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Pubbl. Dom, 28 Lug 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Punitive damages: compatibilità con l´ordinamento italiano alla luce delle più recenti interpretazioni giurisprudenziali

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Giovanni Maria Sacchi
Magistrato OrdinarioUniversità degli Studi di Napoli Federico II


L´ordinanza in commento effettua una applicazione dell´art. 96,co.3 c.p.c. a corredo di una ordinanza di rigetto di un ricorso inammissibile. Intravedendo in questa norma uno strumento di deterrenza, la Cassazione avverte l´esigenza di riportarsi ad una lista di istituti analoghi redatta, per diversi fini, in un suo precedente reso a Sezioni Unite


Abstract

L'Ordinanza 16898/2019 si pone a valle di un percorso giurisprudenziale di "assorbimento" dei c.d. danni punitivi, forme di risarcimento aggiuntive di carattere sanzionatorio tipiche di altri ordinamenti. Tale evoluzione ha condotto la Suprema Corte a transitare da un giudizio di compatibilità di questi strumenti con l'ordine pubblico, ex art. 64 L. 218/1995, ad una sovrapposizione quasi completa fra queste misure di deterrenza ed altre figure esistenti nel nostro ordinamento, al fine di motivare e giustificare interpretazioni all'avanguardia che, probabilmente, possono rintracciarsi già al di qua dei nostri confini nazionali.

Sommario: 1. Una premessa sui danni punitivi. 2. La questione decisa dalla Ordinanza in commento. 3. Il concetto di “ordine pubblico” nella dottrina e nella più recente giurisprudenza 4. Le recenti Sezioni Unite sulla compatibilità dei danni punitivi nordamericani con l’ordine pubblico internazionale. Furono veri danni punitivi?  5. Conclusioni: un richiamo improprio nell’ordinanza 16898/19.

1. Una premessa sui danni punitivi.

L’istituto dei “danni punitivi” era, e forse è ancora oggi, di dubbia esistenza nel nostro ordinamento. Esso rappresenta una figura di origine nordamericana mediante la quale gli organi giudiziari hanno la possibilità di condannare il danneggiante al pagamento di una somma di denaro supplementare in favore del danneggiato, in virtù del particolare disvalore insito nel fatto illecito commesso. La somma equitativamente determinata esula dal “danno” in senso stretto – ovvero il pregiudizio patrimonialmente valutabile subito dalla vittima – e assume, quindi, una valenza sanzionatoria.

Il tema in questione suscita un certo fascino negli interpreti, in quanto esso si riallaccia alla più ampia dicotomia storicamente esistente fra risarcimento del danno e sanzione: al primo viene tendenzialmente assegnato il compito di ristorare il danneggiato per i pregiudizi sofferti, anche di carattere non patrimoniale purchè siano economicamente valutabili, consistenti nelle perdite effettivamente subite e nelle occasioni di lucro andate perdute; alla seconda, la sanzione, viene generalmente assegnato il ruolo di punire l’autore della condotta per il comportamento tenuto (la massima espressione della sanzione è quella penale, ma esistono anche sanzioni di carattere amministrativo, tributario, ecc.). Ai fini dell'applicazione della sanzione, quindi, ciò che normalmente viene in rilievo è il disvalore della condotta tenuta, disvalore che ai fini della risarcibilità del danno può rilevare come presupposto fattuale (basti pensare al fatto illecito quale causa del danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c.), o, al più, ai fini della determinazione del quantum risarcibile.[1]

Nel nostro ordinamento tecnicamente tutto quello che la vittima (e non lo Stato) incassa a titolo di “danno” per ciò solo non è “sanzione”, differentemente da quel che si verifica con riferimento all’istituto che ci occupa. I “punitive damages” sopra descritti sono stati oggetto di attenzione della più recente giurisprudenza che, specialmente grazie ad una fondamentale pronuncia a Sezioni Unite, se n’è occupata esclusivamente ai fini del riconoscimento delle sentenze di condanna straniere che in Italia dovevano essere eseguite. Più precisamente, nella questione sottoposta alle Sezioni Unite non era in discussione l’applicabilità di un istituto di diritto interno, ma la compatibilità dei danni punitivi, di provenienza estera, con l’insieme dei principi posti alla base del nostro ordinamento. La differenza fra la valutazione sottesa all’applicazione diretta di un istituto di diritto interno e il giudizio di compatibilità di un istituto straniero con l’ordine pubblico si sostanzia, come vedremo, in una sottile sfumatura. Se la differenza è ben colta appaiono anche meno problematici i termini della questione.

Alla luce di questa premessa, l’ordinanza 16898/19 potrebbe sembrare, almeno apparentemente, in contraddizione con quanto appena affermato. In realtà, verrà dimostrato che il riferimento alle Sezioni Unite del 2017 in essa contenuto può apparire semplicemente il frutto di una superflua esigenza motivazionale che, in quelle circostanze, non era necessaria.

2. La statuizione incidentale dalla ordinanza in commento.

Con l’ordinanza in commento la Cassazione ha rigettato tutte le questioni poste alla base del ricorso proposto dinanzi ad essa, in quanto palesemente inammissibili per assenza di specificità ed autosufficienza, e quindi, come tali, del tutto pretestuose e rivolte unicamente al prolungamento delle tempistiche processuali. Alla luce di ciò la Corte ha condannato il ricorrente al pagamento della sanzione prevista dall’art. 96, co.3, c.p.c., il quale prevede che  “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. La norma appena indicata rappresenta uno strumento di deterrenza nella piena disponibilità del giudice, rivolto a reprimere le condotte di uso abusivo del processo, ovvero di comportamenti endoprocessuali distorti posti in essere esclusivamente per guadagnare tempo o per tentare di ribaltare pronunce sfavorevoli mediante atteggiamenti difensivi palesemente pretestuosi, contraddittori, o comunque privi di ogni minima possibilità di riuscita e rivolti unicamente a trarre vantaggi ingiustificati.[2]

In particolare, la Cassazione ha stabilito che "la condanna ex art. 96, comma  3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'aver agito o resistito pretestuosamente ( Cass. 27623/2017) e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione. 6.3.Tale pronuncia è stata preceduta da un altro fondamentale arresto volto a valorizzare la sanzione prevista dalla norma, secondo il quale "nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei "risarcimenti punitivi"(Cass.SSUU 16601/2017) : nella motivazione della sentenza richiamata/l'art. 96 u.co cpc è stato inserito nell'elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza.” […].

In altri termini, la Suprema Corte avverte l’esigenza di richiamare incidentalmente il proprio precedente a Sezioni Unite del 2017 per giustificare l’applicazione dell’art. 96, co.3, c.p.c. senza alcun accertamento del dolo o della colpa da parte del destinatario della misura. Il punto di contatto che giustifica il richiamo alla Sentenza 16601 del 2017 è l’inserimento, da parte di quest’ultima, dell’art. 96, co.3 c.p.c. in una lista di norme interne da essa stessa formato che, secondo l’ordinanza, costituirebbe un’elencazione di vere e proprie ipotesi di danni punitivi nostrani con funzione di deterrenza. Questi istituti avrebbero consentito il riconoscimento dei provvedimenti stranieri di condanna ai c.d. “punitive damages” così come illustrati in premessa. Quasi come se si trattasse di una interpretazione analogica, il decalogo degli istituti affini agli esterofili danni punitivi, così redatto, avrebbe reso la figura dei danni punitivi compatibile con l’ordine pubblico interno consentendo la trascrizione di siffatti provvedimenti stranieri ai sensi dell’art. 64 della L. 218/1995.

Ma le Sezioni Unite hanno davvero riconosciuto la presenza di danni punitivi, o comunque di analoghi strumenti di deterrenza, nel nostro ordinamento?    

Appare doveroso un passo indietro per capire cosa si intende per “ordine pubblico” e, di conseguenza, se questo “elenco” presente nella pronuncia a Sezioni Unite 11601/17 sia correttamente richiamato nell’ordinanza in commento.

3.    Il concetto di ordine pubblico nella dottrina e nella più recente giurisprudenza

La nozione di “ordine pubblico” non è mai stata chiara ed univoca agli interpreti a causa della impalpabilità dei suoi confini contenutistici nonché di fuorvianti indicazioni normative rinvenibili nella materia contrattuali, figlie di orientamenti politici non più attuali (in particolare, gli artt. 1343 e 1229, co. 2, c.c.). L’ordine pubblico veniva tradizionalmente riconosciuto come un limite posto all’autonomia negoziale che impediva ai privati di scavalcare quella che era la volontà legislativa implicitamente ricavabile dal contesto ordinamentale del regime fascista. In questo senso, esso costituiva una extrema ratio di censura da parte del giudice, quest’ultimo servente rispetto al potere esecutivo, ogni qual volta un assetto negoziale si rivelava eversivo rispetto ai principi del regime, pur non venendo esso espressamente vietato da nessuna norma imperativa.[3]

Rivisitato successivamente, alla luce dei principi di un ordinamento giuridico democratico di ispirazione costituzionale, l’ordine pubblico ha assunto la funzione di impedire che i privati potessero darsi un assetto di interessi contrario ai valori e ai principi ricavabili dall’intero assetto ordinamentale in un dato momento storico, ovvero non solo dalla Costituzione, ma anche dai principi fondamentali desumibili dai codici, dalle leggi ordinarie e, più in generale, dalle norme fondamentali non necessariamente aventi carattere imperativo ma comunque espressione della struttura sociale di riferimento.[4] Esso costituisce, in altri termini, l’insieme dei valori che il nostro ordinamento considera irrinunciabili. Così, ad esempio, in materia contrattuale è stato ritenuto contrario all’ordine pubblico l’accordo volto a trasferire su terzi, anche solo indirettamente, le conseguenze sanzionatorie penali anche se solo di carattere pecuniario, perché lesivo del principio della personalità della responsabilità penale rinvenibile nell’art. 27Cost.[5]

A dimostrazione del carattere mutevole e proteiforme del concetto di ordine pubblico basti pensare al fatto che in diritto penale esso esprime un bene giuridico identificabile nella tranquillità, nella sicurezza e nella pacifica convivenza dei cittadini[6], mentre nel settore giuridico-economico alcuni autori hanno teorizzato la configurabilità di un vero e proprio “ordine pubblico economico” retto da regole sue proprie, quasi slegato dal concetto civilistico di ordine pubblico in generale e ricavabile dalla legislazione speciale in materia valutaria.[7] Sicuramente è di ordine pubblico la normativa comunitaria, specialmente quella rivolta a puntualizzare la disciplina della concorrenza, così come dimostra il pedissequo recepimento dell’ordinamento interno.[8]

Nel campo del diritto internazionale privato l’ordine pubblico occupa una sua autonoma dimensione. L’art. 16 della L. 218/1995 stabilisce che “la legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico. In tal caso si applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana”. Si ritiene che l’ordine pubblico così indicato abbia una portata più limitata di quella rinvenibile nell’art. 1343 c.c. poiché ha lo scopo di limitare fattispecie che presentano elementi di collegamento con altri ordinamenti, implicando di conseguenza una maggiore elasticità di valutazione. L’ordine pubblico è ripreso dall’art. 64 della stessa legge di diritto internazionale privato. Esso sancisce il riconoscimento automatico dei provvedimenti giurisdizionali stranieri – in sostituzione dell’abolito giudizio di delibazione delle sentenze straniere di cui agli artt. 796 e ss. c.p.c. – i quali producono direttamente effetti in Italia a condizione che siano qualificabili come sentenze, che sussista la giurisdizione di un giudice straniero, che sia stato integro il contraddittorio, che non vi sia litispendenza con altro processo italiano  o conflitto con un precedente giudicato fra le stesse parti pronunciato in Italia, nonché, appunto, che la sentenza straniera in questione non produca effetti contrari all’ordine pubblico.

Con riferimento allo specifico scopo assolto dall’ordine pubblico così richiamato la più recente giurisprudenza ha compiuto una ulteriore distinzione fra ordine pubblico interno e ordine pubblico internazionale. Quest’ultimo va inquadrato in una in una concezione negativa, rappresentando esso un limite al normale funzionamento delle norme di diritto internazionale privato che impedisce che possano trovare riconoscimento in Italia istituti giuridici in contrasto con quei principi fondamentali che costituiscono le basi etiche della comunità nazionale.

In questo senso, l’operazione ermeneutica che si dovrebbe compiere nella suddetta operazione comparativa non è analogica. Il giudice non dovrebbe andare a ricercare istituti affini nel diritto interno ma dovrebbe andare ad osservare i principi fondamentali dell’ordinamento in quel dato momento storico raffrontandoli con i principi delle diverse comunità esistenti a livello internazionale, dovendo egli domandarsi quale sorte avrebbe un istituto di tale fattura qualora esso esistesse nell’ordinamento interno. Questa dovrebbe essere l’operazione ermeneutica da compiersi, anche perché una ricerca diretta al rinvenimento di istituti analoghi non potrebbe che condurre l’interprete ad un esito negativo, di contrarietà automatica all’ordine pubblico. L’operatore cadrebbe inevitabilmente in un circolo vizioso. Contemporaneamente, però, il concetto di ordine pubblico internazionale abbraccia e contiene necessariamente in sé anche l’aspetto “interno”, altrimenti si ricadrebbe nella accettazione sic et simpliciter di istituti di origine straniera solo perché evidentemente compatibili con i principi che ispirano gli altri Stati e che, del resto, giustificano la loro stessa esistenza negli ordinamenti di provenienza. Per utilizzare le parole della Suprema Corte, l’ordine pubblico così inteso rappresenta “il complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati ad un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria”.[9]

L’ordine pubblico internazionale non tiene in considerazione solo norme fondamentali interne o solo principi costituzionali stranieri, ma esprime valori internazionali condivisi dalle varie comunità nel loro complesso e che si traducono in esigenze universali ed irrinunciabili di tutela della persona e della dignità umana. L’interprete dovrà quindi prendere in considerazione non solo la Costituzione e i principi fondamentali posti alla base dell’ordinamento interno ma anche i principi fondamentali della CEDU (quale parametro sub-primario al quale si accede tramite il portale del 117 Cost.) e delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute a cui l’ordinamento si conforma, come del resto già l’art. 10 Cost. sancisce espressamente. Ne sono consapevoli le stesse Sezioni Unite, le quali, con la Sentenza 12193/2019 hanno salomonicamente stabilito che il divieto di maternità surrogata di cui all’art. 12 della L. 40/20004 costituisce un limite di ordine pubblico irrinunciabile dinanzi alla genitorialità a tutti i costi, sia pure in comparazione con il diverso principio dell’interesse del minore, riconoscendo nell’adozione “in casi particolare” di cui alla lettera d) dell’art. 44 della legge 184/1983 una clausola di salvaguardia rivolta ad assicurare la continuità delle relazioni affettive.[10]

Alla luce della sopraindicata definizione di ordine pubblico così raggiunta è possibile verificare se le citate Sezioni Unite 16601/2017, in materia di danni punitivi, si siano effettivamente attenute a tali coordinate da essa stessa riconosciute in altre occasioni o siano cadute in una ricerca riduttiva che rischia solo di divenire, se non ben compresa dagli operatori, uno sterile accorpamento di strumenti di deterrenza tutti made in Italy che probabilmente tali non sono. 

4.   Le recenti Sezioni Unite sulla compatibilità dei danni punitivi nordamericani con l’ordine pubblico internazionale. Furono veri danni punitivi?

Nel giudizio di comparazione imposto dall'art. 64 della L. 218/1995, come si è detto, l’interprete deve compiere questa duplice operazione: 1) individuare la ratio e i principi ispiratori sottesi all’istituto straniero; 2) comparare questi ultimi con i principi fondamentali dell’ordinamento interno, così come integrato dai valori universalmente riconosciuti dalle comunità nazionali e verificare se un siffatto istituto possa effettivamente ritenersi confliggente con questi ultimi. A questo scopo, le richiamate ipotesi normative di condanna al pagamento di somme di denaro non possono che costituire non dei “punitive damages” dell’ordinamento interno ma semplicemente degli indici normativi dai quali potersi desumere, come argomento di verifica e ad abundantiam, che esistono istituti rispondenti a molteplici funzioni e che dimostrano che la concezione riparatoria del risarcimento del danno, intesa come esigenza di ristorare un pregiudizio subito, non costituisce un carattere fondamentale e imprescindibile della tutela dei diritti di carattere risarcitorio, non esistendo un siffatto limite né negli artt. 24 e 113 della Costituzione, né fra i principi fondamentali di matrice sovranazionale.

Ciò non significa che questi istituti così raggruppati siano tutte sanzioni perfettamente parificabili ai c.d. “punitive damages”, che per ciò solo esisterebbero nel nostro ordinamento, come si afferma con disinvoltura nella più recente letteratura giuridica[11] e nella ordinanza 16898/2019.

In particolare, fra i vari istituti indicati dalle Sezioni Unite 16601/17 vi rientrano:

  • L’art. 12 della L. 47 del 1948 in materia di diffamazione a mezzo stampa che prevede il pagamento di una somma di denaro “in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”;
  • Il citato art. 96, co. 3, c.p.c., che in questa sede più direttamente ci riguarda;
  • L’art. 709-ter c.p.c. per il caso della mancata ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza emessa in tema di affidamento della prole.
  • L’art. 125 del d.lgs. 30/2005 che, in materia di tutela della proprietà industriale, prevede un risarcimento parametrato ai profitti realizzati abusivamente dall’utilizzatore, a prescindere dalle perdite effettivamente subite;
  • 614 bis c.p.c., introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, il quale contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria per ogni violazione ulteriore o ritardo nell’esecuzione del provvedimento, tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile;
  • l’art. 18, comma 14, dello statuto dei lavoratori, ove, a fronte dell’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, la mancata reintegrazione è scoraggiata da una sanzione aggiuntiva;

A ben vedere, non tutti questi istituti hanno uno scopo sanzionatorio e di deterrenza in senso stretto.

Certamente è possibile affermare ciò con riferimento all’art. 96, co. 3, c.p.c. perché guarda al disvalore del comportamento tenuto, anche se con esclusivo riferimento a quello di carattere endoprocessuale, senza guardare al “fatto” quale presupposto della azione giudiziale intrapresa.

Già qualche dubbio può profilarsi con riferimento alla condanna in seguito a diffamazione a mezzo stampa, ove l'ancoraggio della misura alla "gravità" e alla "diffusività" dello stampato possono apparire come una spia presuntiva del danno non patrimoniale subito dalla vittima della diffamazione, ed in questo senso lo strumento potrebbe conservare una natura riparatoria, seppur particolarmente atteggiata.

Ad una funzione del tutto diversa risponde lo strumento di cui all’art. 614-bis, meglio conosciuto come “astreinte” grazie all'omonimo istituto francese. Esso consiste in una misura coercitiva volta a compulsare il debitore, spingendolo verso l’adempimento di una prestazione infungibile, ovvero non eseguibile in forma specifica. Tendenzialmente allo stesso scopo risultano orientate la misura di cui all’art. 18, co. 14, dello Statuto dei Lavoratori (tant’è che lo stesso art. 614-bis c.p.c. esclude che l'astreinte possa applicarsi ai rapporti di lavoro subordinato), così come l’art. 709-ter in materia di inadempienze ad obblighi derivanti dalla responsabilità genitoriale, anche se queste ultime due misure comportano il versamento di questa somma presso la Cassa delle ammende. Ciò comporta che il giudice, nel determinare l'importo, dovrà considerare lo scopo coercitivo cui la figura mira, e quindi la natura della prestazione che deve essere adempiuta e, soprattutto, il danno che potrebbe derivare da un’impossibilità definitiva di soddisfacimento dell’interesse finale (danno che rientra prepotentemente dalla porta di servizio), nonché ogni altra circostanza utile, compreso l’elemento soggettivo, senza che venga in rilievo la gravità del fatto.[12]

Diverso ancora sarebbe il discorso inerente all’art. 125 del Codice della proprietà industriale, il quale sembrerebbe predisporre uno strumento di retrocessione degli utili conseguiti dall’usurpatore del segno distintivo, rispondente più ad un’ottica restitutoria ricollegabile alla logica dell’arricchimento senza causa che ad una funzione sanzionatorio – preventiva.[13]  

Ciò nonostante, la necessaria premessa è che non esiste nessun principio fondamentale, costituzionale o sovranazionale, che ci impone di rinchiudere la funzione risarcitoria negli angusti confini della riparazione del pregiudizio subito.

Se le Sezioni Unite 16601/2017 vengono lette in questi termini, ecco che gli istituti così raggruppati non appaiono più come delle sanzioni equiparabili ai danni punitivi, bensì degli indici che dimostrano che la funzione riparatoria non è un carattere imprescindibile del nostro ordinamento. In questo senso, i danni punitivi di matrice nordamericana, se realmente introdotti, potrebbero tranquillamente vivere nel nostro ordinamento senza rischiare un vaglio di costituzionalità. Questo è l’iter logico sotteso al controllo di cui all’art. 64 L.218/1995 e che in un giudizio di applicazione diretta di un istituto di diritto interno non è dovuto.

Conclusioni: un richiamo improprio nell’ordinanza 16898/2019

L’ordinanza in commento, come si è visto in precedenza, afferma che non è necessario l'accertamento del dolo o della colpa ai fini dell’erogazione della misura, come invece si sostiene per gli strumenti posti a contrasto della lite temeraria dei commi precedenti dell’art. 96 c.p.c.

Per legittimare questa interpretazione, tuttavia, gli Ermellini identificano l’istituto in questione come uno fra i vari strumenti con funzione di deterrenza, rintracciando l’art. 96, co. 3, c.p.c. nella lista stesa dal precedente a Sezioni Unite del 2017.

Quell’elenco però, come si è visto, assolve a tutta un’altra funzione dimostrativa. Di sicuro è condivisibile l'assunto secondo il quale non è necessario il riscontro dell'elemento soggettivo. Tuttavia, ciò non significa né che ogni strumento di questo genere costituisca un provvedimento di condanna al risarcimento di “danni punitivi” nella originaria concezione statunitense dell’istituto, né che ogni forma di responsabilità oggettiva abbia una natura sanzionatoria; anzi, nella logica della deterrenza l’assenza dell’elemento soggettivo costituisce l’eccezione, non la regola. 

La motivazione che giustifica il mancato accertamento del profilo soggettivo va rintracciata nell’esigenza, tutta nostrana, di munire il giudice di una sorta di clausola di apertura in grado di reprimere agevolmente ogni più disparata forma di abuso processuale non tipizzabile e non stigmatizzabile aprioristicamente, se non mediante l’erogazione di una sanzione determinabile in via equitativa.

Secondo alcuni autori, se si trattasse di “punitive damages” in senso stretto la norma in questione sarebbe caratterizzata da un deficit di determinatezza nei criteri di commisurazione che la renderebbero incostituzionale.[14] Invece la Corte costituzionale, condividendo l’assunto secondo il quale il risarcimento del danno può assumere nel nostro ordinamento una funzione non solo riparatoria, ha chiarito che  il richiamo all’equità costituisce una sufficiente “base legale” per indirizzare la discrezionalità del giudice nella emanazione di una eventuale condanna.[15]

Chi invece vede in questa giurisprudenza recente la piena affermazione dell’esistenza dei danni punitivi nel nostro ordinamento ritiene che questi strumenti di deterrenza dovrebbero trovare applicazione solo in casi gravemente dolosi, per evitare il rischio di un innalzamento massiccio dei premi assicurativi e di altri effetti distorsivi del mercato.[16]

Note e bibliografia

[1] In questo senso, ad esempio, si atteggia la previsione dell’art. 7, co.3, della Legge 24/2017 in tema di responsabilità medica, la quale prevede che “Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 5 della presente legge e dell’art. 590-sexies del codice penale, introdotto dall’art. 6 della presente legge”.

[2] Secondo Cass. SS.UU. 21620/2016 costituisce una tipica espressione di abuso del processo quella posta in essere dall’appellante che, nell’intento di riformare la sentenza di primo grado a lui sfavorevole nel merito, contesta la giurisdizione da lui stesso adita; con ciò fornendo una interpretazione dell’art. 37c.p.c. in assoluta tensione con il dato letterale della norma, che consente al giudice di rilevare d’ufficio in ogni stato e grado il difetto di giurisdizione. Di abuso processuale è stata tacciata anche la condotta di frazionamento del credito unitario in più domande giudiziali. Sul punto, cfr. Cass. SS.UU. 23726/2007.

[3] F.GAZZONI, Manuale di diritto privato, Ed. Scientifiche Italiane, 2009, pag. 799.

[4] F. GALGANO, Trattato di diritto civile, Vol. II, CEDAM, 2015, pp. 381 e ss.; G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, pp. 110 e ss.

[5] Cass. 1975/1991; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 800

[6] C. FIORE, voce Ordine pubblico, in ED, vol. XXX, Milano, 1980, p. 1057

[7] P. RESCIGNO, L’ordine pubblico economico, in Riv. Dir. civ., 1966, I, p. 30.

[8] Cass. 827/1999 su Foro Italiano, 1999, I, p. 831.

[9] Cass. 19599/2016

[10] Così conclude Cass. SS.UU. 12193/2019 non senza destare qualche perplessità, per le quali si rinvia ad A. VITALE, La maternità surrogata nella Sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 12193/2019 su www.centrostudilivatino.it, 23 maggio 2019. 

[11] Cfr. F. CARINGELLA – D. DI MATTEO, Il nuovo volto polifunzionale del risarcimento del danno, in Lezioni e Sentenze di diritto civile, DIKE, 2019, pp. 261 e ss.

[12] Anche se, pur configurandosi come una misura coercitiva, non è previsto che la somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento possa essere modificata nella misura o nelle modalità, come è previsto per l’analogo istituto d’oltralpe. Sul punto, cfr. E. VULLO, l’esecuzione indiretta tra Italia, Francia e Unione Europea, in Riv. It. Dir. proc. Civ., 2004; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in Riv. Trim. dir. proc. Civ., 2010, pp.200 e ss.

[13]Cfr. F.CARINGELLA – L. BUFFONI, Manuale di diritto civile, IV ed., DIKE, 2013, pp. 1309 e ss.

[14] Alcune opinioni sono riportate in F. CARINGELLA – D. DI MATTEO, op. cit., pp. 261 e ss.

[15] Sent. C. cost. 139/2019.

[16] F. BENATTI, I danni punitivi nel panorama attuale, pubb. su www.giustiziacivile.com il 24.05.2017.

Bibliografia e sitografia:

P. RESCIGNO, L’ordine pubblico economico, in Riv. Dir. civ., 1966

G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970

C. FIORE, voce Ordine pubblico, in ED, vol. XXX, Milano, 1980

E. VULLO, l’esecuzione indiretta tra Italia, Francia e Unione Europea, in Riv. It. Dir. proc. Civ., 2004

F.GAZZONI, Manuale di diritto privato, Ed. Scientifiche Italiane, 2009

E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in Riv. Trim. dir. proc. Civ., 2010

F.CARINGELLA – L. BUFFONI, Manuale di diritto civile, IV ed., DIKE, 2013

F. BENATTI, I danni punitivi nel panorama attuale, pubb. su www.giustiziacivile.com il 24.05.2017.

F. CARINGELLA – D. DI MATTEO, Il nuovo volto polifunzionale del risarcimento del danno, in Lezioni e Sentenze di diritto civile, DIKE, 2019

A. R. VITALE, La maternità surrogata nella Sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 12193/2019 su www.centrostudilivatino.it, 23 maggio 2019