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Pubbl. Lun, 3 Giu 2019

Le Sezioni Unite della Cassazione sulla liceità della vendita di canapa sativa o light

Ivano Ragnacci


Un primissimo commento in attesa del deposito delle motivazioni, sulla recente pronuncia delle SS.UU. tesa a dirimere il contrasto circa la liceità o meno della vendita di sostanze rientranti nelle tabelle di cui al D.P.R. n. 309/1990 seppur con thc al di sotto del limite di 0,6 mg.


Non è consentita la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa light o leggera che abbiano efficacia, seppur astrattamente, drogante. È questo l’estito della pronuncia a SS.UU. sul tema sottopostogli dalle Sezioni semplici, IV e VI.

Non è consentita la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa light o leggera che abbiano efficacia, seppur astrattamente, drogante. È questo l’estito della pronuncia a SS.UU. sul tema sottopostogli dalle Sezioni semplici, IV e VI.

All’udienza appena ricordata le SS.UU. hanno affrontato la seguente questione di diritto: se le condotte di coltivazione di canapa, della varietà di cui al catalogo indicato nell’articolo 1, comma 2[1],  della legge 242 del 2016 e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa, rientrino o meno, e se si in quali eventuali limiti,  nell’ambito di operatività della citata legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti.

La questione è nata dal ricorso presentato dal PM di Ancona che si è opposto al dissequestro delle merci di un commerciante titolare di un cd. Cannabis Shop. 

La Procura generale presso la Cassazione, rappresentata dal pg Maria Giuseppina Fodaroni, ha chiesto, inoltre, la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, relativi alla questione della cannabis, su cui si erano già espresse, con contrarie interpretazioni, la Quarta e la Sesta sezione della Cassazione, la prima esprimendosi in senso favorevole al divieto di commercializzazione, la seconda in senso favorevole alla liceità. 

Più nel dettaglio, da un lato, un primo orientamento, ha fornito risposta negativa al quesito se la legge 242/2016 consenta anche la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa (hashish e marijuana), sostenendo che tale normativa disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall'articolo 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina.
Dall'altro, un secondo orientamento, di segno opposto, secondo cui, invece, proprio dalla liceità della coltivazione della cannabis, alla stregua della legge 242/2016, deriverebbe naturalmente la liceità dei suoi prodotti, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,60, poiché essi non possono più essere considerati, ai fini giuridici, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del Dpr 309/1990, derivandone quindi che, ove sia incontroverso che le infiorescenze sequestrate provengano da coltivazioni lecite ai sensi della legge 242/2016, sarebbe da escludere la responsabilità penale sia dell'agricoltore che del commerciante, anche in caso di superamento del limite dello 0,60, essendo semmai ammissibile soltanto un sequestro in via amministrativa, a norma dell'articolo 4, comma 7, della legge 242/ 2016.

Secondo la Procura Generale della Cassazione, tuttavia, il sistema normativo della cannabis light sarebbe carente di ragionevolezza, a causa dell’assenza di indicazioni chiare e non equivoche fornite dal legislatore, che consentano una individuazione certa delle condotte suscettibili di essere sanzionate.

La decisione del massimo Consesso nomofilatico arriva fra l’altro con incredibile tempismo a dirimere una questione, che oltre all’ambito tecnico giuridico, è al momento di centrale interesse nell’agone politico.

In tal senso si osservi la recente direttiva del Viminale che si schiera categoricamente contro qualsiasi tipo di droga "senza se e senza ma"; in opposizione agli schieramenti di chi auspicava la chiusura del canapa shop si collocavano quelli che osservavano come la l. n. 242 del 2016, consentendo la coltivazione della canapa industriale con un massimo del 0,2% di thc, senza vietarne la vendita di infiorescenze, ne consentirebbe la commercializzazione, posto che in uno stato di diritto, è lecito ciò che non è espressamente vietato.

La Suprema Corte, serrando ogni diatriba socio/politica, in punto di diritto ha decretato che "La commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53 Ce del Consiglio, del 13 giugno 2002, e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati". Di conseguenza, stabilisce la pronuncia che "integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4 del dpr 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa, salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante”, ribadendo così il divieto di licenziare attività commerciali che cedano a terzi sostanze potenzialmente droganti e o psicotrope, anche se al di sotto del principio attivo stupefacente, rientranti nelle tabelle del decreto ministeriale della salute.

La decisione comporta quindi lo stop alla vendita dei derivati della canapa varietà sativa nei canapa shop e tabacchi, perché, secondo i giudici, deve prevalere il dato tassativo dell’elenco previsto dal legislatore comunitario, che non consente una interpretazione estensiva che consenta la vendita o la cessione a qualunque titolo dei prodotti che derivano dalla coltivazione della cannabis sativa, nonostante questa presenti un principio di tossicità irrilevante ai fini degli effetti psicotropi della sostanza.

Da tale angolo visuale, appare condivisibile l’orientamento della Corte, ove, in difetto di un chiarimento legislativo sul tema, si è limitata ad escludere la liceità di condotte che a tutti gli effetti rientrerebbero nel novero della condotta di cessione a terzi sostanza drogante p.ep. dall’art. 73 D.P.R. 309/1990, non essendo il limite minimo di thc contenuto in qualsivoglia sostanza elemento scriminante previsto a livello legislativo.

 

[1] La legge si applica "alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varieta' delle specie di piante agricole, ai sensi dell'articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. 3. Il sostegno e la promozione riguardano la coltura della canapa finalizzata: a) alla coltivazione e alla trasformazione; b) all'incentivazione dell'impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali; c) allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l'integrazione locale e la reale sostenibilita' economica e ambientale; d) alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; e) alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attivita' didattiche e di ricerca".