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Pubbl. Mer, 27 Mar 2019

La revoca della cittadinanza

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Salvatore D´angelo


Il caso Ousseynou Sy e i possibili profili di incostituzionalità della legge n. 132 del 2018


È di grande attualità la vicenda di Ousseynou Sy, cittadino italiano nato in Francia e di origini senegalesi, che ha dirottato un bus sequestrando 51 tra adulti e bambini che ha messo al centro del dibattito politico e mediatico proprio il tema della revoca della cittadinanza, a più riprese annunciata da diverse Autorità. 

Nel caso di specie, l’uomo aveva ottenuto la cittadinanza italiana nel 2004 in virtù del matrimonio contratto con una cittadina italiana. Ora, a seguito della vicenda per cui è stato tratto in arresto ed essendo indagato dai pm anche per finalità di terrorismo potrebbe prospettarsi, nel caso in cui in sede processuale sarà condannato anche per tale finalità, il primo caso di revoca della cittadinanza italiana in virtù della legge 132/2018. Prima di entrare nel merito della questione è giusto il caso di fare una breve premessa sull'istituto della cittadinanza.

Il concetto di cittadinanza italiana e la sua disciplina normativa

La cittadinanza è uno status costituzionalmente riconosciuto e garantito cui la Carta Costituzionale riconnette diritti e doveri.

Il suo riconoscimento consente, in primo luogo, l’esercizio dei diritti politici (come l’elettorato attivo e passivo) ma è, al tempo stesso, fondamento di alcuni doveri costituzionali, espressione della solidarietà che esiste tra i componenti di un unico popolo (dovere di difendere la Patria, concorrere alle spese pubbliche in virtù delle proprie capacità contributive, fedeltà alla Repubblica e rispetto della Costituzione e delle leggi).

Nel nostro ordinamento repubblicano viene tutelata la personalità giuridica del cittadino nella sua totalità ed è per questo che l’art. 22 della Costituzione dispone che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Premesso ciò, per entrare nel vivo della questione, è necessario ricordare che la recente legge 1 dicembre 2018, n. 132 , pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 281 del 3 dicembre 2018, ha introdotto nuove norme in materia di acquisto e revoca della cittadinanza italiana, modificando  la legge 91 del 1992.

Tradizionalmente, in base alla legge 91/1992, i casi di perdita della cittadinanza italiana potevano avvenire o per rinunzia oppure a seguito della revoca automatica in presenza di determinate condizioni.

In particolare, si potrà perdere la cittadinanza per rinuncia, innanzitutto, nel caso in cui un cittadino acquisti la cittadinanza di un paese straniero laddove risieda o abbia deciso di stabilire la propria residenza all’estero; mentre si potrà perdere la cittadinanza in automatico, ad esempio, laddove vi sia un cittadino che svolgendo funzioni alle dipendenze di uno Stato estero decida di conservare tale posizione nonostante l’intimazione del Governo italiano a mettere fine al rapporto di dipendenza.

Ora, a seguito della novella legislativa - targata prima dal c.d. “decreto sicurezza” e poi dalla conversione in legge n. 132 del 2018 - fortemente voluta dal Ministro Salvini, sono state introdotte delle modifiche sul tema della revoca automatica della cittadinanza.

In particolare, la legge in parola, ha previsto con l’art. 14 – rubricato «Disposizioni in materia di acquisizione e revoca della cittadinanza» – la seguente modificazione dell’art. 10-bisdella legge 91/1992: «la cittadinanza italiana acquisita ai sensi degli articoli 4, comma 2, 5 e 9, è revocata in caso di condanna definitiva per i reati previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), n.4 del codice di procedura penale, nonché per i reati di cui agli articoli 270-ter e 270-quinquies 2, del codice penale. La revoca della cittadinanza è adottata, entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati di cui al primo periodo, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno».

In altre parole, l’art. 14 ha novellato l’art. 10-bisdella legge n. 91 del 1992 prevedendo che vi possa essere la revoca della cittadinanza in caso di condanna definitiva per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, per i quali è prevista una reclusione non inferiore, nel minimo edittale, a 5 anni o, nel massimo, a 10 anni.

Il caso Ousseynou Sy

Ora, per tornare al caso specifico che in questa sede più ci interessa, è bene sottolineare che il tema in parola, prima ancora che mediatico o politico, è di natura strettamente giuridica con risvolti che andranno chiariti sia sul piano processuale che dal punto di vista della compatibilità con i principi generali dell’ordinamento.

Dal punto di vista processuale è necessario chiarire che, in ogni caso, tale revoca non è potrà avvenire nell’immediato poiché, come recita il secondo periodo del nuovo articolo 10-bis, essa potrà essere adottata dal Presidente delle Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno, entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Sarà necessario dunque aspettare innanzitutto i tre gradi di giudizio e l’esaurimento, o la decadenza, delle impugnazioni possibili – sempre che le finalità terroristiche per cui stanno indagando i pm fossero confermate in via definitiva – per capire se verrà adottata per la prima volta la revoca della cittadinanza per i motivi introdotti dalla novella legislativa del 2018.

Sul secondo versante, che è probabilmente quello che pone degli interrogativi maggiori e che sarà oggettivo di dibattito giuridico, ci si chiede – in buona sostanza – se la possibilità di revoca della cittadinanza prevista del nuovo art. 10-bis sia compatibile con i principi generali dell’ordinamento.

Innanzitutto, bisognerebbe capire in che modo la revoca della cittadinanza, per chi sia condannato per reati di matrice terroristica, possa conciliarsi con il fine di rieducazione della pena previsto dall’art. 27, comma 3, della Costituzione.

Sul punto si deve tenere in considerazione che in virtù di tale principio, come noto, incombe sul legislatore l’obbligo tassativo di tenere presenti le finalità rieducative della pena e di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle, evitando che le ben note carenze strutturali e finanziarie ne intacchino l’efficacia[1].

Pertanto, ci si chiede come possa la revoca della cittadinanza risultare compatibile con tale finalità rieducativa del reo e con l’obiettivo di reinserimento sociale del condannato che abbia espiato la sua pena, visto che attraverso questa sanzione si andrebbe, in definitiva, a sottrarre il condannato dalla società.

In secondo luogo, laddove si andasse a revocare la cittadinanza ad un determinato soggetto si potrebbe venire a creare, con tutta probabilità, uno status di apolidia per quest’ultimo.

Sul punto, è palese che ciò violerebbe gli obblighi internazionali derivanti da diverse Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia stessa[2].

In ultima analisi, ed è questo probabilmente il profilo di maggiore criticità della novella legislativa, sembra presentarsi in modo piuttosto palese una violazione del principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 Costituzione.

Su questo specifico profilo si deve ragionare sul fatto che con la legge n. 132 del 2018 si è prevista la possibilità di revoca della cittadinanza in caso di condanna per reati di matrice terroristica, solo per coloro che l’hanno acquistata nel corso della loro esistenza. In tal modo, verrebbe a configurarsi uno squilibrio di garanzie tra i cittadini che acquistano la cittadinanza con la nascita e coloro che la acquistano diversamente, con il risultato di andare a prevedere uno spacchettamento del concetto di cittadinanza che sembra ontologicamente inammissibile.

Il concetto di cittadinanza, inteso nella sua dimensione più profonda, è unitario ed indivisibile e non sembra possibile ammettere differenziazioni tra cittadini a meno che non si voglia ammettere che esistono cittadini permanenti e cittadini in prova.

È facile intuire che, così stando le cose, laddove sia condannato per reati di matrice terroristica un soggetto che abbia la cittadinanza italiana in virtù dello ius sanguinis, perché nato da genitori italiani o adottato, non vedrà mai revocata la propria cittadinanza al contrario  di chi, invece, abbia acquistato la cittadinanza italiana su richiesta e nel corso della sua esistenza.

Ci si chiede, allora, come potrebbe ritenersi conciliabile una tale situazione di fatto con il principio di uguaglianza formale sancito dall’art. 3, comma 1, della Costituzione.

È evidente, in conclusione, che solo l’evoluzione della vicenda processuale potrà chiarire verso quale direzione si dirigerà il nostro ordinamento e se i profili di possibile incostituzionalità elencati sopra, su cui vi è già fermento giuridico, saranno confermati o meno.

[1]Tale elaborazione è ricavabile in via interpretativa alla luce delle ben note sentenze n.204 del 1974 e n. 343 del 1987 della Corte Costituzionale, che ha così definito gli ambiti di operatività dell’art. 27, comma 3, della Costituzione.

[2]Il riferimento è sia alla “Convenzione relativa allo statuto delle persone apolidi del 1954”sia alla “Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961”. In particolare, l’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione del 1954 attraverso la legge n. 306 del 1962 e nel 2015 il Parlamento italiano ha approvato la legge di adesione alla Convenzione sulla riduzione dell’apolidia.