ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Ven, 3 Mag 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Giurisdizione e competenza in materia di illeciti concorrenziali e contraffattori in rete.

Modifica pagina

Francesco Tantussi


Uno sguardo alla giurisprudenza italiana ed europea in materia di illeciti telematici consente di verificare l´adattabilità dei tradizionali criteri di collegamento giurisdizionale agli illeciti concorrenziali e contraffattori perpetrati in rete, ivi compresa l´annosa questione della pregiudizialità del giudizio di nullità di un marchio registrato


Sommario: 1. Realtà telematica e criteri di collegamento giurisdizionale.— 2. Caratteristiche degli illeciti telematici e relative implicazioni per la giurisdizione la competenza. — 3. Le fonti interne. — 3.1 Le norme interne sulla giurisdizione e sulla competenza applicabili in materia di concorrenza sleale e contraffazione. — 3.2. Il rapporto tra azione di contraffazione e questioni di nullità e decadenza del titolo. — 3.3. Il sistema di diritto internazionale privato italiano. — 4. La disciplina di livello sovranazionale. — 5. Gli orientamenti della Corte di Giustizia. — 5.1. Il forum damni. — 5.2. Il caso Bolagsupplysningen. — 5.3. Il caso Wintersteger — 5.4. I casi Pinckney ed Hejduk.

1. Realtà telematica e criteri di collegamento giurisdizionale.

Questo breve scritto si propone di analizzare alcuni problemi legati alla competenza e alla giurisdizione nelle controversie in materia di illeciti concorrenziali e contraffattori attuati in rete. I caratteristici profili di aterritorialità ed universalità, che contraddistinguono i diversi ambiti della realtà telematica, non investono soltanto gli aspetti sostanziali di queste due fattispecie illecite, condizionando l’accertamento dei relativi elementi costituitivi, ma sono altresì fonte di numerosi problemi e implicazioni sotto il profilo processuale: problemi che attengono, in particolare, all’individuazione dell’autorità e del foro competenti a pronunciarsi sulle relative controversie.

Basti pensare che, nella maggior parte dei casi, le norme attributive della competenza o della giurisdizione presenti in qualunque ordinamento, istituiscono dei legami tra la controversia e il foro competente (i c.d. criteri di collegamento giurisdizionale) che sono essenzialmente di tipo territoriale e materiale[1].

Così, oltre al principio generale secondo cui chiunque ha diritto di essere citato in giudizio nel luogo in cui ha stabilito il proprio domicilio, per quanto riguarda la responsabilità civile extracontrattuale, la potestà di conoscere una determinata controversia viene devoluta in ragione della coincidenza tra il luogo in cui si producono gli effetti dannosi del fatto illecito e la circoscrizione territoriale di un certo foro; oppure in base alla coincidenza tra la sfera territoriale di una certa autorità e il luogo in cui si è verificato l’evento generatore del danno.

Tuttavia, soluzioni di questo tipo non sempre risultano in linea con i principi di economia e buona amministrazione della giustizia, ossia i principi che informano la disciplina del fair process sia a livello europeo che nazionale. Ciò è quanto accade, appunto, per le controversie aventi oggetto gli illeciti compiuti attraverso i supporto telematici. Tali principi tendono, infatti, a garantire:

1.    La maggior vicinanza possibile dell’organo giudicante al luogo del fatto generatore del danno, in modo da agevolare la quantificazione di quest’ultimo e facilitare l’espletamento dell’attività istruttoria (c.d. principio di prossimità)[2];

2.    Che il ricorrente possa individuare prontamente l’autorità di fronte alla quale promuovere l’azione, senza necessità di svolgere lunghe e dispendiose indagini al solo fine di stabilire il luogo in cui il convenuto è stabilito, ovvero quello in cui ha posto in essere l’attività che si pretende dannosa[3];

3.    La prevedibilità, da parte dell’autore del comportamento, del foro dinnanzi al quale potrà essere citato in giudizio da tutti quei soggetti nella cui sfera egli abbia inciso con il proprio comportamento[4].

4.   Che siano ridotte al minimo le possibilità di pendenza di procedimenti paralleli e i correlati rischi di giudicati contrastanti, specialmente qualora vi siano due o più pronunce rese in diversi Stati Membri[5].  
 

2. Caratteristiche degli illeciti telematici ed implicazioni sulla giurisdizione e la competenza.

Almeno nella maggior parte dei casi, qualunque comportamento illecito attuato tramite internet è riconducibile, nei suoi tratti essenziali, al pregiudizio sofferto a causa del caricamento (upload) di informazioni o contenuti su un server connesso alla rete. Nella prassi dei rapporti imprenditoriali, in cui il principale motivo di interesse per i canali telematici deriva dalle enormi potenzialità commerciali offerte dalla rete, simili operazioni difficilmente sono poste in essere direttamente dal singolo professionista od imprenditore.

Le specifiche competenze informatiche e la necessità di hardware di grandi dimensioni inducono piuttosto a rivolgersi a soggetti esterni e altamente specializzati, in grado, ad esempio, di fornire servizi dell’hosting provider o del web designer: Si tratta di soggetti che di solito operano esternamente alla struttura dell’impresa e svolgono  le proprie prestazioni di servizio direttamente dal luogo in cui sono stabiliti. Ciò si riflette innanzitutto, sulla possibilità di chiamare a rispondere questi soggetti nei casi in cui le rispettive attività si configurino come il contributo fondamentale alla perpetrazione di un comportamento illecito, segnatamente sotto il profilo extracontrattuale. Vi sono, infatti, rilevanti differenze tra l’editore, responsabile oggettivamente, ed i c.d. prestatori di servizi della società dell’informazione: per ognuna delle figure in cui si articola questa particolare categoria di soggetti, infatti, la normativa vigente[6] tende, in linea di principio, a escludere ogni forma di responsabilità oggettiva.

Questa particolare modalità con cui i professionisti e le imprese interagiscono con la realtà telematica presenta inoltre diverse implicazioni sul piano della competenza e della giurisdizione. Posto che le operazioni in rete sono compiute attraverso le attività di soggetti terzi, il luogo di materiale realizzazione della condotta spesso non coinciderà affatto con quello del domicilio del singolo professionista (o della sede dell’impresa) per conto del quale sono fornite le prestazioni o i servizi “telematici”. Così, attribuendo rilevanza al luogo dell’evento generatore del danno, tecnicamente inteso, si finisce per favorire, dal punto di vista processuale, coloro che nell’ambito della competizione imprenditoriale sfruttano illecitamente i canali telematici, generando e/o diffondendo contenuti in violazione dei diritti di privativa altrui, commercializzando beni contraffatti, sfruttando l’altrui notorietà per rendersi visibili in rete o, più in generale, realizzando altre iniziative commerciali contrarie ai canoni di leale concorrenza.

Chi si rende responsabile di simili comportamenti avrebbe, infatti, la garanzia di poter essere convenuto in giudizio soltanto nel luogo in cui si trova la sede del provider o del collaboratore che ha concretamente posto in essere l’operazione illecita, ad esempio effettuando il caricamento di determinati contenuti od informazioni dal territorio di uno Stato estero: senza contare che, per quanto riguarda le liti transnazionali, far dipendere la giurisdizione dal luogo in cui si è materialmente verificato l’illecito telematico significa consentire ai potenziali responsabili non solo la scelta dell’autorità competente, ma anche la predeterminazione della legge applicabile, che dovrà necessariamente coincidere con quella dello Stato in cui si trova il foro competente[7].

Dal lato di chi intende agire in giudizio, occorre poi sottolineare che far gravare sul ricorrente l’onere di individuare il locus commissi delicti di un illecito telematico può comportare difficoltà quasi insormontabili. Basti pensare che la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha più volte specificato che per gli illeciti perpetrati in rete tale luogo dovrebbe farsi coincidere con quello in cui è stato avviato il processo tecnico finalizzato al caricamento di contenuti od informazioni in rete[8].

Medesime considerazioni valgono, a fortiori, per i server su cui sono memorizzati i siti web, i contenuti o le informazioni potenzialmente lesive: consentendo a qualsiasi utente della rete di accedere a quei dati, si può ben ritenere che il computer costituisca la causa generatrice del danno. Tuttavia, anche in questo caso appare del tutto evidente che la localizzazione fisica di un server costituisce un dato scarsamente significativo ai fini del collegamento giurisdizionale tra l’autorità competente e gli effetti dannosi prodotti dal comportamento incriminato: a ben vedere, il successo e la diffusione di internet stesso risiedono nella capacità di annullare le distanze, rendendo universalmente fruibile una qualsiasi informazione o contenuto digitale.

Si può quindi ritenere che medesima sia l’efficienza degli strumenti probatori, dei mezzi di accertamento e delle forme di esecuzione utilmente esperibili a prescindere dallo Stato in cui il processo è stato instaurato o dalla specifica dislocazione territoriale dell’ufficio dell’autorità adita. Inoltre, si può facilmente intuire come l’esatta individuazione della collocazione fisica di un server rappresenti un’operazione particolarmente complessa per chiunque intenda agire in giudizio: anche qualora ciò non risulti del tutto impossibile, porre a carico del ricorrente i costi ed i tempi di una simile indagine, la cui unica finalità è quella di stabilire l’autorità o l’ufficio giurisdizionale competenti, appare del tutto in contrasto con i principi processuali supra richiamati.

Dunque, per quanto riguarda gli illeciti perpetrati in rete, far dipendere giurisdizione e competenza territoriale dal locus commissi delicti, dal luogo in cui è sorta l’obbligazione o, ancora, da quello in cui si sono manifestate le conseguenze dannose di un certo comportamento, conduce spesso ad esiti incerti, talvolta del tutto insoddisfacenti rispetto ai principi a cui si è fatto brevemente cenno. Nondimeno, in assenza di interventi normativi specifici che regolino la disciplina processuale di queste tipologie di illecito, quelli appena menzionati costituiscono i criteri di collegamento giurisdizionale tutt’ora applicabili a tali controversie: ciò ha reso necessaria l’opera di adattamento, contemperamento e, talvolta, vera e propria creazione del diritto, da parte del formante giurisprudenziale creatosi su questo tema, come si vedrà nei paragrafi successivi.

3. Le fonti interne.

3.1. Le norme interne sulla giurisdizione e sulla competenza applicabili in materia di concorrenza sleale e contraffazione.

 In generale, la ricostruzione della disciplina normativa applicabile al fine di stabilire quale autorità sia dotata di giurisdizione e a quale specifico ufficio giurisdizionale, nell’ambito di tale autorità, spetti la competenza sulle liti in materia di proprietà industriale e di concorrenza sleale, costituisce un’operazione piuttosto complessa per l’interprete. Ciò si deve, in particolare, alla gran quantità di disposizioni che, sia nelle fonti interne che in quelle di livello sovranazionale, intervengono sul punto. I numerosi problemi di coordinamento fra le varie fonti normative, che inevitabilmente si pongono per tutte le controversie che presentano elementi di transanzionalità, sono destinati poi a complicarsi ulteriormente quando, come nel nostro caso, la fattispecie illecita oggetto del giudizio si determina attraverso la realtà telematica, ed è perciò “intrisa” di quei caratteri di aterritorialità ed universalità che connotano tale dimensione.

Posto che la violazione di privative industriali e gli atti di concorrenza sleale rappresentano entrambe fattispecie legali ascrivibili alla categoria degli illeciti extracontrattuali, possiamo dire, in via di prima approssimazione, che alle relative controversie saranno certamente applicabili i criteri di collegamento previsti dalla legge interna e dalle fonti sovranazionali in materia di responsabilità civile. Si potrà quindi far riferimento, innanzitutto, alle disposizioni contenute nel nostro codice di rito, e segnatamente alla regola generale del foro del domicilio del convenuto, stabilita dall’art. 18 c.p.c. per le persone fisiche e dall’art. 19 c.p.c. per le persone giuridiche.

A questo primo criterio di collegamento, che costituisce principio universalmente riconosciuto anche negli accordi internazionali, occorre poi aggiungere il foro facoltativo per le cause relative ai diritti di obbligazione, istituito dall’art. 20 c.p.c.

Sempre sul fronte interno, risulta poi imprescindibile il richiamo alla normativa di settore contenuta nel Codice della Proprietà Industriale, le cui disposizioni, anche in materia di competenza e giurisdizione, si pongono come norme speciali rispetto al diritto processuale generale[9]. Così, per tutte le liti in materia di contraffazione, validità, nullità o decadenza dei titoli di proprietà industriale riconosciuti nostro ordinamento, le prescrizioni di cui all’art. 120 c.p.i. andranno senz’altro ritenute prevalenti rispetto alle disposizioni generali del c.p.c.

Peraltro, ciò è quanto impone expressis verbis, il primo comma dell’art. 120 c.p.i., che nell’introdurre un foro speciale per le “azioni in materia di proprietà industriale” stabilisce che tali procedimenti debbano essere instaurati davanti all’autorità giudiziaria dello Stato di registrazione del titolo, a prescindere dalla cittadinanza, dal domicilio o dalla residenza delle parti.

Qualche problema interpretativo suscita però l’espressione “azioni in materia di proprietà industriale” e la correlata ripartizione di competenza e di giurisdizione che il c.p.i. introduce attraverso tale concetto. Per dottrina e giurisprudenza prevalenti, l’intenzione del legislatore del 2005 sarebbe stata quella di designare, con le azioni appena dette, tutte quelle controversie aventi per oggetto la validità e/o la registrazione del titolo di PI, in manifesta contrapposizione con le cause che vertono invece sulle violazioni del dritto privativa discendente dalla registrazione.

Si tratta di una distinzione ripresa anche dalle fonti sovranazionali, le quali, in materia di proprietà industriale, utilizzano tale criterio per delimitare la sfera di giurisdizione esclusiva attribuita a ciascuno Stato membro[10].

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, tuttavia, il luogo di rilascio del titolo, che determina la potestà di decidere sulle controversie concernenti la nullità o la decadenza dello stesso, non rileva soltanto ai fini della giurisdizione: esso individua anche l’organo dotato della specifica frazione di quel potere decisionale all’interno dell’autorità giudiziaria italiana, ossia il giudice territorialmente competente. Sotto questo profilo, il terzo comma dell’art. 120 c.p.i. stabilisce la  competenza funzionale-territoriale della Sezione Specializzata[11] nella cui circoscrizione si trova il domicilio eletto al momento del deposito della domanda di registrazione o brevettazione.

Alla vis actractiva di questo foro esclusivo, come si è accennato, sfuggono però le azioni di condanna o di accertamento, anche negativo, della contraffazione: per questi procedimenti, i commi 6 e 6bis dell’art. 120 c.p.i. prevedono infatti il criterio del forum commissi delicti, devolvendo la cognizione di tali cause alla Sezione Specializzata nella cui circoscrizione i fatti sono stati commessi. A differenza della competenza per le azioni di nullità o decadenza, che è speciale ed esclusiva, il criterio di collegamento appena richiamato si configura quindi come un foro facoltativo, concesso all’attore in via alternativa rispetto ai fori generali di cui agli artt. 18-19 c.p.c. ed al criterio fissato dall’art. 20 c.p.c. per le liti in materia di diritti d’obbligazione[12]: ciò è quanto si può dedurre dall’inclusione della particella “anche” nel disposto di cui al sesto comma dell’art. 120 c.p.i.

In teoria le azioni di contraffazione e le azioni aventi oggetto la validità o l’esistenza del titolo di PI risultano ben distinte. Tuttavia, nella prassi, i frequenti fenomeni di connessione e litispendenza tra cause rendono particolarmente complessa l’individuazione dell’organo territorialmente competente: problema  che occorre risolvere soprattutto per scongiurare il rischio di giudicati contrastanti.

Si pensi a tutte le ipotesi in cui un giudice adito mediante azione di contraffazione, sia investito anche della questione di validità del titolo, domanda che il convenuto può introdurre (e di fatto ciò accade spesso) sia in via riconvenzionale, sia attraverso mera eccezione; o ancora, si pensi alle situazioni in cui il convenuto nel giudizio sulla contraffazione, radicato in base al forum commissi delicti, instauri (od abbia già instaurato) dinanzi alle autorità del luogo di elezione di domicilio della domanda di registrazione del titolo, un altro procedimento volto ad accertare la nullità o la decadenza del marchio o del brevetto; infine, si pensi al caso in cui un soggetto cumuli una domanda di accertamento positivo o negativo della contraffazione, con quella di rivendica o di accertamento della nullità o della decadenza del titolo vantato dal convenuto.

3.2. Il rapporto tra azione di contraffazione e questioni di nullità e decadenza del titolo.

In giurisprudenza non si è ancora raggiunto un indirizzo uniforme riguardo al rapporto tra giudizio di nullità o decadenza e il giudizio vertente sulla presunta violazione della privativa. Allo stato attuale, l’orientamento più accreditato sembra essere quello espresso in una recente pronuncia di legittimità, secondo cui tale rapporto si configurerebbe in termini di pregiudizialità in senso tecnico: la causa di nullità costituirebbe infatti un antecedente in senso logico-giuridico in tutte le cause vertenti sulla presunta violazione della privativa[13]. Ciò implicherebbe che, in caso di contemporanea pendenza dei due giudizi, il giudice della situazione dipendente (la contraffazione) non avrebbe alcuna possibilità di pronunciarsi su di essa incidenter tantum: egli sarebbe invece tenuto ad attendere la decisione sulla questione pregiudiziale, versandosi in un’ipotesi di sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c., disposizione che tende a prevenire il rischio di giudicati contrastanti.

Viceversa, nell’ipotesi in cui il giudizio sulla contraffazione abbia preceduto quello sulla validità del marchio o del brevetto nulla impedirebbe un’eventuale delibazione sulla validità dei titoli: decisione che risulterebbe comunque inidonea ad assumere l’autorità di giudicato, potendo semmai determinare un mero contrasto con gli effetti pratici della decisione successiva, ossia una situazione che lo stesso legislatore ha previsto e disciplinato con l’art. 77 c.p.i.

Tuttavia, quello appena esposto sembra essere soltanto l’ultimo episodio di un percorso interpretativo altalenante emerso in seno alla giurisprudenza di legittimità.

A distanza di qualche mese dalla sentenza appena descritta, la stessa Corte di Cassazione si era infatti espressa in senso contrario, sostenendo che la questione di validità non si configurerebbe come una questione pregiudiziale in senso tecnico e il giudice della contraffazione, di fronte alla necessità di stabilire l’ambito di protezione del titolo di P.I., potrebbe ben pronunciarsi sulla validità del titolo stesso in via incidentale, con efficacia inter partes, senza dover necessariamente disporre la sospensione del processo: e tutto ciò, finanche quando la decadenza o la nullità del titolo siano oggetto di un diverso procedimento pendente dinanzi ad altro collegio[14].

Il principale argomento addotto dalla Corte in favore di quest’ultima tesi è rappresentato dalla circostanza che le semplici contestazioni della validità del titolo non sarebbero sufficienti ad imporre al giudice una definizione della questione con gli effetti della cosa giudicata: tali effetti si produrrebbero infatti soltanto quando vi è un’esplicita domanda di parte o un’espressa previsione della legge in tal senso. Viceversa, la delibazione sulla validità del titolo assumerebbe un valore strumentale fintanto che è diretta unicamente a preparare la decisione finale: essa sarebbe, quindi, inidonea a spiegare i suoi effetti al di fuori della causa in cui avviene il relativo accertamento. Pertanto, nonostante l’eccesso di competenza, un’eventuale decisione sulla pregiudiziale potrebbe restare attratta nella causa dinanzi al giudice della contraffazione, essendo quest'ultima una situazione dipendente in senso meramente logico da quella pregiudiziale.

Merita osservare che, fatte salve le diverse soluzioni prospettate in caso di litispendenza, ovvero la necessità o meno di sospendere il giudizio dipendente, gli orientamenti appena richiamati sembrano in antitesi soltanto sul carattere logico o tecnico della pregiudiziale, mentre sembrano sostanzialmente convergere su un punto: la possibilità di una cognizione incidentale delle cause di nullità o decadenza da parte del giudice della contraffazione, al fine di definire tali questioni con un accertamento valido unicamente nel giudizio dipendente.

In effetti, quanto appena detto appare del tutto in linea con l’impostazione adottata per i titoli di P.I. non concessi nel nostro Paese: sulla possibilità di un accertamento incidenter tantum avente ad oggetto la validità del titolo, infatti, la Cassazione si è espressa positivamente in una recente decisione concernente un marchio comunitario[15].

Preme sottolineare che le varie sentenze richiamate sinora derivano tutte da itinera processuali in cui la decadenza o la nullità erano state dedotte in giudizio attraverso mere eccezioni, le quali, giova ripetere, sono le uniche che non postulano un accertamento giudiziale con efficacia erga omnes.

A ben vedere però, la connessione tra le cause determinerebbe lo stesso risultato di attrazione della competenza qualora la questione pregiudiziale fosse introdotta attraverso un’autonoma domanda riconvenzionale, magari proposta dal convenuto che mira a respingere l’azione di contraffazione intentata nei suoi confronti. Infatti, l’art. 36 c.p.c., nel prevedere le ipotesi in cui vi è necessità di rimettere l’intera causa dinnanzi al giudice ad quem, stabilisce che ciò debba avvenire soltanto qualora le questioni che formano oggetto di domanda riconvenzionale eccedano la competenza del giudice a quo, ma solo per materia o per valore: così, se l’eccesso di competenza non si ha per questi due motivi, la competenza è destinata a rimanere attratta al giudice a quo[16].

Tutto ciò comporta una conseguenza rilevante per quanto riguarda il tema che qui si sta indagando, ossia il rapporto tra il foro esclusivo di cui all’art. 120/3 c.p.i. e forum commissi delicti concesso, in via alternativa, dall’art. 120/6 c.p.i.: la competenza attribuita in base al primo dei due criteri di collegamento parrebbe ammettere una deroga, specialmente ove sussistano relazioni di connessione tra le cause. Ciò è quanto emerge implicitamente dalle varie pronunce della giurisprudenza di legittimità.

Dunque, in attesa di un’esplicita presa di posizione sul punto da parte della Cassazione, la derogabilità della competenza esclusiva in materia industriale costituisce tutt’ora un problema aperto, come dimostrano le diverse soluzioni accolte nei (pochi) provvedimenti di merito che hanno affrontato il tema[17]. Dottrina e giurisprudenza più recenti sembrano avvalorare la tesi per cui, con l’entrata in vigore del Codice, la competenza territoriale sulle “azioni in materia di proprietà industriale” avrebbe perso il suo carattere inderogabile a causa della formulazione dell’art. 122/1 c.p.i., disposizione che prevede la non obbligatorietà dell’intervento del Pubblico Ministero nelle cause relative alla nullità assoluta o alla decadenza del titolo[18].

Dunque, qualora la controversia sia radicata in base all’art. 120/6 (forum commissi delicti), o comunque in base alla regola generale degli artt. 18 e 19 c.p.c. (forum rei), e la cognizione si estenda anche alla pregiudiziale inerente la validità del titolo, non importa se introdotta in via principale o in via d’eccezione, il giudice potrà ravvisare una situazione di connessione idonea a rendere opportuna la trattazione unica e la decisione congiunta delle domande. Peraltro, un effetto che consegue all’inderogabilità della competenza è la sua rilevabilità d’ufficio non oltre la prima udienza[19].

 

3.3. Il sistema di diritto internazionale privato italiano.

Per quanto riguarda il sistema di diritto internazionale privato italiano, la legge n. 218 del 1995 rappresenta il principale punto di riferimento in materia di giurisdizione. La legge di riforma fa, infatti, propri i criteri di collegamento giurisdizionale già previsti nelle fonti pattizie e successivamente recepiti all’interno degli atti normativi di matrice europea.

Occorre notare che la legge non si limita a recepire le varie regole di giurisdizione adottate in sede di accordo internazionale: nel testo vi sono infatti alcune disposizioni con cui il legislatore del 1995 ha addirittura esteso la sfera di applicazione di queste regole. Ciò è quanto accade per l’attribuzione della competenza sulle controversie in cui sono coinvolti soggetti domiciliati in uno Stato non firmatario della Convenzione di Bruxelles del 1968: l’art. 3 comma 2 della legge 218 estende infatti la giurisdizione italiana anche nei confronti di questi soggetti, richiamandosi ad alcuni criteri di collegamento[20] che la Convenzione prevede per i soli soggetti domiciliati in uno Stato contraente.

Dunque la regola generale, fissata dall’art. 3 comma 2, appare essere quella per cui anche i non domiciliati sul territorio italiano possono essere convenuti in Italia in tutti i casi in cui sussiste la giurisdizione italiana in base ai medesimi criteri di collegamento che la Convenzione prevede per i soggetti domiciliati o residenti in uno Stato contraente.

Tuttavia, proprio per quanto riguarda la giurisdizione esclusiva in materia di registrazione o validità dei titoli di P.I., l’art. 3 comma 2 omette ogni riferimento alla specifica sezione dell’accordo internazionale che sancisce la competenza delle autorità dello Stato di rilascio del titolo[21].

Secondo una parte minoritaria della dottrina, l’assenza di questo richiamo varrebbe ad escludere la possibilità di invocare la giurisdizione esclusiva (sulle le cause in materia di validità o registrazione di titoli di P. I. concessi nel nostro paese) anche nei confronti di soggetti privi di domicilio, residenza o rappresentante autorizzato a stare in giudizio in Italia[22].

Si tratta di questione che, per quanto rilevante, attiene alla sfera personale di efficacia delle disposizioni degli accordi internazionali[23]: un tema che fuoriesce dall’economia di questo scritto e per il quale conviene quindi rinviare agli studi specifici in materia di diritto internazionale.

Nessun problema si pone invece per i giudizi in materia di concorrenza sleale o di violazione del diritto d’autore: come conferma una recente pronuncia del Tribunale di Milano i criteri di collegamento giurisdizionale applicabili a queste controversie possono essere legittimamente invocati, in virtù della legge 218 del 1995, anche per convenire in giudizio i soggetti domiciliati o residenti in uno Stato non firmatario della Convenzione, come gli Stati Uniti[24].

4. La disciplina di livello sovranazionale.

Per quanto riguarda le fonti internazionali, l’attribuzione della giurisdizione alle singole autorità giudiziarie degli Stati membri avviene in funzione di un criterio analogo stabilito dal c.p.i. all’art. 120/1: il Regolamento concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale[25] stabilisce infatti la giurisdizione esclusiva in favore dello Stato membro di concessione, richiesta o deposito della domanda di registrazione del titolo di P.I.

Tuttavia, al pari delle norme interne che regolano la competenza territoriale, la sfera di giurisdizione esclusiva così delimitata non comprende tutte le controversie in materia industriale, ma soltanto quelle aventi oggetto la registrazione o la validità del titolo[26]. Come specificato dallo stesso art. 24 n. 4) del Reg. 1215/2012, questo titolo di giurisdizione speciale vale indipendentemente dal domicilio o dalla residenza delle parti, e, soprattutto, “a prescindere dal fatto che la questione sia sollevata mediante azione od eccezione”.

Si può facilmente intuire come la distinzione tracciata tra la sfera di giurisdizione esclusiva e gli altri criteri di collegamento applicabili in ambito industriale in forza dalle fonti europee e dagli accordi internazionali, sollevi problemi del tutto analoghi a quelli appena visti per l’attribuzione della competenza all’interno del nostro ordinamento: ciò dipende essenzialmente dal fatto che anche nelle controversie transfrontaliere può verificarsi — e di fatto si verifica spesso — che l’oggetto del giudizio sia trasversale poiché la cognizione giudice adito si estende a questioni astrattamente riconducibili alla potestà giurisdizionale di autorità diverse.

Nel nostro caso, il principale conflitto che si determina è quello tra il foro speciale appena descritto e quello di cui all’art. 7 n. 2) del Reg. 1215/2012, disposizione che, in via generale, fissa la giurisdizione sugli illeciti civili dolosi o colposi. Ricorrendo al classico criterio di collegamento del locus commissi delicti, quest’ultima disposizione sancisce la competenza giurisdizionale delle autorità degli Stati membri in cui è avvenuto, oppure può avvenire, l’evento dannoso connesso ad un illecito extracontrattuale. Trattandosi di un foro speciale facoltativo, che si affianca a quello generale del domicilio del convenuto, giurisprudenza ed dottrina ritengono che la sua sfera di applicazione possa estendersi anche gli illeciti concorrenziali ed a quelli di tipo industriale[27]. Si pone quindi il problema di coordinare tale disposizione con il criterio di collegamento di cui all’art. 24 n. 4) del medesimo Regolamento.

A tal riguardo, alcune utili indicazioni sul punto si possono trarre dai vari precedenti giurisprudenziali che hanno affrontato il tema. In particolare, sia la giurisprudenza europea che quella di legittimità hanno ritenuto che la giurisdizione del giudice del forum commissi delicti fosse da estendere anche alla validità di “frazioni” straniere di un brevetto europeo nelle controversie instaurate con un’azione di accertamento negativo[28] della contraffazione — o di accertamento negativo degli atti di concorrenza sleale dipendenti dalla violazione della privativa — nello Stato di registrazione di un’altra porzione del medesimo titolo[29].

Viceversa, secondo una decisione di merito più risalente, il giudice italiano di fronte al quale era stata sollevata una controversia vertente sulla contraffazione di una porzione straniera di un brevetto europeo, avrebbe dovuto declinare la propria giurisdizione allorché nel corso del giudizio fosse stata sollevata una questione pregiudiziale sulla validità o sull’efficacia di quella frazione del titolo di P.I.: ciò implicherebbe infatti una cognizione che secondo le fonti europee in materia di diritto internazionale privato spetta in via esclusiva al giudice dello Stato di registrazione. Dinanzi a quest’ultima autorità dovrebbero dunque essere proposte anche le eventuali domande connesse alla questione pregiudiziale, come quelle di concorrenza sleale[30].

Infine, merita osservare che l’istituzione di una giurisdizione esclusiva non impedisce al giudice incompetente nel merito di emettere uno o più provvedimenti cautelari. Il Reg. 1215 del 2012, all’art. 35 delinea infatti una sorta di “competenza cautelare”, consentendo al giudice adito di emettere tutti quei provvedimenti provvisori o cautelari che siano previsti dalla legge del proprio Stato membro: e ciò, appunto, anche quando la giurisdizione nel merito spetti all’autorità di un ordinamento straniero.

Si tratta di una disposizione piuttosto rilevante nel contesto che stiamo analizzando: spesso infatti il provvedimento inibitorio cautelare rappresenta la soluzione più ambita nei casi di presunta violazione di privative industriali o di comportamenti anticoncorrenziali, al punto che spesso, una volta ottenuto un provvedimento di questo tipo, nessuna delle parti ha interesse a proseguire con l’instaurazione della fase di merito. Secondo un’interpretazione avallata anche dalla Corte di Giustizia, la “competenza cautelare” permane anche quando di fronte giudice a cui è chiesto il provvedimento venga sollevata una questione di validità di un titolo di P.I. straniero[31].

 5.  Gli orientamenti della Corte di Giustizia in materia di Giurisdizione.

5.1. Il forum damni.

Com’è noto, le norme comunitarie poste attraverso i regolamenti, in caso di conflitto, prevalgano su quelle interne di ciascun singolo Stato Membro. Ciò vale, ovviamente, anche per le disposizioni di carattere processuale, oggi contenute nel Reg. Ue 1215 del 2012: fonte rispetto alla quale dovrà perciò cedere la normativa interna in materia di competenza e giurisdizione.

Tale principio non interessa soltanto il rapporto tra le fonti normative, ma si riflette anche sul valore delle statuizioni sul potere giurisdizionale espresse dalla Corte di Giustizia. Costituendo una una forma di interpretazione “autentica” delle disposizioni di matrice europea, le pronunce della Corte dovranno infatti ritenersi prevalenti sia sulla disciplina interna in materia di giurisdizione, sia sulle interpretazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità. Si tratta di un diktat espresso dagli stessi giudici di Lussemburgo, i quali, nel rivendicare l’autorità e la preminenza delle proprie decisioni, hanno precisato che i tribunali di merito non dovranno attenersi alle eventuali pronunce difformi della Corte di Cassazione, e ciò finanche quando quest’ultima sia stata interpellata tramite regolamento preventivo di giurisdizione[32].

A fronte di queste brevi considerazioni, nel tentativo di inquadrare i rapporti tra la dimensione aterritoriale della rete e la disciplina della competenza e della giurisdizione, pare opportuno muovere dall’orientamento emerso in seno all’allora Corte di Giustizia delle Comunità Europee, che con la sentenza del 7 marzo 1995 ha enunciato alcuni principi di diritto applicabili a tutte le tipologie di illecito transfrontalieri di natura extracontrattuale.

A margine del noto caso Shevill, la principale questione sottoposta alla Corte, in via pregiudiziale, verteva appunto sull’individuazione dell’autorità giurisdizionale competente a decidere su un caso di diffamazione a mezzo stampa. Nel caso di specie, infatti, la pubblicazione incriminata era stata redatta in Francia e successivamente distribuita sul territorio di diversi Stati membri, tra cui l’Inghilterra, Paese in cui si trovava il domicilio della presunta vittima. Inoltre, nell’ipotesi in cui la Corte avesse riconosciuto la giurisdizione di più Stati membri a causa della diffusione su scala internazionale dell’articolo asseritamente diffamatorio, occorreva stabilire su quale parte del danno causato si sarebbe potuta estendere la cognizione dei singoli giudici nazionali.

Per quanto concerne il primo dei due quesiti, la Corte ha affermato che la vittima di una pubblicazione diffamatoria diffusa in più Stati avrebbe facoltà di invocare, in via alternativa, ben due titoli di giurisdizione: da un lato la regola generale del domicilio del convenuto, che nel caso di specie individuava i giudici nella cui circoscrizione si trovava la sede dell’editore della pubblicazione: dall’altro il foro facoltativo previsto in materia di illeciti dolosi o colposi, secondo cui si debbono ritenere dotate di giurisdizione le autorità di un qualsiasi Stato membro sul cui territorio è avvenuto, ovvero rischia di avvenire, un evento dannoso. Più in particolare, seguendo un indirizzo interpretativo ormai ampiamente consolidato, richiamato dalla stessa sentenza Shevill ed enunciato per la prima volta nella sentenza Mines de potasse dAlsace[33], il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o potrebbe avvenire[34] comprenderebbe:   

— i giudici del luogo in cui il danno è insorto, ovvero l’autorità giurisdizionale dotata di competenza nel luogo in cui è avvenuto il fatto che ha dato origine al danno;

— i giudici del luogo in cui l’evento dannoso si è verificato, ossia l’autorità giurisdizionale competente nel luogo in cui il pregiudizio si è concretizzato.

Nel primo caso, molto spesso l’autorità individuata coincide con quella stabilita presso il domicilio del convenuto, rendendo di fatto superflua la previsione del foro alternativo: al ricorrente è infatti data in ogni caso la possibilità di radicare la controversia in base al principio generale — riconosciuto nel nostro sistema di diritto internazionale privato, sancito dai vari Stati contraenti fin dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 e ribadito più volte dalla stessa CGUE — secondo cui un soggetto può essere sempre convenuto in giudizio dinanzi ai giudici dello Stato in cui si trova il suo domicilio[35].

Riveste senz’altro maggiore importanza il criterio del luogo di concretizzazione del danno, che consente di instaurare la controversia di fronte ai giudici nazionali di ogni Stato membro sul cui territorio il ricorrente assuma di aver subito un danno di natura extracontrattuale.

Peraltro, trattandosi della fase introduttiva del procedimento, il giudice dell’azione potrà valutare tali profili esclusivamente in riferimento al contenuto dell’atto introduttivo, essendo riservata all’esame del merito ogni altra questione concernente la sussistenza di un illecito. Ne deriva che il criterio del forum damni, per come interpretato dal Corte, consente a chiunque si assuma vittima di un danno extracontrattuale di adire legittimamente le autorità di un qualunque Stato membro, all’unica condizione che dei danni cagionati sul territorio di quello Stato ne sia data un’adeguata (e non artificiosa) prospettazione nella domanda giudiziale.

Danni che nel caso Shevill, consistevano nel pregiudizio alla reputazione personale e quindi nella lesione provocata ai diritti della personalità: diritti che essendo protetti in tutti gli stati membri, consentivano alla presunta vittima di esperire un’azione risaricitoria dinanzi ai giudici di qualsiasi Stato membro sul cui territorio fosse prospettata la diffusione della pubblicazione diffamatoria. 

Come si può facilmente intuire, i criteri di collegamento appena richiamati possono far sì che in concreto la giurisdizione sugli illeciti extracontrattuali spetti alle autorità giurisdizionali di più Stati membri. Tuttavia, come precisato dalla Corte, alla pluralità dei giudici a cui è riconosciuta, in generale, la potestà di decidere sulle relative controversie corrispondono diverse “porzioni di competenza” riconosciute in capo alle singole autorità. Così, mentre ai giudici del luogo in cui è avvenuto il fatto generatore del danno è devoluta la piena cognizione sul pregiudizio derivante dal comportamento illecito, essendo attribuita loro la piena potestà di pronunciarsi sull’integralità dei danni da esso cagionati, nel caso in cui la controversia sia radicata presso uno dei luoghi in cui il danno si è concretizzato, il giudice adito potrà pronunciarsi soltanto sui danni causati sul territorio del relativo Stato.

In questo senso, la Corte di Giustizia ha sì riconosciuto la competenza delle corti inglesi e gallesi, che nel caso Shevill rappresentavano i giudici del rinvio, ma ne ha limitato la cognizione ai soli danni prodotti dalla diffusione dell’articolo diffamatorio sul territorio anglosassone.

In una successiva pronuncia, ancora una volta concernente un caso di diffamazione, stavolta perpetrata in rete, la Corte ha avuto modo di ribadire i medesimi principi del forum damni enunciati nella sentenza Shevill[36]. Tuttavia, innovando rispetto a questo celebre precedente, il giudice europeo ha inteso rafforzare la posizione delle vittime di attività diffamatorie online, devolvendo la piena cognizione di tutti i danni subiti anche alle autorità del luogo in cui il danneggiato possiede il proprio centro di interessi: luogo che per le persone fisiche si fa normalmente coincidere con quello di residenza abituale.

Con la sentenza sul caso Martinez si viene così ad istituire una sorta di forum actoris, sul presupposto che i giudici del luogo del centro di interessi della vittima sarebbero nella condizione ottimale per valutare l’impatto sui diritti della personalità di un’informazione immessa in rete.

Si tratta di una soluzione che, nonostante l’assenza di un preciso e diretto fondamento normativo, sembra trovare giustificazione proprio nel supporto telematico attraverso il quale è perpetrato l’illecito diffamatorio. Infatti, una volta considerato che la pubblicazione di contenuti su un sito internet è attività che mira, per sua intrinseca natura, all’ubiquità ed all’universalità di detti contenuti, consentendone l’immediata consultazione da parte di un indefinito numero di internauti, i giudici della Corte evidenziano l’inutilità del criterio della diffusione delle informazioni diffamatorie sancito dal precedente Shevill: risulterebbe evidentemente impossibile, dal punto di vista tecnico, quantificare la diffusione sul territorio di un singolo Stato membro di un’informazione caricata su un sito web. Occorre perciò escludere in radice la possibilità di far dipendere la giurisdizione sugli illeciti di questo tipo da un parametro come quello della concretizzazione del danno.

Di qui l’indicazione del giudice del luogo in cui la vittima possiede il proprio centro di interessi come autorità più prossima al danno e, quindi, più idonea a valutare l’impatto delle informazioni diffamatorie sui diritti della personalità di un individuo. Secondo la Corte tale soluzione non avrebbe soltanto il pregio di scongiurare i fenomeni più eclatanti di forum shopping[37], ma risulterebbe altresì in linea con i principi di buona amministrazione della giustizia e di prevedibilità della competenza territoriale da parte del convenuto. Aspetti di cui è lo stesso Reg. 1215 del 2012 a sottolineare l’importanza, specie nelle controversie in materia di obbligazioni extracontrattuali derivanti da violazioni della privacy e dei diritti della personalità, ivi compresa la diffamazione[38]. Chiunque ponga in essere simili comportamenti, infatti, fin dal momento in cui sono emessi i contenuti potenzialmente lesivi è ragionevolmente in grado di prevedere dove si trovino i centri di interesse delle persone che possono risentire della diffusione di tali informazioni. Così, da un lato il forum actoris agevola il soggetto leso; dall’altro consente ai convenuti di prevedere con un certo grado di probabilità dinanzi a quale foro potranno essere citati.

Dunque, a partire dal caso Martinez il criterio del forum actoris si aggiunge agli altri precedentemente descritti, come risultato dell’adattamento del forum damni alle particolari caratteristiche degli illeciti perpetrati in ambito telematico. Particolarità che, come si è detto, si riflettono anche sulla cognizione attribuita al giudice individuato come competente: la Corte chiarisce infatti che il ricorrente ha facoltà di promuovere un’azione di risarcimento per la totalità del danno cagionato anche di fronte al giudice del luogo in cui si trova il proprio centro d’interessi, oltre che dinanzi ai giudici dello Stato Membro in cui l’emittente è stabilito.

Infine, in luogo di un’azione diretta a far valere il danno nella sua integralità, la pronuncia sul caso Martinez conferma comunque la competenza dei giudici di ciascuno Stato in cui l’informazione immessa in rete sia accessibile o lo sia stata, seppure con cognizione limitata ai soli danni prodotti sul territorio di quello Stato[39].

5.2. Il caso Bolagsupplysningen.

Si può facilmente intuire come la nozione di centro di interessi assuma un rilievo determinante nella ricostruzione operata dai giudici di Lussemburgo. Sul punto è intervenuta una recente pronuncia con cui, nel risolvere una controversia tra una società svedese ed una società di diritto estone in lite per la diffusione di dati inesatti ed omessa rimozione di contenuti diffamatori dal sito gestito dalla prima, la Corte ha risposto proprio ad un quesito vertente sulla definizione di centro di interesse della vittima, sottopostole dal giudice del rinvio.

Nonostante si tratti, ancora una volta, di violazioni inerenti il diritto alla reputazione e all’immagine personali, nel caso di specie tali diritti trovano una declinazione propriamente commerciale: motivo per cui le indicazioni che possono trarsi dalla sentenza in esame acquistano indubbio rilievo anche in ambito industriale e concorrenziale.

Da un lato i giudici di Lussemburgo si richiamano alla giurisprudenza precedente, secondo cui il centro di interessi delle persone fisiche deve farsi corrispondere, in via generale, con lo Stato membro di residenza abituale oppure con lo Stato di esercizio di un’attività professionale;  dall’altro, per le persone giuridiche che svolgono un’attività economica, la Corte ritiene che l’ubicazione della sede statutaria non sia affatto decisiva: il centro di interessi deve infatti rispecchiare il luogo in cui la reputazione commerciale è più solida, e deve quindi determinarsi in funzione del luogo in cui la società esercita la parte essenziale della propria attività economica[40]; mentre, nell’ipotesi in cui il giudice adito non ravvisi elementi sufficienti a far presumere una preponderanza dell’attività economica in un certo Stato membro, all’attore dovrebbe essere negata la possibilità di promuovere azione per il risarcimento integrale nel luogo di concretizzazione del danno: nell’impossibilità di identificare il proprio centro di interesse, la presunta vittima potrebbe infatti agire per la totalità del danno soltanto dinanzi ai giudici del luogo del domicilio del convenuto, oppure di fronte alle autorità del luogo in cui si è verificato il fatto generatore del danno[41].

La sentenza Bolagsupplysningen appena richiamata traccia poi un’importante e netta distinzione tra domande risarcitorie e domande di natura diversa, come quelle dirette ad ottenere provvedimenti che impediscano l’ulteriore diffusione dei contenuti online o che impongano all’autore del comportamento lesivo di rettificare i dati immessi in rete, quando la loro erroneità sia fonte di danno per la vittima.

Trattandosi di domande uniche ed indivisibili, la Corte attribuisce la competenza su quest’ultime ai soli giudici ai quali è devoluta la cognizione della totalità del danno, cosicché chiunque si pretenda vittima di un illecito perpetrato in rete non potrà promuovere un ricorso diretto alla rettifica o alla rimozione delle informazioni diffuse in ambito telematico di fronte alle autorità di qualunque Stato membro sul cui territorio esse siano state rese accessibili al pubblico[42], ma soltanto presso il foro coincidente con il proprio centro di interessi o quello in cui si trova il luogo del fatto generatore del danno.

La distinzione tra i due tipi di domande risulta particolarmente rilevante per quanto riguarda gli atti di contraffazione e concorrenza sleale attuati in rete: sopratutto durante la fase cautelare, le relative cause si concludono speso con l’emanazione di provvedimenti con cui si dispone l’oscuramento del sito, la modifica alle chiavi d’accesso o il trasferimento coattivo del nome a dominio contraffatto[43].

 5.3. Il caso Wintersteger.

Come rilevato dalla stessa Corte di Giustizia[44], mentre i diritti della personalità[45] hanno portata universale, trovando tutela sul territorio di tutti gli stati contraenti, seppur con differenti gradi di protezione, i diritti di privativa relativi a marchi registrati, brevetti od altri titoli P.I., hanno natura necessariamente territoriale, tale per cui, fintanto che il bene contraffatto non varchi i confini nazionali dello Stato di protezione, non si può parlare, per definizione, di una loro violazione. Detto altrimenti, il luogo in cui si verifica l’evento dannoso coincide necessariamente con il territorio dello Stato che tale diritto conferisce e tutela, la cui legislazione risulterà dunque applicabile (lex loci protecltionis)[46].

Quindi, fatti salvi i casi di privative nazionali parallele, il luogo di fabbricazione dei prodotti, normalmente considerato quale luogo del fatto generatore del danno, non assumerà alcuna rilevanza all’infuori dello Stato di tutela della privativa: Stato sul cui territorio quei prodotti possono essere successivamente importati, commercializzati, pubblicizzati e/o distribuiti, perfezionando così l’illecito contraffattorio. In tali ipotesi, la fabbricazione dei prodotti si configurerebbe, piuttosto, come una mera attività preparatoria e prodromica all’illecito, da ritenersi perciò “lecita” e inidonea a fondare validamente la giurisdizione in base al criterio del fatto generatore del danno[47]. Simili considerazioni hanno suscitato diversi dubbi riguardo alla possibilità ad estendere anche all’ambito industriale i principi enunciati dalla Corte di Giustizia per gli atti di diffamazione “transfrontalieri” e per altre fattispecie di “illecito a raggiera”[48], già richiamate supra.

Tuttavia questi rilievi critici sono stati del tutto disattesi nel caso Wintersteiger, nella cui pronuncia la Corte di Giustizia ha confermato l’operatività del criterio del luogo in cui si è verificato il fatto generatore del danno anche nelle liti in materia di contraffazione[49].

A sostegno di quest’ultima conclusione, si possono richiamare qui alcune argomentazioni tratte dalla dottrina, che sembrano ripercorrere l’iter logico seguito dalla Corte: a ben vedere, la territorialità dei diritti di proprietà industriale influisce unicamente sull’individuazione del luogo in cui il danno si è concretizzato, che necessariamente coincide con il Paese di protezione della privativa; viceversa, essa non si riflette in alcun modo sull’individuazione del fatto che di quel danno costituisce la causa generatrice.

In altre parole, soltanto il criterio del “luogo in cui si verifica l’evento dannoso” presuppone la produzione, in un certo territorio, di effetti la cui lesività sia giuridicamente rilevante in base alle norme vigenti in quel luogo; viceversa, il “luogo del fatto generatore” richiede la mera esistenza di un dato fattuale, come può essere considerato un qualunque comportamento astrattamente idoneo a produrre conseguenze dannose, senza necessità di stabilire dove quest’ultime si siano verificate od in base alle leggi di quali stati esse si configurino come un danno ingiusto.

Come si è detto, queste considerazioni sembrano essere state accolte dalla Corte di Giustizia nel caso Wintersteiger, che vedeva contrapporsi una società austriaca ed una società tedesca causa della presunta violazione del marchio della prima nell’ambito di un noto sistema pubblicitario realizzato da Google, ossia la piattaforma “Adwords”. La società convenuta aveva, infatti, sfruttato una parola-chiave identica al marchio della ricorrente per contraddistinguere il proprio sito web nell’ambito di tale servizio pubblicitario: in questo modo, qualunque utente avesse digitato il termine corrispondente al marchio all’interno del motore di ricerca avrebbe ottenuto come primo risultato il link del sito della società tedesca. Inoltre, l’utilizzo della parola chiave incriminata comportava la comparsa di un annuncio pubblicitario del sito tedesco nella parte destra dello schermo degli utenti, dedicata alle inserzioni sponsorizzate: annuncio che, nel caso di specie, non precisava minimamente l’assenza di rapporti economici tra le due società concorrenti[50].

La ricorrente, sostenendo che tale comportamento arrecasse danno al proprio marchio austriaco, aveva quindi agito in giudizio in Austria, chiedendo la cessazione dell’utilizzo del segno. La società convenuta, tuttavia, argomentava che sia il sito “google.de” e che lo stesso annuncio pubblicitario diffuso attraverso tale portale si rivolgevano esclusivamente agli utenti tedeschi: circostanza ritenuta sufficiente a determinare la giurisdizione dei soli giudici tedeschi.

Si possono facilmente intuire le implicazioni sostanziali di una simile ricostruzione: qualora l’attrice fosse stata costretta ad agire in Germania, il giudice, sicuramente competente, le avrebbe necessariamente dato torto nel merito, dal momento che il marchio non era oggetto di protezione in quello Stato membro.

Consapevole di questi problemi, la Corte di Lussemburgo ha confermato la giurisdizione delle autorità austriache sulla base del criterio del luogo di concretizzazione del danno, precisando che tali giudici avrebbero potuto legittimamente conoscere sia dell’integralità del danno causato al diritto di privativa del titolare del marchio, sia della domanda diretta a far cessare qualsiasi lesione di tale diritto[51]. Così pronunciandosi, i giudici della Corte sembrano quindi attribuire rilievo alla semplice circostanza che il motore di ricerca google.de, sul quale compariva l’annuncio controverso, fosse accessibile anche in Austria, senza attribuire alcun pregio alle eccezioni della convenuta, che sottolineava come il dominio nazionale di primo livello dell’indirizzo web (.de) fosse quello un diverso Stato membro. Secondo la Corte quest’ultima questione atterrebbe esclusivamente all’esame di merito del giudice competente, potendo semmai determinare l’inesistenza di una violazione del marchio, senza pregiudicare la possibilità di promuovere l’azione in altri Stati[52]

Come si è accennato, la sentenza in esame risulta particolarmente interessante anche per quanto affermato con riferimento al luogo in cui avviene il fatto che ha dato origine al danno. Infatti, oltre a confermare la giurisdizione del giudice del rinvio, ossia l’Oberster Gerichtshof austriaca, in quanto autorità del luogo di concretizzazione del danno, la Corte estende alle controversie in materia di violazione di marchi registrati l’operatività dell’altro criterio di collegamento giurisdizionale già sancito nei precedenti casi Shevill e Martinez: vale a dire il criterio del luogo del fatto generatore del danno.

La limitazione territoriale della tutela di un marchio nazionale non sarebbe infatti idonea, secondo la Corte, ad escludere la competenza internazionale dei giudici diversi da quelli dello Stato membro in cui tale marchio è registrato: l’attribuzione della competenza anche ai giudici del luogo in cui si è verificato il fatto generatore del danno rappresenterebbe infatti una soluzione capace di facilitare la raccolta delle prove e l’organizzazione del processo[53].

Una volta confermata l’applicabilità di questo criterio, occorreva però rispondere ad un successivo interrogativo, e cioè che cosa dovesse intendersi per “fatto generatore del danno” nelle controversie vertenti sulla contraffazione di un marchio in rete. Anche su questo tema le indicazioni tratte dalla sentenza Wintersteger risultano particolarmente interessanti ed offrono un buon punto di partenza per definire quali caratteristiche di un qualunque illecito telematico risultano determinanti ai fini della competenza e della giurisdizione.

Per quanto concerne l’impiego di parole-chiavi identiche al marchio altrui, il danno è sicuramente rappresentato dalla maggiore diffusione di cui beneficia l’annuncio pubblicitario contraddistinto con tali termini-chiave. Tuttavia, la Corte specifica che il fatto generatore non deve ravvisarsi nella divulgazione della pubblicità, bensì nell’avviamento, da parte dell’inserzionista, del processo tecnico finalizzato alla comparsa del messaggio commerciale. La lesione arrecata all’altrui diritto di privativa deriva, infatti, dall’utilizzo scorretto del servizio di posizionamento offerto da Google. Così, sebbene tutto ciò dipenda essenzialmente dall’attività del server utilizzato dal motore di ricerca, ossia la macchina su cui sono memorizzati i dati, l’obbiettivo di prevedibilità a cui devono tendere le regole sulla competenza induce a non attribuire rilevanza alla collocazione fisica del server stesso: la Corte ritiene invece che sia il luogo di stabilimento dell’inserzionista a risultare decisivo ai fini della giurisdizione, soprattutto perché si tratterebbe di un luogo certo ed identificabile per il ricorrente[54].

 5.4. I casi Pinckney ed Hejduk.

Come si è detto, l’orientamento della Corte di Giustizia rispetto al nesso del luogo di concretizzazione del danno pare essere quello di non attribuire alcun rilievo al fatto che una determinata attività online sia rivolta ai soli utenti di un certo Stato membro. Il caso Wintersteiger appena richiamato, costituisce un esempio emblematico di questa impostazione: nella relativa pronuncia, infatti, si afferma espressamente che l’estensione nazionale tedesca del portale web su cui compariva l’annuncio controverso costituiva un dato irrilevante ai fini del collegamento giurisdizionale[55].

Questa tendenza sembra trovare conferma in due pronunce successive con cui la Corte ha statuito in materia di violazioni online del diritto d’autore[56]. Le due decisioni muovono da due controversie piuttosto simili: in entrambi i casi le ricorrenti avevano agito nel proprio Stato di residenza, lamentando di aver subito una lesione dei diritti patrimoniali connessi al diritto d’autore a causa della riproduzione-commercializzazione delle proprie opere intellettuali attraverso i siti web delle convenute. Mentre le attrici rivendicavano la competenza dei giudici aditi facendo leva sul criterio del luogo della concretizzazione del danno, le convenute eccepivano tale ricostruzione, sostenendo che i rispettivi siti web non erano affatto destinati ad un pubblico situato all’interno di quegli Stati membri.

I giudici del rinvio, rispettivamente un tribunale austriaco ed una corte francese, si domandavano quindi se l’asserita violazione dei diritti patrimoniali connessi al diritto d’autore, realizzata attraverso la diffusione in rete delle opere intellettuali, avesse potuto legittimare un’azione giurisdizionale promossa in un qualunque Stato membro sul cui territorio tali informazioni fossero state rese accessibili.

Sciogliendo tali dubbi, la Corte di Giustizia ha confermato la giurisdizione dei giudici del rinvio in entrambi i casi, smentendo nettamente le tesi delle ricorrenti, volte a dimostrare che i rispettivi siti si rivolgevano esclusivamente ad utenti residenti altri Stati.

Le due pronunce chiariscono innanzitutto che il luogo di concretizzazione del danno varia in funzione della natura del diritto assertivamente violato e che, in forza della direttiva CE 29/2001, i diritti patrimoniali di un autore debbono essere automaticamente protetti in tutti gli Stati membri: ciò comporta che un qualsiasi Stato membro può essere ritenuto, di fatto, il luogo in cui il danno si concretizza o rischia di concretizzarsi. Chiariti questi aspetti, la Corte evidenzia come l’art. 7 n. 2) del Reg. 1215/2012, disposizione che disciplina la giurisdizione in materia di illeciti dolosi o colposi, non esige affatto che l’attività dannosa sia “diretta verso” lo Stato membro del giudice adito: la norma prevede come unica condizione il fatto che il danno sia avvenuto o possa avvenire in un certo Stato.

Con queste premesse, nel caso Pinckney il rischio del danno è stato ravvisato nella possibilità di procurarsi, attraverso un sito web accessibile dal distretto del giudice adito, una riproduzione dell’opera intellettuale a cui si riferivano i diritti fatti valere dall’attore; mentre nel caso Hejduk il danno è stato identificato nella possibilità di consultare il sito web sul quale erano state caricate le opere fotografiche realizzate dall’attrice, senza alcuna autorizzazione di quest’ultima.   

Note bibliografiche

[1] Magelli, Contraffazione nella rete: profili processuali di giurisdizione competente, legge applicabile e legittimazione passiva, in Dir. ind., 2015, 199.

[2] CGUE 25 ottobre 2011, C-509/09 e C-161/10, caso Martinez

[3] Obiettivo perseguito dal Reg. Ce 44/2001, come sottolineato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Cfr. CGUE 23 aprile 2009, C-533/07, punto 22.

[4] 16mo considerando del Reg. Ue 12 dicembre 2012, n. 1215/2012, secondo cui occorre integrare il criterio generale del foro del convenuto con “la previsione di fori alternativi, basati sul collegamento stretto tra l'autorità giurisdizionale e la controversia […] al fine di agevolare la buona amministrazione della giustizia. L'esistenza di un collegamento stretto dovrebbe garantire la certezza del diritto ed evitare la possibilità che il convenuto sia citato davanti a un'autorità giurisdizionale di uno Stato membro che non sia per questi ragionevolmente prevedibile.”

[5] 15mo considerando del Reg. Ce 44/2001.

[6] Si tratta della cosiddetta “Direttiva sul Commercio Elettronico”, ossia la Dir. 2000/31/CE, recepita con D. Lgs. n. 70/2003.

[7] Gioia, Sulla distribuzione della competenza internazionale nelle liti da diffamazione tramite internet, in Riv. dir. proc., 2012, 1321-1322.

[8] Espressione utilizzata dalla Corte di Giustizia per designare il luogo dal quale il titolare di un annuncio pubblicitario aveva lanciato detto annuncio utilizzando parole-chiavi identiche ad un marchio altrui per promuovere la visibilità in rete di tale annuncio. Operazione che era stata effettuata attraverso un apposito servizio di sponsorizzazione gestito dal provider Google. CGUE 19 aprile 2012, causa C-523/10, caso Wintersteiger,

[9] Cfr. Cass. 1 marzo 2017, n. 5254. La Corte ha stabilito che ai fini della competenza territoriale l’art. 120 comma 6 costituisce norma speciale rispetto all’art. 18 c.p.c. Si veda anche Trib. Torino 2 marzo 2010, in Giur. mer., 2010, 6, 1558, secondo cui il forum commissi delicti di cui all’art. 120 c.p.i. costituisce una species del genus rappresentato dall’art. 20 c.p.c.

[10] Tale soluzione era stata infatti adottata fin dalla Convenzione di Bruxelles del 1968, per poi essere riprodotta dalle fonti comunitarie nelle quali tale accordo internazionale era stato trasfuso, ossia il Reg. 44/2001 Ce.

[11] Il D. lgs 27 giugno 2003, n. 168 ha infatti istituito delle Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso alcuni Tribunali e Corti d’Appello.  

[12] Così, implicitamente, Trib. Milano 20 giugno 2017, in in Giur. It., 2018, 1, 125.

[13] Ciò è quanto afferma, con riferimento al brevetto, Cass. 25 luglio 2016, n. 15339. In senso contrario si veda Cass. 10 maggio 2006, n. 10799.

[14] Cass. 3 ottobre 2010, n. 16830; Cass. 22 novembre 2006, n. 24859.

[15] Cass. 13 marzo 2017, n. 6382. Peraltro in questa sentenza la Corte conferma quanto si dirà in seguito, e cioè che il giudicato di nullità sul marchio comunitario ha efficacia erga omnes soltanto quando tale nullità sia chiesta in giudizio con domanda, principale o riconvenzionale, e non anche quando venga dedotta dal convenuto come mera eccezione.

[16] Così si è espresso il Tribunale di Milano, rilevando peraltro che la decisione del giudice della contraffazione, avendo ad oggetto anche la domanda riconvenzione, produrrebbe effetti erga omnes anche per quanto riguarda la nullità del titolo. Trib. Milano 20 giugno 2017, in Giur. It., 2018, 1, 125.

[17] Considerano inderogabile la competenza territoriale per le azioni in materia di proprietà industriale Trib. Venezia 5 ottobre 2009, in Giur. dir. ind., 2009, 1220, e Trib. Milano 21 luglio 2011, in darts-ip.com. Ritiene invece che si tratti di competenza derogabile Trib. Milano 20 giugno 2017, in Giur. It., 2018, 1, 125.

[18] In questo senso si è espresso il Tribunale di Milano, pervenendo alle conclusioni riportate nel testo. Più specificamente, l’abolizione dell’intervento del P.M. nelle cause relative alla nullità o decadenza di un qualsiasi titolo di I.P. farebbe venir meno l’applicabilità dell’art. 28 c.p.c., secondo cui le cause in cui il P.M. deve intervenire obbligatoriamente costituiscono una delle ipotesi tassative di competenza inderogabile. Cfr. Trib. Milano 20 giugno 2017, in Giur. It., 2018, 1, 125. Tale interpretazione è stata accolta positivamente anche dalla dottrina che ha commentato la decisione: il simultaneus processus appare infatti la soluzione più in linea con le esigenze di economia processuale e di necessità di assicurare l’armonia fra giudicati. Chiabotto, Decadenza e convalidazione del marchio: i limiti della prova per presunzioni, in Giur. It., 2018, 1, 127. Anche secondo altri autori, la riduzione dell’intervento del P.M. a metà facoltà e non obbligatorietà, da parte dell’art. 122/1 c.p.i., comporterebbe la perdita del carattere inderogabile alla competenza territoriale per le azioni in materia di nullità e decadenza, cfr. Scuffi-Franzosi-Fittante, Il Codice della Proprietà Industriale, 2005, 535.

[19] Art. 38 comma 3 c.p.c.

[20] Si tratta, in particolare, dei criteri previsti “dalle sezioni 2, 3, 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968”.   

[21] Si tratta della sez. V.

[22] Sirotti Gaudenzi, Proprietà Intellettuale e Diritto della Concorrenza. Volume secondo. La tutela dei diritti di privativa, 2010, Milano, 91. In senso contrario si veda Scuffi, Diritto processuale dei brevetti e dei marchi, Milano, 2001, 180.

[23] Disposizioni che in questo caso sono costituite dall’art. 6 del Reg. 1215/2012 e dall’art. 4 della Convenzione di Bruxelles, che nel disciplinare la giurisdizione nei confronti di soggetti non domiciliati in uno Stato membro dell’unione o aderente alla Convenzione internazionale, fanno rinvio alle leggi interne di tali stati, salva l’applicazione di alcuni di criteri di collegamento speciale, tra cui quello in materia di titoli di P.I.

[24] Trib. Milano 1 Agosto 2016, in giurisprudenzadelleimprese.it.

[25] Regolamento adottato nel 2012 in rifusione del testo del Reg. Ce n. 44 del 2001.

[26] Cfr. Ghiretti, in Codice della Proprietà Industriale, 2012, Vanzetti (a Cura di), commento all’art. 120.

[27] Di recente si veda Trib. Milano 13 giugno 2017, in Dir. ind., 2018, 258, che indica lo spazio nazionale come luogo della condotta, attraverso la pubblicizzazione, la promozione in vendita e la consegna della merce contraffatta, e come luogo di produzione dell’evento dannoso, consistente nel pregiudizio sofferto dal danneggiato presso la propria sede: rilievi sufficienti a giustificare l’applicazione del criterio del forum commissi delicti previsto per gli illeciti dolosi o colposi. Più in generale, il medesimo criterio è stato ritenuto applicabile ogniqualvolta è possibile riconoscere l’esistenza in Italia di un evento dannoso effettivo o potenziale, tale da consentire la sottoposizione al giudice italiano della controversia, almeno per questo specifico profilo. Così si è espresso, relativamente all’azione di accertamento negativo della contraffazione di brevetti e modelli comunitari, Trib. Milano 17 settembre 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it, che si richiama espressamente a Cass. 10 settembre 2013, n. 20700. In dottrina si veda Bottero-Travostino, Diritto dei Marchi d’Impresa, 2009, 220.

[28] Secondo dottrina autorevole, “le azioni negative hanno il medesimo oggetto delle azioni positive e ciò giustifica l’applicazione delle medesime norme sulla giurisdizione”. Franzosi, “Italian Torpedo”: perché un cavallo bianco non è un cavallo, in Dir. ind., 2004, 535. Si veda anche Trib. Milano 17 settembre 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it, che si richiama espressamente a Cass. 10 settembre 2013, n. 20700, e CGUE 25 ottobre 2012, causa C-133/11, caso Folien Fischer.

[29] Così si è espressa la Corte di Giustizia dell’Ue, che ha confermato la giurisdizione dei giudici tedeschi per un’azione di accertamento negativo volta a far dichiarare l’assenza concorrenza sleale dipendente da un brevetto rilasciato presso un altro stato membro. Cfr. CGUE 25 ottobre 2012, causa C-133/2011, caso Folien Fischer. A questa decisione si è adeguata anche la nostra giurisprudenza di legittimità, operando un vero e proprio revirement rispetto all’orientamento precedente: la Cassazione ha infatti confermato la giurisdizione dei giudici italiani sulle azioni di accertamento negativo della contraffazione anche relativamente a frazioni non italiane di un brevetto europeo. Nel caso di specie, peraltro, le parti coinvolte erano entrambe straniere. Cfr. Cass. 10 giugno 2013, n. 14508.

[30] Trib. Torino 10 marzo 2009, in Giur. dir. ind., 2009, 741. La carenza di giurisdizione dichiarata dal giudice di Torino è stata successivamente confermata anche in appello, cfr. App. Torino 4 giugno 2010, in DeJure.

[31] CGUE 12 luglio 2012, causa C-616/10, caso Solvay.

[32] CGUE 20 ottobre 2011, causa C-396/09, caso Interedil.

[33] CGCE 30 novembre 1976, causa C-12/76, caso Mines de Potasse dAlsace SA.

[34] Come si è detto, il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire individua il foro speciale in materia di illeciti dolosi o colposi, oggi previsto dall’art. 7 n. 2) del Reg. 1215/2012 e dall’art. 5 n. 3) della Convenzione di Buxelles.

[35]L'adottare come unico criterio quello del luogo in cui si è verificato l'evento generatore del danno avrebbe come conseguenza la possibile confusione, in un ragguardevole numero di casi, fra le competenze rispettivamente contemplate dagli artt. 2 e 5, punto 3, della Convenzione, di guisa che quest'ultima disposizione risulterebbe priva di ogni effetto utile”, così CGUE 7 marzo 1995, causa C-68/93, caso Shevill, punto 20.

[36] CGUE 25 ottobre 2011, cause C-509/09 e C-161/10, caso Martinez.

[37] Lupoi, Attività online e criteri di collegamento giurisdizionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, II, 524. La scelta di uno dei fori ulteriori, in base al criterio della concretizzazione del danno, comporterebbe infatti un aggravio dei costi per il ricorrente (dovuti al fatto che egli si troverebbe a dover avviare un procedimento all’estero) precludendo inoltre la possibilità di agire per l’intero. Cfr. anche Gioia, Sulla distribuzione della competenza internazionale nelle liti da diffamazione tramite internet, in Riv. dir. proc., 2012, 1324.

[38] 16mo considerando del Reg. Ue 12 dicembre 2012, n. 1215/2012.

[39] CGUE 25 ottobre 2011, cause C-509/09 e C-161/10, caso Martinez, punto 52.

[40] CGUE 17 ottobre 2017, causa C-194/16, caso Bolagsupplysningen, punto 41.

[41] CGUE 17 ottobre 2017, causa C-194/16, caso Bolagsupplysningen, punto 43.

[42] CGUE 17 ottobre 2017, causa C-194/16, caso Bolagsupplysningen, punto 41.

[43] Provvedimenti la cui disposizione è particolarmente ambita durante la fase cautelare, come confermato da una recente ordinanza del Tribunale di Milano. Trib. Milano 13 giugno 2017, in Dir. ind., 2018, 258.

[44] CGUE 19 aprile 2012, causa C-523/10, caso Wintersteiger, punto 25. CGUE 3 ottobre 2013, causa C-170/12, caso Pinckney, punto 33.

[45] La Corte di Giustizia ha ritenuto che i precetti enunciati dalla giurisprudenza precedente con riguardo alla diffamazione ed alla lesione dei diritti della personalità debbano applicarsi anche alle violazioni del diritto d’autore. In forza della direttiva CE 29/2001, infatti, i diritti patrimoniali connessi al diritto d’autore debbono essere protetti automaticamente in tutti gli Stati membri: cosicché, in funzione del diritto sostanziale applicabile, essi possono essere violati in ciascun singolo Stato membro. CGUE 3 ottobre 2013, causa C-170/12, caso Pinckney, spec. al punto 39. 

[46] Ghiretti, in Codice della Proprietà Industriale, 2012, Vanzetti (a Cura di), commento all’art. 120, par. 11, Il “forum commissi delicti”.

[47] Ghiretti, in Codice della Proprietà Industriale, 2012, Vanzetti (a Cura di), commento all’art. 120, par. 12, Teoria dell’ubiquità e violazione dei diritti di proprietà industriale. Cfr. anche Boschiero, Il principio di territorialità in materia di proprietà intellettuale: conflitti di legge e giurisdizione, in AIDA, 2007, 81.

[48] Definizione comunemente impiegata in dottrina per designare gli illeciti “i cui effetti si propagano in una pluralità di stati”, così Ghiretti, in Codice della Proprietà Industriale, 2012, Vanzetti (a Cura di), commento all’art. 120, par. 11, Il “forum commissi delicti”. Cfr. anche Gioia, Sulla distribuzione della competenza internazionale nelle liti da diffamazione tramite internet, in Riv. dir. proc., 2012, 1321.

[49] CGUE 19 aprile 2012, causa C-523/10, caso Wintersteiger.

[50] Si tratta di una frequente forma telematica di contraffazione del marchio altrui, con conseguente agganciamento parassitario all’altrui notorietà: fattispecie che la nostra giurisprudenza ha più volte censurato anche in base alla disciplina della leale concorrenza tra imprenditori. Si ritiene infatti che l’impiego di termini riproducenti il marchio altrui al fine di far risaltare su un motore di ricerca i link al proprio sito web costituisca una pratica ammissibile fintanto che consente ad un utente normalmente informato e ragionevolmente attento di comprendere facilmente l’assenza di legami commerciali tra il sito contraddistinto con il termine-chiave ed il titolare del marchio riprodotto. Cfr. CGUE 23 marzo 2010, cause C-236/08 e C-238/08, casi Google e Google France, punti 83 e 84. Cfr. anche Trib. Milano 9 novembre 2017 in giurisprudenzadelleimprese.it

[51] CGUE 19 aprile 2012, causa C-523/10, caso Wintersteiger, punto 28.

[52] CGUE 19 aprile 2012, causa C-523/10, caso Wintersteiger, punto 26.

[53] CGUE 19 aprile 2012, causa C-523/10, caso Wintersteiger, punti 32-33.

[54] CGUE 19 aprile 2012, causa C-523/10, caso Wintersteiger, punti 36-37.

[55] Come sottolineato in dottrina, ciò potrebbe dipendere anche dal fatto che nel caso di specie l’accesso ad un sito tedesco da parte degli utenti austriaci era agevolato dalla comunanza linguistica. Cfr. Lupoi, Attività online e criteri di collegamento giurisdizionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, II, 529.   

[56] CGUE 3 ottobre 2013, causa C-170/12, caso Pinckney e CGUE 22 gennaio 2015, causa C-441/13, caso Hejduk.