Pubbl. Sab, 9 Mag 2015
Il nuovo accordo tra FCA e sindacati sui bonus retributivi ai dipendenti
Modifica paginaLa FCA vara una nuova politica retributiva prevedendo la partecipazione dei dipendenti ai risultati d´impresa: effetti utili e profili problematici della nuova disciplina.
In occasione dell’incontro con le Organizzazioni Sindacali, tenutosi nel mese scorso, l’Amministratore Delegato di FCA ( Fiat Chrysler Automobiles), Sergio Marchionne, ha inaugurato una nuova stagione delle relazioni industriali resa possibile dall’introduzione di un’innovativa politica salariale e caratterizzata dal definitivo superamento della tradizionale antitesi tra capitale e lavoro. Il risultato cui si tende consiste nel determinare la partecipazione diretta dei dipendenti alla produttività e redditività dell’impresa. Il nuovo piano retributivo si articola in due elementi addizionali al salario base:
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Un bonus commisurato ai risultati di efficienza produttiva ascrivibile agli stabilimenti di appartenenza del singolo dipendente, adottando quali parametri valutativi il programma di World Class Manufacturing. Tale bonus, da erogare con cadenza annuale, rappresenterà il 5% del salario base in caso di raggiungimento dei obiettivi prefissati, fino ad ammontare, in caso di “over performance”, al 7,2% del salario;
- Un secondo elemento addizionale subordinato al conseguimento dei risultati economici per l’area EMEA. Nel quadriennio, il compenso ammonterebbe al 12% del salario base fino ad un massimo del 20% in caso di prestazioni eccezionali.
Il piano della retribuzione variabile, ove applicato ad un dipendente di livello contrattuale medio (ad es. ad un operaio specializzato), comporterebbe per gli anni 2015, 2016, 2017 l’ulteriore erogazione di 1.400 € annui. Viceversa, nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di produttività, il sistema assicura un’erogazione minima di 300 € all’anno.
La nuova politica retributiva ambisce alla riscoperta della centralità dei lavoratori nel sistema delle relazioni industriali, affidandosi al loro contributo ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi del piano industriale 2015-2018. La portata innovativa che colora la proposta di Marchionne risulta notevolmente temperata dal Protocollo del 23 luglio 1993, che prevede – nell’ottica del riparto di competenze tra contrattazione collettiva a livello nazionale ed aziendale – l’introduzione di forme retributive variabili “strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività compresi i margini di produttività”.
In particolare si distingue tra premi di produttività, parametrati ad indici di qualità e quantità del prodotto, aventi funzione incentivante dell’impegno lavorativo e premi di redditività ancorati ad indici di fatturato, utile di esercizio e risultato della gestione. A differenza dei primi che svolgono una funzione premiante della professionalità, quest’ultimi, in quanto agganciati ad elementi estranei alla prestazione lavorativa e dipendenti da scelte gestionali strategiche, consentono la flessibilizzazione della retribuzione in momenti di difficoltà economica. L’aspetto vantaggioso, che si coglie con estrema evidenza, della partecipazione dei lavoratori ai risultati dell’azienda è dato dal promuovere la professionalità e l’impegno nell’ottica di maggiori benefici sia individuali sia collettivi, in termini di successo dell’impresa sul mercato.
Tuttavia l’effettiva funzionalità del modello partecipativo richiede una valutazione in concreto del contesto aziendale di riferimento. Nel caso dei dipendenti di FCA, l’introduzione delle voci retributive variabili è abbinata ad una saturazione dei tempi di lavoro: il singolo operaio lavora per più tempo ma nella prospettiva di una maggiorazione solo eventuale della retribuzione. Ed infatti, laddove gli obiettivi di produttività non si raggiungano ciò che residua è solo la corresponsione del tutto irrisoria di 300 € annui. L’espediente proposto da Marchionne, lungi dal configurarsi come una rivoluzionaria ed effettiva forma partecipativa dei lavoratori ai risultati produttivi, confina il coinvolgimento dei dipendenti ad una mera eventualità. D’altra parte il nostro sistema normativo offre una vasta gamma di opzioni per determinare il cointeressamento dei lavoratori alla redditività dell’impresa nella forma più evoluta della partecipazione finanziaria. Si tratta di un’espressione, quest’ultima, che racchiude due diversi strumenti partecipativi: la partecipazione agli utili e l’azionariato dei dipendenti.
In entrambe le forme citate il coinvolgimento dei lavoratori ai risultati dell’attività produttiva si determina mediante l’acquisto della qualità di soci, sebbene diverso sia il modo di procedere. Ai sensi dell’art. 2349 cod.civ. , in virtù di un’apposita previsione statutaria, l’assemblea straordinaria può deliberare l’assegnazione di utili ai dipendenti della società o di società controllate mediante la capitalizzazione degli utili stessi e, per un importo corrispondente, l’emissione di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente e gratuitamente ai prestatori di lavoro. Diversamente l’azionariato dei lavoratori è incentivato sul piano procedurale dall’art.2358, ult. co., cod. civ. che consente alla società di fornire prestiti e garanzie a favore dei dipendenti per la sottoscrizione o l’acquisto di azioni proprie, con l’osservanza del solo limite degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato. Ed ancora, tra le ipotesi legali di esclusione o limitazione del diritto di opzione figura anche l’assegnazione a pagamento di azioni di nuova emissione ai dipendenti della società, a norma dell’art. 2441, 8° comma, cod. civ. In quest’ultimo caso la funzione perequativa del diritto di opzione viene accantonata in vista dell’interesse preminente all’azionariato dei dipendenti.
Comparazione con altri modelli inglesi e statunitensi
Tuttavia le forme di partecipazione finanziaria sperimentate nella realtà industriale italiana risultano strutturalmente povere se raffrontate ai complessi modelli inglesi e statunitensi. Senza dubbio il modello tecnicamente più avanzato è quello mutuato dall’ordinamento statunitense e prende il nome di ESOPs (employee stock ownership plans).
L’ESOP, nato nel 1974, è un modello polimorfo e flessibile. Nonostante la scarna disciplina legislativa l’istituto ha conosciuto una pluralità di configurazioni applicative, dettate dall’autonomia negoziale e rispondenti alle particolari esigenze operative delle imprese. Al di là delle numerose varianti, il modello basico prevede il passaggio della titolarità di azioni dalla società datrice di lavoro ai propri dipendenti mediante la costituzione di un’apposita società fiduciaria (Trust) avente una personalità giuridica distinta dalla società promotrice, detta Society Sponsor. La società fiduciaria, utilizzando i fondi ottenuti mediante un prestito bancario di regola garantito dalla stessa società promotrice, acquista le azioni di quest’ultima con il compito di gestirle nell’interesse dei lavoratori. Decorso un certo periodo di tempo, e man mano che la società fiduciaria estingue il suo debito mediante i contributi regolarmente versati dalla Society Sponsor, le azioni di importo corrispondente alla porzione di debito rimborsato, vengono assegnate gratuitamente ai dipendenti in base a livello retributivo ed all’anzianità di servizio. Si tratta di una forma di azionariato collettivo che si traduce in un notevole vantaggio per il singolo lavoratore azionista. Infatti nel caso in cui la Society Sponsor non sia quotata in borsa, il dipendente, che alla cessazione del rapporto di lavoro consegue la disponibilità del pacchetto azionario di sua spettanza, può rivenderlo alla stessa società al prezzo predeterminato, fissato al momento di acquisto da parte della società fiduciaria. Se viceversa la società promotrice è una società quotata in borsa, il dipendente alla fine del rapporto di lavoro vedrà la sua posizione tramutata in azionista e sarà pertanto libero di vendere le azioni sul mercato.
Gli ESOPs di fatto consentono ai lavoratori di diventare, per effetto di un processo diluito nel tempo, futuri possessori del capitale sociale e producono sugli stessi dipendenti un effetto incentivante della produttività e competitività dell’impresa. L’indirizzamento degli investimenti dei dipendenti in azioni della società comporta una responsabilizzazione dei dipendenti e crea una stretta correlazione tra successo dell’impresa e benefici individuali attesi dai lavoratori. Dalla prospettiva dei dipendenti, l’ESOP realizza una particolare modalità di erogazione del trattamento pensionistico non assimilabile ai tradizionali fondi pensione per il profilo della diversificazione dell’investimento: sussiste un obbligo legale in capo al fondo (trust o società fiduciaria) di investire primariamente in azioni della Società promotrice e, solo in via supplementare, anche in altri titoli azionari. L’investimento azionario viene dunque incanalato nell’ambito della società in cui gli stessi dipendenti sono impiegati in coerenza all’obiettivo (proprio dell’istituto in esame) della cooperazione tra lavoro e capitale.
La prassi applicativa del modello ESOP ha rivelato come la finalità partecipativa, pur in origine determinante, non esaurisce i possibili obiettivi cui si presta tale particolare tecnica di azionariato dei dipendenti. In primo luogo l’ESOP opera quale strumento per l’agevole successione delle PMI a gestione familiare, proponendosi quale alternativa alla vendita dell’azienda ad acquirenti esterni. Infatti delegando progressivamente quote azionarie alla gestione fiduciaria del fondo, si attua un graduale trasferimento della proprietà azionaria dell’azienda a favore del gruppo di dipendenti interessati alla futura continuazione dell’attività. Tale espediente evita l’immediata perdita del controllo societario e garantisce l’integrità del complesso aziendale ed il mantenimento dei livelli occupazionali.
Al contempo l’ESOP si configura come una misura protezionistica a fronte delle c.d. scalate ostili, vale a dire dell’acquisizione da parte di terzi estranei all’impresa del controllo societario. Tale aspetto si coglie nell’ulteriore effetto correlato alla costituzione dell’ESOP che consiste nella creazione di un mercato interno della società in genere non quotata, ove le azioni della stessa possono essere vendute dai dipendenti uscenti in virtù della pensione allo stesso fondo fiduciario che, a sua volta, li ricolloca presso gli azionisti o i lavoratori che intendono invece potenziare la loro posizione all’interno dell’impresa. La proprietà delle azioni confluisce verso un unico polo, fatto da azionisti della società promotrice e suoi dipendenti, e si sottrae al rischio di acquisizione da parte di gruppi esterni: le azioni, la cui gestione è durevolmente assegnata al fondo, sono stabilmente e saldamente controllate dalla società.
Altra potenzialità degli ESOPs si sostanzia nel contenimento del costo del lavoro, specialmente in situazioni di crisi dell’impresa. Una simile forma di partecipazione azionaria è stata utilizzata per affrontare situazioni di crisi del mercato che hanno spinto i lavoratori ad accettare una contrazione o diminuzione della retribuzione in vista della futura partecipazione al capitale.
I limiti del modello anglosassone
Nonostante gli indubbi vantaggi dell’ ESOP, il modello presenta un forte limite che ne intacca l’efficacia. La criticità di fondo del sistema emerge proprio sul piano partecipativo: i diritti di voto relativi alle azioni detenute dal fondo esulano dalla disponibilità dei singoli dipendenti, nonché futuri titolari, per essere esercitati dagli amministratori fiduciari (i c.d. trustees).
Quest’ultimi sono di regola nominati dagli stessi amministratori della società promotrice e ciò si traduce, con tutta evidenza, in un potenziamento, se pur solo temporaneo, del controllo dell’impresa da parte del management. Pertanto, stante l’assegnazione dei diritti di voto agli stessi amministratori del fondo, il modello ESOP non si atteggia come modello di partecipazione “forte”, con coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali della società, ma si arresta alla fase puramente economica di cointeressenza dei dipendenti ai risultati economici dell’impresa. Nella consapevolezza di tale limite strutturale si è tentato di introdurre un correttivo mediante la creazione dei c.d. “ESOPs democratici”, nei quali ai dipendenti è riconosciuta la titolarità dei diritti di voto inerenti alle azioni in gestione del trust. Si tratta però di un modello il cui utilizzo, del tutto eccezionale, è occasionato da situazioni di crisi del mercato e non configura una forma di partecipazione democratica all’impresa estranea alla logica dell’istituto di base.
In ultima analisi, tanto i bonus di produttività della strategia salariale di FCA, quanto gli strumenti partecipativi statunitensi, suggeriscono una tecnica di coinvolgimento dei prestatori di lavoro nell’impresa che si blocca al piano meramente economico retributivo, mancando l’obiettivo della democratizzazione della gestione aziendale.
Comparazione con il modello tedesco di cogestione
In un’ottica comparata, il sistema di partecipazione diretta che si affaccia sullo scenario comunitario deriva dall’esperienza giuridica tedesca ed è noto come modello di “codecisione” o “codeterminazione”.
Il “Mitbestimmung” è strutturato sul sistema dualistico di amministrazione e controllo, in base al quale la gestione della società compete al Consiglio di Amministrazione mentre la funzione di controllo sull’operato degli amministratori è svolta dal Consiglio di Sorveglianza. L’obiettivo della codeterminazione si raggiunge incidendo sulla composizione interna dell’organo di controllo cui prendono parte, in egual misura, rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti degli azionisti.
Attualmente esistono tre diversi modelli partecipativi, classificati in base alla diversa misura di partecipazione, graduata in relazione al settore produttivo ed al numero della dipendenza aziendale.
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Il primo modello risale al 1951 e l’ambito di operatività è circoscritto alle imprese del settore siderurgico aventi più di 1000 dipendenti. Esso realizza una codecisione forte o anche detta qualificata, dato che i componenti dell’organo di vigilanza, che ammontano ad 11 membri, sono scelti pariteticamente fra 5 rappresentanti dei lavoratori e 5 rappresentati degli azionisti, cui si aggiunge un membro neutrale scelto di comune accordo tra le parti;
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Il secondo modello prevede invece che nelle società con più di 500 dipendenti, i rappresentanti dei lavoratori concorrono alla composizione del Consiglio di Sorveglianza solo nella misura di 1/3. Inoltre, discostandosi dal modello precedente, le candidature per la designazione dei rappresentanti dei lavoratori sono proposte dal Consiglio di fabbrica,o da un decimo dei dipendenti, escludendo qualsiasi diritto di nomina o di proposta da parte delle organizzazioni sindacali centrali. Si parla in tal caso di cogestione debole.
- Il terzo modello è entrato in vigore il 1° Luglio 1976 e si applica a tutte le società aventi sede nel territorio tedesco e che occupano più di 2000 dipendenti. Si parla in tale caso di modello di codecisione medio in quanto si prevede che i seggi in seno all’organo di controllo siano ripartiti pariteticamente tra rappresentanti dei lavoratori e degli azionisti ma con una rilevante differenza. I seggi funzionali alla rappresentanza dei lavoratori devono essere ripartiti tra dipendenti occupati nell’azienda e rappresentanti sindacali, con un’ulteriore frammentazione dei seggi del personale dipendente che devono, a loro volta, essere distribuiti tra le categorie degli operai, degli impiegati e dei dirigenti. Ciò comporta che in un Consiglio di Sorveglianza composto da 20 membri, si assiste ad un’iniziale ripartizione paritaria tra rappresentanti dei lavoratori ed azionisti, cui segue una redistribuzione dei seggi nella categoria dei lavoratori. Di conseguenza, dei 10 seggi, uno spetta ai dirigenti, i restanti 9 sono assegnati nella misura di 3 ai rappresentanti sindacali: ai lavoratori occupati nell’azienda residuano soltanto 6 seggi. Un simile sistema evidenza una notevole flessione, sul piano fattuale, dell’effettività della rappresentanza degli operai e impiegati nell’organo di controllo.
Il modello tedesco di cogestione è stato timidamente introdotto anche nell’ordinamento italiano nella veste di sistema alternativo di amministrazione e controllo, a norma dell’art. 2409 octies cod. civ. Risulta però affetto da un grave difetto di importazione che ne ha svilito la funzionalità. Infatti il sistema dualistico italiano ripete dal modello tedesco unicamente la struttura, senza ereditare anche il tratto peculiare della composizione interna e, piuttosto che realizzare un sistema integrato di partecipazione democratica dei dipendenti, determina una inutile sovrapposizione di organi sociali.
Invero il consiglio di sorveglianza risulta indebolito nell’espletamento delle sue funzioni di controllo dalla circostanza che i suoi componenti, analogamente al consiglio di gestione, sono eletti dall’assemblea degli azionisti, con il risultato che controllanti e controllati sono espressione del medesimo gruppo di comando. Un tale difetto di funzionalità è da ascrivere alla diversa caratterizzazione culturale dei due modelli: la stessa Costituzione di Weimar all’art.165 presenta il sistema organizzativo tedesco come la nuova forma di democrazia industriale recitando : “Operai ed impiegati sono chiamati a partecipare unitamente con l’imprenditore, a parità di diritti, alla determinazione delle condizioni salariali e di lavoro, nonché all’intero sviluppo economico delle forze produttive (..) “.
Bibliografia
- Diritto del Lavoro, Carinci,Tosi,Tamajo, T.Treu, vol.2 Il rapporto di lavoro subordinato.
- Le relazioni industriali dopo l’accordo del 28 giugno 2011, T. Treu;
- G. F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. 2. Diritto delle società
- “ESOP: natura giuridica e potenzialità dello strumento partecipativo” di R. Caragnano e G. Caruso;