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Pubbl. Lun, 27 Mag 2019

Brevi osservazioni in tema di simulazione del prezzo di vendita e di patto di maggiorazione del canone di locazione

Nicolò Matta


La simulazione del prezzo della compravendita e il c.d. patto di maggiorazione del canone di locazione


Nella prassi accade sovente che le parti di un contratto di compravendita si accordino nel senso di far figurare, nella scrittura privata o nell'atto pubblico, un prezzo inferiore rispetto a quello effettivamente dovuto. Né è infrequente l'ipotesi in cui le parti di un contratto di locazione soggetto all'obbligo di registrazione intendano dichiarare un canone minore rispetto a quello realmente pattuito. Entrambe le ipotesi sono riconducibili all'istituto della simulazione, sul quale occorre, pertanto, soffermarsi brevemente.

Nella prassi accade sovente che le parti di un contratto di compravendita si accordino nel senso di far figurare, nella scrittura privata o nell'atto pubblico, un prezzo inferiore rispetto a quello effettivamente dovuto. Né è infrequente l'ipotesi in cui le parti di un contratto di locazione soggetto all'obbligo di registrazione intendano dichiarare un canone minore rispetto a quello realmente pattuito. Entrambe le ipotesi sono riconducibili all'istituto della simulazione, sul quale occorre, pertanto, soffermarsi brevemente.

Com'è noto, mediante la simulazione le parti pongono in essere un regolamento negoziale con l’intesa, destinata a rimanere tra loro riservata, che lo stesso non corrisponda al contenuto del loro effettivo rapporto. La simulazione può essere assoluta o relativa: nella simulazione assoluta, le parti simulano di concludere un negozio, ma in realtà non intendono produrre alcun effetto giuridico; nella simulazione relativa, invece, esse fanno apparire all’esterno un negozio diverso da quello realmente concluso.

La simulazione relativa si distingue, inoltre, in oggettiva e soggettiva, a seconda che l’intesa sul significato apparente del regolamento negoziale abbia riguardo agli effetti del contratto o al suo contenuto (ad es., vendita dissimulante una donazione), ovvero ai soggetti nei cui confronti si produrranno gli effetti negoziali (c.d. interposizione fittizia di persona).

Il codice previgente non conteneva una disciplina compiuta della simulazione, limitandosi a regolare sotto il profilo probatorio la c.d. controdichiarazione. Al contrario, una volta preso atto della frequente ricorrenza pratica di intese fittizie, il legislatore del 1942 ha dettato un'organica disciplina dell'istituto, in ragione della necessità di assicurare un'adeguata tutela nei confronti di quei terzi che, da un lato, potrebbero subire un pregiudizio dal negozio simulatorio e, da altro lato, potrebbero pure riporre il loro ragionevole affidamento sulla serietà dell'intesa raggiunta dalle parti.

La simulazione si caratterizza per la presenza dei seguenti elementi: il negozio simulato e l'accordo simulatorio. La simulazione relativa si arricchisce di un ulteriore elemento, costituito dal negozio dissimulato.

Il negozio simulato è il negozio apparentemente concluso dalle parti e destinato ad essere portato a conoscenza dei terzi. La dottrina si è per lungo tempo soffermata sulla natura giuridica del negozio simulato, fornendo diverse ricostruzioni. Secondo la tesi tradizionale il negozio simulato sarebbe affetto da nullità, o per mancanza della volontà in ordineal contenuto negoziale, o per un vizio della causa. L'opinione più recente ritiene invece che si tratti di un negozio inefficace: si tratterebbe, cioè, di un negozio strutturalmente perfetto, ma destinato a rimanere inefficace per volontà delle parti. Tale concezione è per altro rimasta minoritaria, ma ha dalla sua un forte argomento nel tenore letterale dell’art. 1414, comma 1, c.c., secondo cui il negozio simulato “non ha effetto” tra le parti.

Se la simulazione è relativa, mentre il negozio simulato rimane inefficace inter partes, tra le parti ha effetto il negozio dissimulato, e cioè quello realmente voluto dalle parti, purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma (art. 1414, comma 2, c.c.). I requisiti di sostanza sono gli effetti negoziali nonché i presupposti attinenti al contenuto negoziale (in particolare, i requisiti richiesti dall’art. 1346 c.c. in ordine all’oggetto del contratto), mentre i requisiti di forma sono quelli che la legge prevede per la validità del contratto (così, ad es., le parti non potrebbero simulare una vendita di beni futuri, celante in realtà una donazione).

L’accordo simulatorio è la reciproca intesa delle parti sul carattere fittizio, apparente del contratto da loro concluso. Anche con riferimento alla natura dell'accordo simulatorio non vi è concordia in dottrina. Una prima tesi attribuisce all'accordo natura di dichiarazione di scienza: secondo quest'impostazione, cioè, si tratterebbe di un atto col quale le parti si limiterebbero ad attestare il carattere simulato, fittizio del negozio concluso. A tale ricostruzione si contrappone la teoria negoziale, secondo la quale l'accordo simulatorio sarebbe un vero e proprio negozio giuridico, teso alla privazione dell'efficacia del negozio simulato.

Quanto al profilo formale, fatto salvo quanto si è detto per il negozio dissimulato, non sono richiesti particolari requisiti, anche se nella prassi è ricorrente l’ipotesi della redazione di un documento (la c.d. controdichiarazione) attestante la simulazione. La presenza della controdichiarazione assume rilievo decisivo ai fini della prova della simulazione, che incontra rigorosi limiti ove la stessa sia fatta valere dalle parti. 

Infatti, mentre i terzi e i creditori interessati a far prevalere la realtà sull'apparenza possono valersi di qualsiasi mezzo di prova, le parti incontrano la preclusione dell’art. 2722 c.c., secondo cui non è ammissibile la prova testimoniale avente ad oggetto “patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea”. I partecipi dell'intesa simulatoria possono, dunque, far valere la situazione reale soltanto fornendo prova scritta della c.d. controdichiarazione. Tale preclusione viene meno qualora si tratti di far accertare l'illiceità del contratto dissimulato (art. 1417 c.c.).

Il riferimento ai limiti in tema di prova della simulazione, ove la stessa sia fatta valere dalle parti, consente di introdurre la questione relativa alla simulazione del prezzo di vendita. 

Nell'ipotesi in cui le parti si accordino nel senso di far risultare, dal contratto stipulato per scrittura privata o per atto pubblico, un prezzo minore rispetto a quello effettivamente dovuto per perseguire un risparmio d'imposta, ben potrebbe verificarsi la circostanza per cui il compratore rifiuti di corrispondere il differenziale, asserendo di essere obbligato a pagare il prezzo dichiarato in contratto. Sicché, ci si deve domandare se il venditore possa far accertare la simulazione del prezzo mediante testimoni, ovvero se a tale fattispecie siano applicabili i limiti probatori di cui all'art. 2722 c.c.

La giurisprudenza, fino ad un importante arresto delle Sezioni Unite del 2005, ha offerto sul punto soluzioni contrastanti. 

Secondo un primo orientamento, l’intesa con le quali le parti stabiliscono di celare una parte del prezzo della vendita andrebbe qualificata come mera pattuizione integrativa del contratto, con conseguente inapplicabilità delle preclusioni poste dagli artt. 1417 e 2722 c.c.

Al contrario, secondo un’altra tesi, sostenuta da una parte della giurisprudenza e poi accolta dalle Sezioni Unite, i suddetti limiti probatori trovano applicazione anche qualora la simulazione abbia ad oggetto un accordo ulteriore e diverso da quello contenuto in una singola clausola contrattuale del negozio simulato.

Problemi non dissimili pone anche il c.d. patto di maggiorazione del patto di locazione. Il riferimento è all'ipotesi in cui le parti di un contratto di locazione stipulino due accordi: il primo prevede un canone molto basso ed è destinato alla registrazione imposta dalla normativa fiscale; il secondo, invece, destinato a rimanere riservato tra le parti, contempla il vero canone dovuto dal conduttore. Il motivo per cui gli stipulanti ricorrono ad una tale operazione è agevolmente intuibile: all’atto della registrazione del contratto, infatti, il locatore è tenuto al versamento dell'imposta di registro di importo proporzionale al canone pattuito con il conduttore; inoltre, anche le imposte dirette che il locatore è tenuto annualmente a versare sono calcolate con riferimento al canone percepito.

Anche in tal caso, la discrasia tra realtà ed apparenza soddisfa le esigenze di risparmio fiscale delle parti finché non sorge controversia, e cioè fino al momento in cui il conduttore non pretenda di dover corrispondere al proprietario-locatore un canone inferiore rispetto a quello realmente pattuito. 

La questione è stata più volte esaminata dalla giurisprudenza, che ha offerto soluzioni contrastanti.

Un primo orientamento ha reputato nullo il c.d. patto di maggiorazione, ritenuto in contrasto con la disciplina della l. 431/1998, la quale stabilisce (art. 13) la c.d. regola dell'invarianza, per cui, una volta pattuito il canone locatizio, quest'ultimo non può essere più modificato nel corso del rapporto se non attraverso dei meccanismi di adeguamento automatico predeterminati in contratto (ad es., mediante il riferimento agli indici ISTAT del costo della vita).

Per un'altra tesi, invece, avallata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2014, la fattispecie andrebbe più propriamente ricondotta nell'ambito della simulazione. Secondo questa impostazione, i due atti posti in essere dalle parti (e cioè quello avente ad oggetto il canone di importo più basso, fittizio, e quello avente ad oggetto il canone realmente dovuto dal conduttore) costituirebbero elementi di un'unica operazione economica, riconducibile ad un'ipotesi di simulazione relativa oggettiva. In particolare, il c.d. patto di maggiorazione avrebbe natura di dichiarazione di scienza e non potrebbe, dunque, qualificarsi come nullo, dovendo lo stesso reputarsi inefficace perché diretto a realizzare un intento elusivo della normativa fiscale. Per tale ricostruzione, dunque, il patto di maggiorazione costituirebbe un’ipotesi di simulazione relativa avente ad oggetto la misura del canone locatizio, nonché vietata in quanto la causa in concreto dell'operazione sarebbe meramente elusiva e antifiscale, anche alla luce del principio generale dell'abuso del diritto.