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Pubbl. Mer, 30 Gen 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Non c´è diffamazione se l´offesa non è rivolta a un magistrato ma alla categoria in generale

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Federica Prato
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Napoli Federico II


Non si può parlare di diffamazione nei casi in cui vengono pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria - anche limitata - se le persone a cui le frasi si riferiscono non sono ben individuabili.


Sommario: 1. Reato di diffamazione, nello specifico la diffamazione a mezzo stampa - 2. L’esercizio del diritto di cronaca, di critica e di satira e le responsabilità in capo al direttore della testata – 2.1 La cronaca giudiziaria - 3. Un caso di specie e la posizione della Cassazione penale.

1. Reato di diffamazione, nello specifico la diffamazione a mezzo stampa

Nell’ambito dei delitti contro la persona, l’art. 595 del codice penale[1] disciplina il reato di diffamazione, indicando il sistema sanzionatorio applicabile e garantendo così la tutela della reputazione e dell’onore della persona.

Il bene giuridico tutelato con questa disposizione va oltre al semplice concetto di onore o reputazione, andando a prevenire anche gli eventuali danni alla sfera psichica del soggetto diffamato, considerando le possibili ripercussioni sulla vita quotidiana.

Il reato – a forma libera - si realizza tramite qualsiasi mezzo idoneo ad arrecare un’offesa all’altrui reputazione, comunicandolo a più persone, in assenza, però del soggetto passivo, ovvero la persona offesa avrà percezione dell’addebito diffamatorio indirettamente, senza avere la possibilità di difendersi nell’immediato, per cui una volta accertata l’esistenza del reato avrà diritto all’ottenimento di un risarcimento del danno (tale diritto al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale subito, non si estingue neanche al verificarsi dell’ipotesi di estinzione del reato o della pena).

La descritta modalità di realizzazione della fattispecie delittuosa rende maggiormente offensivo il reato di diffamazione rispetto all’ingiuria (depenalizzata con D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7[2]), tanto da punirlo in maniera più rigorosa come, appunto, indicato nella disposizione normativa (ovvero con la reclusione fino a un anno oppure con la condanna al pagamento di una multa fino a Euro 1.032,00).

Oltre alla pena base indicata, sono previste una serie di aggravanti, nei tre casi indicati nella stessa norma del codice penale:

  1. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, in tal caso si ritiene che l’offesa sia caratterizzata da una maggiore credibilità e ciò giustifica la maggior pena infitta (prevista dall’art. 595 c. 2 c.p.);
  2. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa[3] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, in tal caso l’offesa alla reputazione risulta di maggior gravità perché gli strumenti utilizzati per compiere il reato consentono un’ampia diffusione della notizia, ragion per cui si rischia una reclusione da sei mesi a tre anni o una multa superiore a € 516 (art. 595 c.3 c.p.). Si precisa che per potersi realizzare tale fattispecie, l’analisi della portata diffamatoria dell’atricolo verrà effettuata, non solo tenend conto del dato letterale, ma anche delle modalità di esposizione dei atti, di eventuali immagini allegate e quindi tramite una valutazione complessiva[4];
  3. Infine, se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, la rilevanza della posizione sociale ricoperta dal soggetto passivo giustifica un aumento non indifferente della pena (ex art. 595 c.4 c.p.).

Dal punto di vista pratico, per la configurabilità del reato è richiesta la presenza di almeno due persone al momento dell’esternazione di affermazioni diffamatorie, ma la giurisprudenza ha chiarito che la fattispecie delittuosa si realizza anche in presenza di una sola persona, purché questa lo comunichi a sua volta ad altre persone (nel senso che la presenza di due persone non deve per forza essere contestuale, ma  deve generare una continuità del fatto), affinché l’addebito diffamatorio giunga alla persona offesa (secondo coloro che qualificano tale reato come un reato di evento, è in questo momento che il reato può ritenersi consumato).

Si precisa, inoltre, che non per forza deve trattarsi di offese dirette esternate tramite espressioni chiare e precise, potendo realizzare la fattispecie delittuosa anche allusioni, espressioni dubitative o mere insinuazioni[5] purché siano mirate ad una determinata persona; infatti, il soggetto passivo deve essere comunque identificato o identificabile con certezza, nel senso che il reato non si realizza qualora l’offesa non sia riconducibile ad una persona determinata. Nello specifico, non è richiesto che nell’ambito delle affermazioni diffamatorie sia per forza nominato il soggetto la ci reputazione viene offesa, ma lo stesso deve essere identificato grazie a riferimenti o a circostanze note, che rendono inequivocabile la sua identità (ad esempio, indicando l’attività lavorativa che svolge, un luogo frequentato, una caratteristica che lo contraddistingue, ecc.)[6]

Per quanto riguarda il soggetto attivo, invece, è richiesto che egli sia mosso da mero dolo generico e quindi che le sue affermazioni siano potenzialmente idonee ad offendere l’onore altrui e che, consapevolmente, comunichi tali contenuti diffamatori a terze persone; non rilevando invece, l’eventuale intenzione di offendere.

Una particolare forma attraverso la quale può realizzarsi la fattispecie delittuosa in esame, è quella a mezzo stampa, della quale troviamo disciplina in svariate disposizioni normative (artt. 57[7], 57 bis[8], 58[9], 58 bis[10], 595, 596 bis[11] c.p.); in tale fattispecie, il mezzo utilizzato non va a costituire un elemento strutturale del reato, ma solo un’aggravante.

In via generale, nel caso specifico della diffamazione a mezzo stampa, la responsabilità penale sorge non solo in capo al giornalista autore dell’articolo diffamatorio, ma anche in capo al direttore o al vice-direttore in caso di stampa periodica e in capo all’editore o allo stampatore in caso di stampa non periodica – ex artt. 57, 57 bis e 58 c.p. – in base alla responsabilità oggettiva derivante dal loro obbligo al controllo dei contenuti prima della pubblicazione.

Dal punto di vista procedurale, la tutela contro questa tipologia di diffamazione aggravata può sempre essere azionata tramite querela di parte (in caso di morte del soggetto diffamato, saranno soggetti passivi i prossimi congiunti) e il foro competente risulta quello del luogo dove la rivista è stata stampata e non quello del luogo di residenza o domicilio del soggetto offeso dal reato[12].

2. L’esercizio del diritto di cronaca, di ciritica e di satira e le responsabilità in capo al direttore della testata

Come accennato nel paragrafo precedente, la fattispecie della diffamazione a mezzo stampa, in qualità di forma aggravata della diffamazione semplice, presenta una serie di peculiarità[13] e tra queste l’esistenza di casi in cui la condotta diffamatoria risulta scriminata a seguito di un bilanciamento effettuato con alcuni diritti come quello di cronaca, di satira e di critica purché la condotta risulti in linea con i tre parametri della verità, continenza e permanenza; lo stesso art. 51 c.p. afferma che “La pubblicazione di uno scritto diffamatorio non è punibile quando sia giustificata dall’esercizio di un diritto”.

La disposizione generica merita degli approfondimenti specifici per il caso in esame, infatti, per quanto riguarda l’esercizio del diritto di cronaca – con il quale non ci si limita alla diffusione di una notizia, essendo la stessa oggetto di elaborazione e di commento da parte del giornalista – potrà essere utilizzato come esimente solo nei casi in cui il contenuto della notizia diffusa sia completo, veritiero, reso noto in maniera corretta e, soprattutto, risulti- oggettivamente - di pubblico interesse[14] (in merito all’ultima caratteristica enunciata, si sottolinea che comunque il diritto di cronaca non può giustificare oltraggi alla reputazione e al diritto alla riservatezza). Vi è però un’eccezione dell’eccezione – ovvero opera ancora l’esimente del diritto di cronaca - nel caso in cui la notizia risulti falsa, ma il giornalista provi che la sua condotta non rientri in nessuna ipotesi di colpa non scusabile, avendo egli appurato l’attendibilità e l’ufficialità[15] della fonte della notizia alla quale si era, in buona fede, affidato[16].

Diverso è il discorso per il diritto di satira, che come ha affermato la Suprema Corte di Cassazione[17], si contraddistingue per “natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale, ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l'ironia ed il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura. Comunque si esprima e, cioè, in forma scritta, orale, figurata, la satira costituisce una critica corrosiva e spesso impietosa, basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso”.

Tali peculiarità distinguono nettamente la satira dalla cronaca, pertanto “incompatibile con il parametro della verità, la satira è, però, soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni adoperate rispetto allo scopo di denuncia sociale perseguito (…) il linguaggio è essenzialmente simbolico e (…) svincolato da forme convenzionali, per cui è inapplicabile il metro della correttezza dell'espressione”.

In questo caso, sarà considerabile esimente purché non offenda in modo eccessivo la reputazione del soggetto preso di mira, suscitando disprezzo verso la sua immagine pubblica (ad esempio attribuendogli condotte immorali o illegali di particolare rilievo)[18]

La terza ipotesi da analizzare è quella dell’esercizio del diritto di critica che richiede comunque un bilanciamento tra la libertà di esprimere il proprio pensiero e la tutela della reputazione altrui, in quanto al contrario del diritto di cronaca, la critica trova il proprio limite nell’interesse pubblico (nel senso che la critica ha ad oggetto condotte o persone che richiamano l’attenzione pubblica) ad essa attribuibile.

Si evidenzia che il confine tra il diritto di critica – che consiste in un opinione e in quanto tale, soggettiva - e la diffamazione può risultare molto sottile e pertanto una serie di elementi consentono di riconoscere i casi in cui l’esercizio di tale diritto funge da esimente. In primis, non si potrà parlare di diritto di critica quanto l’opinione espressa travalica i limiti della libertà di pensiero tramite offese e aggressioni alla reputazione altrui; in secondo luogo – come anzidetto – i fatti dovranno avere rilievo per l’opinione pubblica e dovranno essere esposti in maniera chiara e corretta – verificandone appunto la veridicità – rispettando il principio della continenza[19].

Un caso particolare è quello della pubblicazione di un’intervista, dove il giornalista ha il compito di porsi come terzo in relazione alle affermazioni dell’intervistato e il fatto oggettivo, infatti, il giornalista non ha alcun obbligo di riportare precisamente le dichiarazioni dell’intervistato, soprattutto nei casi in cui possano risultare offensive o palesemente false (in questo secondo caso, non opera neanche l’esimente derivante dal particolare livello di attendibilità dell’intervistato, quando si tratta di una persona nota nel mondo politico, culturale, sociale, ecc.) per la reputazione altrui.

Per quanto riguarda la responsabilità, si distingue il caso della stampa periodica da quella non periodica e si richiamano gli artt. 57 e 57 bis c.p.; nel primo caso, la disposizione normativa si riferisce ad un reato omissivo improprio commesso dal direttore o dal vicedirettore (secondo un orientamento minoritario anche dal direttore di fatto) di un'azienda giornalistica, essendo questi soggetti ai vertici della testata giornalistica, considerabili come figure di garanzia, gravate da un obbligo di controllo sul contenuto degli articoli in pubblicazione, la cui omissione genera una responsabilità colposa. La seconda disposizione normativa, riferendosi alla stampa non periodica, tratta della responsabilità in capo all’editore o allo stampatore, anche in questo caso di natura colposa. Per quanto riguarda le testate telematiche, non potendo approfondire l’argomenti il tale sede, si richiama una recente rivoluzionaria statuizione della Corte di Cassazione, in base alla quale, anche alle testate telematiche, si estendono le fattispecie di reato previste per le testate cartacee e quindi anche il direttore della testata online potrà essere chiamato a rispondere del reato ex art. 57 c.p., oltre ad estendersi anche le garanzie costituzionali in tema di sequestro[20].

2.1 La cronaca giudiziaria

Una particolare forma di esercizio del diritto di cronaca è la cronaca giudiziaria che dovrebbe limitarsi ad esporre in maniera corretta ed oggettiva quanto previsto da un provvedimento giudiziario e l’iter – comprensivo di indagini e quant’altro - che ha portato a quella decisione.

Una distorsione di tale diritto, che non lo rende più utilizzabile come esimente, è la ricostruzione ‘fantasiosa’ e inquisitoria di una vicenda giudiziaria che tende ad affiancarsi alle indagini stesse, risultando così offensiva e lesiva dell’onore di una persona (si ricorda che, in base al principio di presunzione di innocenza, un soggetto non può dirsi colpevole fino a condanna definitiva), soprattutto quando si tratta di soggetto investito di pubbliche funzioni.    

In sostanza, la trattazione di notizie delle quali ne è stata appurata la veridicità non può costituire reato purché da tale trattazione non fuoriescano significati diversi che generano un distacco dalla realtà dei fatti, qualora ciò determini la creazione di una notizia nuova non vera si realizzerà una fattispecie diffamatoria[21].

Infine, tra le tante ipotesi verificabili, può accadere che le varie informazioni pervenute al giornalista siano tra loro discordanti e a questo punto egli potrà formulare una propria ricostruzione dei fatti sempre nel rispetto dei canoni del diritto di cronaca summenzionati e precisando che si tratta di una mera ipotesi di ricostruzione dei fatti.

3. Un caso di specie e la posizione della Cassazione penale

Recentemente, la Cassazione penale si è pronunciata, consolidando l’orientamento[22] sul tema della determinabilità del soggetto preso di mira con affermazioni diffamatorie, nello specifico, ha statuito che non potrà dirsi realizzata la fattispecie di reato in esame qualora le persone - o il gruppo di persone, in quanto nel caso di specie ci si riferiva a presunte accuse rivolte ad alcuni magistrati tramite un articolo giornalistico -  a cui le frasi diffamatorie si riferiscono non sono ben individuate o individuabili[23].

Nel caso di specie, la Suprema Corte si sofferma sul fenomeno della diffamazione diretto ad una determinata categoria di persone e sorto tramite notizie diffuse – con un articolo pubblicato il 5 febbraio 2010 - da una nota testata giornalistica, relative ad un presunto complotto ai danni di S. B. (noto imprenditore e politico) ad opera di politici, avvocati, giornalisti e magistrati. La questione si sviluppa proprio nei confronti dell’ultima categoria citata e a danno del dott. G.S. all’epoca dei fatti Pubblico Ministero di Bari.

La questione, ebbe un elevato impatto mediatico e in primo grado e in appello si concluse con la condanna dell’autrice dell’articolo e del direttore della testata[24] sulla scorta degli artt. 57 e 595 c.p.

In prosieguo, venne presentato ricorso in Cassazione dagli imputati e dalla persona offesa, ritenendo errata e viziata da manifesta illogicità la sentenza del giudice di secondo grado nella parte in cui afferma la non configurabilità di reati ex artt. 57 e 595 c.p. nei casi in cui negli scritti diffamatori non fosse ben individuabile il soggetto offeso. Per la difesa del Magistrato, ovviamente risultava palese (quindi facilmente individuabile) che la persona presa di mira e accusata di complotto fosse proprio il dott. G.S. perché anche se non veniva fatto il suo nome, egli era l’unico titolare delle indagini sul caso in questione e in tal modo si minava alle sue funzioni ed alla sua indipendenza ed autonomia.

Il direttore della testata giornalistica, invece, adduceva che “si nega che l'articolo giornalistico, a differenza di quanto affermato in sentenza, abbia un contenuto diffamatorio, nella misura in cui non dà per certa l'esistenza di un complotto con protagonista il sostituto procuratore Scelsi, ma riferisce di una questione oramai di dominio pubblico e diffusa prima da altre fonti giornalistiche (i giornali "Panorama" e "Il Fatto Quotidiano", ad esempio, ma anche "Libero") e ne racconta in termini di possibilità alla luce di alcune notizie che provenivano da ambienti giudiziari su un'inchiesta in tal senso”. 

Infatti per la difesa non era considerabile come reato il riportare ai propri lettori notizie già di dominio pubblico a seguito della diffusione ad opera di altre testate.

Ciononostante, i giudici di legittimità ritengono che il ragionamento operato dalla Corte d’Appello – come anche dal giudice di primo grado - risulta corretto e conforme all’orientamento consolidato della Suprema Corte[25] e quindi nel caso in esame, non si poteva parlare di diffamazione a mezzo stampa in quanto il richiamo al titolare delle indagini risultava “generico e privo di indicazione nominativa, così come non è immediatamente riconoscibile né individuabile la persona offesa quale destinatario delle notizie false e diffamatorie”.

Note e riferimenti bibliografici
[1] “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”
[2] Art. 1, comma 1: “Sono abrogati i seguenti articoli del codice penale: a) 485; b) 486; c) 594; d) 627; e) 647.”
[3] Per una trattazione approfondita, v. Cardone V., Verri F., Diffamazione a mezzo stampa e risarcimento del danno, Giuffrè, 2007
[4] Cass. Sez. I, n. 2401/1995; Cass. Sez. V, n. 5738/2000.
[5]  Cfr: Cass. Sez. VI, n. 144484/1979; Cass. Sez. V, n. 151080/1981; Cass. Sez. V, n. 187192/1991.
[6]  Cass. Sez. V, n. 2135/2000; Cass. Sez. V, n. 1837/1993
[7] “Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo.”
[8] “Nel caso di stampa non periodica, le disposizioni di cui al precedente articolo si applicano all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile.”
[9] “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se non sono state osservate le prescrizioni di legge sulla pubblicazione e diffusione della stampa periodica e non periodica.”
[10] “1. Se il reato commesso col mezzo della stampa è punibile a querela, istanza, o richiesta, anche per la punibilità dei reati preveduti dai tre articoli precedenti è necessaria querela, istanza o richiesta.
2. La querela, la istanza o la richiesta presentata contro il direttore o vice-direttore responsabile, l’editore o lo stampatore, ha effetto anche nei confronti dell’autore della pubblicazione per il reato da questo commesso.
3. Non si può procedere per i reati preveduti nei tre articoli precedenti se è necessaria una autorizzazione di procedimento per il reato commesso dall’autore della pubblicazione, fino a quando l’autorizzazione non è concessa. Questa disposizione non si applica se l’autorizzazione è stabilita per le qualità o condizioni personali dell’autore della pubblicazione.”
[11] “Se il delitto di diffamazione è commesso col mezzo della stampa le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche al direttore o vice-direttore responsabile, all’editore e allo stampatore, per i reati preveduti negli articoli 57, 57-bis e 58.”
[12] Cass. Sez. I, n. 185066/1990
[13] V. Chiarolla M., La diffamazione a mezzo stampa: analisi critica della normativa tra diritto di cronaca, diffamazione, privacy, Experta, 2004
[14] Cass. Sez. V, n. 1473/1998
[15] Cass. Sez. V, n. 7967 – 211539/1998, Cass. Civ. Sez. III, n. 14334/2001
[16] Cfr: Cass. Sez. V, n. 185523/1990; Cass. Sez. V, n. 1952/2000
[17] Cass., Sez. III civ., n. 5499/2014
[18] Cass. Sez. V, n. 13563/1998; Cass. Sez. V, n. 2128/2000
[19] Si può parlare di due tipologie di continenza, una formale e l’altra sostanziale. Nel primo caso è richiesto che la narrazione dei fatti sia contenuta in uno spazio strettamente necessario all’esposizione; la seconda accezione di continenza, invece, richiede che i fatti corrispondano a vero, seppur rielaborati e quindi soggettivizzati, non possono essere fatti inventati.
[20] Cass., sez. V, n. 13398/2017
[21] Cass. Sez. V, n. 3236/1995.
[22] È infatti consolidata “(…) giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di diffamazione a mezzo stampa, solo qualora l'espressione lesiva dell'altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, a persone individuabili e individuate per la loro attività, esse possono ragionevolmente sentirsi destinatarie di detta espressione, con conseguente configurabilità del reato di cui all'art. 595 cod. pen. (Sez. 5, n. 2784 del 21/10/2014, Zullo, Rv. 262681). Viceversa, poiché, appunto, il reato di diffamazione è costituito dall'offesa alla reputazione di una persona determinata, esso non può essere configurato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive, anche nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria benché limitata (nel caso di specie, i "magistrati" e i "pm di Bari"), se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuate nè individuabili (cfr., tra le molte, Sez. 5, n. 51096 del 19/9/2014, Monacò, Rv. 261422; Sez. 5, n. 24065 del 23/2/2016, Toscani, Rv. 266861; Sez. 5, n. 3809 del 21/11/2017, dep. 2018, Ranieri, Rv. 272320).” (Cass. pen., n. 45813/2018)
[23] Cass. pen., n. 45813/2018
[24] Per dovere di completezza, si riposta anche che in appello vennero assolti Giammarco Chiocci, Cristiano Gatti e Stefano Zurlo, mentre Vittorio Feltri venne assolto solo da accuse collegate ad altri articoli ritenuti diffamatori.
[25] “Il reato di diffamazione è costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili” (Cass. n. 51096/2014).
V. anche: Cass. 2784/2014; Cass. 24068/2016; Cass.3809/2017.