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Pubbl. Mer, 29 Mag 2019

Ergastolo ed ergastolo ostativo: tra rieducazione e negazione

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Mirko Melella


Evoluzione e involuzione della disciplina dell´ergastolo ostativo alla luce della recente giurisprudenza della Corte Costituzionale. La sentenza 149 del 2018 segna un punto di svolta rispetto ai precedenti orientamenti della stessa Consulta.


Sommario: 1.Introduzione; 2. Ergastolo: tra punizione e rieducazione; 3. Un passo avanti della Corte Costituzionale: la coraggiosa sentenza 149/2018; 4. La negazione dei benefici (e dei diritti?) nell'ergastolo ostativo.

1. Introduzione.

Nell’odierno Stato costituzionale di diritto lo ius puniendi è percepito, più che come diritto, come una pretesa da parte dei consociati per raggiungere quella pace sociale che è alla base di ogni ordinamento giuridico democratico. In una società con un aumento esponenziale di delitti, anche di matrice sovranazionale, è più che mai sentita l’esigenza di sicurezza che, il più delle volte, si traduce in un semplice aumento delle pene per i diversi reati. “È evidente che il fine della pena non è di tormentare un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso” scriveva Cesare Beccaria nel famoso saggio “Dei delitti e delle pene”, aggiungendo che lo Stato deve decidere l’entità e i modi della pena seguendo come unico criterio “l’utile sociale”.

La pena, dunque, già a quei tempi, necessitava di un utile, una funzione o, per meglio dire, una finalità appagante per la società. È una condizione, questa, non facile da raggiungere, ma necessaria, perché, come diceva Montesquieu, “ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità è tirannica”. Sulla scorta di questi richiami storici è opportuno riferirsi allo ius puniendi con una chiave di lettura diversa, più ampia, che consideri la pena come una punizione finalizzata (sempre) alla rieducazione e risocializzazione.  E a questo punto è pacifico chiedersi se la “pena delle pene”, il cd. carcere a vita o, più correttamente, ergastolo, possa essere o meno la soluzione, ancor di più se travestito nelle forme dell’ergastolo cd. ostativo.

2. Ergastolo: tra punizione e rieducazione.

L’ergastolo, nella concezione odierna, è la pena detentiva comportante la perpetua restrizione della libertà personale. Introdotto per la prima volta nel codice penale del 1889 per sanzionare i delitti più gravi puniti in precedenza con la pena di morte o i lavori forzati, attualmente si configura come la pena più severa contemplata dall’ordinamento giuridico italiano e viene comminata dal legislatore per reati particolarmente gravi che destano allarme sociale quali i delitti contro la persona, delitti contro l’incolumità pubblica e delitti contro la personalità dello stato.

Occorre ritornare a parlare di carcere a vita e lo si deve fare necessariamente in un’ottica costituzionalmente orientata: “i giudici italiani, condannando taluno all’ergastolo, irrogano una pena costituzionalmente legittima?[1] Questo interrogativo rimanda, come già detto, al disegno costituzionale della pena che impone di guardare alla reclusione non come “punto di arrivo” ma come punto da cui “ripartire”[2], al fine di ottenere quella risocializzazione che la Costituzione non preclude a nessuno. Tanti sono stati gli sforzi da parte di tutti gli attori in campo (dalla Corte di Cassazione ai tribunali penali, dal legislatore al Giudice delle leggi) che, però, non sono riusciti a rasserenare il clima sul tema dell’ergastolo, ancor di più se travestito nelle forme di quello cd. ostativo.

È interessante, a tal proposito, fare menzione di un importante intervento della Corte Costituzionale che, investita della quaestio, con sentenza n.264/1974 ha respinto la questione di legittimità costituzionale proposta, sulla base di due argomentazioni: la polifunzionalità della pena e la possibilità di accesso alla liberazione condizionale. Con riferimento alla prima argomentazione, la Corte sostiene che funzione e fine della pena non è il solo riadattamento sociale dei condannati ma anche la dissuasione, la prevenzione e la difesa sociale.[3] La seconda argomentazione alla base della sent.264/1974 è la possibilità di accesso alla liberazione condizionale, di fatto una sospensione della pena detentiva, che consente all’ergastolano il reinserimento nel consorzio civile dopo aver scontato almeno ventisei anni di pena, oltre agli altri obblighi previsti dall’art. 176 c.p.  Per questi motivi, prosegue la sentenza, l’art. 27 della Costituzione “non ha proscritto la pena dell’ergastolo (come avrebbe potuto fare), quando essa sembri al legislatore ordinario, nell’esercizio del suo potere discrezionale, indispensabile strumento di intimidazione per individui insensibili a comminatorie meno gravi, o mezzo per isolare a tempo indeterminato criminali che abbiano dimostrato la pericolosità e l’efferatezza della loro indole”. In questo modo la Corte sembra relegare la finalità rieducativa della pena ad un ruolo marginale e meno importante rispetto alle esigenze di prevenzione generale derivanti dall’intimidazione che la pena comminata esercita sul calcolo utilitaristico di chi delinque e rispetto alle esigenze di neutralizzare volte a mettere il condannato nell’incapacità materiale di commettere nuovi reati.

Successivamente a tale pronuncia, la Consulta, con la sentenza 282/1989 concede una maggiore apertura all’ideale rieducativo. Si ribadisce, infatti, che non si può stabilire a priori una gerarchia tra i vari scopi della pena, ai quali è comunque assicurata differente prevalenza in considerazione delle varie fasi (incriminazione astratta, commisurazione, esecuzione) considerate; si sancisce, inoltre, che la finalità rieducativa deve prevalere su ogni altra nell’ipotesi in cui “l’esame della personalità del reo e il conseguente giudizio prognostico sulla sua ‘futura’ vita nella società impongano di sospendere o ridurre, sia pur condizionatamente, l’esecuzione stessa”. Negli anni a seguire la Corte, con la sentenza 313/1990, superò la posizione precedentemente assunta con la sentenza 264/1974 proprio in relazione alla funzione della pena sottolineando che i caratteri della reintegrazione, dell’intimidazione e della difesa sociale, pur avendo un fondamento costituzionale, “non possono costituire un pregiudizio per la finalità rieducativa espressamente consacrata nella Costituzione nel contesto dell’istituto della pena”[4]. In questo modo la Corte riconosce la centralità della finalità rieducativa non soltanto in fase esecutiva, ma anche nella fase della minaccia e dell’applicazione della pena poiché specie e durata della sanzione devono essere calibrate alle necessità rieducative del soggetto[5].

3. Un passo avanti della Corte Costituzionale: la coraggiosa sentenza n. 149/2018.

Questa sentenza ha affrontato il tema dell’ergastolo in una sfaccettatura diversa rispetto a quelle più volte analizzate in passato dalla Consulta. Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della forma di ergastolo contemplata dall’art. 58 quater co. 4 l. ord. penit., nella versione del d.l. 152/1991, relativa alle ipotesi in cui la condanna sia pronunciata per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione o per sequestro di persona a scopo di estorsione – delitti ricompresi nella prima parte dell’art. 4 bis ord. penit. (lavori all’esterno, permessi-premio e la semilibertà) – e il colpevole abbia cagionato la morte della vittima. In questo caso i condannati all’ergastolo “non sono ammessi ad alcuni dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4 bis ord. penit. se non abbiano effettivamente espiato (…) almeno ventisei anni di pena”. Si ricordi che i “benefici” indicati dall’art. 4 bis della suddetta legge sono: il lavoro all’esterno, i permessi – premio, e la semilibertà (restano estranei, invece, la liberazione anticipata e la liberazione condizionale. Il Giudice ricorrente poneva la questione sui principi di eguaglianza ex art. 3 Cost., denunciando una irragionevole disparità di trattamento dei condannati all’ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione rispetto ai condannati per i restanti delitti di prima fascia di cui all’art. 4 bis ord. penit. e sul principio della rieducazione del condannato ex art. 27 co.3 Cost. denunciando l’incompatibilità della disciplina in questione con la rieducazione dello stesso; secondo il ricorrente la disciplina in questione rende inoperanti incentivi essenziali ad un percorso coerente con il dettato costituzionale e rende l’ergastolo una pena sorda, per un rilevante arco temporale, a qualsivoglia progresso compiuto dal condannato nella direzione di un progressivo reinserimento sociale.

La sentenza n.149/2018 segna una svolta nella giurisprudenza della Corte Costituzionale; infatti, per la prima volta, una dichiarazione di illegittimità costituzionale investe una forma di ergastolo. Nel motivare la propria decisione, la Corte valorizza tanto il principio di eguaglianza quanto il principio di rieducazione del condannato. È opportuno, ad avviso dello scrivente, riportare le argomentazioni del Prof. emerito Emilio Dolcini (già ordinario di diritto penale all’Università di Milano, Pavia e Sassari) che sono alla base della suddetta sentenza: una prima argomentazione si appunta sull’”appiattimento all’unica e indifferenziata soglia di ventisei anni per l’accesso a tutti i benefici penitenziari indicati nel primo comma dell’art. 4 bis ord. penit.[6 

L’analisi critica della scelta operata in proposito dall’art.58 quater co. 4 ord. penit. fornisce alla Corte lo spunto per mettere in luce, con numerosi richiami alla propria precedente giurisprudenza, come, nel quadro dell’esecuzione della pena detentiva delineato dalla legge sull’ordinamento penitenziario, il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà svolgano un ruolo fondamentale in vista di un “progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa”: un processo destinato a culminare nella liberazione condizionale. Di particolare rilievo l’affermazione che “il principio della progressività trattamentale e flessibilità della pena[7] non solo è “sotteso all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario”, ma, ciò che più conta, è diretta “all’attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena”. Già da questa premessa consegue l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 27 co. 3 e 3 Cost., di una disciplina – quella dettata dall’art. 58 quater co. 4 ord. penit. – che sovverte irragionevolmente la logica gradualistica che ispira la legislazione penitenziaria: una disciplina, cioè, che per almeno ventisei anni esclude dai “benefici penitenziari” i condannati all’ergastolo a norma degli artt. 289 bis co.3 c.p. e 630 co. 3 c.p., salvo ammetterli dopo circa venti anni alla liberazione condizionale, approdo finale di un processo che potrebbe non essersi mai avviato. Una seconda argomentazione alla base della sentenza in esame, sintetizzata sempre dal Prof. Emilio Dolcini, investe l’istituto della liberazione anticipata, del quale pure la Corte sottolinea come rappresenti un ulteriore “tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario e della filosofia della risocializzazione che ne sta alla base”, in “diretta attuazione del precetto costituzionale di cui all’art. 27 co. 3 Cost.”.

La liberazione anticipata è, in effetti, uno strumento fondamentale per incentivare la partecipazione del condannato all’offerta di rieducazione; ora, il disposto dell’art. 58 quater co. 4 ord. penit. annulla per un lunghissimo arco temporale qualsiasi effetto delle riduzioni di pena: con la conseguenza che il condannato all’ergastolo per taluni titoli di reato potrà “non avvertire, quanto meno in tutta la prima fase di esecuzione della pena, alcun pratico incentivo ad impegnarsi nel programma rieducativo, in assenza di una qualsiasi tangibile ricompensa in termini di anticipazione dei benefici che non sia proiettata in un futuro ultraventennale, percepito come lontanissimo nell’esperienza comune di ogni individuo”. L’ultima argomentazione utile da evidenziare si sofferma sul “carattere automatico della preclusione temporale all’accesso ai benefici penitenziari” stabilita per i condannati all’ergastolo dall’art. 58 quater co. 4 ord. penit., così da impedire qualsiasi valutazione in concreto di un eventuale percorso rieducativo intrapreso dal condannato. Alla base di tale previsione la Corte individua una finalità di prevenzione generale, “l’esigenza - cioè -di lanciare un segnale forte di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati” che, però, non può operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa nella fase di esecuzione della pena.

4. La negazione dei benefici (e dei diritti?) nell’ergastolo ostativo.

La Consulta, con la sentenza sopra menzionata, sottolinea l’incompatibilità con il vigente assetto costituzionale di quelle norme che “precludono in modo assoluto per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati […]”. Come risolvere, allora, l’annoso “problema” dei condannati all’ergastolo cd. ostativo previsto dall’art. 4 bis co.1 della legge di ordinamento penitenziario?

La norma vieta ai detenuti e internati per determinate categorie di reati (delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416 bis c.p. e art. 416 ter c.p.) di beneficiare dei permessi premio di cui all’art. 30 ter della legge di ordinamento penitenziario, fatti salvi i casi di collaborazione con la giustizia.

Proprio per questo occorre, a parere dello scrivente, una rivisitazione normativa costituzionalmente orientata alla luce, anche, della recente sentenza n.149/2018 della Corte Costituzionale, la quale fa venir meno i requisiti temporali per la concessione dei benefici penitenziari. Se da un lato, dunque, si elimina il requisito temporale nei confronti degli ergastolani sottoposti al regime “normale” perché, dall’altro, si “autorizza” una negazione tout court nei confronti degli ergastolani cd. ostativi? Un cambio di rotta si rende necessario; in caso contrario permarrebbe una disparità di trattamento, in spregio dell’art. 3 della Costituzione italiana, tra condannati all’ergastolo sic et simpliciter inteso e condannati all’ergastolo cd. ostativo.

Recentemente anche la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.4 bis co. 1 ord. pen., per violazione degli artt. 27 co.3 e 117 Cost in relazione all’art. 3 CEDU.

La preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata “si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena, costituzionalmente garantita, sia perché impedisce il raggiungimento delle finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario, sia perché appare disarmonica rispetto ai principi affermati dall’art. 3 CEDU; quest’ultima, infatti, impone agli Stati membri di prevedere dei parametri temporali certi in base ai quali, in presenza di una condanna all’ergastolo, al detenuto è garantita la possibilità di ottenere, in conseguenza del suo percorso rieducativo, la revisione della condanna”.

Se ci si sofferma, poi, sul combinato disposto dell’art. 30 ter ord. pen. e 4 bis co.1 ord. pen., il vulnus risulta ancora più marcato. L’art. 30 ter è una misura che, a parere della giurisprudenza più volte richiamata, si caratterizza per struttura e finalità differenti rispetto a quelle degli altri benefici penitenziari; infatti subordina la concessione del permesso premio alla condizione che il condannato all’ergastolo abbia scontato almeno dieci anni di reclusione, abbia tenuto in carcere una condotta regolare e non sia socialmente pericoloso. Senonché, per i soggetti che sono stati condannati all’ergastolo per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis ord. pen., non si può procedere a tale valutazione in concreto, poiché, lo stesso art. 4 bis rappresenta, implicitamente, una causa ostativa a tale valutazione in quanto esige, per il godimento dei benefici penitenziari, una collaborazione con le Autorità di giustizia. A questo punto non è difficile sostenere che l’art. 4 bis co.1 ord. pen. rappresenti, de facto, una sorta di presunzione assoluta di pericolosità che si espone a dubbi di irragionevolezza suffragati, proprio, da recenti sentenze della Corte Costituzionale.  

È opportuno volgere lo sguardo, a questo punto, ai principi europei per verificare la compatibilità dell’ergastolo cd. ostativo con l’ordinamento sovranazionale. La Corte di Strasburgo ha più volte ribadito il principio per cui l’imposizione di una pena perpetua non riducibile si pone in contrasto con il già richiamato art. 3 CEDU qualora si configuri come una “detenzione del criminale al di là della durata giustificata dagli obiettivi legittimi della carcerazione […].  Il criterio essenziale sembra essere la possibilità di un controllo che permetta di stabilire se la detenzione sia o meno giustificata”[8]. Il protrarsi della detenzione non appare, dunque, legittimo quando sia accertato che gli obiettivi della pena, cioè “la repressione, la dissuasione, la correzione e la protezione del pubblico” sono stati raggiunti dalla porzione di detenzione già espiata, così che “deve essere offerta al detenuto una possibilità di dimostrare che egli è degno di reinserirsi nella società”[9].

In definitiva possiamo considerare l’istituto dell’ergastolo cd. ostativo, così come strutturato dall’ordinamento giuridico italiano, un unicum nel panorama giuridico europeo che da tempo bussa (invano) alla porta del legislatore italiano. Non è un caso se, a più riprese, la Corte Costituzionale ha cercato di minarne le fondamenta per ristabilire quell’equilibrio costituzionale improntato a quei sacrosanti principi di uguaglianza e rieducazione che non smettono di essere tali nemmeno dopo una condanna ad una pena “senza fine”.

Note e riferimenti bibliografici
[1] L. Gullo, Il problema dell’ergastolo è sempre attuale, in Dem. Dir., 1960, n.2, 56
[2] G.M. Flick, I diritti dei detenuti nella giurisprudenza costituzionale, in Dir.Soc., 2012, 198.
[3] Si cita testualmente Corte Cost. 22 novembre 1974, n.264 “A prescindere sia dalle teorie retributive secondo cui la pena è dovuta per il male commesso, sia dalle dottrine positiviste secondo cui esisterebbero criminali sempre pericolosi e assolutamente incorreggibili, non vi è dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano, non meno della sperata emenda, alla radice della pena”.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem. “Se finalità rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto.  La Corte ha già avvertito tutto questo quando non ha esitato a valorizzare il principio addirittura sul piano della struttura del fatto di reato (sentenza n.364 del 1988).
[6] E. Dolcini, “Dalla Corte Costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), Fascicolo 7-8/2018 in Diritto Penale Contemporaneo.
[7] In dottrina, da ultimo, cfr. S. Marcolini, L’ergastolo nell’esecuzione penale contemporanea, in Dir. Pen. cont. – Riv. trim., 4/2017, 26 febbraio 2018.
[8] 0 Corte EDU, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito, cit., § 39. Le espressioni utilizzate dai giudici di Strasburgo sembrano ricalcate su quelle scritte dalla Corte costituzionale con la sentenza 27 giugno 1974, n. 204, cit. Nello stesso senso, recentemente, Corte EDU, 15 dicembre 2015, Gurban c. Turchia. La Corte ha ritenuto che la preclusione di accedere alla liberazione condizionale prevista dalla legge turca per i condannati all'ergastolo per reati di terrorismo equivalga a un trattamento inumano e degradante, prescrivendo allo Stato condannato di introdurre modifiche legislative così da non prevedere più preclusioni assolute e consentire alle autorità nazionali di valutare se, nel caso concreto, soprattutto in presenza di progressi del condannato verso la risocializzazione, sia opportuna in sede esecutiva una modifica del trattamento sanzionatorio adottato.
[9] 1 Corte EDU, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito, cit., § 54.