Pubbl. Ven, 19 Apr 2019
Legge 76/2016: un (tardivo) adeguamento normativo alla realtà dei giorni nostri.
Modifica paginaIl presente elaborato si propone di svolgere una disamina de iure condito delle scelte operate dal legislatore italiano in tema di famiglia con la legge 76/2016, avuto riguardo, in particolare, alle problematiche scaturenti dall’assenza di una previsione esplicita concernente l’obbligo di fedeltà ed alla mutata funzione del dovere di contribuzione.
Sommario: 1. Introduzione, uno sguardo comparatistico. - 2. La spinta della giurisprudenza per la regolamentazione delle unioni e delle convivenze. - 3. Obbligo di fedeltà: verso una relazione “aperta”? – 4. Il dovere di contribuzione, oggi.
1. Introduzione, uno sguardo comparatistico.
È opportuno premettere che una piena affermazione del pluralismo familiare passa necessariamente attraverso interventi legislativi pregnanti, a volte addirittura rivoluzionari, aventi ad oggetto i baluardi civilistici acquisiti in materia di matrimonio e di famiglia tradizionale.
Nel nostro ordinamento, nonostante i numerosi tentativi di riformare[1] parzialmente la materia, non si era mai arrivati ad un accordo su una normativa organica e, per quanto possibile, omnicomprensiva dei rapporti di convivenza e delle unioni c.d. same sex.
Per tanto, forse troppo tempo il nostro legislatore nazionale si era mostrato inerte davanti alle sollecitazioni provenienti dagli ambienti internazionali e sovranazionali, e l’occasione per un’inversione di rotta è stata rappresentata fuor di dubbio dall’approvazione della legge 20 maggio 2016 n. 76, recante il titolo «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze».
Già, ictu oculi, è agevolmente comprensibile la portata innovativa di tale intervento, contenente – per la prima volta – la regolamentazione organica delle unioni civili tra soggetti dello stesso sesso e la disciplina dei contratti di convivenza[2].
Parlare di portata innovativa per tali disposizioni riferendosi all’anno 2016 farebbe sorridere un lettore mitteleuropeo, posto che molti Stati a tale data avevano già provveduto da tempo alla regolamentazione di siffatte unioni e convivenze.
Con l’approvazione della legge in questione, l’Italia si è posta al passo degli altri ordinamenti europei ed extraeuropei che già riconoscevano e prevedevano una regolamentazione dei legami stabili eterosessuali e omosessuali, raggiungendo un importante traguardo in materia di riconoscimento dei diritti civili[3].
Guardando al panorama internazionale si nota che dalle lotte degli attivisti LGBTQI è scaturito un panorama normativo molto variegato: per esempio, alcuni paesi hanno scelto di regolamentare le unioni omosessuali sotto la forma dell’unione registrata, ammessa anche per coppie eterosessuali non coniugate, chiamandola partnership o coabitazione registrata, come nel caso del PACS, il Patto civile di solidarietà, approvato in Francia[4]; altri, invece, tra cui Belgio[5] e Spagna[6], oltre ad aver riconosciuto giuridicamente le coppie non coniugate anche dello stesso sesso, hanno aperto il matrimonio a queste per realizzare la parità perfetta tra etero ed omosessuali.
2. La spinta della giurisprudenza per la regolamentazione delle unioni e delle convivenze.
In Italia la spinta fondamentale che ha rotto l’immobilismo è arrivata dall’esterno: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel 2010, ha accolto un ricorso proposto avverso la sentenza 14 aprile 2010 n. 138, nella quale la Corte Costituzionale italiana si era rifiutata di procedere alle pubblicazioni di matrimonio di coppie omosessuali ritenendo che le unioni omosessuali non potessero essere considerate omogenee al matrimonio[7].
La Corte EDU ha quindi imposto all’Italia di adottare un intervento legislativo in materia[8] ed ha chiesto al legislatore di trovare, nel rispetto della sua discrezionalità, forme di tutela idonee ad attribuire ai soggetti destinatari reciproci diritti e doveri[9] , in modo da adeguare il quadro normativo alla situazione di fatto esistente.
Il Giudice delle leggi, già con la citata sentenza 14 aprile 2010 n. 138, aveva anche provveduto a precisare che, alla luce del disposto normativo contenuto nell’articolo 2 della Costituzione, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri[10].
Come il matrimonio dunque anche alle unioni civili è stato attribuito fondamento costituzionale, ma per il tramite di una norma diversa: l’articolo 29 per il matrimonio, l’articolo 2 per le unioni civili[11]. Formazioni sociali quindi, luoghi di sviluppo della persona umana. Le unioni civili, in tale prospettiva possono godere di tutela se ed in quanto teleologicamente orientate verso lo sviluppo di quei valori che il nostro ordinamento assume come fondanti ed apicali, quali la libera autodeterminazione e la tutela dei diritti propri della persona.
3. Obbligo di fedeltà: verso una relazione “aperta”?
Non essendo possibile analizzare in un unico scritto tutte le questioni sottese ai 68 commi in cui si articola l’unico articolo della predetta legge, il presente scritto si propone di concentrare l’attenzione sul comma 11°, riguardante i diritti e doveri dei partner all’interno dell’unione civile.
Tale norma afferma che “Con la costituzione dell’unione civile tra due soggetti dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”. Già dopo una prima lettura si nota come tale norma presenti la stessa struttura ed impostazione del corrispondente art. 143 c.c. e, pertanto, risulta impossibile non fare un raffronto con lo stesso.
L’art. 143 afferma che “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.”
Le due norme pur apparendo molto simili tra loro, presentano delle minute differenze lessicali, e proprio su queste è opportuno soffermarsi. Può notarsi come il legislatore non menzioni, almeno espressamente, il dovere di fedeltà per le unioni civili omosessuali[12]. In dottrina è stato sostenuto che l’omissione del dovere di fedeltà per il partner dell’unione civile sia da rinvenire nel fine della relazione eterosessuale: la procreazione, esclusa di contro per l’unione civile tra soggetti dello stesso sesso[13].
Per un’adeguata comprensione della questione bisogna anche rammentare anche che in contemporanea all’emanazione della legge 76 era stato proposto un disegno di legge diretto ad eliminare di tale dovere dal corpo dell’articolo 143 del codice civile, in quanto secondo i firmatari questo costituirebbe “il retaggio culturale di una visione ormai superata e vetusta del matrimonio, della famiglia e dei doveri e diritti dei coniugi”[14].
Ad ogni modo, a parere di chi scrive, l’assenza di una previsione espressa dell’obbligo di fedeltà, non può comunque determinarne l’assenza in assoluto per le unioni civili. Intendendo detta fedeltà in senso ampio questa ricomprende impegni di lealtà e di collaborazione, in vista del perseguimento dello scopo comune ossia costituire e preservare la comunione di vita di cui l’unione consta[15], un’unione stabile e duratura carente di tale caratteristica non sarebbe intrinsecamente configurabile[16].Ovviamente l’obbligo di fedeltà non può intendersi con una connotazione meramente ed esclusivamente negativa, come obbligo di astenersi dall’avere rapporti sessuali con soggetti diversi dal partner, ma anche e soprattutto in senso positivo, come dedizione fisica e spirituale di un partner all’altro, come impegno di fiducia e di lealtà reciproca[17]. La sussistenza di un obbligo implicito di lealtà reciproca, quindi, può essere desunto sia dal carattere personale del rapporto, sia dall’unicità dello stesso e soprattutto dalla quotidianità della coabitazione a prescindere da un’espressa previsione normativa in merito. Risulta arduo capire il ragionamento sotteso a differenza nel testo normativo, ma quel che è certo è che questa costituisce una manifestazione di volontà chiara, orientata verso il superamento non tanto del modello tradizionale di famiglia, ma più nello specifico del modo di intendere i rapporti tra i due partner all’interno di una coppia, introducendo un modello di relazione più aperto e meno rigidamente strutturato, ben diverso dal modello patriarcale di famiglia che i nostri avi hanno conosciuto.
In sintesi, seguendo una teoria che qualcuno potrebbe definire lievemente azzardata, l’omissione de qua parrebbe avere un significato evolutivo, implicando che la sfera delle relazioni carnali dei partner sia uscita dall’ambito in cui il diritto opera, restando confinata esclusivamente alla pertinenza dei singoli. Seguendo questo schema il diritto limiterebbe la sua sfera di cognizione, arretrando e lasciando spazio al costume, alla morale ed alla religione, ripensando in un’ottica del tutto nuova i rapporti intercorrenti tra famiglia e diritto[18].
4. Il dovere di contribuzione, oggi.
Ma c’è di più. In relazione al cosiddetto dovere di contribuzione, nel corpo della norma menzionata al paragrafo precedente, si rinviene una differenza lessicale molto importante rispetto all’unione matrimoniale disciplinata dal codice civile: mentre la norma codicistica parla di “bisogni della famiglia”, per le unioni civili si parla di “bisogni comuni”. Alcuni affermano che alla base di tale differenza vi sarebbe la volontà di negare alle unioni civili l’applicabilità della parola “famiglia”[19] e di sottolinearne al contempo il carattere “paramatrimoniale”[20].
Tuttavia, ad avviso dello scrivente, non è necessario giungere a conclusioni così estreme, essendo possibile giustificare tale differenza lessicale guardando, anche in questo caso, all’evoluzione del dovere di contribuzione stesso e quindi alla sua funzione odierna. Né è mutata la ratio: non è più strumentale al riequilibrio della posizione dei soggetti di sesso diverso all’interno del rapporto, ma semplicemente sottolinea l’aspetto solidaristico dell’unione, dovendo entrambe le parti apportare quanto necessario e fare quanto è nelle proprie possibilità e capacità per rendere possibile la realizzazione del comune progetto di vita[21]. In quest’ottica le due diverse espressioni utilizzate da un lato dal codice civile e dall’altro dalla l. 76/2016 possono dirsi pienamente fungibili tra loro. La comunione sentimentale e di vita e da cui l’unione civile deriva, sulla scorta degli ormai consolidati orientamenti di giurisprudenza e dottrina maggioritaria, indubbiamente costituisce una “famiglia”, intesa quantomeno come formazione sociale ove la personalità del singolo si svolge e si sviluppa.
Per quanto riguarda la determinazione in concreto delle modalità, quali apporti economici, utilizzo e messa a disposizione di beni, soddisfacimento dei bisogni immediati e del quantum di tale contributo è affidata alla regola dell’accordo delle parti, e sul tema si ripropongono per l’unione civile le medesime problematiche emergenti per il matrimonio[22], in relazione alla derogabilità o meno del criterio di proporzionalità, ai limiti entro cui l’accordo può operare, alla responsabilità nei confronti dei terzi per le obbligazioni che ciascuno contrae nell’interesse comune, all’efficacia rebus sic stantibus dell’accordo[23].
Come nella disciplina del matrimonio, l’obbligo di contribuzione è ripartito secondo canoni di proporzionalità e di equivalenza tra le diverse tipologie di apporti e può essere assolto quindi indifferentemente tramite lavoro professionale o casalingo.
Il riferimento congiuntivo e non alternativo alle due tipologie di apporto può essere inteso, forse forzando leggermente l’originaria ratio della norma, come acquisita consapevolezza che nelle famiglie odierne vi sia sempre meno rigidità nei criteri di divisione del lavoro tra i suoi componenti[24], che lascia spazio ad una piena e completa intercambiabilità di compiti e doveri tra i due partner.
In conclusione può dirsi che, anche e non solo sul tema del dovere di contribuzione, il legislatore abbia acquisito consapevolezza del superamento del modello patriarcale di famiglia disciplinato all’interno del codice civile o per meglio dire, dell’esistenza di più modelli di famiglia alternativi e, forse, ad oggi più diffusi rispetto al modello tradizionale meritevoli di una tutela piena ed adeguata alle esigenze delle persone che ne fanno parte. Non più quindi solo un uomo che lavora ed una donna che bada alla casa familiare ed ai figli, ma due partner aventi eguali responsabilità nel sostentamento economico, nella gestione della casa e nell’educazione dell’eventuale prole.
Note bibliografiche
[1] Tra i tanti si ricordano la l. n. 194/1978 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, la l. n. 184/1983 “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, la l. n. 304/2003 “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”, la legge dedicata all’amministrazione di sostegno (l. n. 6/2004) che contiene riferimenti espliciti alla nozione di convivente stabile, e la l. n. 40/2004 “Norme di procreazione medicalmente assistita”.
[2] Il legislatore utilizza una sorta di “doppio binario”, distinguendo le unioni civili rispetto ai contratti di convivenza: i commi relativi alle unioni civili, infatti, regolamentano l’unione di due persone dello stesso sesso, mentre la seconda parte della legge disciplina le coppie costituite da due persone - indipendentemente dal fatto che esse siano eterosessuali o omosessuali - che decidono di intraprendere un percorso la vita comune a cui viene data la possibilità di regolare la loro vita insieme attraverso un nuovo negozio giuridico quale è il c.d. contratto di convivenza. La decisione di regolamentare all’interno dello stesso articolo di legge i due istituti, ha diviso le opinioni dei commentatori, tra i tanti si veda L. Martinez, La rilevanza del “fatto” convivenza, in Nuov. Giur. Civ. Comm. Comm., 2016, II, 1731; F. Viglione, I rapporti di convivenza: esperienze europee, in Nuov. Giur. Civ. Comm., 2016, II, 1723.
[3] L. Guaglione, La nuova legge sulle unioni civili e convivenze, Roma, 2016, 63 ss.
[4] La legge n. 944 del 1999 modifica il libro del codice civile francese dedicato alla persona. Ai sensi dell’art. 515-1 del Code Civil francese: “Un patto civile di solidarietà è un contratto stipulato da due persone fisiche maggiorenni, di sesso diverso o dello stesso sesso, per organizzare la loro vita in comune.” La sua disciplina è contenuta negli artt. da 515-1 a 515-7.
[5] La legge 23 novembre 1998, entrata in vigore nel gennaio del 2000, modificando il codice civile Belga, ha introdotto l’istituto della cohabitation légale; definita nell’art. 1475.1 come “la situazione di vita comune di due persone, le quali abbiano fatto una dichiarazione di coabitazione”.
[6] In Spagna, la regolamentazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso è stata accompagnata dalla sostituzione dei termini civilistici “madre e padre” e “moglie e marito” con “genitori” e “coniugi”.
[7] Sul tema per una più approfondita disamina v. M. Astone, I regimi patrimoniali delle unioni civili nella legge n. 76/2016: opzioni legislative e principio di non discriminazione, in Famiglia e Diritto, 2016, 902 ss.
[8] M. Gorgoni, Le convivenze di fatto meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, in Unioni civili e convivenze di fatto. Legge 20 maggio 2016, n.76, 2016, Rimini, 185
[9] F. Azzarri, Unioni civili e convivenze, in Enciclopedia del Diritto, Annali X-2017, Giuffrè, 1018.
[10] Ed infatti, sulla scorta di tali interventi giurisprudenziali l’articolo 1 comma 1° della sopramenzionata legge riconosce espressamente la natura di formazione sociale ai sensi dell’articolo 2 e 3 della Costituzione alle unioni civili tra soggetti dello stesso sesso e detta la disciplina delle convivenze di fatto.
[11] Sul punto v. anche P. Barile, La famiglia di fatto: osservazioni di un costituzionalista, in AA. VV, La famiglia di fatto, 45.
[12] C’è chi in questa precisa scelta ha visto un modo per differenziarle dal matrimonio[12], voluto dagli esponenti centristi della maggioranza, v. Salvatore Patti, L’obbligo di fedeltà e il disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili, Rivista Familia, 2016.
[13] G. Ballarani, La legge sulle unioni civili e sulla disciplina delle convivenze di fatto. una prima lettura critica, in Diritto delle successioni e della famiglia, 2016, 3, 637.
[14] A ciò si aggiunga l’orientamento della Corte di Cassazione, la quale nella pronuncia numero 7998 del 2014 non ritiene che possa basarsi l’addebito per la separazione sulla sola violazione del dovere di fedeltà, richiedendo piuttosto la prova da parte del tradito che il tradimento sia stato la causa del fallimento matrimoniale.
[15] E. Quadri, Unioni civili: disciplina del rapporto (Relazione al Convegno “Modelli familiari e nuovo diritto”, Padova, 7-8 ottobre 2016, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2016, 12, 1692.
[16] L. Guaglione, La nuova legge sulle unioni civili e convivenze, Roma, 2016, 63 ss.
[17] Cass. Civ., 1 luglio 2012, n. 8862.
[18] Cfr. B. De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, Padova, 2016.
[19] L. Lenti, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, in Iuscivile, 2, 2016, 97.
[20] L. Guaglione, La nuova legge sulle unioni civili e convivenze, Roma, 2016.
[21] G. Ferrando, La disciplina dell'atto. gli effetti: diritti e doveri (Commento a l. 20 maggio 2016, n. 76), in Famiglia e diritto, 2016, 10, 895 ss.
[22] Cfr. M. Astone, I regimi patrimoniali delle unioni civili nella legge n. 76/2016: opzioni legislative e principio di non discriminazione, cit.
[23] G. Ferrando, Diritto di famiglia, Bologna, 2015, 71 ss.
[24] A. Figone, Matrimonio e unioni civili: differenze e analogie, in il Familiarista.it, 2016.