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Pubbl. Dom, 13 Gen 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Inammissibile l´appello che richiama genericamente le difese svolte in primo grado

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Cristian Totarofila


La Cassazione è tornata ad esprimersi sull´annosa questione della specificità dei motivi d’appello, requisito richiesto a pena di inammissibilità dall´articolo 342 c.p.c. Secondo la Corte, l’atto di appello che richiama genericamente le difese svolte in primo grado non appare idoneo a superare il “filtro” prima menzionato.


Sommario: 1. Premessa; 2. La Controversia giuridica; 3. Il problema della specificità dei motivi d’appello; 4. L’art. 342 c.p.c. e la svolta pretoria del 2017; 5. La soluzione offerta dalla Cassazione; 6. Conclusioni.

1. Premessa

Nel sistema del diritto processuale civile, l’appello integra il più noto e rilevante strumento di impugnazione ordinaria teso a far riesaminare la controversia oggetto della pronuncia del giudice di prime cure , seppur nei limiti dei motivi di doglianza eccepiti dall’appellante.

Le caratteristiche fondamentali che segnano il giudizio d’appello sono precipuamente tre[1]: si configura come un’impugnazione a critica libera, stante la possibilità per l’appellante di eccepire un qualsiasi vizio della sentenza oggetto del gravame; ha natura sostitutoria, poiché la pronuncia emessa dall’organo giudicante in appello non mira semplicemente ad eliminare la decisione del giudice delle prime cure, ma è tesa a riesaminare il merito della controversia; ha un effetto devolutivo, cioè comporta che il giudice di secondo grado si pronunci nuovamente sulle domande formulate in primo grado.

È appropriato precisare che il citato effetto devolutivo dell’appello dev’essere valutato prendendo in considerazione il combinato disposto degli articoli 342 e 346 c.p.c., il quale limita fortemente l’automaticità del suo riverberarsi. Se è vero, infatti, che il giudice d’appello è chiamato a pronunciarsi sulla stessa lite giuridica esaminata dal giudice di primo grado, è anche vero che le parti devono sia riproporre espressamente le domande e le eccezioni non accolte in quella sede, sia addurre specificatamente i motivi dell’impugnazione.

È evidente che il giudizio di secondo grado propende verso il modello della revisio prioris instantiae[2], secondo il quale esso altro non è che un rimedio atto ad esaminare ed a controllare l’operato del primo giudice, escludendo così ogni nuova allegazione o richiesta probatoria.

Una delle problematiche che affliggono tale fase del processo civile consiste nella corretta identificazione dei requisiti contenutistici minimi dell’atto di appello, i quali risultano intimamente connessi con la summenzionata natura giuridica di questo giudizio.

Questa brevissima premessa è servita per chiarire la necessità di analizzare il concreto atteggiarsi di una delle condizioni di ammissibilità di questo gravame, cioè la specificità dei motivi in esso contenuti.

Questo “vincolo” sconta una dubbia ed oscura formulazione normativa, la quale ha reso necessario l’intervento nomofilattico della Cassazione, inteso ad esplicarne la portata applicativa.

Il presente elaborato, dunque, si è posto l’obiettivo di disaminare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine all’interpretazione dell’articolo 342 c.p.c., ponendo una specifica attenzione alla questione che verte sulla possibilità di motivare l’appello sulla scorta di quanto eccepito in primo grado.

La questione, affrontata e risolta dalla Suprema Corte con la sentenza del 15 ottobre 2018 n. 25670, riveste un ruolo preponderante nell’economia processuale del giudizio d’appello, soventemente “bloccato” sul nascere dalle strette maglie del filtro di ammissibilità, così come positivizzato nel citato articolo 342 c.p.c.

2. La controversia giuridica

La controversia giuridica posta alla base della pronuncia in commento prende le mosse dalla richiesta della Società Alfa di far condannare Tizio al rilascio di un terreno datogli in concessione. A sostegno della domanda l’attore adduceva l’ illegittimità della detenzione del bene de quo attesa la sussistente revoca della concessione.

Il giudice di prime cure, ritenendo fondata l’istanza prima esposta, dichiarava abusiva l’occupazione del suolo, ordinandone la restituzione e condannando il convenuto al pagamento della relativa indennità di occupazione per il tempo intercorso a partire dalla data della revoca della concessione.

Il Tribunale, inoltre, rigettava ogni altra domanda eccepita da Tizio in via riconvenzionale, in particolare quelle attinenti tanto alla dichiarazione  dell’intervenuta usucapione o dell’accessione invertita quanto al riconoscimento del diritto di superficie.

Avverso la suddetta sentenza, Tizio proponeva appello articolato in sette motivi e dichiarato in parte inammissibile ed in parte infondato dal giudice di secondo grado.

Nello specifico, l’inammissibilità veniva dichiarata in virtù di un asserito difetto di specificità nei motivi posti a fondamento dell’atto di appello, così come prescritto tassativamente dall’articolo 342 c.p.c.

Secondo l'iter logico-giuridico seguito dal giudice di appello, invero, i motivi addotti dall’appellante soffrivano di una carenza di specificità, in quanto consistenti in un mero richiamo alle difese svolte in primo grado.

Alla luce di quest’ulteriore battuta d’arresto, Tizio proponeva ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, strutturando la propria linea difensiva in tre motivi.  

Coerentemente con la finalità dell’analisi qui condotta, appare d’uopo soffermarsi solo ed esclusivamente sul primo motivo di ricorso, senza ombra di dubbio dirimente rispetto alla questione sollevata in premessa.

Con esso il ricorrente eccepiva la violazione e falsa applicazione delle norme relative alla forma dell'atto di appello e al principio di specificità dei motivi ex articolo 342 c.p.c.

Tizio, infatti, contrariamente a quanto affermato dai giudici di secondo grado, non aveva semplicemente riproposto le doglianze eccepite dinnanzi al Tribunale, ma aveva chiaramente e precisamente sollevato dei validi motivi di appello, richiamandosi alle difese svolte in quella sede solo per evidenziare e spiegare gli specifici profili non esaminati dall’organo giudicante in primo grado, censurandone così l’operato.

Il ricorrente, inoltre, sottolineava una questione attinente all’applicazione della legge processuale nel tempo: egli, infatti, contestava l’erronea valutazione della Corte d’appello in ordine alla disciplina applicabile alla fattispecie, consistente in quella in vigore all’epoca in cui l’appello era stato proposto, cioè l’articolo 342 c.p.c. così come formulato prima della modifica intervenuta ad opera dell'articolo 54 D.L. 83/2012, convertito con modifiche nella L. 134/2012. Com’è noto, solo ed esclusivamente grazie all’intervento del legislatore si pose fine alla questione attinente alla “sanzione” comminabile in caso di una mancanza in ordine alla specificità dei motivi, non essendo prima positivizzato alcun vaglio di ammissibilità circa codesto vizio.

3. Il problema della specificità dei motivi d’appello

La vexata questio che caratterizza e contraddistingue la controversia sottoposta al vaglio della Suprema Corte consiste nella definizione e nella determinazione del concetto di specificità dei motivi.

Questo particolare problema di natura ermeneutica attanaglia i cultori del diritto processuale civile, rendendo quanto mai complessa e arzigogolata la redazione di un atto di appello a prova di ammissibilità.

Per attenuare e lenire la complessità di questa difficoltà pratica, la Cassazione ha espresso il proprio convincimento in ordine alla corretta interpretazione da assegnare al requisito della specificità dei motivi, statuendone definitivamente la portata applicativa.

Appare d’uopo, dunque, ripercorrere l’orientamento e le soluzioni che la giurisprudenza di legittimità ha offerto per ripianare il contrasto sorto su questo nodo interpretativo, senza dimenticare lo spartiacque rappresentato dalla citata riforma del 2012[3].

Questa ricognizione costituirà la base per comprendere e chiarire il dictum enunciato nella pronuncia in commento, ovviamente connesso coi precedenti in materia.

4. L’art. 342 c.p.c. e la svolta pretoria del 2017

Come già accennato, Il giudizio di appello si configura come un mezzo di impugnazione a critica libera ma limitato e vincolato dalle doglianze effettivamente eccepite dall’appellante, le quali ne circoscrivono l’effetto devolutivo. Detto diversamente, la cognizione del giudice di secondo grado non può estendersi fino a ricomprendere quanto è stato definito e deciso nel precedente giudizio qualora manchi una specifica censura da parte dell’appellante[4].

Quanto non appena segnalato è indispensabile per iniziare l’approccio ermeneutico nei confronti dell’articolo 342 c.p.c., il quale dev’essere rettamente inteso perché si possa addivenire alla tanto agognata soluzione.

Prima dell’intervento del legislatore, la citata norma richiedeva che l’atto di appello rispettasse una certa specificità in ordine ai motivi sui quali si reggeva l’impugnazione, senza precisare nulla né in merito alla concreta consistenza di questa richiesta, né circa le conseguenze di una sua violazione. La giurisprudenza di legittimità giunse in soccorso agli interpreti, enunciando che “nel giudizio di appello - che non è un iudicium novum, ma è una revisio prioris instantiae - la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi. Tale specificità dei motivi esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico - giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui, alla parte volitiva dell'appello, deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Pertanto, non si rivela sufficiente il fatto che l'atto d'appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che se da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale e assoluta, dall'altro lato esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante volte ad incrinare il fondamento logico -  giuridico delle prime[5].

Se è vero che l’applicazione della norma nella sua formulazione anteriore alla citata riforma si poggiava quasi integralmente sulle indicazioni fornite dalla giurisprudenza, è altrettanto vero che dopo l’avvento della citata modificazione dell’articolo 342 c.p.c. la situazione non mutò radicalmente[6].

L’intenzione del legislatore di porre fine alla problematica in esame veniva frustrata da un’infelice formulazione letterale della nuova disposizione, la quale ha sì il pregio di chiarire in maniera definitiva la “sanzione” applicabile ad un atto di appello non specificatamente motivato, ma ha anche il grave difetto di non precisare adeguatamente come debbano essere formulati i motivi d’impugnazione, richiedendo semplicisticamente l'indicazione sia delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, sia delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Il Supremo Consesso di legittimità, chiamato ad esprimersi nuovamente sulla questione, ha recentemente statuito un importante principio di diritto in materia, ponendo un freno alle varie interpretazioni fornite dai giudici di merito[7] circa la portata dell’articolo 342 c.p.c.

Secondo la Corte[8], l’art. 342, va inteso nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di "revisio prioris instantiae" del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata. 

Da questo principio sono ricavabili alcuni corollari degni di attenzione.

In primo luogo, ogni atto di appello deve necessariamente contenere sia una parte volitiva, consistente nell’individuazione dell’oggetto e dell’ampiezza della cognizione del giudice di appello, sia una parte argomentativa, consistente nell’esposizione delle ragioni in base alle quali si ritiene erronea la decisione enunciata in primo grado[9].

In secondo luogo, all’appellante non è richiesta la redazione di un progetto alternativo di sentenza[10], poiché egli deve solo ed esclusivamente criticare quanto statuito dal giudice delle prime cure, evidenziando i profili di problematicità della pronuncia impugnata.

Infine, nella parte argomentativa dell’appello, deve essere evidente una chiara e precisa confutazione delle tesi giuridiche addotte dal giudice del grado inferiore. In sostanza, l’appellante deve necessariamente presentare l’esistenza di un percorso logico e giuridico alternativo rispetto a quello seguito precedentemente, dimostrando così che la soluzione prospettata in primo grado non era l’unica possibile.

6. La soluzione offerta dalla Cassazione

Con la sentenza in esame la Suprema Corte, alla luce dei principi di diritto di seguito riportati, ha accolto il ricorso rinviando ad altra sezione della Corte di Appello anche per le spese.  

In prima battuta, la Cassazione ha precisato che la disciplina applicabile alla fattispecie è quella vigente prima della celeberrima riforma del 2012, la quale non indica in alcun modo né cosa s’intenda per “motivi specifici d’impugnazione” né quale sia la conseguenza pratica di una sua violazione.

Successivamente, i supremi giudici hanno rimembrato l’orientamento interpretativo prevalente e ancora oggi valido, nonostante il mutamento del tenore letterale della norma.

Secondo la pressoché unanimità della giurisprudenza, infatti, nel giudizio d’appello la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi.

Questa condizione risulta soddisfatta solo se l’appellante censura le argomentazioni svolte nella sentenza oggetto del gravame: egli, dunque, deve cercare di incrinare il fondamento delle statuizioni in essa contenute, integrando la parte volitiva dell’appello con quella argomentativa, necessaria a confutare la tesi sulla quale si è fondata la pronuncia censurata.

Alla luce delle considerazioni finora esposte, appare evidente che una mera riproposizione delle difese svolte in primo grado non possa assurgere a configurare un motivo di appello specifico.

Se è vero che la parte argomentativa dell’appello deve rappresentare una critica alla decisione impugnata, sarà altrettanto scontato che una semplice e “sorda” ripetizione delle tesi mosse durante il precedente giudizio non potrà mai rispettare la condizione della specificità dei motivi, i quali devono indicare e spiegare l’erroneità delle ragioni sulle quali il primo giudice ha basato il proprio convincimento.

Questa considerazione, senz’altro corretta, non dev’essere generalizzata ed applicata a tutti i casi in cui l’appellante abbia effettivamente riproposto le stesse argomentazioni eccepite in primo grado.

Esiste, infatti, una linea di confine, uno spazio di manovra all’interno del quale appare possibile questa riesposizione, la quale non porta obbligatoriamente all’inammissibilità del motivo così formulato.

La Cassazione ha deliberato l’ammissibilità dell’appello nell’ipotesi in cui la riproposizione de qua individui la statuizione censurata e spieghi gli specifici profili che non sono stati esaminati e vagliati dal giudice di primo grado.

In altri termini, se l’appellante rinvia agli atti del primo giudizio solo "per completezza", secondo un richiamo più stilistico che sostanziale, non esaurendo così la doglianza, la quale appare precisa e circostanziata, il giudice d’appello non può dichiarare l’inammissibilità del motivo, il quale rispecchia i requisiti richiesti dall’articolo 342 c.p.c. tanto nella sua passata formulazione quanto nel suo attuale tenore letterale. 

La specificità dei motivi, inoltre, dev’essere parametrata in funzione della analiticità e della profondità delle argomentazioni effettuate dal primo giudice[11], essendo quindi un concetto elastico[12], non suscettibile di riduzione a formule sacramentali predeterminate[13].

Il discrimine che permette all’atto di appello di superare incolume la scure rappresentata dal filtro di ammissibilità consiste, dunque, nella adeguata compilazione sia della parte volitiva, sia della parte argomentativa, la quale deve essere redatta con un grado di specificità sufficiente a contestare la motivazione della sentenza impugnata[14]. Il richiamo alle difese precedentemente svolte non costituisce aprioristicamente un vizio ex articolo 342 c.p.c., essendo imprescindibile una valutazione volta a determinare se la critica in esso contenuta sia stata mossa in maniera generica oppure in modo particolareggiato e dettagliato.

7. Conclusioni

La sentenza in analisi integra la naturale continuazione del percorso tracciato dapprima nel 2000 e poi nel 2017 dalle Sezioni Unite, le quali si sono profuse nell’impegno di interpretare correttamente ed in maniera sistematicamente valida l’articolo 342 c.p.c.

Questo orientamento, infatti, si pone come un prolungamento ed un chiarimento di quanto precedentemente espresso dalla Cassazione in tema di specificità dei motivi.

Tirando le somme del lucido ragionamento compiuto dai giudici di legittimità, è possibile affermare con decisione e sicurezza che il requisito della specificità dei motivi è intimamente connesso all’effetto devolutivo dell’appello. Questa condizione, infatti, impone all’appellante di contrastare il fondamento logico e giuridico della sentenza impugnata, precisando quali siano le parti oggetto o “micro-capi” oggetto di una attenta e precisa doglianza, la quale può anche richiamare alle difese svolte in primo grado.

Ciò che permette di valutare come idoneo un motivo che rinvia alle argomentazioni già svolte in quella sede consiste, quindi, nell’effettiva esistenza di una critica alla pronuncia impugnata, la quale può solo essere avallata e ulteriormente giustificata mediante questa riproposizione, che deve essere puntale e circostanziata rispetto alle doglianze eccepite in appello.

In conclusione, il temuto filtro di ammissibilità ex articolo 342 c.p.c. può essere agilmente superato mediante la redazione di atto di appello completo sia della parte in cui si circoscrive l’oggetto e l’ampiezza della cognizione del giudice, sia della parte in cui si pone in essere una censura alla decisione impugnata, evidenziandone le debolezze logiche, le eventuali lacune argomentative e soprattutto i presunti errori di diritto, anche per il tramite di quanto esposto e non accolto in primo grado.

A sommesso parere dello scrivente, questa giurisprudenza appare utile e pregevole sia perché idonea a porre un argine alle numerose pronunce di inammissibilità spesso comminate ai danni di atti di appello perfettamente motivati, sia perché capace di spiegare ulteriormente come ed in che misura sia possibile effettuare un richiamo, in sede di appello, alle difese svolte in primo grado.

Note e riferimenti bibliografici

[1] G. Balena, “Istituzioni di diritto processuale civile”, Cacucci, Bari, 2015, vol. II, pp. 387 e ss.
[2] Per un approfondimento, A. Henke, “Tramonto del novum iudicium (a proposito de l’appello civile di Alberto Tedoldi)”, in Rivista di diritto processuale, 3, 2018, pp. 752-768.
[3] Per un’analisi della riforma in merito all’articolo 342 c.p.c., C. Napoli, “Il nuovo appello motivato nella giurisprudenza”, in www.lanuovaproceduracivile.com. 4, 2013 e G. Cascella, “Tecnica di redazione dell’appello e rispetto dei requisiti di contenuto-forma ex art. 342 c.p.c. Riflessioni a margine di un recente case law.”, in www.lanuovaproceduracivile.com, 1, 2014, il quale offre interessanti spunti di riflessione sulla redazione dell’atto di appello in ossequi alla nuova formulazione dell’articolo342 c.p.c.
[4] Vedi C. Consolo, “Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze”, Giappichelli, Torino, 2017, vol. II, P. 463 e ss.
[5] Cass. SS. UU., sent., 29 gennaio 2000, n. 16.
[6] Secondo E. Italia, “La specificità della motivazione nell’atto di appello”, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 4, 2018, pp. 468, la novella ha sostanzialmente cercato di positivizzare la misura di specificità già concretamente individuata dalla giurisprudenza di legittimità.
[7] Per un approfondimento in merito alle prime pronunce di merito sul tema, C. Napoli, “Il nuovo appello motivato nella giurisprudenza”, in www.lanuovaproceduracivile.com. 4, 2013.
[8] Cass. SS. UU. sent., 16 novembre 2017, n. 27199.
[9] In merito, vedi F. Godio, “Le Sezioni Unite confermano: l’appello “specifico” non richiede all’appellante alcuna sorta di “progetto alternativo di decisione””, in Il Corriere Giuridico, 1, 2018, pp. 77-80.
[10] A favore di questa ricostruzione, S. Caporusso, “Per un giusto liberalismo su deposito della sentenza impugnata e specificità dei motivi d’appello”, in Giurisprudenza Italiana, 10, 2017, p. 2128.
[11] Vedi L. Bianchi, “Le Sezioni Unite fanno chiarezza sulla «motivazione dell’appello» di cui all’art. 342 c.p.c.”, in Rivista di diritto processuale, 3, 2018, p. 871.
[12] In questo senso, Cass., ord., 12 luglio 2018, n. 18430, secondo la quale la ricorrenza della specificità dei motivi non può essere definita in via generale ed astratta ma va correlata con la motivazione della sentenza impugnata.
[13] Cass., ord., 11 luglio 2018, n. 18225.
[14] A. Carrato, “Alle Sezioni Unite la questione sul grado di specificità dei motivi di appello”, in Il Corriere Giuridico, 8-9, 2017, pp. 1149-1150.

BIBLIOGRAFIA

G. Balena, “Istituzioni di diritto processuale civile”, Cacucci, Bari, 2015, vol. II;

L. Bianchi, “Le Sezioni Unite fanno chiarezza sulla «motivazione dell’appello» di cui all’art. 342 c.p.c.”, in Rivista di diritto processuale, 3, 2018, pp. 864-877;

S. Caporusso, “Per un giusto liberalismo su deposito della sentenza impugnata e specificità dei motivi d’appello”, in Giurisprudenza Italiana, 10, 2017, pp. 2124-2129;

A. Carrato, “Alle Sezioni Unite la questione sul grado di specificità dei motivi di appello”, in Il Corriere Giuridico, 8-9, 2017, pp. 1137-1149;

G. Cascella, “Tecnica di redazione dell’appello e rispetto dei requisiti di contenuto-forma ex art. 342 c.p.c. Riflessioni a margine di un recente case law.”, in www.lanuovaproceduracivile.com, 1, 2014;

C. Consolo, “Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze”, Giappichelli, Torino, 2017, vol. II, P. 463 e ss.

F. Godio, “Le Sezioni Unite confermano: l’appello “specifico” non richiede all’appellante alcuna sorta di “progetto alternativo di decisione””, in Il Corriere Giuridico, 1, 2018, pp. 75-81;

A. Henke, “Tramonto del novum iudicium (a proposito de l’appello civile di Alberto Tedoldi)”, in Rivista di diritto processuale, 3, 2018, pp. 752-768;

E. Italia, “La specificità della motivazione nell’atto di appello”, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 4, 2018, pp. 467-472;

C. Napoli, “Il nuovo appello motivato nella giurisprudenza”, in www.lanuovaproceduracivile.com. 4, 2013.