Preterintenzione e morte in conseguenza di altro delitto: problematiche applicative e orientamenti giurisprudenziali
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Riccardo Samperi
Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, l´elemento soggettivo del delitto preterintenzionale non sarebbe costituito da dolo e responsabilità oggettiva, né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo del reato base, in quanto l´art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità dell´evento più grave ”nell´intenzione di risultato”
Sommario: 1. Il delitto preterintenzionale e il suo problematico rapporto con il principio di colpevolezza. – 2. Il delitto preterintenzionale è compatibile con l’aberratio ictus? – 3. Rapporto tra fattispecie preterintenzionale e tentativo ex art. 56 c.p. – 4. Rapporto tra omicidio preterintenzionale e morte in conseguenza di altro delitto. – 5. Omicidio preterintenzionale e reati aggravati dall’evento. – 5.1. Morte o lesioni come conseguenza dell’uso di “spray al peperoncino” in luoghi affollati. – 6. Casistica: a) La responsabilità dello spacciatore per la morte del tossicodipendente nei diversi casi di cessione ed iniezione; b) aborto preterintenzionale; c) Preterintenzione e causa da sole sufficienti a determinare l’evento; d) preterintenzione e decorso causale atipico; e) preterintenzione e concorso di persone nel reato.
1. Il delitto preterintenzionale e il suo problematico rapporto con il principio di colpevolezza
L’art. 42 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi in cui sia espressamente punito a titolo di colpa o preterintenzione. Il dolo è l’ordinario criterio psicologico di imputazione del reato e in quanto tale non abbisogna di espressa previsione normativa. Al contrario, un fatto commesso con colpa o preterintenzione può essere punito soltanto quando la legge lo stabilisce espressamente. L’art. 43 c.p., rubricato “elemento psicologico del reato”, qualifica come preterintenzionale (o oltre l’intenzione) il delitto che si verifica quando dall’azione od omissione deriva un evento più grave rispetto a quello voluto dall’agente. Ipotesi classica di delitto preterintenzionale è quella in cui l’agente spinge la vittima in modo da farla rovinare a terra, provocandone involontariamente la morte.
La legge attribuisce l’espressa qualifica di delitto preterintenzionale a due sole fattispecie: l’omicidio preterintenzionale, punito dall’art. 584 c.p., e l’aborto preterintenzionale, assente nella formulazione originaria del Codice, introdotto dall’art. 18, comma 2, della legge 194/1978 ed oggi confluito nell’art. 593-ter c.p., norma, quest’ultima, introdotta dalla Riforma Orlando (D. Lgs. 01/03/2018, n. 21) e rubricata “Interruzione non consensuale della gravidanza”.
In passato si è dibattuto se la preterintenzione fosse autonomo criterio di imputazione del reato (e nel qual caso quali ne fossero i limiti) ovvero se non le si potesse riconoscere autonoma rilevanza, in quanto oltre a dolo o colpa tertium non datur. La dottrina maggioritaria ritiene che non vi sia spazio per un terzo criterio soggettivo di imputazione del fatto di reato (ulteriore rispetto a dolo e colpa)[1]; secondo un orientamento minoritario, invece, la preterintenzione costituirebbe un autonomo coefficiente psicologico di imputazione del reato[2]. La discussione assume rilievo in relazione alle pronunce della Corte Costituzionale in materia di colpevolezza (364 e 1085 del 1988), nelle quali si è affermato che il pieno rispetto dei principi di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena, di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 27 Cost., impone che gli elementi più rilevanti della fattispecie penale siano investiti quantomeno dal coefficiente soggettivo minimo della colpa[3]. Orbene, se è pacifico che il reato meno grave, voluto ma non realizzato, debba essere investito dal dolo, enormemente più problematica si è rivelata la questione inerente al criterio soggettivo di imputazione del delitto più grave, non voluto, ma in concreto verificatosi.
Un primo orientamento, di dubbia compatibilità con le statuizioni della Consulta, riteneva che per la configurazione del delitto preterintenzionale fosse sufficiente il mero nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento più grave, a nulla rilevando lo stato soggettivo del reo, e ciò risolvendosi sostanzialmente in una ipotesi di responsabilità oggettiva[4].
Una variante di tale teoria è quella che “presume” la colpa dell’agente, ravvisata nell’aver disatteso il generale precetto di non compiere atti diretti a percuotere o ledere e così sostanzialmente invertendo l’onere della prova a scapito dell’imputato, il quale, avendo posto in essere i delitti di lesioni o percosse, si presume responsabile anche dell’evento morte[5].
Altro orientamento ha ritenuto il criterio di imputazione del delitto preterintenzionale un misto di dolo dell’evento meno grave e colpa dell’evento più grave[6]; e ciò in base alla considerazione che nel compiere i reati di percosse o lesioni bisognerebbe in ogni caso usare quella prudenza e morigeratezza che impedisca di sfociare nell’omicidio. Tale asserzione è stata aspramente criticata da chi ha ritenuto che non possa essere realisticamente pretesa accortezza da chi versi già in re illicita; in altri termini sarebbe irrealistico immaginare che, nei concitati momenti che precedono l’evento morte, l’agente rammenti di usare la dovuta accortezza per contenere entro ragionevoli limiti la propria condotta criminosa.
Secondo il più recente orientamento della Cassazione[7], l’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale sarebbe dato dal mero dolo dell’evento meno grave, che assorbirebbe nell’intenzione di risultato la prevedibilità dell’evento più grave. La morte, insomma, essendo conseguenza prevedibile della condotta di percosse o lesioni, sarebbe assorbita dal dolo di queste ultime. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la decisione che affermava la responsabilità dell’imputato a titolo di colpa aggravata – e non di preterintenzione – per l’omicidio di una donna a causa del soffocamento occorso durante un rapporto sessuale con l’imputato nel quale era stata praticata di comune accordo il c.d. bondage, una tecnica di eccitamento sessuale mediante legature e costrizioni fisiche[8].
Il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre, con riguardo all’elemento psicologico, anche quando gli atti diretti a percuotere o ledere, dai quali sia derivata come conseguenza non voluta la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale[9]. L’integrazione dunque l’accertamento di una condotta dolosa, costituita dalle percosse o dalle lesioni, e da un evento, la morte, che sia eziologicamente connesso a tale condotta; il riferimento normativo ad “atti diretti a percuotere o ledere”, secondo l’impostazione dei giudici di legittimità, non esclude che tali atti possano essere sorretti da dolo eventuale, poiché la direzione va intesa come requisito strutturale oggettivo dell’azione, comprendente anche quelli costituenti semplice tentativo[10].
Nel caso di erroneo convincimento del fatto che l’evento morte sia già avvenuto, la Cassazione ha qualificato il fatto come omicidio colposo e non preterintenzionale. Nel caso di specie, un uomo aveva spinto a terra una donna provocandone la perdita dei sensi; l’aveva creduta morta e, per simularne il suicidio, le aveva posto un cuscino sul volto e aveva staccato il tubo del gas, cagionando con tale ulteriore condotta la morte della stessa per soffocamento[11].
2. Il delitto preterintenzionale è compatibile con l’aberratio ictus?
Nell’ipotesi in cui l’agente commetta il reato di lesioni o percosse contro la vittima designata, ma accidentalmente provochi la morte di altro soggetto (reato aberrante), egli risponde ugualmente di omicidio preterintenzionale. La peculiarità rispetto al reato aberrante di cui all’art. 82 c.p. sta nel fatto che la discrasia riguarda non soltanto il soggetto offeso (Tizio uccide per sbaglio Sempronio al posto di Caio), ma anche l’evento verificatosi, più grave rispetto a quello voluto dall’agente[12].
L’orientamento riportato non è andato esente da critiche. Si è obiettato che mentre l’art. 82 c.p. postula che l’agente realizzi l’offesa voluta non in danno della persona designata ma di altra, l’art. 584 c.p. presuppone un’offesa più grave rispetto a quella voluta nei confronti del soggetto effettivamente preso di mira. In altri termini, l’art. 82 c.p. richiederebbe identità di offesa e diversità di soggetto leso (identità materiale dell’offesa, diversità personale del soggetto leso), mentre l’art. 584 c.p. farebbe riferimento ad una differente offesa riguardante il soggetto originariamente designato (identità personale, diversità materiale). L’effettiva realizzazione dell’offesa originariamente voluta dovrebbe in tale ottica limitare l’applicazione dell’art. 82 c.p. ai soli delitti dolosi e non anche a quelli preterintenzionali, con la conseguenza che, nel caso in cui con atti diretti a percuotere o ledere si cagioni involontariamente la morte o lesione di persona diversa rispetto a quella a cui le percosse o lesioni erano destinate, non vi sarebbe omicidio preterintenzionale, ma concorso formale tra tentativo di lesioni (se configurabile) ed omicidio colposo (per aberratio delicti ex art. 82 c.p.).
3. Rapporto tra fattispecie preterintenzionale e tentativo ex art. 56 c.p.
Tra i numerosi quesiti sorti, ci si è chiesti se, per configurare la fattispecie di omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p., sia necessaria l’integrazione del tentativo punibile di lesioni o percosse, dato dal combinato disposto dell’art. 56 c.p. con gli artt. 581 o 582 c.p. In proposito, è pacifico ritenere che: a) i delitti di lesioni e percosse non devono necessariamente venire ad esistenza; b) i meri atti preparatori sono privi di rilevanza penale, quand’anche accompagnati da volontà criminosa.
Si è discusso se gli atti “diretti a percuotere o a ledere”, puniti dall’art. 584, siano semanticamente equivalenti a quelli “diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”, di cui all’art. 56 c.p. In altri termini, ci si è domandati se gli artt. 584 e 56 c.p. definiscano (nei limiti delle lesioni e delle percosse) la stessa condotta ovvero due condotte differenti, vale a dire se la più ampia definizione di tentativo, contenuta nell’art. 56 c.p., sia tale da inglobare al proprio interno quella di “atti diretti a percuotere o a ledere” e, di conseguenza, se per punire l’omicidio a titolo di preterintenzione sia necessario quantomeno un tentativo punibile.
Al riguardo è stato affermato che la mera minaccia di percosse o lesioni non è sufficiente a configurare l’omicidio preterintenzionale e che il tentativo non sarebbe compatibile con l’omicidio preterintenzionale, o meglio, che non sarebbe configurabile una ipotesi di omicidio preterintenzionale tentato[13]. Viceversa, l’orientamento maggioritario è del parere che l’art. 584 c.p. descriva una condotta diversa rispetto a quella di cui all’art. 56 c.p. e che, dunque, quest’ultimo non abbia alcuna rilevanza ai fini dell’individuazione della fattispecie preterintenzionale[14].
Del resto le due norme presentano non banali differenze: mentre l’art. 56 punisce gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un qualsiasi delitto, l’art. 584 punisce gli atti diretti a commettere gli specifici delitti di lesioni o percosse; ma soprattutto mentre la preterintenzione è un criterio psicologico di imputazione del reato (seppur di difficoltoso intendimento), il tentativo si sostanzia nella circostanza di fatto che l’offesa al bene giuridico non ha raggiunto l’intensità voluta dall’agente e per tale ragione la condotta tenuta è meritevole di una risposta sanzionatoria meno afflittiva.
4. Rapporto tra omicidio preterintenzionale e morte in conseguenza di altro delitto
L’art. 586 c.p. dispone che “quando da un fatto previsto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”. Tale fattispecie è posta tutela della vita e della incolumità dei consociati. La condotta incriminata consiste nella commissione di un delitto doloso (ad esclusione delle percosse e delle lesioni) dal quale consegua la morte o la lesione della vittima; tipico esempio è quello della donna morta in seguito alla violenza sessuale subita. La fattispecie viene integrata soltanto quando il reato base sia stato integralmente consumato, non essendo sufficiente il mero tentativo.
Quanto al criterio di imputazione dell’evento più grave, così come nell’ambito dell’omicidio preterintenzionale, sono state prospettate diverse teorie.
Secondo un primo orientamento, l’agente risponderebbe del reato più grave quando tra quest’ultimo e il reato base sussista un nesso di causalità materiale, a prescindere da qualsiasi elemento psicologico. Una tale impostazione ritiene sufficiente, ai fini dell’integrazione della fattispecie ex art. 586 c.p., il dolo del reato base ed un nesso di causalità materiale tra quest’ultimo e il reato più grave costituito dalla morte o dalle lesioni. In buona sostanza, il reato più grave verrebbe ascritto all’agente a titolo di responsabilità oggettiva[15]. Tale tesi prende le mosse dall’asserita inesigibilità di cautele da parte di chi versa in re illicita; non si potrebbe realisticamente pretendere diligenza da parte di un soggetto che sta commettendo un reato. Esclusa la configurabilità del dolo e della preterintenzione, l’unico criterio soggettivo di imputazione dell’evento più grave rimane la colpa, e poiché quest’ultima presuppone la violazione di regole cautelari, non potrebbe configurarsi in un contesto di per sé illecito e quindi caratterizzato per sua natura dall’assenza di qualsivoglia norma cautelare, la cui violazione costituisce indefettibile presupposto per la configurazione dell’elemento colposo. La colpevolezza dell’agente per il reato più grave sarebbe dunque in re ipsa, cioè nella stessa realizzazione dolosa del reato base, che costituisce condicio sine qua non della causazione dell’evento morte o lesioni.
La tesi assolutamente prevalente nella giurisprudenza più recente è invece quella secondo cui l’evento più grave non può essere imputato all’agente in base al mero nesso eziologico. Il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27, comma 1, Cost. e del principio di colpevolezza affermato dalla giurisprudenza costituzionale impone la ricerca di un coefficiente psicologico che colleghi l’agente all’evento più grave. Tale orientamento ammette l’impossibilità di individuare norme cautelari specifiche nell’ambito di contesti intrinsecamente illeciti, pur tuttavia ritiene che dalla comune esperienza sia possibile estrapolare norme cautelari talmente generali ed intuitive da non risultare incompatibili con la condotta di chi sta compiendo un atto illecito. In linea generale sarà quindi possibile addebitare l’evento più grave all’agente quando la sua condotta, sia pure illecita, sia stata talmente grossolana da avere causato la morte. Occorre dunque, oltre al nesso di causalità materiale tra i due reati, anche la concreta prevedibilità dell’evento più grave usando come parametro di riferimento generali regole di condotta desunte dall’id quod plerumque accidit.
L’omicidio preterintenzionale si distingue dalla fattispecie di cui all’art. 586 c.p. essenzialmente per due ordini di ragioni: in primis nella fattispecie preterintenzionale è ravvisabile una certa omogeneità nella progressione criminosa, nel senso che, sebbene l’evento più grave non sia voluto dall’agente, tuttavia esso realizza una offesa al medesimo bene giuridico che si intendeva offendere con i reati di percosse o lesioni. Al contrario, nella fattispecie delineata dall’art. 586 c.p., non si ravvisa tale omogeneità, in quanto il reato base è volto ad offendere beni giuridici diversi rispetto a quelli in concreto danneggiati (quindi ad esempio la fattispecie di violenza sessuale mira a tutelare l’integrità e l’autodeterminazione sessuale. Se da questa deriva la morte, ad essere stato offeso sarà il bene giuridico vita, differente rispetto a quello originario)[16]. La seconda importante distinzione riguarda l’ambito applicativo: l’omicidio preterintenzionale può essere realizzato esclusivamente attraverso atti volti al compimento di due specifici delitti: quelli di percosse o lesioni. La fattispecie di cui all’art. 586 è suscettibile di essere integrata da ogni reato diverso dalle percosse o lesioni[17].
Si è ritenuto che la disposizione di cui all’art. 586 c.p. non costituisca una particolare figura di reato, ma che invece costituisca applicazione dell’art. 83 c.p., sanzionando in via sussidiaria ogni tipo di condotta illecita dalla quale derivi, quale conseguenza non voluta, la morte o le lesioni. La dottrina e la giurisprudenza prevalenti, infatti, ritengono che la norma sia un’applicazione speciale dell’art. 83 c.p., rispetto alla quale la disposizione prevede una disciplina più severa, in ragione dell’importanza del bene protetto[18].
In tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte è imputabile all’autore della condotta sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale[19]. In applicazione di tale principio la Corte ha condannato l’imputato che aveva lanciato un gavettone dal secondo piano di un palazzo, causando la morte di un anziano per arresto cardiaco).
In materia di successive cessioni di sostanze stupefacenti (vale a dire nell’ipotesi in cui si verifichi una “catena di cessioni”, nel senso che la sostanza stupefacenti passa dalle mani di diverse persone prima di arrivare al consumatore tossicodipendente) dalle quali conseguiva la morte del tossicodipendente, sono individuabili vari orientamenti; consistente parte della giurisprudenza ha ritenuto che, per configurare la fattispecie dell’art. 586 c.p., fosse necessario esclusivamente l’accertamento del nesso di causalità materiale intercorrente tra cessione del primo spacciatore e morte del tossicodipendente, non rilevando quali eventi interruttivi di tale nesso di causalità le eventuali cessioni intermedie. Più nello specifico, questa giurisprudenza ha affermato che nell’ipotesi di successive cessioni di sostanza stupefacente, il nesso di causalità materiale tra la prima cessione e la morte dell’ultimo cessionario, sopraggiunta quale conseguenza non voluta dell’assunzione della droga, non è interrotto per effetto delle successive cessioni, né dalle modalità con cui è avvenuta l’assunzione, trattandosi di fattori concausali sopravvenuti, non anormali o eccezionali, ma del tutto ragionevolmente prevedibili. Nel caso di specie la Corte ha escluso che l’assunzione di alcol, contestuale all’ingestione di cinque pasticche di ecstasy da parte della vittima, potesse considerarsi una concausa sopravvenuta, non prevedibile e tale da interrompere il nesso causale tra la prima cessione e l’evento morte[20].
Diverso orientamento, poi sposato dalle Sezioni Unite in quanto ritenuto più garantista, è quello secondo cui nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità materiale intercorrente tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che, quindi, sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto[21].
La fattispecie di cui all’art. 586 c.p. esclude qualsiasi tipo di volizione, compreso il mero dolo eventuale[22]. Inoltre, poiché è sufficiente che la morte o le lesioni derivino dalla condotta complessivamente tenuta dall’agente per la realizzazione del reato, nel caso in cui più persone concorrano attivamente alla realizzazione del reato doloso di base, non è necessario stabilire in concreto se l’evento ulteriore è conseguenza della specifica condotta realizzata da ciascuno dei compartecipi al reato doloso. E ciò in considerazione della recezione da parte della legislazione italiana della c.d. “teoria monista”, in virtù della quale l’azione si considera unica, anche se ad essa hanno concorso le condotte di più persone, e ciascun concorrente risponde, come di azione propria, non solo delle condotte degli atti da lui personalmente ed effettivamente compiuti, ma anche di quelli compiuti dai correi[23]. Al pari dell’omicidio preterintenzionale, la fattispecie ex art. 586 c.p. è incompatibile con il concorso anomalo ex art.116 c.p., in quanto occorre che l’evento più grave sia non voluto da tutti i compartecipi[24].
5. Omicidio preterintenzionale e reati aggravati dall’evento
I reati aggravati dall’evento, nei quali rientra anche la morte in conseguenza di altro delitto, sono comunamente suddivisi in tre categorie: quelli nei quali l’evento più grave deve essere non voluto, pena l’integrazione di una diversa fattispecie (es. se dall’omissione di soccorso deriva la morte della persona, la pena base è raddoppiata); quelli in cui è indifferente se l’evento sia voluto o meno giacchè esso è comunque accollato all’agente (falsa testimonianza); ed infine quelli in cui l’evento è necessariamente voluto, per esempio. l’art. 642, comma 3, c.p. ove è previsto un aumento di pena nell’eventualità in cui l’agente consegua l’intento fraudolento che lo ha mosso a distruggere la cosa propria o a mutilare la propria persona) .
Per quanto riguarda la natura giuridica dell’evento aggravante, il problema iniziale è stato quello di stabilire se esso andasse ricondotto agli elementi costitutivi di fattispecie o circostanze, oppure se potesse configurarsi un tertium genus di elemento strutturale del reato. L’opinione unanime è che tra elemento costitutivo e circostanza non residua spazio per configurarsi un terzo tipo di elemento strutturale del reato. Quanto, poi, alla natura giuridica di tali reati, sono state prospettate essenzialmente due teorie: quella che qualifica l’evento più grave come circostanza aggravante e quella che riconduce tali delitti alla preterintenzionalità.
L’adozione di una teoria piuttosto che dell’altra importa non secondarie ricadute applicative: se l’evento più grave si considera circostanza, occorre quantomeno la colpa (mentre prima della legge 19/1990 le circostanze erano addebitate in presenza del mero nesso di causalità materiale a prescindere da qualsiasi stato psicologico); se invece il reato è ricondotto all’alveo della preterintenzione, sorgono le anzidette incertezze applicative circa il criterio psicologico di imputazione dell’evento più grave.
In breve, è possibile tracciare la seguente evoluzione del pensiero giuridico in materia: prima della legge 19/1990 si individuano due orientamenti: uno meno garantista, che qualificava tutti i delitti aggravati dall’evento come reati circostanziati (e ricordiamo che prima della summenzionata legge l’ascrizione delle circostanze aggravanti prescindeva da qualsiasi stato psicologico dell’agente, basandosi sul mero rapporto di causalità materiale tra condotta ed evento) ed uno più garantista, che tendeva a ricondurre taluni delitti aggravati dall’evento nel novero dei reati preterintenzionali (il discorso valeva in particolare per quei reati in cui l’evento più grave doveva necessariamente essere non voluto, pena la realizzazione di una fattispecie dolosa, come nel caso in cui dall’omissione di soccorso derivi la morte della persona offesa), in modo che, pur nella confusione di teorie che si sono susseguite in materia di delitti preterintenzionali, l’evento più grave fosse ricondotto ad un qualche stato soggettivo dell’agente.
Dopo la riforma del 1990, in base alle quali le circostanze possono essere addebitate all’agente a patto che siano investite quantomeno dalla colpa, è parso più garantistico abbandonare la preterintenzione - e tutte le connesse incertezze applicative - in favore del riconoscimento ai reati aggravati dall’evento della qualifica di delitti circostanziati. Il problema che si è posto a questo punto è dato dal possibile bilanciamento ex art. 69 c.p.: infatti, qualificando i reati aggravati dall’evento come circostanziati, la risposta sanzionatoria potrebbe essere attenuata, quando non del tutto elisa, dalla contemporanea presenza di circostanze attenuanti equivalenti o addirittura prevalenti.
Per tale ragione, vi è chi suggerisce di vagliare caso per caso se la fattispecie concreta vada ricondotta alla categoria dei reati circostanziati ovvero della preterintenzione, in modo da contemperare le esigenze garantistiche che chiedono un collegamento psicologico tra evento e condotta e quelle di prevenzione generale e funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27 Cost., che presuppongono l’adeguatezza della pena all’offesa del bene giuridico[25].
5.1. Morte o lesioni come conseguenza dell’uso di “spray al peperoncino” in luoghi affollati
Lo spray a base di Oleoresin Capsicum è qualificato dal Decreto del Ministero dell’Interno n. 103 del 12 maggio 2011[26] come “strumento di autodifesa”. Il porto e l’utilizzo di tale strumento è consentito purché esso abbia le caratteristiche specificamente individuate dal Decreto[27] e venga utilizzato per legittima difesa.
Laddove lo spray non possegga le caratteristiche individuate dal Decreto, il suo porto integra la fattispecie di cui all’art. 695 c.p.[28]. Se lo spray, quand’anche in possesso delle caratteristiche indicate dal Decreto ai fini della sua liceità, non viene utilizzato per legittima difesa, vale a dire quale extrema ratio, ciò può configurare il reato di lesioni dolose[29].
La Cassazione ha ritenuto sussistente la fattispecie di “Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”, punita dall’art. 586 c.p., nell’ipotesi in cui l’agente, nel commettere il reato di rapina aggravata durante la proiezione in piazza di una partita di calcio – attraverso l’impiego di spray urticanti – ha causato il panico tra la folla e conseguentemente la morte di due donne, le quali sono state travolte e calpestate dall’enorme massa di persone raccolte in occasione della proiezione dell’evento sportivo[30].
6. Casistica:
a) La responsabilità dello spacciatore per la morte del tossicodipendente nei diversi casi di cessione ed iniezione
In materia di sostanze stupefacenti, la Cassazione ha distinto l’ipotesi in cui lo spacciatore inietti nelle vene della vittima la sostanza stupefacente, provocandone la morte, da quella in cui egli ceda la sostanza stupefacente al tossicodipendente, il quale effettui autonomamente l’iniezione e, in conseguenza di ciò, egli muoia.
Nel primo caso, infatti, è stata riconosciuta la sussistenza di omicidio preterintenzionale, giacchè il reato di lesioni, essendo a forma libera, in considerazione della particolare importanza del bene della integrità fisica, può essere integrato attraverso qualsiasi condotta idonea, fra cui anche l’iniezione nelle vene della vittima di una dose mortale di eroina.
Peraltro, a nulla rileva l’eventuale consenso della vittima, giacchè esso ha ad oggetto il compimento di un’attività illecita ed in quanto tale è inidoneo a produrre un’efficacia scriminante ai sensi dell’art. 50 c.p. Al riguardo è utile rammentare che l’art. 5 c.c. consente gli atti di disposizione che cagionino una diminuzione permanente della propria integrità fisica, purché essi non siano contrari a norme imperative, ordine pubblico e buon costume; e l’iniezione di eroina dentro le vene di un tossicodipendente è un chiaro esempio di condotta contraria all’ordine pubblico e al buon costume[31].
Nel secondo caso, dopo infuocati contrasti giurisprudenziali, le Sezioni Unite hanno affermato il principio per cui se dalla cessione di sostanza stupefacente deriva la morte del tossicodipendente e tale evento morte sia ascrivibile all’agente a titolo di colpa, questi sarà responsabile del reato di omicidio colposo (e non preterintenzionale).
b) Aborto preterintenzionale
L’aborto preterintenzionale, inizialmente sconosciuto dal nostro sistema penale, è stato introdotto dall’art. 18, L. 194/1978 ed è oggi confluito nell’art. 593-ter c.p., rubricato “Interruzione di gravidanza non consensuale”.
Come si nota, la norma era inizialmente contenuta all’interno di una legge, la n.194 del 1978, che non disciplinava organicamente un settore del diritto penale, ma si occupava della tutela sociale della maternità e del procedimento per l’interruzione della gravidanza. La riconduzione della fattispecie all’interno del Codice Penale è frutto di una precisa scelta del legislatore, che, con il D. Lgs. 21/2018 (c.d. Riforma Orlando) ha introdotto, all’art. 3-bis c.p., il principio di “Riserva del codice”, secondo cui nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia. L’obiettivo è dunque quello di ottenere una razionalizzazione ed un efficientamento del sistema penale.
L’art. 593-ter c.p. dispone che: 1. Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l'inganno. 2. La stessa pena si applica a chiunque provochi l'interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. 3. Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l'acceleramento del parto. 4. Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave quest'ultima pena è diminuita. 5. Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto.
La norma in esame tutela la libertà di autodeterminazione della donna in ordine alla prosecuzione o interruzione della gravidanza. I commi successivi al primo tutelano anche la salute della stessa. Il primo comma tipizza un reato proprio, giacchè il consenso ai trattamenti sanitari necessari per l’interruzione della gravidanza può dalla donna essere validamente espresso unicamente nei confronti del medico. Il medico è punito se il consenso è stato estorto con violenza o minaccia o ancora se carpito con l’inganno.
La Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul caso di una donna incinta che, attinta da colpi di pistola, nell’immediatezza aveva perso il bambino e, a distanza di alcuni giorni, era deceduta. La tesi difensiva mirava a fare assorbire il delitto di procurato aborto all’interno del vincolo della continuazione ex art. 81, comma 2, c.p. con il più grave omicidio volontario. Tuttavia la tesi difensiva non ha convinto i giudici di legittimità, che hanno ritenuto i due reati ben distinti (in quanto occorsi a distanza di diversi giorni l’uno dall’altro) e pertanto entrambi ascrivibili all’agente a titolo di concorso formale di reati ai sensi dell’art. 81, comma 1, c.p.[32].
c) Preterintenzione e causa da sole sufficienti a determinare l’evento
In riferimento all’elemento oggettivo del reato, l’imputato che, afferrando per il collo la vittima, affetta da lieve stenosi coronarica, aveva innescato nella stessa una alterazione del ritmo cardiaco a cui era conseguito il decesso per arresto cardiocircolatorio è stato considerato responsabile di omicidio preterintenzionale[33] .
La Corte ha affermato che non sono cause da sole sufficienti a determinare l’evento più grave non voluto quelle che operano in sinergia con la condotta dell’imputato, sicché, venendo a mancare una delle due, l’evento non si sarebbe verificato, non potendosi qualificare come del tutto indipendenti dalla condotta del soggetto agente.
In altri termini, è vero che, se la vittima non fosse stata affetta da una specifica patologia, la condotta dell’imputato forse non avrebbe avuto come esito la morte della stessa, ma è altrettanto vero che il giudice deve valutare il caso concreto, non potendo in alcun modo prescindere dalla circostanza che, in ogni caso, senza la condotta criminosa l’evento morte non sarebbe accaduto.
d) Preterintenzione e decorso causale atipico
Sono altresì stati considerati responsabili del reato di omicidio preterintenzionale gli imputati che avevano percosso la vittima, la quale, nel disperato tentativo di sottrarsi ad ulteriori violenze ad opera dei propri inseguitori (urlanti e chiaramente animati dalla volontà di nuocerle ulteriormente), era precipitata da un parapetto che aveva scavalcato nella fuga[34].
Nel caso in esame è stato dunque affermato che “ai fini dell’integrazione dell’omicidio preterintenzionale è necessario che l’autore dell’aggressione abbia commesso atti diretti a percuotere o ledere e che esista un rapporto di causa ed effetto tra gli atti predetti e l’effetto letale, senza necessità che la serie causale che ha prodotto la morte rappresenti lo sviluppo dello stesso evento di percosse o lesioni voluto dall’agente”.
e) Preterintenzione e concorso di persone nel reato
La Cassazione ha ritenuto ammissibile la preterintenzione in un caso di concorso omissivo in reato commissivo: è stato ritenuto colpevole di omicidio preterintenzionale il dirigente della squadra mobile che, dopo la cattura, ha lasciato che il sospettato fosse trasportato dagli agenti in un’altra stanza e che, in sua assenza, fosse sottoposto a trattamenti disumani e degradanti che ne hanno provocato la morte accidentale. In tal caso la condotta omissiva è stata ravvisata nella violazione dell’obbligo giuridico di presenziare all’interrogatorio al fine di evitare che il soggetto fosse pestato a morte dagli agenti[35].
La preterintenzione è stata considerata compatibile con il concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p., che si verifica allorquando vi è la partecipazione materiale o morale di più soggetti attivi nell’attività diretta a percuotere o a ledere una persona[36].
Al contrario, essa è stata reputata incompatibile con il c.d. concorso anomalo ex art. 116 c.p., in cui almeno uno dei concorrenti ha voluto l’evento più grave e dunque troverà applicazione la disciplina del concorso di persone nel reato di omicidio volontario. In altre parole, se più persone concorrono alla realizzazione dei reati di percosse o lesioni, è sufficiente che uno soltanto dei compartecipanti abbia voluto la morte della vittima per trascinare tutti gli altri partecipanti nella responsabilità dolosa[37].
Note bibliografiche
[1] In questo senso Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 1991, pag. 347, nota tratta da Garofoli, Manuale di diritto penale, Neldiritto Editore, 2017/2018, pag. 951. Nello stesso senso Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 1980, pag. 306.
[2] Patalano, Preterintenzione, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1987, pag. 351.
[3] In riferimento all’art. 584 c.p., la Corte Costituzionale – con sent. del 30 luglio 1981, n. 162 – ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale rispetto agli artt. 3 e 27 Cost. per diversità del trattamento sanzionatorio rispetto all’art. 586 c.p.. È stato affermato infatti che “la differenza di pena minima prevista per l’ipotesi di cui all’art. 584 rispetto a quella sancita per il 586 è frutto di una scelta discrezionale incontestabile del legislatore”.
[4] In questo senso Cass. Pen., 8 giugno 2006, n. 19611, secondo cui “il dominante indirizzo dottrinale e il prevalente orientamento giurisprudenziale [n.d.r. al tempo della pronuncia], formatosi quest’ultimo attorno al prototipo dell’omicidio preterintenzionale, ricostruiscono la fattispecie preterintenzionale come dolo misto a responsabilità oggettiva: il primo è riferito al reato base e la seconda all’evento più grave non voluto, che resta, peraltro, del tutto estraneo alla proiezione dell’elemento volitivo e viene ascritto all’agente sulla base dell’accertamento del semplice nesso di causalità materiale con la condotta intenzionalmente diretta alla realizzazione di un evento diverso e meno grave, quindi in base al criterio d’imputazione della responsabilità oggettiva. Alla stregua di questa concezione si prescinde da ogni indagine di carattere psicologico sulla volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità dell’evento. Negli stessi termini, Cass. Pen., 13 maggio 2004, n. 43524, che afferma “ai fini della sussistenza dell’ipotesi criminosa dell’omicidio preterintenzionale, prevista dall’art. 584 c.p., è necessario e sufficiente che l’autore dell’aggressione abbia realizzato una condotta dolosa diretta a ledere o percuotere e che sussista un rapporto di causa ed effetto tra gli atti compiuti e la morte della vittima. Si prescinde pertanto da ogni indagine sulla prevedibilità dell’evento più grave cagionato. Il caso riguardava il decesso di un’anziana signora affetta da patologia cardiaca per il sopraggiungere di un infarto a seguito delle percosse subite.
[5] In proposito, Cass. Pen. 15 novembre 1989, secondo cui “non può ravvisarsi nell’omicidio preterintenzionale un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva, l’elemento soggettivo (colpa) va ricercato nell’aver disatteso il precetto di non porre in essere atti diretti a percuotere o a ledere. Invero, è nella legge, la cui ratio sta nel porre una difesa avanzata al bene della vita dei consociati nella considerazione che non raramente da atti diretti a ledere (percosse, lesioni) possa, naturalisticamente (ancorché involontariamente), sopravvenire la morte del soggetto passivo”.
[6] Trib. Roma, 26 settembre 2006, “l’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale è costituito dal dolo misto a colpa: dolo, rispetto alle percosse o lesioni effettivamente volute; colpa rispetto all’evento morte in concreto realizzatosi, dovendosi quindi verificare, di volta in volta, la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento maggiore ai fini dell’imputazione. Ciò in quanto deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli eventi più significativi della fattispecie, fra i quali il complessivo ultimo risultato vietato (la morte), se non si vuole incorrere nel divieto ex art. 27 Cost., commi 1 e 3, della responsabilità oggettiva cosiddetta pura o propria.
Cass. Pen., 22 settembre 2006, n.37385: “nell’omicidio preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo e un dato negativo: la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza dell’intenzione di uccidere. Invece l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario è proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima desumibile da fatti certi che consentono di provare l’esistenza o meno di altri fatti ignoti attraverso un procedimento logico d’induzione tesi ad individuare la volontà omicida sono precipuamente i mezzi usati, la direzione, l’intensità e la reiterazione di colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione violenta.
[7] A titolo puramente esemplificativo si riportano le seguenti massime: Cass. Pen., Sez. V, sent. 26 ottobre 2016, n. 44986: “Ai fini del delitto di omicidio preterintenzionale, l’elemento psicologico consiste nell’aver voluto (anche solo a livello di tentativo) l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte), che costituisce solo la conseguenza diretta della condotta dell’agente, attuata con una violenta manomissione della fisicità del soggetto passivo, contro la volontà di quest’ultimo. Ne consegue che le pratiche sessuali sadomaso, iniziate con il consenso del partner, ma terminate con la morte non integrano omicidio preterintenzionale ma omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento”. Nello stesso senso Cass. Pen. 2013 N. 791: “L’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato. Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto de quo è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa". Ma anche sent. n. 40389/12: "L’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale è costituito unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato". Ed infine Cass. Pen., 14 aprile 2006, n. 13673: “ai fini del delitto preterintenzionale, la disposizione dell’art. 43 assorbe la prevedibilità dell’evento più grave nell’intenzione di risultato, per il quale i parametri di negligenza, imprudenza o imperizia, men che meno di osservanza di norme sono assolutamente irrilevanti. Ciò perché il rischio di evento omogeneo più grave è insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica. La prevedibilità dell’evento più grave è assorbita nell’intenzione di risultato del delitto contro la persona fisica, mentre la speculazione teorica del doppio elemento psicologico, pone la disciplina normativa fuori della realtà”. La corte ha altresì ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 584 c.p., asserendo che “la ratio della norma in esame risulta conforme al dettato costituzionale, in quanto si fonda sul rapporto dell’elemento psicologico di un delitto preveduto e voluto contro l’incolumità, con l’evento morte come conseguenza perciò stesso prevedibile della condotta”.
[8] Cass. Pen., Sez. V, sent. 26 ottobre 2016, n. 44986.
[9] In proposito, Cass. Pen., 13 ottobre 2010, n. 40202.
[10] In applicazione di tale principio, Cass. Pen., Sez. V, n. 44751 del 12 novembre 2008 ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità, a titolo di concorso in omicidio preterintenzionale, oltre che in rapina, di due soggetti, i quali avevano concordato con un terzo, resosi autore materiale del fatto, un furto con strappo, da questi poi realizzato con violenza alla persona della vittima che, avendo opposto resistenza, era stata trascinata per alcuni metri, così riportando lesioni che ne avevano cagionato la morte. Conf. Cass. Pen., Sez. V, n. 4237 dell’11 dicembre 2008, che ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice d’appello ha affermato la responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale nei confronti dell’imputato che, guidando un autocarro in condizioni di alterazione psicofisica correlata all’utilizzo di stupefacenti, aveva investito la vittima, cagionandone la morte, ritenendo sulla base di una serie di elementi – ripartenza lenta, aumento di giri del motore, andatura a singhiozzo, l’uso dell’avvisatore acustico – che egli si era avveduto della presenza di quest’ultimo ed aveva sospinto in avanti la vittima anche a costo di toccarla con la motrice e di provocarle possibili lesioni.
[11] Garofoli, Manuale di diritto penale, Neldiritto editore, 2017/2018, pag. 958.
[12] Cass. Pen., 2000, n. 2146: “nel caso di uccisione di persona diversa da quella che si intendeva solo percuotere o ferire, si configura l’omicidio preterintenzionale. Ciò ai sensi dell’art. 82 c.p., poiché l’agente deve rispondere a titolo di dolo come se avesse commesso l’atto di lesioni in danno di persona diversa e, quindi, in applicazione dell’art. 584 c.p. è chiamato a rispondere dell’evento morte derivato dall’atto violento”.
[13] Cass. Pen. 20 ottobre 2004, n. 41095: “Il delitto di cui all’art. 584 c.p., analogamente all’art. 586 c.p., è caratterizzato, infatti, dal trattamento sanzionatorio più severo; ne consegue che esso è incompatibile con il tentativo e con la desistenza volontaria, che presuppongono, al contrario, un evento voluto e non verificatosi, a causa di circostanze indipendenti o, nella desistenza, per resipiscenza dell’agente, con la conseguenza che non è possibile configurare un omicidio preterintenzionale tentato”.
[14] Cass. Pen. 20 gennaio 1988: “la figura dell’omicidio preterintenzionale non deve ritenersi necessariamente ed esclusivamente legata al tipico presupposto di un tentativo di percosse o di lesioni, giacchè nel testo dell’art. 584 c.p. non è trasfusa la formulazione dell’art. 56 c.p., ma è contemplata una forma di condotta atipica, nella quale può sussumersi anche un semplice comportamento minaccioso od aggressivo, sempre che tendente a percuotere o ledere”.
[15] In questo senso Cass. Pen., Sez. I, 23 ottobre 1986, n. 11537; Cass. Pen., Sez. VI, 2 dicembre 1988, n. 11799; Cass. Pen., Sez. II, 15 febbraio 1996, n. 6361; Cass. Pen., Sez.
[16] Cass. Pen., 14 aprile 2006, n. 13673.
[17] Cass. Pen., 19 dicembre 2003, n. 4640.
[18] In questi termini, Cass. Pen., 20 giugno 1985.
[19] Cass. Pen., 28 settembre 2016, n. 47979.
[20] Cass. Pen., 7 febbraio 2006, n. 14302.
[21] Cass. Pen., Sez. Un., 22 maggio 2009, n. 22676.
[22] Cass. Pen., 19 giugno 2002, n. 28647.
[23] Cass. Pen., 16 aprile 1994, n. 4436.
[24] Cass. Pen., 26 ottobre 2011, n. 2652.
[25] Sul tema, Garofoli, Manuale di diritto penale, Neldiritto Editore, 2017/2018, pag. 960 – 961.
[26] Regolamento concernente la definizione delle caratteristiche tecniche degli strumenti di autodifesa che nebulizzano un principio attivo naturale a base di Oleoresin Capsicum e che non abbiano attitudine a recare offesa alla persona.
[27] La miscela contenuta nel dispositivo non deve superare i 20 ml. La percentuale di Oleoresin Capsicum disciolto non deve superare il 10%, con una concentrazione massima di capsaicina e capsaicinoidi totali non superiore al 2,5 per cento. L'unico principio attivo consentito è l'Oleoresin Capsicum; nella miscela non devono essere inoltre presenti sostanze infiammabili, corrosive, tossiche o cancerogene, né aggressivi chimici. Lo spray o il dispositivo balistico dev'essere sigillato all'atto della vendita e munito di sistema di sicurezza contro l'attivazione accidentale. Lo spray o il dispositivo dev'essere marchiato o etichettato con diciture che includano nome del produttore e del modello, nome dell'importatore italiano se prodotto all'estero, la dicitura di pericolo XI che ne segnali la natura irritante e l'indicazione di divieto di vendita ai minori di 16 anni. La gittata utile massima non deve superare i 3 metri.
[28] Cass. Pen., Sez. I, 27 aprile 2018, n. 18481.
[29] È quanto statuito Cass. Pen., sent. n. 3856 del 2015, relativamente al caso di una donna che, dopo aver bussato alla porta della vittima, gli aveva spruzzato sul viso il composto chimico, provocandole eritemi e disturbi alla vista. In tal caso è stato ritenuto che il reato sia stato compiuto con dolo eventuale, perché l’agente aveva previsto ed accettato il rischio di cagionare alla vittima lesioni fisiche attraverso un uso improprio dello spray. Cass. Pen., sent. n. 10889 del 6 marzo 2017 ha poi precisato che “il porto in luogo pubblico di tale bomboletta, contenente gas urticante idoneo a provocare irritazione degli occhi, sia pure reversibile in un breve tempo, è idonea ad arrecare offesa alla persona e come tale rientra nella definizione di arma comune da sparo da cui all’art. 2 L. n. 110 del 1975 (…) o ancora è ricompresa nel novero degli aggressivi chimici”. Lo spray può non essere considerato un’arma solo se venga utilizzato esclusivamente per l’autodifesa personale, “mentre l’impiego come mezzo d’offesa - quale verificatosi nella fattispecie - comporta la piena e incondizionata applicazione della normativa in tema di armi”.
[30] Cass. Pen., 12 dicembre 2018, n. 55881.
[31] Cass. Pen., 13 febbraio 2004, n. 13987: “il delitto di cui all’art. 582 c.p. [lesioni personali] può essere commesso mediante qualunque mezzo idoneo e, quindi, anche introducendo nelle vene di un’altra persona sostanze stupefacenti mediante iniezioni, in quanto lo stupefacente, così iniettato, provoca un’alterazione dello stato fisico e psichico. Ne consegue che deve rispondere di omicidio preterintenzionale colui che inietti ad una persona per via endovena dell’eroina o della cocaina cagionandone così la morte, a nulla rilevando il consenso della vittima”. Cass. Pen., 12 maggio 1992, n. 5544: “l’art. 5 c.c. vieta gli atti di disposizione del proprio corto ove cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando risultino contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Ne deriva che, ai fini dell’omicidio preterintenzionale, il consenso prestato ad una iniezione di eroina, che ha determinato effetti letali, è un consenso non valido e non idoneo a scriminare tale reato, risultando contro il buon costume e contro la legge (le iniezioni per endovena, infatti, sono praticabili solo da personale sanitario qualificato)”.
[32] Cass. Pen., 18 marzo 1993.
[33] Cass. Pen., 3 maggio 2016, n. 35015.
[34] Cass. Pen., 12 luglio 2012, n. 41017.
[35] Cass. Pen., Sez. V, 5 aprile 1995, n. 5139.
[36] In questo senso Cass. Pen., 14 ottobre 2004, n. 1751, secondo cui “si configura il concorso di persone nell’omicidio preterintenzionale nel caso in cui vi è la partecipazione morale o materiale di più soggetti attivi nell’attività diretta a percuotere o ledere una persona senza la volontà di ucciderla e vi sia un evidente rapporto di causalità tra tale attività e l’evento mortale.
[37] Cass. Pen., 2 febbraio 1996, n. 3349, che ha affermato: “l’ipotesi prevista dal comma 2 dell’art. 116 c.p. non è applicabile all’omicidio preterintenzionale, in quanto trattasi di una forma attenuata di concorso configurabile solo nella ipotesi in cui il concorrente che si vuole anomalo abbia voluto un reato diverso da quello voluto dagli autori materiali e concretamente attuato. Nell’omicidio preterintenzionale, invece, l’evento mortale non è voluto da nessuno dei concorrenti; mentre tutti vogliono le lesioni o […] le percosse, onde tutti devono rispondere della morte che eventualmente consegua alla aggressione voluta”.