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Pubbl. Mar, 18 Giu 2019

La prova nel reato di spaccio di droga

Ivano Ragnacci


Analisi delle modalità di deduzione della finalità di offerta a terzi della sostanza stupefacente secondo la previsione legislativa e la modulazione nomofilattica offerta dal Supremo Consesso.


Sommario: 1.Cenni introduttivi: sulla prova; 2. La detenzione e lo spaccio: l'elemento costitutivo della finalità; 2.1 Gli indici sintomatici; 3. I mezzi di ricerca della prova nello spaccio; 4. Conclusioni.

Sommario: 1.Cenni introduttivi: sulla prova; 2. La detenzione e lo spaccio: l'elemento costitutivo della finalità; 2.1 Gli indici sintomatici; 3. I mezzi di ricerca della prova nello spaccio; 4. Conclusioni.

1. Cenni introduttivi: sulla prova

La prova dei reati di detenzione a fini di spaccio e di spaccio di sostanza stupefacente non deriva soltanto dal sequestro o dal rinvenimento della sostanza, potendo desumersi da altre risultanze probatorie[1]. In tema di stupefacenti, il giudice non ha alcun dovere di procedere a perizia o ad accertamento tecnico per stabilire la qualità e la quantità del principio attivo di una sostanza drogante, in quanto egli può attingere tale conoscenza anche da altre fonti di prova acquisite agli atti[2], così secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità.

Come noto, è utile rammentare, la Legge punisce la detenzione di sostanze stupefacenti finalizzata allo spaccio, intendendo con tale definizione anche, ad esempio, la cessione a titolo puramente gratuito.

In verità, anche la mera detenzione non finalizzata alla cessione a terzi, ma solo all'uso personale è condotta di per sè illeccita, purtuttavia solo sotto il profilo della responsabilità amministrativa (Art. 75 dpr) e non penale, con conseguenze concrete comportanti dalla revoca della patente o del porto d’armi, al ritiro del passaporto et. sim.

2. La detenzione e lo spaccio: l'elemento costitutivo della finalità

L’art. 73 del DPR 309/1990 (il testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), prevede, attualmente, che la detenzione finalizzata allo spaccio sia punita con la pena da otto a vent’anni di reclusione; mentre in caso di modica quantità e/o di impiego di mezzi “rudimentali” impiegati per l’attività di cessione (art. 73 comma 5 DPR 309/1990) la pena detentiva è da uno a sei anni (rilevanti in entrambi i casi la pena pecuniaria)[3].

Ebbene, in tale scritto, vogliamo soffermare l'attenzione sulla la prova della effettiva finalità di spaccio della sostanza rinvenuta nella disponibilità dell’incolpato.

La circostanza è di centrale importanza evidentemente, sia poiché la legge penale prevede la punizione solo nel caso in cui la detenzione sia finalizzata alla cessione, in quanto qualora il possesso della droga sia prodromico all’uso solo personale, si ripete, non è prevista alcuna pena detentiva, ma la risposta dell’ordinamento sarà come detto in sede esclusivamente amministrativa, sia, inoltre, per i decisivi effetti sul piano processuale e quindi dell'onere dell'accertamento della penale responsabilità dell'imputato posto a carico della pubblica accusa.

Ebbene, la finalità – elemento costitutivo del reato di cessione – deve essere dimostrata dalla pubblica accusa e, quindi, non sarà onere delle difesa dimostrare che lo stupefacente trovato nella disponibilità del soggetto agente è per il solo uso personale.

E’ ovvio che il rilievo di tale aspetto difensivo è discriminante quando l’accertamento processuale riguarda fattispecie contraddistinte da un possesso che per le modalità e quantità può essere interpretato astrattamente, sia quale attività di spaccio, sia quale attività di conservazione per il successivo uso personale.

Diverso, evidentemente, sarà il caso in cui un soggetto è sorpreso detenere una quantità di stupefacente che – effettivamente – si potrebbe prestare anche ad un uso “solitario”, anche se protratto per più occasioni.

Vale la pena accennare, inoltre, alla riforma legislativa che ha individuato le c.d. tabelle del consumo medio, la quale non ha mutato sostanzialmente tale assetto processuale poiché la Giurisprudenza ha specificato come il mero superamento dei valori indicati nelle predette tabelle non implica automaticamente lo spaccio poiché – hanno specificato i Giudici – devono essere valutati attentamente altri indici quali ad es: le modalità di conservazione della sostanza (se frazionata o meno), il rinvenimento di materiale per il confezionamento, la disponibilità di materiale per la pesatura e per il “taglio”, la purezza della sostanza (da tagliare o già tagliata) e la disponiblità economica dell’agente.

Il dovere della Pubblica Accusa di provare la finalità di spaccio quale elemento costitutivo del reato è stato ben espresso nella Sentenza della Sezione VI^ della Corte di Cassazione (n. 19047, 10 gennaio – 2 maggio 2013) che così ha statuito:

Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309 non è la difesa a dover dimostrare l’uso personale della droga detenuta, ma è invece l’accusa, secondo i principi generali a dover provare la detenzione della droga per uso diverso da quello personale. Infatti, la destinazione della sostanza allo “spaccio” è elemento costitutivo del reato di illecita detenzione della stessa e, come tale, deve essere provata dalla pubblica accusa, non spettando all’imputato dimostrare la destinazione all’uso personale della sostanza stupefacente di cui si stato trovato in possesso.Spaccio significa cessione ad un altra persona, anche gratuitamente, ed anche una dose minima: regalare una "canna" o fornire una "riga" ad un amico senza chiedere soldi è dunque spaccio.

2.1 Gli indici sintomatici

Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, per le cinque condotte descritte dalla norma incriminatrice - importazione, esportazione, acquisto, ricezione e detenzione - l'attuale quadro normativo (che dal novero esclude la condotta di coltivazione) individua il discrimine tra il reato e l'illecito amministrativo, per l’accertamento della destinazione dello stupefacente, nei casi in cui tali condotte non siano immediatamente dimostrative della destinazione illecita della droga[4].

A tal fine, l'art. 75, comma 1 bis del citato d.P.R. elenca una serie di elementi ai quali il giudice può affidarsi per affermare o per escludere la destinazione dello stupefacente a un uso esclusivamente personale: si tratta dei c.c.dd. elementi sintomatici, che non hanno alcun rapporto con la struttura del reato, con il fatto tipico, ma assolvono ad esigenze di carattere squisitamente probatorio. Questi elementi, dunque, non introducono nel procedimento probatorio presunzioni assolute nè, più in generale, vincolano il giudice nel momento della valutazione della prova: la ritenuta sussistenza di uno o più elementi sintomatici non comporta inderogabilmente l'affermazione della responsabilità dell'imputato, pur imponendo al giudice di valutare (liberamente) quegli elementi e di dare sul punto adeguata e rassicurante motivazione.

Il principale elemento sintomatico (se non altro per la sua facile ed immediata riconoscibilità) è quello di natura ponderale e quindi il peso della sostanza. Secondo l'espressa previsione legislativa, però, elementi circa la destinazione dello stupefacente possono essere ricavati, oltre che dal superamento dei limiti quantitativi massimi di principio attivo, anche dalle modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato ovvero ad altre circostanze dell'azione quali il rinvenimento nella disponibilità dell'imputato di materiale idoneo alla suddivisione dello stupefacente ed al confezionamento di singole dosi[5] .

In tema di detenzione di stupefacenti, la valutazione ai fini della prova della destinazione a terzi, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, viene effettuata dal giudice di merito tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità[6] .

La prova della destinazione a terzi della droga pertanto, in assenza di flagranza dell'attività di vendita, e non al consumo personale è ricavabile sulla scorta di parametri indiziari soggettivi ed oggettivi enucleati dalla interpretazione giurisprudenziale in numerose pronunce, tanto di legittimità[7] quanto di merito[8] .

In particolare, vanno valutati i criteri soggettivi quali:

  1. lo stato di tossicodipendenza del detentore;
  2. il contesto socio-ambientale di vita e gli eventuali rapporti con ambienti deputati allo spaccio ovvero con soggetti implicati nel traffico di stupefacenti;
  3. la capacità patrimoniale dell'imputato e la compatibilità delle condizioni economiche dello stesso con la quantità e qualità della droga in relazione al suo prezzo di mercato;

E i criteri oggettivi quali:

  1. Frazionamento delle dosi di stupefacente;
  2. La qualità e quantità della droga indicati con decreto del Ministro della Salute e rapportate al fabbisogno personale in relazione all'età ed in relazione al processo di naturale scadimento degli effetti droganti;
  3. Le modalità di custodia;
  4. Il rinvenimento di sostanze di diversa natura;
  5. La disponibilità di attrezzature atte alla pesatura, di mezzi per il confezionamento delle dosi e di sostanze da taglio;
  6. Le modalità e circostanze del sequestro.

 

Si ricorderà che la norma incriminatrice è mutata a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 che, come ampiamente ribadito, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'intera riforma attuata in materia di stupefacenti nel 2006 determinando la riviviscenza della precedente disciplina. In particolare i commi 1 e 4 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 attualmente vigenti sono quelli precedenti all'indicata riforma, con la conseguenza che la condotta incriminata dell'illecita detenzione non è più descritta in positivo, mediante il riferimento ai discussi criteri di valutazione di cui al comma 1-bis lett. a) art. cit., nella versione dichiarata incostituzionale, ma solo in negativo mediante la formula “al di fuori dai casi di cui all'art. 75” che descrive l'illecito amministrativo della detenzione di stupefacente per farne uso personale. Non sembra, tuttavia, sia cambiato molto perché, a sua volta, l'art. 75 è stato modificato, in seguito alla sopra citata sentenza della Corte Costituzionale (con d.l. n. 36 del 2014), mediante l'inserimento del comma 1-bis che, in buona sostanza riproduce il contenuto normativo del comma 1-bis dell'art. 73, dichiarato incostituzionale mediante la previsione di una serie di obbligatori criteri di valutazione, minuziosamente sopradescritti, in base ai quali stabilire se la detenzione sia finalizzata o meno ad uso esclusivamente personale.

La sostanziale equivalenza di contenuto delle due distinte norme incriminatrici, sotto quest’aspetto, consente di mantenere piena validità al consolidato esito interpretativo secondo il quale la destinazione a un uso non elusivamente personale integra un vero e proprio elemento costituivo del reato la cui prova certa, oltre ogni ragionevole dubbio, è condizione imprescindibile per un giudizio di colpevolezza.

La maggioritaria e preferibile giurisprudenza della Cassazione ha sottolineato come sia essenziale scongiurare il rischio che l'indicazione normativa di obbligatori criteri di valutazioni circa l'uso personale o meno della sostanza stupefacente detenuta entri in conflitto coi principi fondamentali della giurisdizione penale.

La presunzione di non colpevolezza dell'imputato, di cui all'art. 27, comma 2 Cost., impone, infatti, un modello di accertamento del fatto pieno, fondato sulla regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio (cfr. nuovo art. 533, comma 1 c.p.p.), che legittima la condanna dell'imputato solo se tutti gli elementi costitutivi del reato risultano provati in positivo. Ciò non esclude la rilevanza e piena utilizzabilità della prova indiziaria, governata dall'art. 192, comma 2 c.p.p., ma comporta il ripudio sia di un sistema di prove legali a carico sia di mezzi presuntivi di accertamento, anche solo iuris tantum, che consente di porre la prova contraria a carico della difesa, che comunque implica un'inammissibile inversione dell'onere probatorio.

Alla luce di queste premesse e del riconoscimento alla destinazione ad un uso non esclusivamente personale di un vero e proprio elemento costitutivo del reato, gli indici di valutazione indicati dal legislatore non possono valere a fondare una presunzione di destinazione ad un uso non esclusivamente personale, neppure iuris tantum, ma più semplicemente, costituiscono tipizzazione dei criteri indiziari più frequentemente utilizzati dalla giurisprudenza per accertare la destinazione della detenzione di sostanze stupefacenti. Detta tipizzazione impone l'obbligo per il Giudice, soprattutto sotto il profilo della motivazione, di considerarli e di valutarli, ma, in ogni caso, la condanna non può che conseguire al pieno accertamento, sulla loro base, ma anche sulla base di possibili ulteriori elementi indiziari non tipizzati e di tutte le prove raccolte nel processo, senza alcuna possibilità di ravvisare pretese gerarchie tra elementi di prova. Nel caso, invece, il Giudice ritenga, all'esito dell'esame complessivo del materiale cognitivo sottoposto alla sua valutazione, che non sia possibile formulare un giudizio in termini di certezza al riguardo, l'esito che s’impone è sempre l'assoluzione.

L'ordine d’idee sopra esposto è stato integralmente accolto dalla giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale, da un lato, “gli elementi sintomatici individuati dal legislatore, non costituiscono gli elementi costitutivi del reato, ma piuttosto criteri di valutazione (singolarmente introdotti in una norma sostanziale) ai fini della prova della detenzione per uno non esclusivamente personale” e dall'altro che “non è sufficiente che siano superati i limiti stabiliti nel decreto ministeriale perché possa affermarsi la penale responsabilità per l'illecita detenzione, ma sarà necessario - quando ovviamente il dato ponderale non sia tale da giustificare inequivocabilmente la destinazione - che il giudice prenda in considerazione, oltre a questo superamento, le modalità di presentazione, il peso lordo complessivo, il confezionamento eventualmente frazionato, le altre circostanze dell'azione che possano essere ritenute significative della destinazione all'uso non esclusivamente personale[9] sicché il superamento dei limiti quantitativi “non determina la presunzione, neppure relativa, circa la destinazione della droga ad uso non esclusivamente personale, bensì impone soltanto al giudice un dovere accentuato di motivazione nella valutazione del parametro quantità”[10].

Giova infine ricordare, in tema di lieve entità del reato, che in assenza di flagranza di reato dell'attività di vendita di stupefacenti, si può sorreggere una prospettazione accusatoria a carico dell'imputato per il reato di cui all'art 73, comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990, tenendo in considerazione, non soltanto i risultati dell'attività di osservazione svolta dalla P.G., ma anche e soprattutto, sulla scorta dei citati parametri indiziari oggettivi e soggettivi, idonei a delineare un quadro indiziario grave ed univoco, tale da escludere ogni ricostruzione alternativa del fatto storico[11] .

3. I mezzi di ricerca della prova nello spaccio

La perquisizione positiva sulla persona comporta quasi sempre anche la successiva perquisizione della macchina e della casa; ai sensi dell'articolo 103 TU Stup. (DPR 309/1990) gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, nel corso di operazioni di polizia per la prevenzione e la repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, possono procedere

  • in ogni luogo al controllo e all'ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali,
  • anche senza mandato dell'autorità giudiziaria,
  • quando hanno fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti o psicotrope.

Dell'esito dei controlli e delle ispezioni è redatto processo verbale in appositi moduli, trasmessi entro quarantotto ore al procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i presupposti, li convalida entro le successive quarantotto ore. Gli operanti sono peraltro tenuti a rilasciare immediatamente all'interessato copia del verbale di esito dell'atto compiuto (si perde del tempo, ma ne vale la pena per poter dimostrare non tanto l'accanimento, ma la estranieità negli anni a qualsiasi ipotesi di spaccio).

4. Conclusioni

In definitiva, si può pragmaticamente asserire, che la consegna spontanea della sostanza stupefacente alla forze dell’ordine, seppur in generale può essere certamente condotta intesa come collaborativa, in presenza di uno od alcuno di altri indici sintomatici della finalità di cessione a terzi, oggetto di analisi nei paragrafi precedenti, può non escludere una legittima incriminazione per il reato in commento.

Sarà d’uopo, pertanto, segnalare ed inserire nel verbale di ispezione e/o perquisizione e sequestro anche il rinvenimento di tutti gli elementi indicativi di uso personale (es. chilum, siringhe o cartina, grinder, o mozziconi di spinelli eventualmente presenti), anche al fine di poter dimostrare nell’aleatoria fase processuale ogni elemento capace di elidere la responsabilità penale dell’agire[10].

Note e riferimenti bibliografici

[1] Rigetta,App. L'Aquila, 08 maggio 2008 1) Cassazione penale, sez. IV, 18/11/2009, n.48008 P. CED Cass. pen. 2009, rv 245738.

[2] In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva condannato gli imputati per una pluralità di episodi di cessione di droga fondandosi, tra l'altro, sulla confessione di alcuni di essi). (Annulla in parte senza rinvio, App. Napoli, 16/05/2012)

[3] Questione su cui vale ancora la pena di concentrare l'attenzione riguarda il trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le 'droghe pesanti'. Il problema è rappresentato dal fatto che la disciplina previgente - che, come chiarito nella sentenza, torna ad essere applicabile a seguito della dichiarazione di illegittimità - è più severa di quella caducata: infatti, la disposizione contenuta nella legge Iervolino-Vassalli (in vigore dal 1990 al 2006, ed oggi ripristinata dalla pronuncia della Corte) prevedeva per questi fatti la reclusione da 8 a 20 anni (oltre la multa), mentre la disposizione contenuta nella legge Fini-Giovanardi (in vigore dal 2006 ed oggi dichiarata incostituzionale) prevede la reclusione da 6 a 20 anni (oltre la multa).
Il profilo viene affrontato espressamente dalla Corte costituzionale che, richiamandosi alla propria precedente giurisprudenza, osserva preliminarmente che "gli eventuali effetti in malam partem di una decisione (...) non precludono l'esame nel merito della normativa impugnata". La Corte d'altra parte esclude che dalla dichiarazione di illegittimità possano derivare conseguenze pregiudizievoli per l'imputato, e attribuisce pertanto al giudice il compito di individuare ed applicare la disciplina più favorevole, "tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p.". Senza poter qui ulteriormente approfondire la questione, pare che i principi cui la Corte si richiama trovino in realtà il loro fondamento immediato nella Costituzione, più che nell'art. 2 c.p. (che è norma concernente le vicende modificative delle norme penali derivanti da interventi del legislatore, piuttosto che da dichiarazioni di illegittimità costituzionale): la certezza di libere scelte d'azione - desumibile in particolare dall'art. 25 co. 2 Cost., letto anche attraverso il prisma dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - presuppone non solo la vigenza di una legge che qualifichi il fatto come reato al momento della sua commissione, ma anche la prevedibilità della pena che gli potrebbe essere inflitta in caso di condanna. Al soggetto non potrà dunque essere applicata una sanzione che non fosse per lui chiaramente conoscibile al momento del fatto: come è, appunto, la pena prevista da una norma (l'articolo 73 nella sua formulazione originaria) che soltanto ex post è stata giudicata dalla Corte costituzionale mai legittimamente abrogata, e che pertanto - in base alla valutazione retrospettiva oggi imposta dalla pronuncia della Corte - doveva da considerarsi ancora in vigore al momento del fatto. Egli avrà, piuttosto, diritto a essere giudicato secondo la più favorevole norma che all'epoca dei fatti, e dunque in prospettiva ex ante, appariva valida: e cioè, appunto, l'art. 73 nella formulazione introdotta dalla legge Fini-Giovanardi.
Dunque, per quanto concerne la questione in esame, nel caso di reati concernenti le droghe pesanti, dovrà essere applicata la norma dichiarata incostituzionale (ossia l'art. 73 co. 1, nella formulazione della legge Fini-Giovanardi), qualora da essa derivi un effetto più favorevole per l'imputato, e cioè nei casi di fatto avente ad oggetto droghe 'pesanti'.

[4] Per completezza occorre ribadire che l'ipotesi normativa D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 delinea un reato a forma vincolata, in cui il legislatore ha voluto selezionare fra le possibili condotte offensive del bene protetto quelle penalmente sanzionabili. Viene così a configurarsi una norma a più fattispecie (o a condotta fungibile), per la quale il legislatore ha previsto diverse modalità di realizzazione, tra loro alternative ed equivalenti sotto il profilo del trattamento sanzionatorio. Il reato, conseguentemente, sussiste ogni qual volta il soggetto attivo abbia posto in essere anche una sola delle condotte previste dalla disposizione. Da ciò discende, secondo la giurisprudenza di legittimità, che possono verificarsi due distinte ipotesi: a) quella che si verifica quando è unico il fatto concreto che integri contestualmente più azioni tipiche alternative (ex plurimis Sez. 1, n. 1711 del 17 dicembre 1984), ipotesi in cui le condotte illecite minori perdono la loro individualità e vengono assorbite nell'ipotesi più grave (assorbimento); b) quella che si verifica, come nel caso di specie, qualora invece le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico costituendo distinti reati materialmente concorrenti.

Conseguentemente quando, si tratta di coltivazione e detenzione della sostanza stupefacente, ancorchè della medesima sostanza stupefacente, poste in essere in luoghi e tempi diversi, deve escludersi l'assorbimento dei reati di detenzione della sostanza detta in quello di coltivazione, poichè sono configurabili due distinte condotte penalmente sanzionate, e quindi, concorrenti. L'argomento addotto esclude con ogni evidenza anche la violazione del principio del ne bis in idem (cfr. anche Sez. 6 n. 230/2000).

[5] Cassazione penale sez. VI, 15/11/2016, n.53437.

[6] Cass. Pen. sez. I 3/08/93 nr. 7570; Cass. Pen. Sez. Unite Sentenza 18/07/97 n. 4.

[7] Tribunale Terni, 30/05/2018, n.664.

[8] Cass. pen, 21 aprile 2008, n. 16373, Cass., 21 aprile 2008, nr. 16373

[9] Cass., 05 maggio 2008, nr. 17899 rv 23993, del tutto conformi Cass., 07 luglio 2008, nr. 27330 rv 240526; Cass., 16.04.2008, n. 31103, rv. 242110; Cass., 18.09.2008, n. 39017, rv. 241405; Cass., 12.02.2009, n. 12146, rv. 242923; Cass., 10.01.2013, n. 6575, rv. 254575; Cass., 19.09.2013, n. 39977, rv. 256611; Cass., 09.10.2014, n. 46610, rv. 260991.

[10] L’articolo sin qui redatto è avvenuto con le ricerche e la collaborazione della Dott.ssa Marta MAZZONE.