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Pubbl. Ven, 15 Mar 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Concorso Procuratore dello Stato 2019: nullità strutturale del provvedimento amministrativo e tutela giurisdizionale

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Vito Fiorentino


L´art. 21 septies l. 241/90 ha finalmente codificato la nullità del provvedimento amministrativo, colmando così una delle lacune più paventate dalla dottrina amministrativa. La fretta con cui tale norma è stata concepita, però, si riflette sul suo laconico contenuto, dalla cui lettura affiorano ancora, prepotenti, plurime incertezze e perplessità.


Sommario: 1. Provvedimento amministrativo e nullità: inquadramento sistematico e tentativi definitori; 2. Elementi essenziali del provvedimento amministrativo e nullità strutturale; 3. Tutela giurisdizionale ed aspetti processuali.

1. Provvedimento amministrativo e nullità: inquadramento sistematico e tentativi definitori.

Nonostante la baricentricità della figura, manca, nel nostro ordinamento, a differenza di quanto accade in altri sistemi giuridici europei quali – a titolo esemplificativo – quello tedesco[1], una nozione legislativa di provvedimento amministrativo.

Nel silenzio della legge, è stata la dottrina giuspubblicistica a farsi carico di tale incombenza definitoria.

Per la teoria formale, il provvedimento amministrativo è l’atto che promana da un’autorità amministrativa nell’esercizio della funzione pubblica. E’, dunque, la provenienza dell’atto dal soggetto pubblico a qualificarlo come provvedimento.

Per i sostenitori della teoria negoziale, invece, il provvedimento deve essere inteso come manifestazione della volontà dell’Amministrazione, a mezzo della quale essa persegue finalità pubbliche.

Attualmente, la teoria maggiormente condivisa tra gli studiosi (Garofoli; Ferrari) è quella funzional-procedimentale, per la quale il provvedimento amministrativo consiste in una manifestazione di volontà dell’amministrazione “volta alla cura di un concreto interesse pubblico e diretta a produrre unilateralmente effetti giuridici nei rapporti esterni con i destinatari”. Esso è di regola adottato all’esito di un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge ed è preceduto da una serie di atti, attività e fatti tra loro interconnessi e teleologicamente orientati alla sua emanazione (Casetta).

Da quanto detto, emerge allora come non vi sia coincidenza tra i concetti di provvedimento, da un lato, e di atto amministrativo, dall’altro. Nel dettaglio, il primo è una species del genus atti amministrativi, al punto da essere considerato come “atto amministrativo per eccellenza”, ma non si confonde con esso. In altri termini, mentre è certo che tutti i provvedimenti siano in primis degli atti, non è vero il contrario. L’atto amministrativo è, di fatti, preparatorio ed ha funzione accessoria e strumentale rispetto al provvedimento, il quale solamente è in grado d’incidere unilateralmente sulla sfera giuridica soggettiva dei privati. Da ciò discende, sul piano della tutela dei terzi, che solo il provvedimento e non anche l’atto, salvo casi eccezionali in cui anch’esso abbia attitudine direttamente lesiva, può costituire oggetto di autonoma impugnativa giurisdizionale da parte di costoro.

Ogni atto amministrativo, possa qualificarsi o meno (anche) come provvedimento, presenta una “realtà oggettiva e formale” (Sandulli; Virga) nell’ambito della quale si distinguono elementi e requisiti.

Gli elementi, a loro volta, si suddividono in: essenziali, se necessari per la stessa esistenza giuridica dell’atto; accidentali, ossia eventuali, la cui funzione è quella di ampliare ovvero restringere il contenuto naturale dell’atto, i quali possono essere apposti esclusivamente agli atti discrezionali, posto che il contenuto di quelli vincolati è a priori determinato dalla legge; naturali, se già previsti dalla legge per quel tipo astratto di atto.

Nell’ambito dei requisiti si distingue, invece, tra: quelli di legittimità, che incidono sulla validità, sub specie annullabilità, dell’atto; e requisiti di efficacia, necessari affinché l’atto possa spiegare i suoi effetti permettendone l’esecuzione (requisiti di esecutività operativi ex tunc) e/o rendendolo obbligatorio per i suoi destinatari (requisiti di obbligatorietà operanti ex nunc).

Quando un provvedimento è difforme dal paradigma normativo di riferimento si dice che esso è invalido e, di conseguenza, non produce effetti giuridici: la principale conseguenza della patologia dell’atto è, pertanto, l’inefficacia. Tale esito negativo può essere automatico, come nell’ipotesi della nullità, o necessitare di un’apposita pronuncia giudiziale di carattere costitutivo, come accade per l’annullabilità.

La distinzione tra tali due qualificazioni negative dipende dalla più o meno ampia divergenza dell’atto concretamente adottato dalla norma che lo disciplina. Nel primo caso si tratta di nullità, nel secondo di annullabilità. Diversa dalla nullità è la categoria dell’inesistenza. Da sempre controversa è la natura giuridica di tale figura. In particolare, il dibattito si è incentrato sui rapporti tra le due sistematiche della nullità e dell’inesistenza[2].

Per una prima e risalente opzione ermeneutica, l’inesistenza non costituisce una categoria giuridica autonoma distinta dalla nullità, essendo la prima del tutto sfornita di un addentellato normativo, tanto in ambito civilistico quanto in quello amministrativo. Il silenzio del legislatore sul punto è da interpretarsi, dunque, come una chiara ed inequivoca manifestazione di disinteresse del medesimo nei confronti di tale nozione, ritenuta inutile in quanto facente riferimento ad un quid che non esiste, privo di effetti e, pertanto, giuridicamente irrilevante. Tale impostazione, dunque, finisce col sovrapporre i due concetti, intendendo l’inesistenza come mancanza di effetti, la quale è, a sua volta, il sintomo tipico della nullità.

L’impostazione più recente è, tuttavia, di diverso avviso e riconosce piena autonomia alla categoria dell’inesistenza. I sostenitori di tale teoria cd. realista (Tiberii; D’Orsogna) criticano le valutazioni fondate su un criterio meramente effettuale effettuate dalla dottrina più tradizionale. Secondo tale orientamento, infatti, occorre distinguere nettamente il profilo dell’inesistenza da quello dell’inefficacia: in tal senso, un atto è esistente ogni qual volta esso sia qualificato, seppur in senso negativo, dall’ordinamento, indipendentemente dal fatto che esso produca o meno effetti. L’atto nullo, dunque, ancorché viziato, è pur sempre esistente. Viceversa, nel caso di sua assoluta inqualificazione si ci trova al cospetto di un’ipotesi di inesistenza: in tale evenienza, a ben vedere, viene a mancare lo stesso simulacro di atto che permetterebbe la sua sussunzione entro uno degli schemi astratti previsti dalla legge.

Da non confondere con la nullità è altresì l’irregolarità, che si manifesta quando l’atto, sebbene valido ed efficace, presenta vizi meramente formali insuscettibili d’incidere sulla sostanza della fattispecie.

Per ultimo, è necessario anche tracciare confini netti tra la nullità e l’illiceità. Mentre la prima qualificazione è relativa all’atto in quanto tale, la seconda connota il comportamento lesivo di situazioni giuridiche soggettive altrui, al cui compimento la legge connette l’applicazione di sanzioni in capo al suo autore.

Tornando alla nullità, così come imposto dalla traccia assegnata, essa è disciplinata dall’art 21 septies della legge n. 241 del 1990 rubricato “nullità del provvedimento”, il quale dispone che “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

Con tale norma, introdotta con la legge n. 15 del 2005, è stata finalmente tipizzata nel nostro ordinamento la figura della nullità così ponendo fine al vivace dibattito che era sorto in passato in merito alla sua definizione e al suo inquadramento dogmatico rispetto ai più o meno contigui concetti di inesistenza e di annullabilità e dal quale erano scaturite tre differenti impostazioni teoriche.

Per un primo orientamento (Ranelletti), aderente alla teoria cd. negoziale, alla nullità amministrativa, in mancanza di una specifica disciplina, dovrebbero applicarsi le regole prescritte in tema di nullità dal codice civile agli artt. 1418 e ss. relative ai contratti. Nel senso appena descritto, allora, sarebbe possibile parlare, pure con riguardo ai provvedimenti amministrativi, di nullità virtuale, strutturale e testuale.

Per un opposto indirizzo, che fa propria la teoria cd. panpubblicistica e che pone l’accento sull’autonomia del diritto amministrativo rispetto al diritto civile, non sarebbe possibile predicare la nullità con riguardo ad un provvedimento amministrativo, non fosse altro che di essa non v’è (rectius era) traccia nella disciplina ante l. 15/2005. Le ipotesi d’invalidità, conseguentemente, dovrebbero ricondursi nell’alveo dell’annullabilità o, tutt’al più, in quello dell’inesistenza per le difformità più serie.

Per i sostenitori di tale ultima tesi, in primo luogo, non vi sarebbe spazio, nel diritto amministrativo, per le nullità virtuali: se si ammettesse la nullità per violazione di norme di carattere imperativo, si dovrebbe ritenere, a ben vedere, che ogni violazione di legge dia luogo ad un’ipotesi di nullità, ma ciò contrasta frontalmente con il dettato dell’art. 21 octies, che qualifica la violazione di legge quale causa di annullabilità e non di nullità del provvedimento. Peraltro, tenendo conto del fatto che nel diritto amministrativo, difformemente dal mondo civilistico, le norme hanno carattere prevalentemente imperativo, salvo eccezioni, sostenere un’impostazione di tal fatta condurrebbe ad un’estensione smisurata della categoria concettuale della nullità a scapito di quella dell’annullabità, con ciò tradendo il dato positivo della tradizionale preminenza (art. 26 T.U. C.d.S. 1054/1924; art. 2 l. TAR, art. 21octies l. 241/90; art. 29 c.p.a.) – specialmente prima della legge 15/2005 – di tale ultima figura rispetto alla prima. Il ché, per ovvie ragioni, non pare tollerabile.

Allo stesso modo, non troverebbero posto nell’universo amministrativo neppure le nullità struttuali e ciò per il semplice fatto che nessuna disposizione della legge sul procedimento amministrativo indica quali siano precisamente gli elementi essenziali del provvedimento. Da ciò consegue che, in presenza di vizi formali dell’atto, si ricadrà o nell’ipotesi della mera irregolarità per le difformità tollerabili oppure in quella dell’inesistenza per quelle più rilevanti. Delle due l’una, tertium non datur.

Le stesse considerazioni svolte per le nullità strutturali vengono, per ultimo, ribadite anche in merito a quelle testuali.

Per completezza espositiva, si segnala, inoltre, una posizione mediana sostenuta da coloro i quali, aderendo alla tesi che nega cittadinanza alla categoria dell'inesistenza in materia amministrativa e non potendo, perciò, che prendere le distanze dalla teoria autonomistica per ultimo esposta, ridanno dignità al concetto di nullità, seppur con delle importanti precisazioni. Costoro, infatti, a differenza dei fautori della tesi negoziale, ritengono che la disciplina dettata per la nullità dal codice civile non possa estendersi tout court al diritto amministrativo. Si conserva, dunque, un posto residuale ed un’autonomia ridotta alla figura della nullità, limitata ai casi in cui essa sia espressamente comminata dalla legge (nullità testuale) o in presenza di gravi difetti strutturali dell’atto.

2. Elementi essenziali del provvedimento amministrativo e nullità strutturale.

L’art. 21 septies l. 241/90, come già accennato, è intervenuto, finalmente, a diradare l’equivocità addensatasi sull’ispido crinale della nullità amministrativa, riconoscendole definitavamente indipendenza. Allo stesso modo, però, la disposizione de qua scandisce adamantinamente le tassative ipotesi in cui essa può operare.  Ed invero, come ribadito a più riprese da granatica giurisprudenza e sostenuto da autorevole dottrina (Garofoli; Ferrari; Giovagnoli), le cause di nullità del provvedimento amministrativo costituiscono oggi un numerus clausus[3].

Tra di esse, quella che, senza ombra di dubbio, ci interessa più da vicino per i fini imposti dalla consegna da svolgere, è quella relativa alla mancanza degli elementi essenziali del provvedimento.

Tale previsione ricalca, prima facie, quella di cui al comma 2 dell’art. 1418 c.c., a mente del quale la mancanza dei requisiti essenziali del contratto, individuati per relationem dall’art 1325 c.c., produce la nullità del medesimo. La legge 241/90, però, diversamente da quanto ci si sarebbe aspettato, non contiene alcun accenno alla disciplina degli elementi essenziali del provvedimento, così tipizzando formalmente una nuova figura giuridica sostanzialmente priva di contenuto.

Ancora una volta è, allora, compito degli interpreti capire siano tali elementi essenziali cui la legge fa offuscamente riferimento.

In tale ricerca si ripropone prorompente il classico dualismo tra i sostenitori della superata teoria negoziale ed i fautori di quella funzional-procedimentale. I primi fanno rientrare tra gli elementi essenziali del provvedimento: l’agente, il destinatario, la volontà, l’oggetto e la forma; i secondi aggiungono a questi il contenuto e sostituiscono la finalità alla volontà.

Ciò posto, esaminiamo i singoli elementi essenziali alla luce della oramai largamente condivisa teoria funzional-procedimentale.

Per agente si intende il soggetto che pone in essere l’atto organicamente imputato alla Pubblica Amministrazione. Egli può coincidere, come di regola avviene, con la stessa autorità amministrativa ma può identificarsi altresì in un privato esercente una pubblica funzione (cd. munus) ovvero obbligato a seguire procedure ad evidenza pubblica (cd. organismi di diritto pubblico).

Il destinatario, determinato o determinabile, è il soggetto pubblico o privato nei confronti del quale l’atto adottato dalla P.A. a mezzo dell’agente è destinato ad esplicare i suoi effetti.

L’oggetto, possibile e lecito oltre che determinato o determinabile, è il comportamento, il bene o il fatto nei confronti del quale si dirige l’attività pubblica.

Il contenuto è l’insieme delle statuizioni che formano l’atto.

La forma è la modalità attraverso la quale viene resa nota a terzi la volontà della parte pubblica. Normalmente essa è scritta anche se non mancano significativi esempi di atti amministrativi esternati oralmente quali gli ordini di polizia e quelli di direzione del traffico.

La finalità è lo scopo oggettivo perseguito dall’atto, ossia l’interesse pubblico fissato dalla legge. L’Amministrazione, di fatti, non può rincorrere obiettivi soggettivamente predeterminati in quanto la sua volontà è fortemente limitata dal fine pubblicistico legislativamente imposto. Esso rappresenta, in altri termini, la causa del potere esercitato ed il perseguimento di finalità difformi costituisce un tipico esempio di eccesso, o meglio sviamento, di potere: tipica causa di annullabilità dell’atto. In siffatte ipotesi, dunque, l’operatività del rimedio della nullità è del tutto residuale, coerentemente con l’assunto della tassatività e tipicità del vizio di nullità.

3. Tutela giurisdizionale ed aspetti processuali.

Per quel che riguarda l’aspetto della tutela giurisdizionale, esso va affrontato in intima connessione a quello del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Esso è fondato su due criteri, entrambi cristallizzati dall’art. 103 Cost.

Il primo, di carattere generale, è definito della causa petendi: sussiste la giuridizione del giudice amministrativo laddove la controversia ha ad oggetto la lesione di un interesse legittimo. Viceversa, se causa del contendere è un diritto soggettivo sussiste la giurisdizione del giudice ordinario. Tale sistema, dunque, guarda alla natura sostanziale della situazione giuridica soggettiva al fine di giustificare la giurisdizione dell’uno o dell’altro giudice.

Il secondo, di carattere eccezionale, è quello del riparto per materia. In virtù di esso, è permesso al giudice amministrativo di pronunciarsi sulle materie specificamente individuate dall’art. 133 c.p.a. a prescindere dal fatto che esse concernano diritti soggettivi ovvero interessi legittimi.

Orbene, appare evidente, a questo punto della trattazione, che l’orizzonte problematico che si presenta all’occhio dell’operatore è quello concernente l’esatta perimetrazione delle due nozioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo.

A tal uopo, sono stati proposti, nel tempo, vari criteri distintivi[4].

Il primo fa leva sulla distinzione tra atti iure imperii ed atti iure gestionis. Nel primo caso, la P.A., agendo in veste autoritativa, si interfaccia ad interessi legittimi, la lesione dei quali radica la giurisdizione amministrativa; nel secondo caso, per contro, l’Amministrazione opera sullo stesso piano del privato cittadino, il quale vanta, nei suoi confronti, un diritto soggettivo conoscibile dal giudice ordinario. Tale approdo ermeneutico, però, non tiene adegutamente conto dei casi in cui l’attività della P.A. sia solo apparentemente esplicazione di pubblico potere. Per tali ragioni, è stato gradualmente abbandonato.

Un altro criterio distingue, invece, tra attività discrezionale ed attività vincolata. Nella prima ipotesi, alla P.A. è riconosciuta facoltà d’integrazione del precetto normativo: verrebbe pertanto in rilievo una posizione d’interesse legittimo tutelabile innanzi al giudice amministrativo. Nel secondo caso, a contrario, la parte pubblica deve limitarsi a dare esecuzione al dettato normativo: si concretizzerebbero, allora, posizioni di diritto soggettivo naturaliter affidate alla curatela del giudice ordinario. Anche tale ricostruzione, tuttavia, non convince appieno. Essa compie, a ben guardare, un salto logico in quanto presuppone erroneamente, da un lato, che, ogni qualvolta è data la possibilità all’Amministrazione di arricchire di contenuto il dato normativo, essa lo faccia sempre e comunque a suo vantaggio; dall’altro, che, a volte, anche l’attività vincolata può essere finalizzata al perseguimento di un interesse pubblico e non privato. Tali rilievi hanno portato alla rapida obsolescenza anche di tale criterio distintivo.

Un altro metodo distingue tra norme di azione e norme di relazione. Le prime regolano lo svolgimento dell’attività amministrativa e non incidono direttamente sulla sfera giuridica dei privati: la loro mancata osservanza provoca l’erosione d’interessi legittimi, fattispecie sindacabile dal g.a.; le seconde disciplinano i rapporti tra pubblico e privato ed il loro mancato rispetto danneggia i diritti soggettivi dei terzi, ai quali non può che essere accordata tutela innanzi al giudice civile. Tale parametro differenziatorio, sebbene accattivante da un punto di vista prettamente teorico, mostra, però, tutta la sua fallacia da un punto di vista empirico, essendo molto difficoltoso, in parecchie circostanze, distinguere tra l’uno e l’altro tipo di norme.

Superando il fallimento di tutte le precedenti teorizzazioni, è stato infine elaborato un criterio, inaugurato con lo storico concordato giurisprudenziale del 1930, compiutamente definito con Cass. 1657/1949 ed ancora oggi largamente condiviso, che discerne tra carenza e cattivo uso del potere. Nella prima ipotesi, il privato contesta l’esistenza stessa del potere amministrativo: l’atto, quindi, non ha alcuna attitudine degradatoria nei confronti della posizione subiettiva vantata dal cittadino, la quale non può che essere qualificata in termini di pieno diritto soggettivo con conseguente competenza del plesso giusdicente ordinario; nell’altro caso, di contro, oggetto di contesa è lo scorretto esercizio del potere: l’atto, pertanto, esiste ed è efficace ed è anche idoneo a modificare od estinguere l’originale diritto soggettivo del privato, il quale, quasi umiliandosi, si affievolisce in interesse legittimo.

Tale impostazione rappresenta il frutto della cd. teoria dei diritti risolutivamente condizionati (o suscettibili di affievolimento) secondo la quale gli interessi legittimi (oppositivi) nascono per effetto della limitazione o soppressione, da parte del potere amministrativo, di un bene della vita che il privato mira a conservare.

Oggi, però, tale teoria attraversa una fase recessiva.

Essa, invero, implica un'equivoca scissione temporale tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, come se, sempre e necessariamente, il secondo succedesse primo. Ciò, evidentemente, tradisce recisamente l’idea di fondo della piena parità tra le due posizioni giuridiche in argomento che, tassello dopo tassello, è andata imponendosi a partire dall’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con la legge Crispi n. 5992/1889 ed oggi consacrata, a tutto tondo, dagli artt. 24, 103, 111 e 113 della nostra Carta Fondamentale[5]. Più correttamente, allora, dovrebbe parlarsi di coesistenza tra le due posizioni soggettive: è logico, ancor prima che giuridicamente convincente, affermare che il privato è portatore dell’interesse legittimo al corretto esercizio del potere pubblico prima dell’emanazione del provvedimento finale, già nel corso del procedimento. Peraltro, oggi sono venute meno anche le esigenze garantiste prima poste a fondamento della teoria della degradazione. In passato, infatti, si ricorreva alla fictio del mascheramento dell’interesse legittimo per giustificarne la risarcibilità. Secondo la lettura maggiormente condivisa del dettato dell’art. 2043 c.c. prima del celebre arresto n. 500/1999 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, soltanto i danni derivanti dalla lesione di diritti soggettivi assoluti aliunde posti da specifiche disposizioni normative erano meritori di risarcimento, non anche gli interessi legittimi. Proprio per raggirare tale impasse, e non lasciare sforniti di tutela i titolari di tali ultime posizioni giuridiche, si arrivò allora ad ammettere anche la risarcibilità di questi ultimi (sub specie interessi legittimi oppositivi) ma solo previo annullamento dell’atto amministrativo che ne aveva cagionato la nascita (rimanendo, nondimeno, inalterato il problema dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi cd. pretensivi). Venendo meno la manifestazione di pubblico potere, si sarebbe automaticamente riproposta l’originale entità di diritto soggettivo della posizione oltraggiata e permesso, di conseguenza, il ritorno alla legalità. Oggi, all’opposto, l’art. 30 c.p.a. riconosce espressamente la diretta ed autonoma risarcibilità dell’interesse legittimo, al quale è accordata piena protezione senza necessità di ricorrere alle mirabolanti costruzioni dogmatiche del secolo scorso.

Ciò detto, risulta evidente che corollario dell’applicazione del criterio per ultimo delineato è che la giurisdizione del g.o. sul provvedimento nullo sussiste esclusivamente nel caso in cui si ravvisi un’ipotesi di carenza di potere (id est il difetto assoluto di attribuzione ex art. 21 septies l. 241/90); in tutte le altre ipotesi (riproducenti altrettanti esemplificazioni di cattivo uso del potere), compresa quella relativa alla mancanza degli elementi essenziali del provvedimento che qui maggiormente ci interessa, la giurisdizione è del g.a.. Tale conclusione trova conforto nello stesso dato positivo, posto che la disciplina dell’actio nullitatis avverso provvedimenti amministrativi trova la sua sedes nel codice del processo amministraitvo e non in quello di procedura civile. Dato, questo, sintomatico del fatto che, normalmente, è il giudice amministrativo a doversi occupare della materia della nullità, ad eccezione, come s’è osservato, delle ipotesi di difetto assoluto di attribuzione.

Ai sensi dell’art. 31 comma 4 c.p.a., la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge deve proporsi, a pena di decadenza, entro il termine di centottanta giorni (lontanissima è, dunque, la regola dell’imprescrittibilità posta per la nullità civile). Tale elemento, unito alla totale mancanza di qualunque indicazione legislativa in merito alla legittimazione processuale, pare approssimare molto l’azione di nullità a quella di annullamento, per la quale è tuttavia previsto un termine decadenziale molto più breve, pari a sessanta giorni[6]. Ciò ha suscitato frequenti esitazioni sulla natura dichiarativa ovvero costitutiva della pronuncia di nullità, tanto da portare alcuni studiosi a patrocinare la tesi della cd. annullabilità qualificata o rafforzata[7].

La nullità, prosegue l’art. ult. cit., può, invece, essere opposta in via d’eccezione in ogni tempo, secondo il principio di ordine generale espresso dal brocardo latino quae temporalia ad agendum, perpetua ad accipiendum. Da ciò deriva che il termine ne ultra quem di centottanta giorni vale esclusivamente per chi intende contestare la nullità di un atto dell’amministrazione in via d’azione, ossia, di regola, il privato. Il barrage cronologico non opera, invece, per la parte resistente, ossia, normalmente, la Pubblica Amministrazione. Il sistema appena delineato appare immediatamente asimmetrico e non è mancato chi, sulla scorta di tale osservazione, ha profilato dubbi di compatibilità della disposizione interpretanda con la nostra Costituzione sotto il profilo dell’irragionevolezza e della disparità di trattamento. A tale critica è stato tuttavia prontamente replicato che è lo stesso legislatore a supplire alla mancanza di legittimazione del privato, prevedendo, in ogni caso, la rilevabilità automatica e sine die della nullità ad opera del giudice, nel suo ruolo di garante terzo ed imparziale della corretta applicazione delle regole processuali. Naturalmente, a patto che sia in contestazione l’applicazione e l’esecuzione dell’atto e la sua validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda[8].

Peculiare, rispetto alla disciplina generale dell’azione dichiarativa di nullità, è quella contemplata per il caso in cui essa derivi dalla violazione o elusione del giudicato. Quest’ultima, oltre ad essere l’unica ipotesi di nullità a rientrare nell’ambito della giurisdizione esclusiva, e non generale di legittimità, del giudice amministrativo in virtù dell’art. 133 comma 1 n. 5 c.p.a. (singolarità convincente, per gli specialisti del settore, dal momento che, di fronte ad una res iudicata, non sussiste più alcuna utilità a determinare assetti di interesse differenti) diserta altresì la regola decadenziale semestrale innanzi commentata. Per essa trovano, invece, applicazione le disposizioni in materia di giudizio di ottemperanza di cui all’art. 114 comma 4 lett. b) del codice del processo amministrativo, cui rinvia l’ultima parte dell’art. 31 cit., dalle quali deriva l’assoggettamento della relativa azione al termine prescrizionale decennale di cui all’art. 114 comma 1 dello stesso codice.

Dibattuta è la possibilità di far valere tale species di nullità anche al di fuori del recinto dell’ottemperanza. L’opinione prevalente è di segno negativo: tale vizio, si sostiene, è connotato da caratteristiche eccentriche rispetto al modello generale e ciò comprova la sua soggezione ai poteri del giudice dell’ottemperanza e, in definitiva, della giurisdizione di merito[9]. Ciò spiegherebbe, peraltro, il collocamento di tale specifica disciplina all’interno del Titolo I del Libro IV del c.p.a., invece che nel corpus dell’art. 30. Altri, in cambio, ritengono che questa nullità configuri, più semplicemente, un caso particolare di atto adottato in difetto di attribuzione, di talché non sembra possibile escluderne il rilievo generale.

Quanto al regime dell’autotutela, per ultimo, la dottrina più recente suffraga l’opinione secondo la quale la Pubblica Amministrazione può procedere al ritiro d’ufficio dell’atto nullo entro il termine ragionevole imposto per legge. Diversamente opinando si finirebbe per smentire i principi della continuità di azione e di permanenza della potestà pubblica, obbligando la P.A. a dare esecuzione ad un provvedimento che riconosce essa stessa inefficace e non mettendola nelle condizioni di ritirarlo dal circuito giuridico o, quantomeno, di sostituirlo con un altro valido. Ciò sino al paradosso di avallare l'assunto dell'obbligo per l’Amministrazione stessa di adire il giudice amministrativo per la rimozione dell’atto nullo[10]. Quest'ultimo godrebbe, in definitiva, di una resistenza e solidità addirittura maggiore rispetto a quello annullabile, il ché appare insensato oltre che antitetico rispetto al principio di economicità di cui agli artt. 97 comma 1 Cost. ed 1 della l. 241/90 e nocivo per l’affidamento dei terzi.


[1] Paragrafo 43, Verwvfg, n. 3: << ein nichtiger Verwaltungsakt ist unwirksam >>.

[2] F. Caringella, Compendio di diritto amministrativo, IX ed., Dike Giuridica Editrice 2017, pp. 461 ss..

[3] Così: Cons. di Stato, Sez. V, nn. 891/2006 e 1498/2010.

[4] F. Caringella, Compendio di diritto amministrativo, IX ed., Dike Giuridica Editrice 2017, pp. 834 ss..

[5] Principio confermato con estremo nitore semantico dalle due sentenze della Corte Cost. nn. 204/2004 e 191/2006.

[6] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, V ed., Giappichelli Editore 2010, p. 494.

[7] B. Sassani, Riflessioni sull’azione di nullità nel codice del processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2011, pagg. 269-283.

[8] M.C. Cavallaro, Gli elementi essenziali del provvedimento amministrativo. Il problema della nullità, Giappichelli Editore 2012, pp. 242 ss..

[9] B. Sassani, Riflessioni sull’azione di nullità, in Dir. Proc. Amm., 2011, pag. 279; M. Ramajoli, Legittimazione ad agire e rilevabilità d’ufficio della nullità, in Dir. Proc. Amm., 20017, pag. 999.

[10] Così: Cons. di Stato, Sez. IV, nn. 5799/2011 e 1957/2012.