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Pubbl. Mer, 22 Apr 2015

Polimorfismo del fenomeno dell´imprenditore occulto: analisi della figura e disciplina.

Flavia Piccione


L´imprenditore occulto e le più recenti teorie per l´imputazione dell´attività di impresa a tutela dei creditori. Interposizione fittizia, spendita del nome, actio mandati contraria, impresa fiancheggiatrice e altre.


1) Introduzione L’imputazione dell’attività di impresa è operazione di analisi giuridica che consiste nell’identificazione del soggetto centro di imputazione degli effetti giuridici, vale a dire delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive, che discendono dall’esercizio dell’impresa. Non si pongono problemi di riferibilità giuridica dell’impresa quando i relativi atti sono compiuti personalmente e direttamente dal reale interessato. Infatti, l’esercizio diretto dell’attività imprenditoriale determina una necessaria coincidenza tra l’autore materiale dei singoli atti di impresa e destinatario dei correlati effetti giuridici, nonché del soggetto il cui interesse è realmente perseguito nel traffico giuridico.  Risultato parallelamente opposto si realizza quando l’attività di impresa viene esercitata in via indiretta. In tale ipotesi si crea uno scollamento tra il piano fattuale e il piano, invece, effettuale, purché l’esercizio indiretto dell’impresa si esplichi entro i meccanismi legali di interposizione di persona. Si ripropone lo schema del mandato, al quale tipicamente si ricollega la dissociazione tra soggetto agente (mandatario) ed intestatario degli effetti giuridici degli atti posti in essere (mandante). Ovviamente, la trasposizione degli effetti dei singoli atti compiuti dal mandatario nella sfera giuridica del mandante è immediata nel caso in cui sia stato conferito anche il potere di rappresentanza, ai sensi dell’art. 1388 cod. civ., ovvero filtrato dall’obbligo di trasferimento degli effetti in capo al mandatario nel diverso caso di cui all’art. 1705 cod. civ.

1) Introduzione

L’imputazione dell’attività di impresa è operazione di analisi giuridica che consiste nell’identificazione del soggetto centro di imputazione degli effetti giuridici, vale a dire delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive, che discendono dall’esercizio dell’impresa.
Non si pongono problemi di riferibilità giuridica dell’impresa quando i relativi atti sono compiuti personalmente e direttamente dal reale interessato. Infatti, l’esercizio diretto dell’attività imprenditoriale determina una necessaria coincidenza tra l’autore materiale dei singoli atti di impresa e destinatario dei correlati effetti giuridici, nonché del soggetto il cui interesse è realmente perseguito nel traffico giuridico. 
Risultato parallelamente opposto si realizza quando l’attività di impresa viene esercitata in via indiretta. In tale ipotesi si crea uno scollamento tra il piano fattuale e il piano, invece, effettuale, purché l’esercizio indiretto dell’impresa si esplichi entro i meccanismi legali di interposizione di persona. Si ripropone lo schema del mandato, al quale tipicamente si ricollega la dissociazione tra soggetto agente (mandatario) ed intestatario degli effetti giuridici degli atti posti in essere (mandante). Ovviamente, la trasposizione degli effetti dei singoli atti compiuti dal mandatario nella sfera giuridica del mandante è immediata nel caso in cui sia stato conferito anche il potere di rappresentanza, ai sensi dell’art. 1388 cod. civ., ovvero filtrato dall’obbligo di trasferimento degli effetti in capo al mandatario nel diverso caso di cui all’art. 1705 cod. civ.

2) L'interposizione fittizia

Tuttavia, l’esercizio mediato dell’attività di impresa, se svolto al di fuori degli strumenti civilistici della rappresentanza, può sfociare in una forma di interposizione fittizia (o anche detta reale), che nell’ambito del diritto commerciale viene convenzionalmente indicata come fenomeno dell’imprenditore occulto.

L’impresa indiretta od occulta è fattispecie che vede la partecipazione di due soggetti:

  • Il prestanome od imprenditore formale: colui che all’esterno risulta essere l’intestatario dell’attività di impresa, in quanto compie gli atti di impresa spendendo il proprio nome.
  • Il dominus o imprenditore occulto: colui che, per definizione, non esteriorizza la sua posizione, il quale, ufficiosamente, è il reale interessato all’attività di impresa.

È evidente la non coincidenza tra soggetto cui è formalmente imputabile l’attività di impresa e che, per tale ragione, assume la qualifica di imprenditore, e soggetto portatore dell’interesse effettivamente perseguito nell’esercizio dell’impresa.  

3) La recente giurisprudenza in tema di imprenditore occulto

Oltre alla criticità dei problemi che ruotano intorno alla figura dell’imprenditore occulto e che in primo luogo investono il ceto creditorio, più gravi dubbi affiorano quando si tratta di scovare, nella prassi, un simile espediente, considerata l’attitudine della figura ad annidarsi, sottilmente, in svariati fenomeni della realtà economica. E proprio in ragione di tali caratteri del fenomeno si spiegano le discordanti elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali in materia, che hanno continuato a proliferare anche a distanza di anni della riforma del diritto fallimentare.  Si tratta di una tendenza testimoniata dalla recentissima pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (15 gennaio 2015), ove si legge:  “Con l’espressione “imprenditore occulto” si fa riferimento all’orientamento teorico secondo cui, nell’ordinamento del diritto d’impresa, il criterio per l’acquisto della qualità di imprenditore e per la riferibilità dell’attività d’impresa non è il canone formale della spendita del nome ma quello sostanziale della titolarità effettiva dell’attività economica. 
Nel ridefinire la figura dell’imprenditore occulto, il Tribunale prende le mosse da un assunto fondato sull’errato convincimento che principio che governa l’imputazione dell’attività di impresa nel nostro ordinamento sia, non già il principio formale della spendita del nome, quanto piuttosto il principio di effettività avente  nell’art. 2082 cod. civ. base normativa. A sostegno della tesi vengono riportati una serie di indici normativi. Anzitutto viene citato l’art. 2267 cod. civ. che recita “per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci”. Il collegio, premettendo che la norma non distingue tra soci palesi e soci occulti, estende la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali anche ai soci occulti in quanto titolari dell’interesse imprenditoriale connesso all’esercizio dell’attività economica svolta.

Il richiamo all’art. 2267 cod. civ. appare del tutto errato, in quanto travisa la ratio sottesa dalla norma. La responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali non dimostra l’esistenza di un criterio generale di imputazione legato alla titolarità dell’interesse economico, piuttosto si spiega considerando il principio di libertà delle forme che presidia alla costituzione delle società semplice. In particolare, tale principio, consentendo alla società semplice di costituirsi prescindendo da formalità – per facta concludentia, per verbis, per atto scritto non formalizzato – permette la nascita di enti societari deformalizzati, difficilmente rintracciabili in quanto sganciati da indici formali ed oggettivi.

Unica forma di protezione che residua per i creditori, a fronte della libertà di forme, è l’estensione della responsabilità a tutti coloro che abbiano agito e comunque a coloro che partecipano all’attività di impresa. Inoltre, per non aggravare la posizione dei soci non amministratori, l’art. 2267 cod. civ. prevede la possibilità di derogare pattiziamente al regime di responsabilità illimitata, e assegna alla stessa carattere sussidiario, in quanto frappone lo schermo del beneficio di preventiva escussione (art. 2268 cod.civ.).  Ancora la sentenza prosegue indicando, a  riprova della preminenza del principio di titolarità dell’interesse imprenditoriale, l’art. 2208 cod. civ. che enuncia: “L'institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che egli tratta per il preponente; tuttavia il terzo può agire anche contro il preponente per gli atti compiuti dall'institore, che siano pertinenti all'esercizio dell'impresa a cui è preposto”.

Il Tribunale sostiene che la norma, prevedendo la responsabilità del preponente limitatamente ai debiti “pertinenti” all’esercizio dell’impresa,  attribuisca rilevanza alla titolarità dell’interesse economico che, senza dubbio, si appunta in capo al titolare dell’impresa stessa. Invero l’art. 2208 cod. civ. riguarda la preposizione institoria, fenomeno affatto diverso dall’imprenditore occulto, sebbene nella sentenza sia ad esso assimilato in quanto forma di sostituzione giuridica nell’esercizio dell’impresa. Mentre l’imprenditore occulto attiene all’interposizione fittizia, al contrario l’institore è una delle figure previste dal sistema della rappresentanza commerciale. La norma, lungi dal fissare un criterio sostanziale di imputazione dell’attività di impresa, ribadisce il principio formale della spendita del nome allorché si risale alla ratio della disciplina codicistica. Ed infatti la responsabilità personale dell’institore che abbia omesso la contemplatio domini è effetto coerente con il sistema della rappresentanza in generale.
Se l’institore ha agito con i terzi, senza spendere il nome del preponente (effettivo titolare dell’impresa), sarà l’unico destinatario degli effetti giuridici degli atti posti in essere in proprio nome, in conformità con il principio della spendita del nome, principio secondo il quale intestatario degli effetti giuridici è il soggetto il cui nome sia stato validamente speso nel traffico giuridico.
La responsabilità del preponente, invece, riposa sul nesso di pertinenza tra debiti contratti in proprio nome dall’institore e oggetto dell’impresa. E quindi il preponente è responsabile, in solido con l’institore, in quanto, trattandosi di debiti inerenti all’impresa, verosimilmente il terzo contraente si immaginava che gli stessi fossero stati contratti nell’esercizio dell’attività economica e, come tali, coinvolgessero la sfera giuridico patrimoniale del preponente.

4) Imputazione dell'attività d'impresa: il principio di formale spendita del nome

Pertanto, il principio che governa l’imputazione dell’attività di impresa non è il principio dell’interesse effettivo – imprenditore è colui il cui interesse è effettivamente perseguito nel traffico giuridico – bensì il principio formale della spendita del nome, sul quale si basa il sistema codicistico della rappresentanza.
Ed è proprio la vigenza di un simile principio che in passato ha reso difficile affermare la responsabilità patrimoniale e la fallibilità dell’imprenditore occulto per i debiti contratti formalmente dal prestanome.
L’applicazione rigorosa del principio precluderebbe di risalire all’imprenditore occulto, poiché esternamente si rinviene solo l’imprenditore palese (il prestanome) che  esercita l’attività economica in nome proprio e che, di conseguenza, è intestatario dei relativi effetti giuridici. In quanto imprenditore formale, il prestanome, in caso di insolvenza, potrà certamente essere dichiarato fallito dato che i debiti sono a lui giuridicamente riferibili, ma di regola il c.d. uomo di paglia possiede un patrimonio modesto.
Ed infatti è proprio la non proporzionalità tra la mole dei debiti accumulati dal prestanome e la consistenza del suo patrimonio personale a fare da spia circa la provenienza aliunde dei mezzi finanziari utilizzati nell’esercizio dell’impresa, e dunque dell’esistenza di un secondo soggetto che opera nell’ombra ma che è l’effettivo titolare dell’impresa. E pur nel sospetto della presenza dell’imprenditore occulto, quest’ultimo non potrebbe essere chiamato a rispondere dei debiti del prestanome, in quanto “debiti formalmente altrui”, posto che l’art. 2740 cod. civ. codifica il principio di personalità e universalità della responsabilità patrimoniale. Per non tradire il principio della spendita del nome e, al contempo, fondare la responsabilità dell’imprenditore occulto, si ricorre alla tecnica dell’actio mandati contraria prevista dall’art. 1719 cod.civ.

5) Quando la responsabilità è additabile al prestanome: l'actio mandati contraria ex 1719 cc.

In sintesi, si abbandonano le tradizionali teoria del potere di impresa (v. in nota Ferri) e dell’imprenditore occulto di Bigiavi (costruita quest’ultima teoria sull’art. 147 l. fall. , vecchio testo) per approdare alla ricostruzione della fattispecie in termini di mandato. Il prestanome o imprenditore palese si atteggia quale mandatario senza rappresentanza, che, sebbene agisce in proprio nome ed assume i diritti e gli obblighi dell’attività svolta,  persegue l’interesse di altro soggetto, il mandante. Quest’ultimo è il dominus dell’affare che conferisce al mandante i mezzi per l’esecuzione del mandato.
Se il rapporto tra prestanome e imprenditore occulto si tramuta nella veste del mandato, si giustifica la responsabilità del dominus in applicazione dell’art. 1719 cod. civ.: Il mandante, salvo patto contrario, è tenuto a somministrare (1) al mandatario i mezzi necessari per l'esecuzione del mandato e per l'adempimento delle obbligazioni che a tal fine il mandatario ha contratte in proprio nome”.  
L’actio mandati contraria è l’azione che il mandatario può esperire nei confronti del mandante per ricevere da quest’ultimo i mezzi necessari per l’adempimento del mandato. Trasfondendo tale norma sul piano imprenditoriale, dichiarato il fallimento dell’imprenditore palese, sarà possibile dichiarare il fallimento dell’imprenditore occulto in quanto tenuto, al pari di un mandante, a rimborsare le spese ed a risarcire i danni conseguiti dall’esecuzione del mandato. Con una simile tecnica la responsabilità patrimoniale migra dal prestanome al dominus sulla base della causa giuridica ricostruita nel mandato.

Si specifica che la tecnica antiabusiva dell’actio mandati contraria è adoperabile quando prestanome ed imprenditore occulto siano entrambi persone fisiche e non quando tra loro è configurabile un rapporto societario,  laddove troverebbe applicazione il meccanismo del fallimento in estensione disciplinato dall’art. 147 l. fall. che al quarto e quinto comma regola, rispettivamente, il fallimento di socio occulto di società palese e il fallimento di socio occulto di società occulta.
Inoltre, il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 ha riformato il testo della norma circoscrivendone l’ambito di operatività. Il fallimento in estensione si applica soltanto qualora dichiarati falliti siano uno dei tipi societari regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, ossia società di persone e società in accomandita per azioni. I tipi menzionati sono infatti gli unici regimi societari caratterizzati dalla responsabilità illimitata di tutti, o alcuni, dei soci.
Nell’attuale sistema normativo si crea un vuoto di tutela per la categoria dei creditori qualora si intenda rintracciare l’esistenza di un imprenditore occulto, sia esso persona fisica o società di fatto, rispetto alle società di capitali o, più esattamente, nel caso di abuso del dominio su una società di capitali.

6) La fallibilità del socio occulto di società di capitali: la teoria dell'impresa fiancheggiatrice.

A tal fine, la giurisprudenza per fondare la responsabilità personale e la fallibilità di colui che abusi della posizione dominante su una società di capitali, e per reprimere l’utilizzo abusivo dello schermo societario, rigettando qualsiasi criteri sostanziale di imputazione, ha adottato la teoria dell’impresa fiancheggiatrice. Dopo aver stigmatizzato i comportamenti del socio detentore di una posizione dominante (sistematico finanziamento della società attraverso prestiti o prestazione di garanzie, direzione di fatto dell’attività sociale), si giunge a sostenere che, qualora la condotta abusiva sia tale da integrare i requisiti dell’imprenditorialità ex art. 2082 cod. civ., al punto da poter intestare a capo del socio un’autonoma attività di impresa, avente ad oggetto il finanziamento o la gestione parallela della società di capitali dominata, il socio risponderà in qualità di imprenditore commerciale delle obbligazioni da lui contratte nell’esercizio dell’attività collaterale e, se insolvente, potrà essere dichiarato fallito.
La teoria appresta tutela soltanto ai creditori dell’impresa fiancheggiatrice facente capo al socio dominante ed a quei creditori dell’impresa principale c.d. forti, i quali – essendo a conoscenza dell’impresa parallela – si sono fatti rilasciare garanzie dal socio costituendosi un titolo giuridico per agire giudizialmente contro lo stesso.

Di conseguenza la teoria dell’impresa fiancheggiatrice è carente sotto un duplice aspetto. In primo luogo, la tutela offerta non si estende a tutti i creditori della società dominata, rimanendone sprovvisti coloro che hanno contrattato esclusivamente con la società principale, ignari dell’impresa collaterale. In secondo luogo, l’applicazione della teoria è subordinata al preventivo accertamento di un’autonoma attività imprenditoriale riferibile al socio od ai soci dominanti. Nell’intento di superare i limiti della teoria dell’impresa fiancheggiatrice, si è proposto di inquadrare la condotta di abuso del dominio su società di capitali nella forma dell’attività di direzione e coordinamento esercitata in modo difforme dai principi di corretta gestione, invocando la responsabilità di cui all’art. 2497 cod. civ.: “Le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società”.

Attraverso l’appiglio normativo dell’art. 2497 cod. civ. è praticabile una via più agevole per sanzionare l’attività abusiva di direzione. Ogni qual volta l’attività di direzione e coordinamento è esercitata perseguendo un interesse non conforme a quello della società dominata ed in violazione delle regole di comportamento, l’imprenditore abusivo sarà responsabile sia verso i soci che verso i creditori sociali. La responsabilità sussiste a prescindere dalla circostanza che l’attività abusiva sia stata esercitata spendendo il nome del dominus, e quindi anche in assenza di qualsiasi rapporto negoziale con i creditori della società eterodiretta, in quanto la stessa è strumentale al risarcimento del danno patrimoniale subito dai creditori sociali quale effetto riflesso dell’abusivo esercizio del potere di direzione e coordinamento. Tuttavia ciò non determina l’automatica fallibilità del dominus, essendo possibile che l’attività abusiva non integri un’autonoma attività di impresa.
Qualora si dimostri che il dominio abusivo rivesta i requisiti tipici dell’art. 2082 cod. civ., e nel caso di insolvenza, il dominus potrà essere esposto a fallimento, procedura cui potranno insinuarsi tutti i creditori della società abusivamente dominate, in concorso con i creditori personali.  

 


Bibliografia

  • G. Ferri, Manuale, sostiene la teoria del potere d’impresa : «imprenditore è e rimane il prestanome, così come nella società di persone e nella società con unico azionista, imprenditore è la società, e non i soci o l’azionista unico. Tuttavia in quanto chi esercita il potere di gestione e assume il rischio dell’impresa è colui che sta dietro e il prestanome è un puro strumento materiale per la realizzazione della sua volontà, la responsabilità di impresa ricade anche su di lui, così come ricade sui soci di una società di persone o sull’unico azionista»
  • Bigiavi, L’imprenditore occulto 1954
  • F. Fimmanò “Il fallimento del dominus abusivo ed il crepuscolo del socio tiranno”
  • Gian Franco Campobasso, Diritto commerciale, 1. Diritto dell’impresa.