabilità colposa per omesso impedimento di fatto illecito altrui, passim, Napoli, 2013.

[5] Sulla natura della responsabilità per omesso controllo e sulla sua evoluzione storico-legislativa, v. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto Penale, parte generale, Bologna, 2019, pp. 689 ss. Va ricordato, peraltro, che la dimensione oggettiva della responsabilità del direttore è stata rifiutata già da una pronuncia a Sezioni Unite del 1958, che ha riconosciuto la necessità della sussistenza dell’elemento psicologico della colpa, Cass. SS. UU. 18 novembre 1958, in CED.

[6] Cfr. R. E. MAURI, Applicabile l’art. 57 c.p. al direttore del quotidiano online: un revirement giurisprudenziale della cassazione, di problematica compatibilità con il divieto di analogia, in DirittoPenaleContemporaneo.it, 2019.

[7] Cass. SS.UU. 29 gennaio 2015, in Foro it. 2016, 1, II, 52, con nota di Palmieri. I Giudici di legittimità concludono che la testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile funzionalmente a quella tradizionale, rientra nel concetto ampio di “stampa” e soggiace alla normativa, di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l'attività d'informazione professionale diretta al pubblico.

[8] Cass. 23 ottobre 2018, in CED.

[9] Cass. 5 novembre 2013, in Cass. Pen. 2015, 3, p. 1202.

[10] R. E. MAURI, op. cit.: Si tratta di un’estensione che ha fatto leva da un lato sul principio di uguaglianza sancito all’art. 3 Cost. – in base al quale si è argomentato che una diversa soluzione interpretativa avrebbe comportato un irragionevole trattamento differenziato tra l’informazione giornalistica veicolata su carta e quella diffusa a mezzo della rete – dall’altro sull’attribuzione al termine “stampa” di un significato evolutivo connesso al progresso tecnologico, frutto di un’interpretazione estensiva della norma coerente con la mens legis del legislatore.

[11] In tal senso, E. BIRRITTERI, Diffamazione e Facebook: la Cassazione conferma il suo indirizzo ma apre a un’estensione analogica in malam partem delle norme sulla stampa, in DirittoPenaleContemporaneo.it, 2017. L’A. riflette sul fatto che - ove si seguisse un simile percorso motivazionale anche rispetto a condotte diffamatorie realizzate attraverso l’uso di mezzi riconducibili alla nozione evolutiva di stampa fornita dalle SS.UU., ma non alla stringente definizione di stampato di cui all’art. 1 della L. n. 47 del 1948 (ad es. nel contesto di una testata giornalistica online) – si dovrebbe concludere nel senso dell’applicazione dell’art. 13 della legge sulla stampa, nonché dello stesso art. 57 c.p. in tema di responsabilità del direttore del periodico. Così procedendo si perverrebbe tuttavia a un’illegittima estensione analogica in malam partem di disposizioni incriminatrici che il legislatore, in maniera inequivocabile, ha inteso riservare ai soli stampati prodotti mediante mezzi meccanici o fisico-chimici.

[12] Cfr. F. LOMBARDI, La responsabilità del direttore del periodico telematico ex art. 57 c.p. tra interpretazione estensivo-evolutiva e analogia in malam partem, in Giurispr. Pen., 2019: in terzo luogo, si menzionava un argomento di tipo sostanziale, relativo alla concreta inesigibilità del comportamento alternativo doveroso in capo direttore del quotidiano online, di fatto impossibilitato ad un effettivo e proficuo controllo sui contenuti della testata telematica a cagione delle caratteristiche intrinseche della Rete.

[13] Sulla responsabilità del blogger, l’orientamento della giurisprudenza esclude la configurabilità dell’omesso controllo, atteso che manca il requisito della professionalità. Sul punto, v. Cass. 8 novembre 2018, in Dejure.it: la responsabilità del blogger per i commenti diffamatori postati da utenti della rete - e non rimossi nonostante la segnalazione - è di natura concorsuale. Ad affermarlo è la Cassazione che fissa i presupposti per l'imputabilità dei gestori di blog online, i quali non possono essere assimilati ai direttori di testate giornalistiche, mancando il requisito della professionalità dell'attività svolta e della culpa in vigilando.

[14] Da tempo vi sono proposte di riforma del reato di diffamazione, ancora non passate al diretto vaglio delle Camere. Sul punto, v. A. GULLO, La tela di Penelope, in Dir. pen. cont. - Riv. Trim., 1/2016, pag. 31 ss.

[15] Operazione già cominciata con la L. n. 62/2001, che estende la nozione di prodotto editoriale anche a quello elettronico, ma non sufficiente per una piena equiparazione.

[16] Cfr., tra gli altri, R. E. MAURI, op. cit. L’A. compie una apprezzabile disamina sul punto: da ultimo, una buona parte della dottrina si è soffermata sulla concreta inesigibilità di un controllo capillare da parte del direttore su tutti i contenuti pubblicati sul giornale telematico. Un soggetto agente può essere chiamato a rispondere per colpa solo quando, in presenza del presupposto del coefficiente psicologico, abbia violato una regola cautelare cagionando al bene giuridico un’offesa che avrebbe potuto essere evitata con l’ordinaria diligenza. Per poter affermare una forma di responsabilità, occorre tuttavia, che la condotta richiesta sia concretamente esigibile: nel caso di specie, la natura stessa del sito web – che si caratterizza per una continua partecipazione e pubblicazione di commenti da parte dell’utente della rete – escluderebbe che al direttore della testata giornalistica telematica possa essere imposto un tale onere senza incorrere in una violazione del principio di colpevolezza, atteso che una previsione di tal genere finirebbe per attribuire una pura responsabilità oggettiva da posizione, travalicando, in sostanza, i confini della proporzionalità e ragionevolezza della condotta imposta all’agente.

[17] Sull’esigenza di un intervento riformatore v., tra gli altri, E. PIETROCARLO, Concorso in diffamazione del direttore e articolo firmato con pseudonimo: la Cassazione insiste sulla responsabilità di “posizione”, in DirittoPenaleContemporaneo.it, 2018. L’A., a proposito della disciplina dell’omesso controllo, riflette sul fatto che si potrebbe altresì estendere tale previsione, come faceva sempre il disegno di legge Costa, alle testate telematiche registrate, allorché quantomeno si tratti di versione on line di quotidiani cartacei. In simili casi ci sembra infatti esigibile un controllo del direttore sui contenuti immessi in rete, non valendo le obiezioni di solito formulate rispetto ai blog e ai forum, la cui diversa natura è stata del resto, pur in diverso ambito e con un approdo non privo di profili problematici, rimarcata dalle Sezioni Unite del 2015.

[18] Sul punto, v. Cass. 16 luglio 2010, in Foro it., 2011, 4, II, 236: il dettato dell'art. 57 c.p. non è applicabile al cd. giornale telematico: la lettera della legge e la sua ratio fanno riferimento al concetto di stampa, nel quale non può essere ricompresa l'informazione on line, né può pensarsi ad una interpretazione analogica, trattandosi di analogia "in malam partem"; perché possa parlarsi di stampa in senso giuridico occorrono due condizioni che certamente il nuovo medium non realizza: che vi sia una riproduzione tipografica ("prius") e che il prodotto di tale attività sia destinato alla pubblicazione e quindi debba essere effettivamente distribuito tra il pubblico ("posterius"); se pur, dunque, le comunicazioni telematiche sono, a volte, stampabili, esse certamente non riproducono stampati.

[19] Cfr., tra le altre, Cass. 5 novembre 2013, cit.: il direttore di un periodico on line non è responsabile per il reato di omesso controllo, ex art. 57 c.p., sia per l'impossibilità di ricomprendere detta attività online nel concetto di stampa periodica, sia per l'impossibilità per il direttore della testata on line di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori "postati" direttamente dall'utenza.

[20] Corte Edu 24 settembre 2013, in Cass. Pen. 2014, 2, 681. Sul caso e sulla sentenza della Corte, v. C. MELZI D’ERIL, La Corte europea condanna l’Italia per sanzione e risarcimento eccessivi in un caso di diffamazione. Dalla sentenza qualche indicazione per la magistratura, il, legislatore e le parti, in DirittoPenaleContemporaneo.it, 2013.

[21] Corte Edu 7 marzo 2019, in Foro it. 2019, 4, IV, 177. Sulla vicenda e sulla pronuncia, v. S. TURCHETTI, Diffamazione, pena detentiva, caso Sallusti: ancora una condanna all’Italia da parte della Corte Edu, in DirittoPenaleContemporaneo.it, 2019.

[22] Id., uno Stato parte alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo che prevede la misura detentiva per i giornalisti nei casi di diffamazione viola l'art. 10 della Convenzione. Una misura privativa della libertà personale può essere prevista solo nei casi di incitamento all'odio e alla violenza e non in via generale per tutelare la reputazione altrui perché il carcere ha un chilling effect sulla libertà di stampa.

[23] Va però ricordato come, sul piano interno, parte della giurisprudenza fosse già consapevole dell’orientamento formatosi in ambito sovranazionale. Sul punto, v. Cass. 11 dicembre 2013, in Riv. pen. 2014, 6, 621: in tema di diffamazione a mezzo stampa, l'irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, pur quando venga concesso il beneficio della sospensione condizionale, può trovare giustificazione, in linea con quanto affermato dalla Corte di giustizia dell'unione europea con la sentenza 24 settembre 2013 in causa Belpietro c. Italia, solo quando ricorrano circostanze eccezionali, giacché, altrimenti, non sarebbe assicurato il ruolo di "cane da guardia" dei giornalisti, il cui compito è quello di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e, conseguentemente, di assicurare il diritto del pubblico di riceverle.

[24] Id., in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa, la pena detentiva può essere irrogata soltanto nelle ipotesi connotate da spiccata gravità.

[25] Sul punto, va sottolineato che il Tribunale di Salerno, in aprile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, su impulso di un Sindacato campano di giornalisti in un giudizio per diffamazione sulla base del fatto che la previsione della pena detentiva per i giornalisti, previsto dall'articolo 13  della L. 47/1948 sulla stampa e dall'articolo 595, terzo comma, c.p. si porrebbe in violazione degli articoli 3, 21, 25 e 27, nonché dell'articolo 117 comma 1 della Costituzione in relazione all'articolo 10 Cedu.

[26] Sulla proporzionalità, cfr. A. GULLO, op. cit., p. 7: l’A., a proposito della già citata sentenza Cass. 11 dicembre 2013, riflette sul fatto che la decisione (sia) tutta proiettata sul versante della proporzione del trattamento sanzionatorio applicato nei confronti del giornalista. La Corte tocca qui un tema – quello della previsione della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa – che riaffiora nel dibattito interno con cadenza periodica allorché, per la particolare gravità del fatto o i precedenti del condannato, la eventualità, solitamente teorica, di scontare la pena detentiva si prospetta in termini di concreta possibilità.

[27] Corte Edu 24 settembre 2013, ivi: la Corte ritiene che, date le circostanze del caso di specie, l’inflizione di una pena detentiva non fosse giustificata. Tale sanzione, per sua stessa natura, ha inevitabilmente un effetto dissuasivo. Il fatto che la pena detentiva del ricorrente sia stata sospesa non modifica tale conclusione […].

[28] Cfr., sul punto, V. PACILEO, Contro la decriminalizzazione dei reati a mezzo stampa. Note a margine del “Caso Sallusti”,in DirittoPenaleContemporaneo.it, 2013, pp. 9-10: E’ vero, invece, che la Corte europea richiede che le pene previste per la diffamazione a mezzo stampa siano “proporzionate” rispetto al contro-interesse della reputazione, perché le sanzioni criminali possono costituire un non auspicabile deterrente alla diffusione delle informazioni (precipuo compito della stampa) su temi di pubblico interesse.

[29] V. PACILEO, op. cit., p. 8. Le considerazioni dell’A. sul bilanciamento tra tutela della reputazione e libertà d’espressione muovono dagli orientamenti della stessa Corte Edu, nei casi Katrami c. Grecia e Mengi c. Turchia: nella ricerca del giusto equilibrio tra libertà d’espressione e protezione della reputazione altrui deve essere tenuto presente che la libertà di stampa comporta “doveri e responsabilità”. Un elemento importante a tal fine è la distinzione tra “fatti” e “giudizi di valore”. Mentre i primi sono suscettibili di dimostrazione, gli altri non sottostanno al test di verità, con la conseguenza che questi debbono essere valutati con maggior liberalità. Con una significativa precisazione, però: anche i giudizi di valore devono fondarsi su di una base fattuale sufficiente.

[30] Cfr. S. TURCHETTI, Cronaca giudiziaria: un primo passo della Corte di Cassazione verso l’abolizione della pena detentiva per la diffamazione, in DirittoPenaleContemporaneo,it, 2014: L’A., analizzando un simile caso, si riporta alla giurisprudenza in via di formazione intorno all’art. 10 CEDU: la Corte di cassazione ritiene la pena detentiva inadeguata nel caso di specie, in quanto incompatibile con la giurisprudenza della Corte Edu, che, scrivono i giudici di legittimità, per il ricorso alla pena detentiva in materia di diffamazione a mezzo stampa, "esige la ricorrenza di circostanze eccezionali": e, in effetti, anche secondo la Corte di cassazione, "ai fini del rispetto dell'art. 10 Cedu... per l'irrogazione della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa", si "esige la ricorrenza di circostanze eccezionali".

[31] A tal proposito, ritorna ancora una volta centrale l’indicazione fornita dai Giudici di Strasburgo nella sentenza n. 22350/2019:  la Corte ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

[32] Tra queste, va sottolineato il DDL S. n. 1119 approvato dal Senato della Repubblica il 29 ottobre 2014 e che, ancora oggi, non è ancora divenuto fonte legislativa. Il DDL prevede l’eliminazione delle pene detentive nei casi di diffamazione. Sul punto. V. M. MONTANARI, Il Senato approva il DDL in materia di diffamazione, in DirittoPenaleContemporaneo.it, 2014: di particolare interesse per il penalista è la completa riformulazione (operata già dal vecchio testo del ddl) del discusso art. 13 l. 47/1948 (rubricato "Pene per la diffamazione"), realizzata dall'art. 1 co. 5 del disegno di legge. La nuova norma riunisce le diverse fattispecie sanzionatorie relative alla diffamazione a mezzo stampa ed elimina qualsiasi riferimento alla pena della reclusione. […]. In relazione all’art. 595 c.p., anche per questa fattispecie viene eliminato ogni riferimento alla pena della reclusione e, contestualmente, viene irrigidito il trattamento sanzionatorio relativo alla pena pecuniaria.

[33] Sul punto, v. M. CUNIBERTI, Pene detentive per la diffamazione, responsabilità del direttore e insindacabilità delle opinioni del parlamentare: il “caso Belpietro” davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in OsservatorioAic.it, n. 1/2014: […] tale profilo è ritenuto irrilevante dalla Corte, che liquida in poche righe la questione della compatibilità con la Convenzione della disciplina italiana della responsabilità del direttore per omesso controllo: la Corte osserva che l’art. 57 del cod. penale non è, in sé, contrario alla Convenzione.

[34] Oltre a tale specifico aspetto, la disciplina per omesso controllo suscita ulteriori perplessità; sul punto, cfr. M. CUNIBERTI, op. cit.: la disciplina della responsabilità del direttore per omesso controllo appare irragionevole anche in quanto tratta nello stesso modo situazioni significativamente diverse. Si è già detto del fatto che il controllo è imposto a prescindere da qualsiasi considerazione circa la sua esigibilità in concreto; a ciò si può aggiungere che la responsabilità per omesso controllo finisce per accomunare, nell’identico trattamento sanzionatorio, situazioni profondamente diverse, come quella della pubblicazione di un articolo anonimo (o pubblicato sotto pseudonimo, se il direttore rifiuta di rivelare l’identità dell’autore), quella di scelte editoriali non imputabili all’autore ma, genericamente, alla redazione (come quelle relative alla intitolazione, alla presentazione, alla collocazione dell’articolo), e infine quella della pubblicazione di un articolo firmato, il cui autore è quindi sin dall’inizio facilmente individuabile e rispetto al quale non si pone pertanto, in alcun modo, un problema di «individuazione del responsabile»

[35] Cfr., sul punto, Cass. 5 novembre 2013, cit.: il direttore di un periodico on line non è responsabile per il reato di omesso controllo, ex art. 57 c.p., sia per l'impossibilità di ricomprendere detta attività on line nel concetto di stampa periodica, sia per l'impossibilità per il direttore della testata on line di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori "postati" direttamente dall'utenza. Contra, Cass. 11 dicembre 2017, in Guida al Diritto, 2018, 17, 83. La Suprema Corte ribalta il precedente orientamento, ritenendo che dal direttore di testata giornalistica online sia esigibile un controllo “totale”: tale responsabilità riguarda certamente i contenuti redazionali, ma non può escludersi neppure relativamente ai commenti inseriti ("postati") dagli utenti estranei alla redazione, perché, rispetto a tali ultimi contenuti, se pure si accertasse l'impossibilità per il direttore di impedirne la pubblicazione con gli opportuni, praticabili accorgimenti tecnico-organizzativi, ciò non sarebbe sufficiente a escludere la responsabilità per omesso controllo in relazione alla "permanenza" del commento incriminato, che il direttore avrebbe potuto e dovuto rimuovere.

[36] Cass. 16 ottobre 2014, in CED.