Il consenso dell´imputato: un passe-partout per la diversione processuale?
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Costanza Colucci
Il legislatore interno sta configurando una serie di strumenti che mirano a sostituire la condanna detentiva, decongestionare i procedimenti ed ottenere, in fine, effetti di decarcerizzazione. Una delle strade elette per il perseguimento di tale scopo, è rappresentato dalla “giustizia penale negoziata”.
Sommario: 1. Introduzione. - 2. “Disponibilità” del processo: il consenso dell’imputato. - 3. Ipotesi negoziale per antonomasia: il “patteggiamento”. - 3.1 Altre esperienze di civil law. - 3.2 L’esperienza di common law. - 3.3 Un inevitabile raffronto. - 4. Consenso: una scelta irrevocabile? - 5. Conclusioni.
1. INTRODUZIONE
Il sistema punitivo italiano, e forse l’intero ordinamento giuridico, risultano a tutt’ora fondati su alcuni istituti che rappresentano i capisaldi intorno ai quali ruota l’intera attività legislativa. Facciamo, ovviamente, riferimento ai principi dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), al principio di legalità (art. 25, comma 2 Cost.) e, in secondo luogo, ai principi di ragionevole durata e consenso dell’imputato (rispettivamente commi 2 e 5 art. 111 Cost.).
A tali cardini si è andato ad aggiungere, con il tempo, un ulteriore elemento, causa primaria di innumerevoli riforme: la deflazione penale – esigenza nata principalmente su impulso della Corte di Giustizia.
Per questa ragione il legislatore interno ha configurato, o forse dovremmo dire sta configurando, una serie di strumenti che mirano a sostituire la condanna detentiva, decongestionare i procedimenti ed ottenere, in fine, effetti di decarcerizzazione. Una delle strade elette per il perseguimento di tale scopo, è rappresentato dalla “giustizia penale negoziata” - o negozialità nel diritto penale-.
Con essa espressione si fa riferimento ad una categoria comprendente i casi di rinuncia dello Stato a punire, ovvero di attenuazione della sanzione prevista, a fronte del manifestato consenso ad una forma alternativa di giudizio, da parte dei soggetti coinvolti nel procedimento.
La negozialità in questione è una negozialità di tipo “verticale”, tra Stato e cittadino, che si estrinseca nelle forme dell’accordo ed è cosa ben diversa dalla negozialità in senso orizzontale che si estrinseca in forme come quella della mediazione.
“Il raggiungimento di un accordo tra le parti rende possibili modalità anticipate di definizione del processo penale. Si tratta di modalità non riconducibili né all’impostazione inquisitoria […] né alla versione “pura” del modello accusatorio […].”[1] Quando si parla di giustizia penale negoziata, infatti, in particolar modo con riferimento alla sua emersione nel nostro ordinamento, non possiamo che fare riferimento ad un meccanismo basale che vuole la tendenziale sostituzione del convincimento giudiziale con l’accordo [2] o, quantomeno, con il risultato di un compromesso tra le parti[3].
Punto di partenza dell’accordo, come del compromesso, è rappresentato dal “consenso”; esso trova positivizzazione nel nostro ordinamento, con specifico riferimento al consenso prestato dall’imputato, quale eccezione al principio (rectius regola) del contraddittorio.
2. “DISPONIBILITÀ” DEL PROCESSO: IL CONSENSO DELL’IMPUTATO
Il contraddittorio, come ben sappiamo, assurge, nel contesto dell’art. 111, a principio (co2), ma anche a regola (co. 3-4); e proprio con riferimento a questa sua seconda veste, molti autori hanno parlato di “due anime” del contraddittorio, il quale è assoggettabile ad una doppia interpretazione: contraddittorio in senso oggettivo, e contraddittorio in senso soggettivo.
Orbene, con riferimento alle eccezioni alla regola del contraddittorio, viene in gioco il comma 5 dell’art. de qua, il quale pone una riserva di legge rinforzata in merito alle possibili deroghe: consenso dell’imputato; accertata impossibilità di natura oggettiva; provata condotta illecita.
Tra queste, l’eccezione rappresentata dal consenso dell’imputato ha, sicuramente, una portata molto più ampia di quella che, prima facie, sembrerebbe avere.
Una volta precisato che tale previsione fa riferimento al contraddittorio in senso oggettivo, e non già a quello in senso soggettivo (come è ovvio, essendo, quello di “difendersi provando”, un diritto disponibile e, per tanto, liberamente rinunciabile[4]), va detto che il consenso dell’imputato non si limita all’assunzione della prova nell’ambito del rito ordinario, bensì, è chiaro che la norma si riferisca ai riti deflattivi del dibattimento[5] - ed è a cioè sottesa un’esigenza di economia processuale, in un bilanciamento interno tra le esigenze, da una parte, di corretto accertamento, e dall’altra, di concentrazione di tempi e risorse impiegati nel processo-.
Il consenso prestato dall’imputato, è espressione del potere dispositivo delle parti, il quale rappresenta un concetto concentrico rispetto a quello del diritto alla prova, in quanto il primo raffigura la possibilità, affidata alle parti medesime, di attivare (o non attivare) i mezzi messi a loro disposizione dal codice – in primis i riti speciali- , mentre il secondo è la facoltà delle stesse di accusare e difendersi provando e quindi disponendo di poteri di prova sempre concessi loro dal codice. [6]
Tali poteri attribuiti alle parti, tuttavia, non rendono il processo disponibile per le stesse .[7]
Si parla, infatti, di indisponibilità del processo penale, pur nella consapevolezza che, negli ultimi anni, senza pervenire al riconoscimento di una logica dispositiva, si sono prospettate comunque varie possibilità per un’azione consensuale o concordata delle parti, che fosse idonea ad influire su diversi aspetti della vicenda processuale. [8]
Esulano, per ovvi motivi, da queste possibilità, le ipotesi nelle quali il giudice non può pronunciarsi se non a seguito di istanze e richieste delle parti; mentre un discorso a parte andrebbe fatto con riferimento alla disciplina delle impugnazioni per le quali, il filtro rappresentato dai motivi, fa sì che le parti possano disporre della materia processuale e che possano, addirittura, paralizzare gli effetti della pronuncia e la sua esecutività. Tali poteri non sono mai in grado di escludere, tuttavia, l’iniziativa d’ufficio del giudice, ovvero il suo potere di rigetto delle richieste provenienti dalle parti medesime, con l’unica eccezione costituita dal divieto di reformatio in peius, quale più ampia espressione del favor rei.
Ma, ad ogni modo, gli aspetti delle vicende processuali che risultano maggiormente manipolabili dalla volontà delle parti, attraverso i poteri lato sensu dispositivi loro attribuiti, e, quindi, in ultima analisi, con il loro consenso, sono rappresentate da manifestazioni della c.d. giustizia consensuale, della giustizia negoziata – parliamo quindi dei c.d. riti alternativi a contenuto premiale-, nonché al settore probatorio.
Con riferimento al campo della giustizia consensuale, si prospettano situazioni di incerta collocazione, nelle quali la decisione delle parti diviene definitiva per la non opposizione di un’altra parte, la quale può essere anche soggetto diverso dall’imputato e dal magistrato del P.M.
Ragionando quindi sull’incidenza che le parti, con il loro consenso, hanno sulle vicende del processo, potremmo dire che l’affermazione per la quale la materia del processo sarebbe indisponibile, non sarà più da intendersi in maniera assoluta. Il legislatore ammette spazi sempre più ampi nella disponibilità delle parti. Ciò implica un superamento degli schemi tradizionali, attuato anche attraverso l’idea di fondo che il vecchio apparato sanzionatorio vada sostituito attraverso un meccanismo di personalizzazione della pena che si attua mediante la più diretta partecipazione delle parti alla soluzione dei nodi processuali.
Che ci si avvii “verso un processo di parti” - come affermato da autorevoli voci-, è dimostrabile già con il semplice riferimento alla sempre maggiore espansione e moltiplicazione dei riti premiali che vedono un’anticipata definizione del processo attraverso l’elisione della fase dibattimentale.
E l’analisi di quale, tra questi, meglio di quella del c.d. patteggiamento, potrebbe avvalorare la nostra tesi?
3. IPOTESI NEGOZIALE PER ANTONOMASIA: IL “PATTEGGIAMENTO”
Ipotesi negoziale per antonomasia, l’istituto dell’applicazione pena su richiesta, conosciuto nel linguaggio gergale e comunemente accettato come “patteggiamento”, assurge, nell’immaginario collettivo, ad ipostatizzazione dell’idea di accordo tra Stato e cittadino, avente ad oggetto la pena e, pertanto, rappresenta l’esempio di negozialità di più immediata comprensione alla quale può, a sua volta, essere funzionale un parallelo con gli istituti, appartenenti ad altre tradizioni giuridiche, che ad esso possono essere assimilati.
La premialità del rito, come ben sappiamo, è connotata dal fatto che in risposta all’accordo delle parti e conseguente deflazione sugli sviluppi del dibattimento, la pena effettivamente irrogata potrà subire un abbattimento fino ad un terzo della pena base. Ovviamene, in questo caso, non si parlerà di un accordo a tre, ove il terzo vertice sarebbe rappresentato dal giudice, il quale, salva la possibilità di prosciogliere d’ufficio, ovvero di dissentire circa i contenuti della proposta formulata dalle parti, andrà, praticamente, ad effettuare un riscontro in termini di compatibilità della cornice incriminatrice e di adeguatezza del trattamento sanzionatorio (in questo caso, premiale).
Orbene, pur sotto il controllo, la verifica, il riscontro da parte del giudice, è innegabile che il rito in esame veda un ruolo emergente delle parti, capaci di fornire al giudicante una piattaforma adeguata a definire l’intera res iudicanda.
Se questi, in nuce, sono gli elementi caratterizzanti l’istituto, si rende necessario evidenziare[9] che il “patteggiamento” è un rito speciale a carattere consensuale con finalità premiale: infatti, “accanto al modello tradizionale di giustizia autoritativa si fa strada”, con tale rito speciale, “un modello compositivo multilaterale, dove rileva il consenso dell’imputato”.
Introdotto, nella forma attuale solo nel 1988 con il nuovo codice di procedura penale, esso è, a tutt’oggi, nonostante le profonde modifiche apportate nel tempo, disciplinato dagli artt. 444 e ss.
Superando l’ambiente ostile all’importazione di un istituto mutuato sul modello statunitense della giustizia negoziata, quale il plea bargaining, il patteggiamento fa ingresso ufficiale nel nostro ordinamento con il nuovo codice di procedura penale del 1988; tuttavia non può dirsi che il patteggiamento si sia contraddistinto per il carattere innovativo poiché esso , grazie alle esigenze legate alla mole ingente di carico processuale che ha reso necessario e corretto sacrificare ad obiettivi di celerità e speditezza taluni valori del sistema, trova antecedente normativo diretto nell’omologo istituto disciplinato dagli artt. 77- 85 della l. 24 novembre 1981, n. 689 (“ Modifiche al sistema penale”), che ha introdotto l’istituto dell’applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell’imputato. [10]
Insieme agli altri riti speciali, in particolar modo l’abbreviato (patteggiamento sul rito), l’applicazione della pena su richiesta delle parti, rappresenta una delle novità assolute del nuovo codice, ed al contempo una delle colonne portanti del suo impianto. Nello spirito dei codificatori, di fatti, la finalità preminente, nell’introdurre tali forme di definizione del procedimento alternative al dibattimento, era la celerità: l’idea di fondo era che il rito ordinario dovesse essere riservato ad una quota minoritaria dei procedimenti, lasciando la scelta del rito speciale alla volontà delle parti.
Pur rendendoci conto che quella della volontà delle parti altro non fosse che una mitologia giuridica, ripercorrendo le evoluzioni del diritto positivo, si registra comunque una espansione del paradigma consensuale nel processo penale in generale e del patteggiamento in particolare.
La l. n. 479 del 1999, meglio nota come “legge Carotti”, pur configurandosi come una riforma in tono “minore”, introduce, attraverso gli artt. 32-34, alcune novità non certo trascurabili. [11]
Tale riforma appare, per altro, soggetta ad una doppia lettura: “per un verso, si tratta di un mero consolidamento dei profili esistenti, per un altro, del riposizionamento del rito nella nuova dinamica dei rapporti tra indagini preliminari e dibattimento”.[12] Già all’epoca alcuni prevedevano che il patteggiamento avrebbe subito un’erosione per effetto della nuova disciplina del procedimento per decreto, i cui contenuti premiali si sono fortemente accentuati; allo stesso modo, sul piano della scelta del rito, è prospettabile una conflittualità con il giudizio abbreviato.
Sicuramente punto centrale della riforma è costituito da una riscrittura imposta da esigenze di adeguamento ad alcune declatorie di incostituzionalità e da aggiustamenti resi necessari dalla diversa collocazione sistematica dell’udienza preliminare. In particolar modo, il capoverso dell’art. 444 c.p.p., in stretta connessione con quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sent. n. 313 del 1990 [13] , viene adeguato in maniera tale da prevedere che il giudice disporrà il patteggiamento se riterrà corretta la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate, “nonché congrua la pena indicata”. La seconda modifica, invece, si innesta sul comma 2 dell’art.444 c.p.p., ed attiene, in adeguamento a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n.443 del 1990, alla condanna dell’imputato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salva la possibilità di compensazione delle stesse.
Ma l’aspetto più peculiare della riforma, è quello che è rimasto a livello di mera ipotesi. Di fatti, nei lavori preliminari della legge Carotti, si parlava già di un “patteggiamento allargato” [14], poi effettivamente introdotto solo nel 2003. La proposta originaria dell’On. Carotti, andava a ridisegnare il patteggiamento, elevando la pena concordabile a tre anni, cui associava una sorta di ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, ed una riparazione pecuniaria dell’offesa all’interesse pubblico; queste modifiche, però, non sarebbero state di poco conto e, per tanto, non furono approvate. [15]
Come anticipato, il c.d. “patteggiamento allargato” trova posto nel nostro ordinamento per il tramite della legge 12 giugno 2003, n.134. Dal punto di vista sistematico, tale istituto appare atto a scardinare l’intero assetto del processo penale di cognizione. [16] La riforma prevede margini edittali molto ampi, che stravolgono il ruolo che il codice del 1988 attribuiva al patteggiamento, il quale, prima destinato ad un ristretto novero di reati, pur non riducendosi a bagattellare, si è trovato poi ad essere applicabile a fattispecie molto gravi, arrivando quasi a realizzare un capovolgimento di ruoli nel rapporto che vedeva il processo di cognizione come regola, ed il patteggiamento come eccezione. [17]
A fare da contrappeso a tale inversione di ruoli, il tentativo di circoscrivere la portata del patteggiamento allargato sul piano oggettivo e soggettivo; a tal fine l’esclusione ex art. 444 comma 1 bis, dei reati di cui all’art.51 comma 3 bis e 3 quater c.p., nonché gli imputati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza ed i recidivi reiterati. Le esclusioni de qua non risultano soddisfacenti poiché lasciano fuori molte ipotesi delittuosi di eguale se non maggiore gravità, e, dall’altra, sono criticabili in quanto danno valore a categorie quali quelle relative alla pericolosità sociale specifica.
L’ampliata applicabilità del patteggiamento è indice di fiducia nella giustizia consensuale che è, a sua volta, espressione dell’esigenza di celerità; esigenza che, ancora inappagata, è testimoniata anche dall’approvazione della legge n.89 del 2001, c.d. Legge Pinto, in materia di ragionevole durata del processo.
I riti speciali a contenuto premiale, tra cui il patteggiamento, si annoverano, poi, tra le materie interessate dalla l. n. 103 del 2017 (c.d. Riforma Orlando), intervento cui non è sottesa una logica uniforme.
Le novità che la riforma apporta in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti, sono assolutamente meno significative di quelle che si era proposta di portare a compimento.
L’originario ddl.2798 si proponeva, per un verso, di eliminare il patteggiamento allargato, per altro, di introdurre un nuovo istituto, quello della “condanna emessa su richiesta dell’imputato”, per il caso di volontaria confessione.
Tuttavia, non essendosi raggiunto un accordo tra le forze politiche, tali ambiziosi progetti, sono rimasti a livello onirico. Ciò che, invece, si è riusciti a realizzare, codificando delle prassi giurisprudenziali, è una “agile procedura di correzione degli errori materiali per rimediare ad alcuni vizi, non essenziali, della sentenza di patteggiamento” e la limitazione della “proponibilità del ricorso per Cassazione, al fine di scoraggiare ricorsi meramente defatigatori”.
In primo luogo, con l’art. 1 comma 49, la legge de qua amplia gli spazi per la procedura della correzione degli errori materiali, attraverso l’introduzione del comma 1 bis dell’art.130 c.p.p. .
“La legge indica, per altro, quali siano gli errori correggibili: specie e quantità della pena per errore di denominazione o di computo. Se la previsione, invero, rappresenta il recepimento a livello normativo di quanto la giurisprudenza aveva già affermato va, tuttavia, sottolineato come la nuova disposizione non escluda il ricordo alla procedura correttiva anche in altri casi, potendo, in termini generali, la procedura di cui all’art. 130 c.p.p. operare anche in caso di omissioni o errori materiali, per oggetto dell’accordo.” [18]
Nella logica della riforma, che ha tra gli scopi quello di decongestionare i ricorsi in Cassazione, si inscrive la sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 444 ss. c.p.p., e proprio a tal fine, per il tramite dell’art. 1 comma 50, si inserisce , all’art.448, il nuovo comma 2 bis: il magistrato del Pubblico Ministero e l’imputato possono proporre ricorso per Cassazione avverso una sentenza di patteggiamento, non più per tutte le ragioni di cui all’art. 606 c.p.p., ma solamente “per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.
Indubbiamente questo non è che l’ennesimo tentativo del legislatore di avallare prassi giurisprudenziali, ma, allo stesso modo, si tratta di una modifica di importanza sistematica, posto che va a rafforzare indirettamente il potere e la responsabilizzazione delle parti all’interno di questo istituto di giustizia negoziata. Diminuendo, infatti, le possibilità di controllo dei giudici superiori sul patto concluso tra le parti, i partecipanti all’accordo sembrano acquisire un ruolo maggiore all’interno dell’istituto, posto che la loro volontà non potrà essere, in seguito, ribaltata da una decisione, in senso contrario, di un giudice superiore. A proposito della modifica apportata all’art.448, perplessità ha suscitato il mancato riferimento, all’interno del nuovo comma 2 bis, delle categorie dell’indeducibilità delle nullità assolute e delle inutilizzabilità patologiche. [19]
Gli istituti negoziali in generale, ed il patteggiamento in particolare, sono stati più volte criticati in quanto, con essi, il sistema commisurativo della pena, sarebbe risultato disarticolato.
In realtà, già decenni addietro la dottrina aveva segnalato l’insufficienza della disciplina prevista dall’art. 133 c.p. rispetto alle finalità attribuite alla pena[20].
Proprio il patteggiamento, meglio degli altri istituti, evidenzia la necessità per il giudice di individuare prima la “pena giusta”, poi la “pena congrua”.
Quella applicata non è la c.d. “pena giusta” determinata attraverso una valutazione, quindi , esclusivamente penalistica sulla sola base dei parametri indicati dall’art.133 c.p. : la pena applicata su richiesta delle parti, infatti, tiene conto dell’incentivo che il legislatore ha concesso alla scelta dell’imputato di non esercitare il suo diritto a difendersi in dibattimento.[21]
Per quanto, invece, riguarda il ruolo riconosciuto alla vittima- persona offesa dal reato, il codice di procedura penale del 1988 ha cercato, dando ascolto alla dottrina più attenta, di garantirgli un maggior grado di partecipazione al procedimento. Nella sostanza, però, lo sforzo del legislatore è risultato vano, e la persona offesa è ancora confinata in un ruolo scarsamente autonomo ed eccessivamente dipendente dal Pubblico Ministero.
Oggi il coinvolgimento della vittima nel processo è soggetto a tentativi di riduzione ed estromissione; ad esempio di ciò, le limitazioni della facoltà di proporre appello, poste dalla c.d. “Legge Pecorella”, in capo alla parte civile.
Quando il procedimento si conclude con una sentenza di patteggiamento, la cui natura di accertamento è fortemente dibattuta, il giudice non decide sulla domanda presentata dalla parte civile, costringendo la vittima (o il danneggiato) a presentare la propria domanda innanzi al giudice civile [22] (ciò accade anche nella conformidad). Il patteggiamento, dunque, rischia di porsi come istituto critico perché, in nome dell’esigenza deflattiva, sacrifica il concreto ed immediato interesse della vittima al risarcimento del danno subito.
3.1 ALTRE ESPERIENZE DI CIVIL LAW
L’ordinamento processualpenale italiano non è l’unico ad essersi scontrato, nel tempo, con la necessità di tempi di conclusione del processo più rapidi e che ha, conseguentemente, guardato a pratiche negoziali di collaborazione con l’imputato.
La dottrina penalistica iberica, ad esempio, ha coniato una pluralità di strumenti processuali finalizzati alla realizzazione del “principio de oportunidad” che definisce come opposto del principio di legalità e con il quale sintetizza una serie di concetti che vanno dalle eccezioni all’obbligatorietà dell’azione penale, alle ipotesi negoziali basate sul consenso dell’imputato[23].
La legge organica n. 7 del 1988 ha iniziato con l’introdurre il procedimiento abreviado, ma sono state la ley n. 38/2002 e la ley organica n. 8 del 2002 - frutto dell’accordo di quasi tutte le forze politiche - a rendere la giustizia in generale, e quella penale in particolare, “più agile” attraverso l’istituzione dei c.d. juicios rapidos de determinados delitos, interamente celebrati innanzi al Juez de guardia e di un procedimento più veloce per le faltas (equivalente delle contravvenzioni nostrane) , oltre ad aver previsto una riforma dello stesso procedimiento abreviado.
In questa riforma svolge un ruolo determinante la conformidad, definita quale «elemento esencial en el engranaje del sistema procesal penal, que pretende favorecer la medidas que supongan un acortamiento o aceleracion del proceso mismo»[24].
Si tratta di una figura giuridica risalente alla prima metà dell’800 e che ha dimostrato di essere assai proteiforme, adattandosi alle più recenti istanze deflattive; la conformidad altro non è che una dichiarazione (scritta o orale) con la quale l’acusado (ed il suo difensore) accetta la richiesta di pena avanzata dal Fiscal (P.M.), che sceglie la più grave tra quelle irrogabili, per un determinato fatto criminoso, evitando così la celebrazione del giudizio.
Essa, non costituisce un giudizio speciale, come il nostro patteggiamento, ma si innesta su altre declinazione del processo iberico come il procedimiento abreviado e il juicio rapido.
A differenza dell’applicazione di pena su richiesta delle parti, la conformidad non ha necessariamente contenuto premiale; si distingue pertanto nelle tipologie ordinarie ed in quelle c.d. privilegiate; proprio il requisito della premialità, in verità, è una novità introdotta dalla riforma del 2002.
Nella misura in cui si traducono in una riduzione della sanzione, saranno, ovviamente, le seconde ad essere paragonabili, lato sensu, al nostro patteggiamento.
La conformidad premiale nel juicio rapido (art. 801 LECrim.) consiste nell’accettazione da parte dell’imputato di una pronuncia di condanna emessa dal Juez de guardia (giudice competente per la fase precautelare), il quale presenta l’anomalia di essere lo stesso giudice che conduce le indagini; aspetto questo, che, a detta di molti renderebbe l’art. 801 incostituzionale[25]. L’operatività, però, non è estesa a tutti i reati di competenza del Juez de guardia, ma circoscritta a quelli puniti con pena fino a tre anni di prigione o con pena di altra natura di durata non superiore a dieci anni – nessun limite, invece, con riferimento alla pena pecuniaria; inoltre, vi è una seconda condizione, che la pena detentiva richiesta non sia superiore a tre anni e che ridotta di un terzo non superi i due anni. Il doppio limite previsto è anomalo rispetto alle altre conformidades ordinarie, nelle quali il limite di pena è considerato in concreto e non in astratto ed è riferito ad ogni singolo reato, senza tenere conto della somma o di eventuali continuazioni[26].
Al juez compete il controllo in ordine alla correttezza della qualificazione giuridica data ai fatti dalle parti e se la pena stabilita sia adeguata, a seguire, verificherà se l’acusado abbia espresso un consenso libero e cosciente. Particolare attenzione viene dedicata alla base conoscitiva dell’imputato in ordine alla scelta compiuta, infatti il comma 4 dell’art. 787 LECrim. Obbliga il cancelliere a informare l’acusado circa le conseguenze della sua scelta e così farà anche il giudice.
Contestualmente alla lettura della sentenza, il Giudice dispone l’eventuale sospensione o sostituzione della pena, condizionandole alla promessa dell’imputato a soddisfare – entro un termine fissato – le richieste risarcitorie delle parti civili[27].
Ove la conformidad fosse efficace solo rispetto alla responsabilità penale, si dovrà celebrare il juicio oral ai soli effetti civili. Concluso il giudizio, la sentenza avrà una natura mista: da conformidad, relativamente alla responsabilità penale e dibattimentale in ordine all’azione civile[28].
L’altra ipotesi di conformidad privilegiata opera nel proceso abreviado ed in realtà non è una vera propria conformidad, ma un “reconocimiento de hechos” che, a rigore, sarebbe un’accettazione – innanzi al giudice – dei fatti e non della pena[29].
In effetti, nell’abreviado operano svariate forme di conformidades non privilegiate ed è solo grazie ad un “meccanismo ponte” (art. 779.1.5° LECrim.) che si estendono al riconoscimento dei fatti i benefici della conformidad del juicio rapido.
Dovendo paragonare la conformidad al patteggiamento emergono delle spiccate differenze: nella prima vi è senz’altro più spazio per i soggetti lesi dal reato, e presenta una ridotta applicabilità ancora molto timida. Il legislatore iberico, pare ancora molto attento alle evidenti anomalie determinate dallo sconto di pena conseguente alla scelta del rito e prevede ad esempio che in caso di processi con più imputati debba essere unanime la scelta di procedere alla conformidad per evitare disparità di trattamento sanzionatorio per situazioni analoghe.
Diversa è l’esperienza francese. Ivi, la “comparution sur reconnaissance préalable de culpabilité” [30] detta anche plaider coupable, è stata istituita con la Legge n° 2004 – 204 del 9 marzo 2004, e si sostanzia in una procedura innovativa, ispirata per certi versi alla composition pénale, che pone il Procuratore della Repubblica al centro della fase giudicante, sopprimendo dunque la fase dibattimentale.
La CRPC si applica alla persona che, convocata dal procuratore della Repubblica o deferita davanti a lui tramite convocazione par proces verable o comparution immediate, abbia riconosciuto i fatti che le sono addebitati (art. 495-7 c.p.p.); allo stesso modo il magistrato del Pubblico Ministero può richiederla dopo l’esecuzione della guarde à vue.
La legge prevede che alla CRPC possa ricorrere anche direttamente l‘interessato, ma tale opzione è assai marginale, in quanto interviene successivamente alla decisione del pubblico ministero di esercitare l‘azione penale, e gli è comunque preclusa la possibilità di presentare una proposizione di pena, poiché questa compete al solo pubblico ministero.
Passando rapidamente in rassegna l’istituto dal punto di vista funzionale, avremo una struttura di questo tipo: il procuratore della Repubblica propone una o più pene principali o accessorie per il fatto di reato riconosciuto dalla persona, e che la stessa può applicarsi a tutti i delitti, con esclusione di:
- delitti commessi da minore, l‘omicidio colposo, i delitti di stampa, i delitti politici, i delitti la cui procedura è prevista da legge speciale, qualunque sia la pena prevista;
- i delitti di violenza, la gestione di sostanza nocive, l‘agguato, le minacce, il danno colposo all‘integrità della persona e le aggressioni sessuali diverse dalla violenza carnale se puniti con una pena superiore a 5 anni.
A caratterizzare la CRPC, è la necessità della sua messa in moto su iniziativa del procuratore della Repubblica; se è l‘accusato a richiederla, occorrerà comunque l‘accordo del PM.
Pertanto, potrà essere attivata dopo le indagini preliminari o in flagranza di reato (art. 495-7 c.p.p); dopo una citation directe o una COPJ (art. 495-15 c.p.p.); dopo lo svolgimento di una information judiciaire (art. 180-1 c.p.p.).
Una volta pronunciata l’omologazione, la pena è esecutiva.
Il condannato e l‘eventuale parte civile, entro 10 giorni dalla pronuncia, potranno in ogni caso appellare l‘ordonnance d‘omologation; il pubblico ministero, invece, può unicamente avanzare appello incidentale.
Il giudice può parimenti rifiutarsi di omologare l‘accordo, ma non può modificarlo; in tal caso la procedura riprende secondo le vie ordinarie e il Procureur deve adire il tribunal correctionnel o riaprire l’information ai sensi dell‘art. 495-12 c.p.p..
Avendo ad oggetto la proposta di espiare una pena principale o complementare con il limite, nel caso di pena detentiva, che essa non superi la durata di un anno, ne’ sia superiore alla metà della pena prevista[31], sorge istintivo il confronto con il nostro patteggiamento previsto agli artt. 444 ss c.p.p.
Le principali differenze che emergono rispetto al patteggiamento italiano attengono all’aspetto qualitativo dei delitti cui il rito può applicarsi: nel patteggiamento italiano, l’art. 444 c.p.p. introduce una serie di limiti quantitativi circa le pene che possono essere patteggiate, eventualmente ampliate nell’ipotesi di patteggiamento c.d. allargato, mentre nella CRPC il Code de procédure pénal parla generalmente di delitti puniti con l’ammenda o pena non superiore a cinque anni. Inoltre, un’altra distinzione fondamentale riguarda la rilevanza del riconoscimento di responsabilità da parte dell’imputato: condizione che mentre è espressamente richiesta dall’art. 495-7 codice di rito francese, non lo è per il patteggiamento italiano.
La CRPC può intervenire sia prima dell’apertura del dibattimento sia in un momento precedente, come anche il patteggiamento italiano che può essere invocato fino all’apertura del giudizio ma anche durante le indagini preliminari. Il controllo della pena patteggiate è dunque anche in questo caso attribuita al giudice, che dispone di poteri simili al giudice italiano, con l’unico distinguo relativo all’esigenza di verifica circa la realtà dei fatti e l’accertamento della responsabilità dell’individuo in ordine ad essi. Sempre peraltro in linea con l’attenzione francese per la figura della vittima, quest’ultima può costituirsi come parte civile nel rito alternativo ed incidere sull’esito della misura: la vittima può infatti bloccate il ricorso alla CRPC e può, in sede di omologazione, formulare opposizioni che permettano di chiarire le circostanze di commissione dell’illecito così orientando la decisione del giudice.
È, inoltre, da sottolineare la diversa natura della sentenza di patteggiamento dall’ordonnance d’homologation nel plaider coupable: in quest’ultima infatti incide l’ammissione di responsabilità da parte dell’imputato e la intime conviction de culpabilité del giudice, sicché la motivazione dell’ordonnance dovrà essere molto più articolata della sentenza patteggiata: la motivazione è, qui, determinante.
Nel caso di impugnazione da parte dell’accusato di tale ordonnance de homologation la Corte sarà rivestita di un giudizio sul merito e dovrà fondarsi sulle motivazioni ivi contenute per giustificare la sua decisione.
L’ordonnance è immediatamente esecutiva, anche in caso di pendenza dei termini per impugnarla, e assunto valore di giudicato produce gli stessi effetti di una sentenza di condanna ordinaria.
3.2 L’ESPERIENZA DI COMMON LAW
Ma veniamo all’antesignano di tutti gli istituti finora citati: il plea bargaining, appartenente alla tradizione giuridica statunitense, dapprima come contrattazione clandestina cara tanto alla pubblica accusa quanto agli imputati e, successivamente, come rito formalizzato nella undicesima Regola federale, introdotta nel 1974, e dalla giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti.
Oggetto del bargaining, ossia della negoziazione tra l’accusa e la difesa, è l’offerta della riduzione della pena a fronte di un guilty plea o plea of guilty, vale a dire un’ammissione di colpevolezza cui consegue la rinuncia alle garanzie processuali tipiche del giudizio ordinario[32].
Lo scambio di un’ammissione di colpevolezza con la mitezza sanzionatoria era coerente tanto con la diffusa ideologia religiosa puritana quanto con i principi del liberalismo economico.
Il puritanesimo valutava la negoziazione della pena come miglior strumento processuale per la redenzione dal peccato, giacché all’uomo, che per natura tende a peccare, è consentito di redimersi attraverso l’ammissione di responsabilità.
Il liberalismo, d’altra parte, in ossequio al principio del laissez faire, intendeva metaforicamente il processo come mercato, ambendo alla riduzione dell’intervento dell’autorità statale e ad una giustizia liberamente negoziata[33]: questa avrebbe alleggerito il carico giudiziario e consentito una migliore allocazione delle risorse.[34]
Lo sviluppo e l’evoluzione dell’istituto furono, altresì, influenzati e dalla criminologia positivista e dal quadro giuridico complessivo statunitense.
Alla scuola positiva, infine, è riconosciuto il merito di aver analizzato e promosso la funzione del reinserimento del condannato nella compagine sociale, seppur al di fuori dei termini della prevenzione speciale positiva.
Il controllo sociale della devianza ben si coniugava con un ricorso massiccio allo strumento della negoziazione della pena, la quale consentiva di soddisfare interessi diversi. Cruciale è il principio dell’azione penale discrezionale, tipico dei sistemi giuridici di common law.[35]
In ossequio a tale principio, al prosecutor, ossia il pubblico ministero, è riconosciuta la possibilità di selezionare i fatti e gli autori contro i quali procedere, nonché il nomen iuris da attribuire al fatto commesso.[36] Nonostante si tratti di discrezionalità c.d. tecnica, ossia basata sulla valutazione dell’esaustività del materiale probatorio reperito ai fini dell’avanzamento del procedimento all’ulteriore fase dibattimentale, il giudice e ancor più le parti sono sforniti di strumenti idonei a contestare la scelta della pubblica accusa di procedere o meno all’esercizio dell’azione penale.[37]
Le uniche forme di controllo previste per arginare la discrezionalità sono il divieto di esercizio discriminatorio dell’azione penale (la “selective prosecution”) e di ritorsione (la “vindictiveness”), introdotti dal quattordicesimo emendamento.[38]
È fondamentale evidenziare che il patteggiamento non può essere inteso quale strumento di rieducazione del condannato, al quale si demanda una mera ammissione di colpevolezza che non esclude ma neppure presuppone il ravvedimento. Di fatti, non è certo sintomo di emenda o di predisposizione al trattamento risocializzante la condotta di chi confessi la responsabilità per un fatto meno grave al fine di sottrarsi al giudizio per un fatto più grave realmente commesso.[39]
Negli Stati Uniti, attraverso un iter non dissimile da quello avutosi in Inghilterra, si è proceduto a relegare lo Jury trial ad un ruolo secondario, spostando piuttosto il baricentro del sistema giudiziario verso meccanismi stragiudiziali[40] dove lo stesso giudice, privato del tradizionale compito di ius dicere, vede le proprie competenze ridisegnate in chiave “amministrativa”.
Lo strumento della negoziazione della pena, idoneo ad esplicare una funzione deflattiva [41], fa il proprio ingresso in uno scenario, quello del termine del diciottesimo secolo, in cui, venuto meno il sistema di giustizia che vedeva la vittima contrapposta all’offensore in favore del ruolo del giudice quale garante del giusto processo, si assisteva ad un rallentamento dei tempi del giudizio ed urgevano procedure sommarie, onde evitare il collasso.
Le Corti americane, invero, hanno a lungo considerato la celebrazione del processo come un elemento imprescindibile e, soprattutto, hanno tenuto un atteggiamento dissuasivo nei confronti della confessione, ovvero il fulcro della negoziazione della pena nell’ordinamento giuridico statunitense. Ciò, anzitutto, perché si riteneva che la posizione dell’imputato nel giudizio dinanzi alla giuria popolare fosse già, di per sé, poco tutelata; inoltre, la posizione della giurisprudenza era legata alla rigidità del sistema sanzionatorio in virtù del quale, il più delle volte, la confessione sarebbe equivalsa a sentenza di morte.
Con il passare del tempo, a seguito dell’industrializzazione, dell’aumento della popolazione (non che queste determinino automaticamente l’aumento della delinquenza, ma richiedono un’organizzazione giudiziaria adeguata e diversa da quella richiesta dai piccoli centri rurali) e del “professionalizzarsi” delle forze di polizia e della classe forense, si è assistito ad una disaffezione verso il momento processuale ed al definitivo successo del plea bargaining in quanto procedura abbreviata. [42]
Come accennato, la disciplina del plea bargaining si è formalizzata solamente nel 1974 con l’undicesima Regola federale, nonostante la diffusione dello stesso fosse antecedente.
Secondo quanto prescritto, in sede di udienza predibattimentale, all’imputato viene data possibilità di prendere posizione circa l’ipotesi di colpevolezza [43]. A questo punto, l’imputato potrà professarsi “not guilty”- ed in questo caso il giudizio proseguirà secondo le modalità ordinarie, innanzi alla giuria popolare, salvi i casi eccezionali di c.d. bench trial (giudice monocatico)- , ovvero professarsi colpevole, ed in questo il giudice dovrà verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge;[44] in caso di guilty plea, infatti, l’accusa è sollevata dall’onere di provare la colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”, ma debbono comunque riscontrarsi elementi che la rendano almeno verosimile.
Ovviamente, alla base del bargaining deve esservi una forma di consenso dell’imputato, così come il guilty plea è frutto di una scelta dell’imputato medesimo, scelta che deve essere consapevole, ed è questo il motivo per cui l’imputato deve essere informato del fatto che l’ammissione di colpevolezza comporta la rinuncia ad una serie di diritti, tra cui il diritto ad un processo celebrato davanti ad una giuria popolare; deve essere, inoltre, avvisato del fatto che la Corte ha facoltà di rifiutare il patto negoziato dall’accusa e dalla difesa e , in ogni caso, di irrogare una pena più sfavorevole all’imputato rispetto a quella concordata. Solo così, laddove l’imputato abbia deciso di non ritrattare, il giudice procederà alla fissazione della data del c.d. sentencing (udienza in cui si procede alla quantificazione ed alla conseguente applicazione della pena).
L’imputato ha, poi, un’ulteriore possibilità, rappresentata dalla possibilità di dichiarare il nolo contendere, ossia avvalersi della possibilità di non contestare le accuse addebitategli.[45] Pur non essendo, nella pratica, un’ammissione, la dichiarazione di nolo contendere è, di fatto, equiparata ad un’ammissione di colpevolezza e, spesso, è resa dall’imputato come parte di un accordo con la pubblica accusa.
Va detto che, in un numero cospicuo di casi, il guilty plea è frutto di un plea bargaining: vale a dire che, solitamente, l’imputato riconosce la propria responsabilità previa negoziazione con il pubblico ministero di un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello che seguirebbe la condanna dibattimentale.[46] Allo stesso modo però, va precisato che nell’ordinamento giuridico nordamericano il guilty plea è il presupposto necessario del plea bargaining, giacché non è ammissibile alcuna negoziazione tra difesa ed ufficio della procura qualora manchi il riconoscimento da parte dell’imputato della propria responsabilità.
Sulla base del tipo di benefici concessi dall’accusa, è possibile distinguere tre diverse forme di patteggiamento.[47]
Il charge bargaining consistente nell’alterazione dell’imputazione, la quale viene sostituita con una fattispecie diversa e meno grave, oppure nella rinuncia da parte dell’accusa a perseguire uno o più capi d’imputazione.[48]
Il fact bargaining, il quale consente al pubblico ministero di promettere, in cambio dell’ammissione di colpevolezza, la presentazione dei fatti davanti alla Corte in maniera più favorevole all’imputato.[49]
Infine, il sentencing bargaining, che costituisce l’unica forma di negoziazione che può coinvolgere direttamente il giudice: il pubblico ministero, oltre ad impegnarsi a raccomandare una soluzione benevola per l’imputato, concorda con il giudice la pena da applicare, comparando il quantum di pena in caso di guilty plea con il quantum in caso di condanna dibattimentale.
Dibattendosi di un istituto negoziale, non si può non porre l’accento sull’aspetto della volontà dell’imputato, alla base della sua ammissione di colpevolezza.
Va fatta, però, una previa considerazione: il plea bargaining sembrerebbe porsi in contrasto con l’esigenza di accertamento della verità, cui sono preordinati gli istituti processuali.
In prima istanza, si è replicato che, essendo l’istituto finalizzato a contenere i tempi ed i costi processuali, funzionerebbe da incentivo per i soli imputati sicuramente colpevoli, che avrebbero solo da guadagnare, e la verità sarebbe comunque perseguita, datosi il valore esaustivo della confessione dell’imputato. Ma a tali affermazioni non è stato difficile controbattere, osservando che, nella pratica, il ricorso alla negoziazione, proprio per alcuni specifici vantaggi offerti, è tanto frequente tra gli innocenti, quanto tra i colpevoli. “ Anzi, quanto più cresce la misura dei vantaggi tanto più diventa realistico il rischio che proprio l’innocente, anche alla luce della distinzione tra factually innocent e legally innocent - dove la dimostrazione della propria non punibilità non può essere agevole- decida di riconoscersi colpevole.” [50]
La Corte Suprema ha cercato di arginare il pericolo che l’imputato si incolpasse falsamento, attraverso una serie di garanzie difensive connesse al plea bargaining, precisando che per armonizzarsi con i precetti costituzionali, il meccanismo dovesse reggersi su un’opzione resa “scientemente, volontariamente e con l’assistenza del difensore”.[51]
Tale precisazione è, quantomeno, opportuna, se si considera che la plea of guilty è più di una semplice ammissione di responsabilità, essendovi il consenso dell’imputato a che si addivenga alla condanna sine iudicio.
In linea con i principi dettati dalla Corte Suprema, le Federal Rules of Criminal Procedure – Rule 11, lett. f) – affermando che la corte non deve “ enter a judgement upon a plea, unless it is satisfied that there is a factual basis for the plea”, dispongono che il giudice indaghi sulle circostanze poste a fondamento della dichiarazione, al fine precipuo di accertare la volontarietà della medesima.[52]
Tuttavia, ne’ le indagini demandate al giudice, ne’ i requisiti di “knowing and voluntary plea”, individuati dalla Corte Suprema, sembrano in grado di scongiurare il rischio di autoincolpazioni false o coartate da parte degli imputati (ricordiamo, infatti, che l’inquiry demandata al giudice, si riduce nella migliore delle ipotesi ad un colloquio breve e superficiale che non può fornire al giudice gli elementi di convincimento necessari a giungere ad una decisione accurata; per converso il voluntariness requirement del giudice costituzionale, che riguarda il solo aspetto formale di dichiarazione ed accettazione delle conseguenze, non offre criterio interpretativo sicuro cui attenersi.).
L’interferenza più frequente sul processo, nella dinamica del plea bargaining si concreta nella choice situation tra due alternative possibili: plea of guilty, ovvero Jury trial, dalla quale emerge la preferibilità in termini di convenienza della prima rispetto alla seconda. [53]
La giurisprudenza è incline a ritenere che la semplice offerta o promessa non siano sufficienti a realizzare quell’induzione che, coartando la volontà del soggetto, ne rende involuntary la dichiarazione di colpevolezza. Allo stesso modo, l’orientamento dei giudici americani è nel senso che la libertà di scelta va presunta se vi è un’opzione reale, mentre, allorché questa manchi o è solo apparente la plea of guilty, debba ritenersi invalida.
In un secondo momento, la dottrina ha focalizzato la propria attenzione, non tanto sulla verifica di se l’imputato sia stato forzato o coartato a scegliere tra “trial or not trial”, poiché questo avviene con certezza, quanto, piuttosto, sull’accertare se uno dei due termini sia stato incentivato da elementi ultronei rispetto ad un corretto esercizio dell’azione penale, ovvero se il right to Jury trial sia stato gravato da condizioni tali da indurre l’imputato a rinunciare al giudizio. [54]
Pur inquadrando il problema dal più corretto angolo visuale per cui la situazione in cui opera il plea bargaining è quella di colui nei cui confronti si procede per un reato determinato (e non quella dell’imputato prima della incriminazione), la conclusione è sempre la stessa: la choice situation che incontra l’imputato in un sistema di Bargain Justice, è più onerosa di quella che gli si prospetta in un sistema in cui on operi il bargain.
La volontà dell’imputato non necessariamente deve essere coartata dalla minaccia di una pena più grave, avanzata dal procurator; molto spesso, infatti, la stessa può essere influenzata da una previsione di legge che commini la pena di morte per il reato oggetto dell’accusa.
Parliamo del voluntariness requirement, che ricorre nei casi di “legislative inducement to cop a plea”; ed anche in questo caso le Corti e la stessa Corte Suprema, non si esprimono in termini univoci.
Illuminante, in tal senso, è la pronuncia nel caso Jackson[55], con la quale la Corte Suprema ha lasciato intendere che la volontarietà della dichiarazione potesse venir meno ogni volta in cui la scelta fosse stata prospettata all’imputato in termini cogenti.
Tale affermazione mina l’istituto sul piano della costituzionalità, partendo proprio dal profilo della impermissible choice prospettata all’imputato.
In altri casi – come nel caso Brady[56] – però, la Corte ha precisato che il principio de quo non poteva essere utilizzato né per sostenere la predisposizione di un nuovo standard costituzionale rispetto al quale risolvere il problema della validità della plea of guilty, né per comportare una diversa applicazione del criterio di voluntary and intelligent plea.
Nel caso citato, si può apprezzare un diretto nesso di causalità tra la previsione normativa della capital penalty e la plea of guilty, ma la Corte afferma che l’individuazione di tale nesso non provava che la dichiarazione fosse coartata ed invalidata come “atto involontario”.
Tale posizione , la Corte, la ribadisce in un caso successivo: nel caso Alford, la majority opinion della Corte precisa che, benché molti casi di guilty pleas contengano, oltre la rinuncia al Jury trial, una esplicita ammissione di colpevolezza, questa non rappresenta presupposto indispensabile ai fini dell’imposizione della sanzione, ed , anzi, ne è talmente svincolata che l’imputato, nell’ambito delle proprie scelte difensive, può accettare la pena, anche se non vuole ammettere la propria responsabilità in ordine al fatto costituente reato. Ancora, successivamente, la Corte ribadisce il proprio indirizzo, affermando che è compito dell’imputato svolgere una fattiva opera di vigilanza, affinché i suoi diritti e le sue prerogative non vengano violate e che è poco realistico che il timore di una pena più severa possa esplicare un condizionamento su chi sa di essere innocente, in quanto ogni persona accusata, assistita, “ è messa in grado di scegliere il meglio per sé in risposta alle persuasive argomentazioni addotte dall’accusa.”[57]
3.3 UN INEVITABILE RAFFRONTO
Il legislatore italiano ha scelto per l’istituto la denominazione di “patteggiamento”, che traduce con precisione il termine americano bargaining.
Questo era il modo per dare ingresso, nel nostro ordinamento, agli istituti di giustizia negoziata.
Eppure, il rinvio all’esperienza statunitense si ferma al tentativo, comune agli ordinamenti contemporanei, di far fronte all’esigenza di sfoltimento processuale: per il resto, il patteggiamento italiano, sembrerebbe non potersi neppure ricomprendere a pieno titolo tra gli istituti di giustizia negoziata.
Negli Stati Uniti, le parti, possiedono un distinto potere contrattuale; esse muovono da situazioni dialetticamente contrapposte e sono titolari di interessi particolari, e riescono a raggiungere un accordo qualora i termini siano valutati vantaggiosi per entrambi.[58]
Nel nostro Paese, invece, il convergere delle autonome volontà delle parti non sfocia in un accordo processuale di per sé produttivo di effetti giuridici, direttamente collegabili all’incontro delle volontà, ma costituisce la conditio sine qua non perché il giudice possa procedere con il rito alternativo.[59]
Non si tratta, in altre parole, di una vera e propria transazione tra accusa e difesa, bensì di una presa di contatto tra le parti che consente di saggiare la disponibilità del pubblico ministero all’accordo. Peraltro, neppure esiste uno spazio per la contrattazione: i vantaggi ottenibili sono prefissati dalla legge e concernono la sola entità della sanzione e non altresì il capo d’imputazione. Il timore era che l’introduzione d’una forma di negoziazione corrispondente al plea bargaining nordamericano, avrebbe comportato una sostanziale violazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale previsto ex art. 112 Cost.
A fungere quasi da contrappeso a queste “mancanze”, possiamo apprezzare che la versione italiana del plea bargaining mostri una cura maggiore nei confronti dei diritti dell’imputato. Anzitutto, anche di fronte alla richiesta di patteggiamento, il giudice deve pronunciare sentenza di proscioglimento qualora si ricavi l’esistenza di cause di non punibilità dall’esame degli atti.
E poiché nel nostro ordinamento giuridico il potere contrattuale di difesa ed accusa è minimo, al giudice non è chiesto di vidimare l’accordo concluso tra le parti; piuttosto, secondo uno schema prossimo al modello di giustizia di tipo inquisitorio, gli si demanda di verificare che l’imputato non sia innocente e che la pena richiesta sia congrua. Ciò consente, evidentemente, di ridurre uno dei più grandi rischi insiti nella disciplina statunitense: il rischio della condanna dell’innocente.
Per la stessa ragione, la disciplina codicistica italiana, non esige alcun guilty plea, e la sentenza è soltanto equiparata ad una pronuncia di condanna. Sarebbe superfluo, difatti, esigere un’ammissione di colpevolezza, dal momento che al giudice è accordato il potere di prosciogliere in ogni caso l’imputato ex art. 129 c.p.p.. Ne deriva una riduzione considerevole del potere deterrente della sentenza, la quale non scarica sul destinatario la stessa dose di biasimo e stigmatizzazione sociale che la qualifica di colpevole solitamente comporta.[60]
Nei diversi ordinamenti in cui opera, tale modello di giustizia negoziata presenta un nucleo comune, costituito dalla dichiarazione con cui l’accusato, in cambio di benefici previamente concordati, si assume la totale responsabilità dei fatti ascrittigli.
Importante è tenere presente che vanno evitati accostamenti azzardati, trattandosi di istituti tra cui corrono più differenze che analogie – non bisogna dimenticare, per altro, che il plea bargaining, analogamente al nolo contendere statunitense[61], opera in sistemi di tipo accusatorio in cui vigono i principi di discrezionalità e retrattabilità dell’azione penale, nonché della disponibilità della prova-.
Possiamo, infatti, concludere ricordando che nei sistemi processuali dell’Europa continentale è diffusa la tendenza a ricercare forme negoziali di definizione del processo penale, ricorrendo ad istituti che, pur presentando analogie con i modelli anglosassoni, se ne discostano in maniera significativa. Ciascun ordinamento, in ragione delle proprie peculiarità, prevede forme eterogenee di giustizia negoziata, avente quale minimo comune denominatore la finalità di semplificazione processuale.[62]
4. CONSENSO: UNA SCELTA IRREVOCABILE?
Una domanda che sicuramente ci si potrebbe porre, alla luce del nuovo comma 4 art. 438 c.p.p., così come modificato dalla c.d. riforma Orlando, è se il consenso, una volta prestato, possa (o meno) essere revocato. Per una compiutezza della risposta rispetto ad una simile domanda, è opportuno, però, ampliare l’orizzonte degli istituti cui fare riferimento.
Come è vero, infatti, che, ad un’analisi dell’art.111 cost., risulti chiaro che il “consenso dell’imputato” cui si fa menzione è, in primis, riferito ai c.d. riti alternativi, è altrettanto vero che il “consenso”, più ampiamente inteso, non esaurisce qui il proprio ruolo: vi sono una moltitudine di manifestazioni consensuali in ambito giudiziario, tutte improntate ad una comune matrice individuabile nella finalità di snellimento e dunque di concentrazione delle forme e dei tempi del processo. [63]
Va, per altro, tenuto presente un distinguo ulteriore di carattere contenutistico o funzionale, a seconda che le forme di giustizia consensuale siano orientate al soddisfacimento di interessi esclusivamente endoprocessuali, ossia di deflazione del carico dibattimentale, oppure che sia attribuita una particolare rilevanza al consenso sul piano della gestione del conflitto e delle conseguenze sanzionatorie, con conseguenti ingerenze nell’ambito della premialità. [64] In particolar modo, poi, rileva se, attraverso la manifestazione del consenso unilaterale o multilaterale, si devii o si influisca sul metodo di formazione della prova poiché, di regola, l’adozione di un modello consensuale di definizione, coinvolge una modificazione del metodo ordinario di ricostruzione dei fatti del giudizio. Una versione “debole” del metodo consensuale di accertamento dei fatti, implica attribuzione della dignità di prova ad elementi che ne sarebbero, altrimenti, privi; mentre una versione “forte” del metodo consensuale, postula l’articolazione dei rapporti tra le parti secondo dinamiche non conflittuali connaturali all’accertamento di fatti non controversi.[65]
Tutte le volte in cui l’accordo tende a modificare le ordinarie regole di assunzione della prova “senza però incidere sul metodo di formazione della stessa” [66] , ci troviamo di fronte al c.d. “negozio probatorio dibattimentale”, rispetto al quale verranno in gioco previsioni come quelle ex artt. 238 c.p.p. (“trasmigrazione probatoria a matrice consensuale”), 431 c.2 (fascicolo negoziato) e 493 c.3 e , più in generale, le previsioni che riguardano il consenso quale meccanismo di recupero degli atti di indagine (espressioni della disponibilità riconosciuta alle parti del contraddittorio in senso soggettivo) che superano ogni preclusione in punto di ammissibilità del materiale che potrà essere acquisito al fascicolo del dibattimento. [67]
Tale istituto, individuato come negozio probatorio dibattimentale, trova il proprio fondamento costituzionale nel co. 5 art 111, ove è previsto il consenso dell’imputato all’assunzione di prove formatesi al di fuori del contraddittorio. Non poche sono state le critiche mosse ad una tale prospettazione da parte di quanti ammettono la legittimità di una rinuncia al contraddittorio esclusivamente per i riti deflattivi del dibattimento, rispetto invece a chi era propenso ad un aumento della soglia di disponibilità del processo penale. [68]
Le non poche perplessità sollevate da chi dubitava dell’investitura costituzionale dell’istituto, sono state risolte, trasversalmente, dalla stessa Corte Costituzionale dapprima attraverso l’ordinanza n. 182 del 2001, e poi con sent. n. 184 del 2009 (la quale, per altro, recepisce in toto il contenuto della precedente ordinanza di manifesta infondatezza); anche sulla scorta di queste ultime, appare più corretto parlare di contraddittorio extraprocessuale [69] (o di contraddittorio implicito [70]) nella formazione della prova , più che di semplice deroga al principio del contraddittorio. Per tanto, il negozio probatorio dibattimentale, si colloca in piena legittimità nella sfera del “costituzionalmente possibile”, in quanto semplice applicazione e specificazione della clausola ex co 5 art. 111 Cost.
Conclusa questa parentesi circa la natura del c.d. negozio probatorio, e tornando alla disamina delle forme che in consenso può assumere, va detto che, più in generale, il “consenso delle parti”, assunto a regola grazie alla l. n. 479 del 1999[71], può configurarsi come meccanismo di recupero probatorio ampio, che consente l’utilizzabilità per la formazione del libero convincimento del giudice, non solo delle dichiarazioni rese in una fase precedente e diversa dal giudizio, ma anche di atti di cui, a norma dell’art. 514 c.p.p. è vietata la lettura.[72]
Attraverso tale meccanismo è riconosciuto, alle parti, un potere dispositivo in ordine all’acquisizione di atti di indagine al fascicolo per il dibattimento, che può essere esercitato in due distinte fasi processuali: al termine dell’udienza preliminare, ovvero nella fase degli atti introduttivi al dibattimento. Tale potere non subisce preclusioni per un eventuale esercizio, nel senso che esse possono continuare ad accordarsi circa l’acquisizione di atti che non erano ancora stati oggetto di negoziazione anche nel corso del dibattimento e fino alla discussione finale, e ciò sia perché gli artt. 493 comma 3 e 555 comma 4 c.p.p. non prevedono sanzioni processuali in merito, sia perché l’art. 173 comma 1 c.p.p. prevede un principio di tassatività dei termini previsti a pena di decadenza.
Tuttavia, e qui veniamo a rispondere – in parte- alla domanda iniziale, il potere concesso alle parti in tema di valenza probatoria di atti formatisi senza il rispetto del contraddittorio è soggetto ad “esaurimento”, nel senso che il consenso alla loro utilizzabilità non è revocabile. [73] Allo stesso modo, pur nel silenzio di legge, dovrà ritenersi che, se le parti, in sede di formazione del fascicolo per il dibattimento all’esito dell’udienza preliminare, no si oppongono all’inserimento di un atto e si trovano, quindi, a prestare un consenso tacito alla richiesta della controparte, saranno da ritenersi decadute dalla facoltà di richiederne l’esclusione.
Ovviamente va detto che la preclusione sarà efficace solo nei confronti delle parti che hanno partecipato alla formazione del fascicolo; conseguentemente, in caso di riunione di processi pendenti innanzi al medesimo giudice del dibattimento, gli atti de quibus saranno utilizzabili solo nei confronti delle parti che abbiano prestato il consenso all’acquisizione. [74]
Il consenso probatorio è, dunque, irrevocabile. Ma con riferimento al consenso prestato dall’imputato al rito alternativo, il discorso della revocabilità non è parimenti semplice, e tanto più si complica a seguito della novella dell’art. 438 c.p.p. ad opera della c.d. riforma Orlando la quale modifica il comma 4 dell’art. citato, che ora così dispone: «Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato. Quando l'imputato chiede il giudizio abbreviato immediatamente dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive, il giudice provvede solo dopo che sia decorso il termine non superiore a sessanta giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa. In tal caso, l'imputato ha facoltà di revocare la richiesta».
Doverose sono delle precisazioni. In primo luogo, il comma de qua non può che fare riferimento all’ipotesi di giudizio abbreviato c.d. “secco”, ove si decide in base a quello che è già stato acquisito al procedimento, ancorché depositato immediatamente prima della stessa richiesta di accesso al rito speciale mentre, nel caso del rito “condizionato”, il p.m. ha sempre la possibilità di chiedere l’ammissione di una prova contraria.
Pertanto, l’introduzione del termine per le indagini “a confutazione” non può riferirsi a questa seconda forma di giudizio abbreviato.
L’ipotesi considerata, dunque, è quella in cui le indagini difensive siano state già acquisite al complesso delle prove utilizzabili ai fini della decisione ed immediatamente dopo sia stata formulata una richiesta di giudizio abbreviato “secco” che il giudice non può rigettare per motivi attinenti le prove. A questo punto, se l’imputato deposita i risultati delle proprie indagini difensive e immediatamente dopo chiede l’abbreviato, dovrà attendere, per la propria ammissione al rito, l’ulteriore termine di sessanta giorni concesso al p.m. (dietro eventuale richiesta di quest’ultimo) per lo svolgimento di ulteriori indagini “sui temi di prova introdotti dalla difesa”, stante il principio della tendenziale completezza delle indagini, in virtù del quale il Pubblico ministero dovrebbe giungere a formulare l’eventuale richiesta di rinvio a giudizio solo dopo aver esplorato tutte le ipotesi ricostruttive del fatto ed ha raccolto tutti gli elementi rinvenibili attraverso le indagini, sia contro che a favore dell’indagato. Tuttavia, il segreto istruttorio che accompagna le indagini preliminari fa sì che l’imputato sconti un “gap” conoscitivo rispetto all’accusa e che la difesa goda di un lasso di tempo molto ridotto per recuperare il ritardo investigativo accumulato rispetto all’accusa – arco temporale che inizia a decorrere dalla notifica dell’avviso ex 415 bis c.p.p. e termina con la celebrazione dell’udienza preliminare.[75]
Nonostante lo squilibrio già esistente, a favore dell’accusa, la norma concede infatti al magistrato del P.M. la possibilità di richiedere un ulteriore temine di 60 giorni per portare avanti nuove indagini tese a confutare gli elementi introdotti e favorevoli all’imputato.
La riforma va, dunque, ad essere fonte di un ulteriore squilibrio tra le parti e denota una “sfiducia nei confronti del materiale probatorio proveniente dalle parti private?
L’unica possibilità che permane, in capo all’imputato, costretto a rimanere inerte rispetto alla chiara lesione del principio di parità delle parti, è esercitare la propria “facoltà di revocare la richiesta” di giudizio abbreviato, ove a seguito dell’integrazione dello stato degli atti valuti per lui non più conveniente la celebrazione del rito.
Il laconico inciso lascia aperti dubbi interpretativi in particolar modo con riferimento ai tempi in cui l’istanza di revoca può essere proposta: fin dal momento in cui il P.M. richiede il termine per lo svolgimento delle ulteriori indagini, ovvero dopo che queste siano state svolte?
L’interesse alla revoca della richiesta può sussistere in entrambi i casi: nel primo, ove l’imputato voglia scongiurare l’acquisizione di elementi di prova a carico che sa esistenti; nel secondo, ove lo stato degli atti derivante dall’integrazione non renda più conveniente la rinuncia alle garanzie del contraddittorio dibattimentale. Ammettendo che la scelta a favore della revoca possa essere esercitata a seguito del mutamento dello stato degli atti, l’imputato si troverebbe di fronte ad una scelta “al buio”[76], poiché la norma non prevede un termine a difesa per valutare i contenuti delle indagini suppletive svolte dall’accusa. [77]
È, dunque, lecito dubitare della legittimità costituzionale del nuovo art. 438 c. 4 c.p.p. (con riferimento agli artt. 24 c. 2 e 111 c. 3 Cost.), nella parte in cui non concede all’imputato un congruo termine a difesa per poter decidere in ordine alla revoca della richiesta di giudizio abbreviato.[78]
La scelta legislativa di legare la facoltà di revoca alla concessione del termine di 60 giorni, può essere letta come volontà di escludere tale opzione in caso di un inter procedimentale differente, e , benché giurisprudenza e dottrina ammettano pacificamente la revocabilità della richiesta di giudizio abbreviato fino al provvedimento del giudice che dispone il rito alternativo[79], la norma continuerebbe comunque ad essere terreno fertile per quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui una disposizione che riconosca facoltà di revoca «non è suscettibile di applicazione oltre i casi espressamente previsti».[80]
E per quanto attiene il patteggiamento?
Per meglio comprendere se la richiesta di applicazione pena su richiesta presentata dall’indagato ai sensi dell’art. 447 c.p.p. (a cui faccia seguito il consenso del P.M), avanzata poco dopo la notifica dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p. (e comunque prima che la Procura assuma le decisioni del caso) possa essere revocata prima che il Giudice competente sia chiamato a pronunciarsi, bisognerà guardare a diverse pronunce della Corte di Cassazione.
In tema di revocabilità della richiesta di patteggiamento, non v’è dubbio che la prevalente giurisprudenza di legittimità risulti essersi orientata nel senso di escludere tale possibilità; Le argomentazioni addotte a fondamento di tale tesi sono varie, e possono essere così sintetizzate: “con il consenso del pubblico ministero, infatti il procedimento si avvia verso un epilogo anticipato che, con l’assunzione da parte dell’inquisito della qualità di imputato, e l’esercizio dell’azione penale, non consente il ritorno alla fase delle indagini preliminari” [81]; l’istituto del patteggiamento è d’altronde finalizzato ad assicurare la massima semplificazione processuale e la conseguente rapida definizione dello stesso, scopi che verrebbero ad essere vanificati dalla introduzione di comportamenti ad esso contrari”.
Tuttavia, il dibattito giurisprudenziale è, a tutt’ora, aperto. Procedendo a ritroso, vedremo che la Corte si è pronunciata, da ultimo, nel 2018, affermando che In tema di patteggiamento, l'accordo tra l'imputato e il pubblico ministero costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che - una volta pervenuto a conoscenza dell'altra parte e quando questa abbia dato il proprio consenso - diviene irrevocabile e non è suscettibile di modifica per iniziativa unilaterale dell'altra, in quanto il consenso reciprocamente manifestato con le dichiarazioni congiunte di volontà determina effetti non reversibili nel procedimento. [82]
Nella sentenza de qua, la Corte, nel dichiarare manifestamente infondate le pretese del ricorrente, ha escluso la possibilità di revoca del consenso sulla scorta di un indirizzo giurisprudenziale precedente[83], cui si è andata uniformando, secondo cui, “l'accordo tra l'imputato e il pubblico ministero costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che - una volta pervenuto a conoscenza dell'altra parte e quando questa abbia dato il proprio consenso - diviene irrevocabile e non è suscettibile di modifica per iniziativa unilaterale dell'altra, determinando il consenso reciprocamente manifestato con le dichiarazioni congiunte di volontà effetti non reversibili nel procedimento.” [84]
Esiste, però, un altro orientamento della Corte di Cassazione, che trova il proprio riferimento nella sent. 8 aprile 2015, n. 15231 della sez. IV. Essa sentenza stabiliva, in tema di patteggiamento, che il consenso prestato alla richiesta di applicazione della pena è sempre revocabile qualora, dopo la stipulazione del patto e prima della pronuncia della sentenza ex art.444 c.p.p. sopravvenga una legge più favorevole. Tale decisione, in realtà, è punto di intersezione tra due temi differenti: da una parte, quello dell’istituto della messa alla prova e la sua configurabilità come “lex mitior”; dall’altra. gli effetti di tale legge più favorevole sull’istituto del patteggiamento, con particolare riferimento alla revoca del consenso prestato prima della sopravvenienza della legge più mite. [85]
Preme precisare che la revoca del consenso al patteggiamento per ius superveniens, non può, in nessun caso, comportare automatismo nell’applicazione del trattamento sanzionatorio più mite, essendo il giudice, piuttosto, chiamato ad invitare le parti ad un nuovo accordo (o, in difetto, a procedere al corso della procedura).
L’orientamento appena esposto, e quindi la possibilità di revocare il consenso al patteggiamento per sopravvenienza di legge più favorevole, si porrà, dunque, come eccezione rispetto all’orientamento consolidato dalla Corte [86] circa l’irreversibilità degli effetti dell’accordo al patteggiamento in forza dell’incontro di volontà delle parti.
Concludendo, quindi, e tornando alla domanda iniziale, la scelta a favore dell’irrevocabilità del consenso sarà assoluta, con riferimento al c.d. consenso probatorio, e relativa – prevedendosi le dovute eccezioni –, con riferimento al consenso prestato per una risoluzione in via alternativa della controversia. [87]
5. CONCLUSIONI
Il decongestionamento dei procedimenti (da annoverare tra i motivi che hanno portato ad approntare forme alternative al procedimento ordinario) avviene grazie al c.d. sistema bifasico del processo, che consente all’imputato di scegliere la “via preferenziale” che gli consenta di uscire dal circuito penale prima ancora della pronuncia del giudice (in tal senso il patteggiamento, il rito abbreviato e la mancata opposizione al decreto penale di condanna). [88]
Agli istituti previsti già dall’entrata in vigore del codice, si sono, più di recente, aggiunte altre modalità interamente orientate a realizzare gli effetti di deflazione carceraria, come avvenuto con il Decreto “svuota carceri” (d.l. n. 146 del 2013) e con l’ancor più recente legge 28 aprile 2014, n.67, introduttiva dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova per gli imputati adulti; a ciò va affiancata l’introduzione (o il suo tentativo) di diversi istituti espressione della c.d. restorative justice.
Assodato che quello processuale è un sistema che tende alla ricerca della verità, prescindendo, in questa sede, dalla disamina tra verità storica e verità processuale, se consideriamo il processo come strada che porta alla verità, non possiamo non notare che il legislatore ha predisposto delle scappatoie.
I riti alternativi, infatti, si basano sulla rinuncia alla garanzia del contradittorio che porta, inevitabilmente, a svilire la decisione, fondata su una verità più rapida, ma “meno vera” o solamente “equiparata”[89].
Alla verità si può preferire un risparmio in termini di tempo? E, se non è detto che il processo, pur seguendo la strada ordinaria, giunga alla verità vera, è giusto rinunciare a cercarla in favore del valore della certezza dei fenomeni giuridici?
Si può affermare che il processo non è necessariamente il luogo in cui si ricerca una verità, ma il luogo preposto anche ad agevolare una reciproca rinuncia alla stessa da parte dei soggetti coinvolti, in cambio di una mediazione che consenta di ottenere una tutela di tipo negoziale.
Con i riti alternativi, dunque, possiamo dire che sia lo stesso processo ad agognare la propria fine: il processo “rivendica il suo diritto all’eutanasia”.[90]
Quanto finora detto vale a motivare l’atteggiamento riformista del legislatore, che è andato ad estendere significativamente l’ambito di applicazione di tali riti tanto da farli apparire orientati al solo fine deflattivo e quasi da far credere che, come nello spesso imitato processo americano, si potesse prescindere da forme ordinarie di giurisdizione.
Si può, dunque, affermare che si è assistito ad un “abuso” della “favola” del consenso dell’imputato come chiave d’accesso a soluzioni che sono andate via via esacerbando le stesse natura e ratio iniziali delle ADR.
In maniera forse provocatoria, con riferimento alle modalità di ingresso, nel nostro ordinamento, dei meccanismi di diversione, potremmo dire di trovarci dinanzi al proverbiale “cane che si morde la coda”. In considerazione del ricorso sempre più frequente a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, che appaiono quali strumenti di deprocessualizzazione, non si può non notare uno dei principali paradossi cui si va incontro: assistiamo all’eccezione che si fa regola.
Ma, anche lì dove non può parlarsi di deprocessualizzazione nel senso più puro del termine, viene in essere un “compromesso”: con la sospensione del processo con messa alla prova, ad esempio, il processo viene, appunto, sospeso, e laddove la prova giunga ad una valutazione positiva, il reato si estinguerà; allo stesso modo, anche giudizio abbreviato e applicazione della pena su richiesta costituiscono un compromesso, il quale va tutto a discapito dell’accertamento, che dovrebbe essere la funzione primaria e precipua del processo.
Lo svilimento del processo nella sua funzione di accertamento porta inevitabilmente a delle conseguenze: minore è il “livello” dell’accertamento, minore è il livello delle garanzie connesse allo svolgimento ed all’esito del procedimento stesso. E non è, forse, anche questo un paradosso?
Possiamo dunque affermare che, proprio a partire dalla costruzione del giusto processo come costituzionalizzato dall’art. 111 Cost., ed attraverso una sua lettura condizionata dai valori e dalle esigenze che, di volta in volta, la società ritiene preminenti, si è giunti ad un potenziamento della tendenza alla deprocessualizzazione.
In altre parole, una lettura “derivata” delle garanzie del giusto processo consente, dunque, il consolidarsi di una tendenza che va ad eliderlo; estremizzando, potrebbe quasi dirsi che il giusto processo, in tal senso, si erode dall’interno.
Proprio qui sta il paradosso: non si può parlare di un vulnus, poiché facciamo riferimento ad una costruzione, quella del giusto processo, tendenzialmente perfetta. Eppure, a partire da una delle garanzie, si perviene all’erosione delle altre garanzie; e l’eccezione, dunque, diviene regola.
Note e riferimenti bibliografici
[1] L.MARAFIOTI, La giustizia penale negoziata, in G.Conso (a cura di) Studi di diritto processuale penale, Milano, 1992.
[2] F.CARNELUTTI, Meditando Capograssi…variazioni sull’accordo in Riv. Dir. Proc. 1957, p. 504.
[3] V.VOLK, Verità, diritto penale sostanziale e processo penale in Giusto processo, n.8/1990, p. 385 ss.
[4] C.CONTI, Le due “anime” del contraddittorio nel nuovo art. 111 Cost, in Dir. Pen e proc., 2000, p. 200.
[5] V.GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio in Riv.it. dir. proc.pen., 1999, n.3, p. 845.
[6] Così E.CAMPOLI, I poteri dispositivi delle parti, la prova ed il controllo del Giudice nelle indagini preliminari, relazione relativa all’incontro di studio organizzato dal CSM nei giorni 8-10 ottobre 2001.
[7] C.COST. sent. n. 361/1998 – il processo penale è strumento «non disponibile» di accertamento dei fatti di reato.
[8] G.SPANGHER, Verso un processo di parti in Studium iuris,2002, p.469 ss.
[9] Per tale definizione S. ERBANI, sub art. 444 c.p.p. in G. LATTANZI- E. LUPO (a cura di), Codice di procedura penale. Raccolta di giurisprudenza e di dottrina, 2008, p. 267.
[10] L. 24 novembre 1981, n. 689. L’istituto era comunemente noto come “patteggiamento” o “mini patteggiamento”. Sul tema A. MACCHIA, Il patteggiamento, Milano, 1992, p.6.
[11] Le novità più significative hanno riguardato il giudizio abbreviato ed il procedimento per decreto.
[12] G. SPANGHER, L’applicazione di pena su richiesta delle parti, in AA.VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale – commento alla Legge 16 dicembre 1999, n.478 (c.d. legge Carotti), vol III, Le innovazioni in tema di riti alternativi, R.NORMANDO (a cura di), Milano, 2000.
[13] CORTE COST., 26 giugno-2 luglio 1990, n.313, in Foro.it, 1990.
[14] Su queste prospettive di riforma, vari autori, tra cui S.MOCCIA, La nuova pena concordata, in AA.VV., Proposte di riforma del processo penale, in Annali dell’ist di dir. e proc. per. Univ. Salerno, 1997, p. 54.
[15] La peculiarità delle modifiche trovava giustificazione nella volontà politica di uscire da “Tangentopoli”. Così G.SPANGHER , L’applicazione di pena su richiesta delle parti, op. cit., p. 101.
[16] R.KOSTORIS, Con il nuovo “patteggiamento allargato” il rischio di una gigantesca negoziazione, in Guida dir., 2003/25, p.9.
[17] R. BETTIOL, Riflessioni aperte dalla legge in materia di applicazione della pena su richiesta, in Dir. pen. proc. 2004, p.230; S.LORUSSO, Il patteggiamento “allargato” tra limiti all’accertamento della verità ed esigenze di deflazione processuale, in Dir. pen. proc., 2004, p.665.
[18] A.MARANDOLA, Modifiche ai riti speciali, in Dir. pen. e proc., Milano, 2017, vol.10, p. 1318.
[19] Per una più puntuale disamina, A.MARANDOLA, Modifiche ai riti speciali, cit., p. 1318-1319.
[20] F.BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, p. 85.
[21] P.TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2016, p. 814.
[22] CASS.CIV. 6 agosto 2018, n. 20562. Si parla di trasformazione del rito alternativo in prova “blindata. Il patteggiamento è “indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione”. In pratica, la sentenza di patteggiamento può “ben essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che l’imputato non nega la propria responsabilità ed accetta una determinata condanna. Il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità”. Ma non solo: “Il giudice civile può anche utilizzare le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniale (senza alcuna garanzia difensiva, ndr) e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito con il patteggiamento”.
[23] BUTRON BALINA P.M., La conformidad del acusado en el proceso penal, Madrid, 1998,p. 51.
[24] BARONA VILAR S., Seguridad, celeridad y justicia penal, Valencia, 2004,p.205.
[25] AGUILERA MORALES M., El Procedimiento para el enjuiciamiento rapido de determinados delitos, in La reforma de la ley de enjuiciamiento criminal: comentario a la ley 38/2002 y a la ley organica 8/2002, de 24 de octubre, a c. di GASCON INCHAUSTI F., AGUILERA MORALES M., Civitas, Madrid, 2003,402.
[26] MORENO VERDEJO J., La conformidad en el proceso penal: especial referncia al procedimiento abreviado yjuicio rapido (pubblicazione del Ministero della Giustizia spagnolo) reperibile su http://www.cej.justicia.es/pdf/publicaciones/fiscales/FISCAL71.PDF.
[27] QUATTROCCOLO S./LUACES GUTIERREZ A.I., Conformidad e patteggiamento: spunti per un’analisi comparata tra Spagna e Italia, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 357.
[28] GASCON INCHAUSTI F., La reforma del procedimiento abreviado, in El Procedimiento para el enjuiciamiento rapido de determinados delitos, in La reforma de la ley de enjuiciamiento criminal: comentario a la ley 38/2002 y a la ley organica 8/2002, de 24 de octubre, a c. di GASCON INCHAUSTI F., AGUILERA MORALES M., Civitas, Madrid, 2003, 141.
[29] BARONA VILAR S., Seguridad, celeridad y justicia penal, Valencia, 2004, 210.
[30] F. MOLINS, voce Comparution sur reconnaissance préalable de culpabilité, in Rep. Droit. Pen. Proc. Pen. D. 2016
[31] PRADEL, Le plaider coupable, confrontantion des droits americain, italien et francais, in RIDC, 2005, n. 2, p, 473 ss.; GALANTINI, Plaider coupable e patteggiamento in DOLCINI – PALIERO (a cura di), Studi in onore di G. Marinucci, Giuffré, 2006, p. 2764 s.;
[32] M.CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Napoli, 2009, p.89.
[33] R.E. SCOTT - W.J. STUNTZ, Plea bargaining as contract, in The Yale law review, 1992, p. 1909 ss.
[34] F.H. EASTERBROOK, Criminal procedure as a market system, in Journal of legal studies, 1983, p. 297 ss. Il limite della metafora è che si finisca per credere «che il processo sia realmente un libero mercato, identico agli altri esistenti nel mondo. In proposito, non ci si può astenere dal rilevare, innanzitutto, come il fatto che il sistema penale e processuale siano spiegabili pure con le leggi del mercato non significa che siano soltanto dei mercati. Anche la magia ha leggi per spiegare l’esistente, ma da qui a dire che sia l’unico modo per spiegarlo, il passo è lungo».
[35] V. FANCHIOTTI, Origine e sviluppo della “giustizia contrattata” nell’ordinamento statunitense, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1984, p. 59, dove si evidenzia che nell’ordinamento nordamericano il pubblico ministero diviene il protagonista indiscusso, sostituendosi sovente ed in buona misura al giudice; egli è «il dominus del plea bargaining».
F. GIUNTA, Qualche appunto su plea bargaining, funzioni della pena e categorie penalistiche, in Cassazione penale, 1987, p. 1047: è piuttosto diffusa nella letteratura d’oltreoceano l’affermazione secondo la quale «il plea bargaining non è che un aspetto, una conseguenza pratica ed inevitabile del principio della discrezionalità dell’azione penale».
[36] V. FANCHIOTTI, Riflessioni sulla giustizia penale in U.S.A., in Cassazione penale, 1998, p. 317-318.
[37] F. GIUNTA, Qualche appunto su plea bargaining, funzioni della pena e categorie penalistiche, cit., p. 1047.
[38] La selective prosecution, garantisce l’uguaglianza dinanzi alla legge, impedendo che la selezione di fatti e soggetti si ispiri a criteri costituzionalmente vietati; tuttavia si esige un onere probatorio pesante, poiché dee provarsi sia l’effetto sia l’intento discriminatorio. La vindictiveness, invece, concerne il comportamento ritorsivo dell’accusa che impedisce alla parte l’esercizio di diritti costituzionalmente tutelati cui la medesima non voglia rinunciare.
[39] M.CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, cit., p.135.
[40] M. CHERIF BASSIOUNI, Linee del processo penale negli U.S.A., in AA.VV., Prospettive del nuovo processo penale, a cura di A.M. Stile, Napoli 1978, p. 52.
[41] R. RAUXLOH, Plea bargaining in national and international law: a comparative study, New York 2012, p. 27.
[42] V.FANCHIOTTI, Origine e sviluppo della “giustizia contrattata” nell’ordinamento statunitense, cit., p.56 ss.
[43] M.CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, cit., p.89 ss.
[44] L’ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato deve essere consapevole e volontaria; altresì debbono sussistere i riscontri fattuali della sua responsabilità. K.GRAHAM, Crimes, widgets and plea bargaining: an analysis of charge content, pleas, and trials, in California law review,2012, p.1584 ss.
[45] M.CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, cit., p.96.
[46] V.FANCHIOTTI, Origine e sviluppo della “giustizia contrattata” nell’ordinamento statunitense, cit., p.58.
[47] R. RAUXLOH, Plea bargaining in national and international law: a comparative study, cit., p. 25 ss. Cfr. K. GRAHAM, Crimes, widgets and plea bargaining: an analysis of charge content, pleas, and trials, in California law review, 2012, p. 1584 ss.
[48] F. GIUNTA, Qualche appunto su plea bargaining, funzioni della pena e categorie penalistiche, cit., p. 1050.
[49] F. GIUNTA, Qualche appunto su plea bargaining, funzioni della pena e categorie penalistiche, cit., p. 1047.
[50] R.GAMBINI MUSSO, Il «plea bargaining” tra common law e civil law, cit.
[51] North Carolina v. Alford, 400 U.S., 25, 31 (1970).
[52] Analogamente statuiscono gli Standards Relating to Guilty Pleas, New York, Institute for Judicial Administration, 1967, pp. 8,30.
[53] BRUNK, The Problem of Voluntariness and Coercion in the Negotiated Plea, in Law &Soc. Rev., 1979, p.542.
[54] R. GAMBINI MUSSO, Il «plea bargaining” tra common law e civil law, cit., p.73.
[55] United States v. Jackson, 390 U.S. 570 (1968).
[56] Brady v. United States, 397 U.S. 742 (1970).
[57] Corbit V. New Jersey, 439 U.S. 212,226 (1978); Brady v. United States, loc. cit.
[58] R. GAMBINI MUSSO, Il «plea bargaining” tra common law e civil law, cit., p. 115 ss.
[59] A. GHIARA, Applicazione delle sanzioni sostitutive su richiesta dell’imputato, in Giustizia Penale, 1982, p. 588 ss., a proposito della normativa contenuta nella legge del 24 novembre 1981 n. 689. Analoghe considerazioni valgono per il patteggiamento, o meglio per l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.
[60] M.CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, cit., p. 252.
[61] Il plea bargaining presenta significative differenze rispetto al rito di cui all’ art. 444 c.p.p. Esso, infatti, presuppone la confessione dell’imputato e si caratterizza per modalità e termini dell’accordo che lasciano alla volontà delle parti l’intera disponibilità del processo, avendo un oggetto talmente ampio che, in molti casi, come la promessa del prosecutor circa l’immunità dell’imputato per reati diversi da quelli per cui si procede, è incompatibile con i principi fondamentali del nostro ordinamento.
[62] E.M.MANCUSO in AA.VV., Procedura penale- teoria e pratica del processo, G.GARUTI (a cura di), vol.3, Milano, 2015, p.95.
[63] A.PROCACCINO, Il negozio probatorio dibattimentale,in G.CONSO (a cura di) Studi di diritto processuale penale, Milano, 2010, p. 30.
[64] V. BONINI Forme di manifestazione e contenuti della giustizia penale consensuale in AA.VV. Scritti in onore di Antonio Cristiani, Torino, 2001, p.58.
[65] Per una disamina più puntuale, E.M. CATALANO, L’accordo sui motivi di appello, Milano, 2001, p.40.
[66] DEL COCO, Disponibilità della prova penale e accordi tra le parti, Milano, 2004, p.12.
[67] A.FURGIUELE, La prova per il giudizio nel processo penale, Milano, 2007, p.522.
[68]A.PROCACCINO, Il negozio probatorio dibattimentale, cit., p. 37. Una tale bipartizione della dottrina non può che rispecchiare l’endiadi tra concezione del contraddittorio come garanzia soggettiva da una parte, e quale metodo di accertamento – e quindi a carattere squisitamente oggettivo- dall’altro.
[69] A.PROCACCINO, Il negozio probatorio dibattimentale, cit., p. 43.
[70] UBERTIS, Sistema di procedura penale, I, Principi generali, Torino, 2007, p.153.
[71] L’art. 26 della l. n. 476 del 16 dicembre 1999, introduce il comma 2 dell’art. 431 c.p.p.
[72] Tale meccanismo è previsto in via generale dagli artt. 431 comma 2 e 493 comma 3 c.p.p., nonché, per specifici atti, da specifiche disposizioni, come l’art. 500 comma 7 c.p.p.
[73] A. FURGIUELE, La prova per il giudizio nel processo penale, Torino, cit., p. 522
[74] Per approfondimento, A. FURGIUELE, La prova per il giudizio nel processo penale, cit.
[75]A.PAOLETTI, Giudizio abbreviato: le modifiche introdotte dalla riforma Orlando, https://www.avvocatoalessandropaoletti.it/2017/11/19/giudizio-abbreviato-riforma-orlando/
[76] L.CARACENI, La legge 103/2017 e i significativi ritocchi alla disciplina del giudizio abbreviato, in www.lalegislazionepenale.eu
[77] La possibilità di un termine a difesa può essere prospettata soltanto se, prima della decisione del giudice sulla richiesta, il pubblico ministero procedesse ad una modifica dell’imputazione, ai sensi dell’art. 423 co. 1 c.p.p. - A. BASSI, Le modifiche in tema di rito abbreviato, in La riforma Orlando: tutte le novità, speciale riforma de Il penalista, Milano 2017, 56. In questo caso, in analogia con quanto previsto dall’art. 441-bis co. 3 c.p.p., l’imputato avrebbe diritto ad un massimo di dieci giorni di tempo per formulare l’istanza di revoca ovvero per «l’integrazione della difesa». Ovviamente siamo di fronte a due ipotesi di revoca molto diverse tra loro: una investe la richiesta del rito e lo stato degli atti su cui si forma la volontà dell’imputato; l’altra l’ordinanza che lo ha già ammesso ed il fatto addebitato.
[78] L.CARACENI, La legge 103/2017 e i significativi ritocchi alla disciplina del giudizio abbreviato, cit.
[79] Cass. 28.3.2008 n. 19528, in CED Cass m. 239754
[80] in questo senso, Cass. 23.6.2004 n. 28355, in CED Cass m. 229590.
[81] L.TRAMONTANO (a cura di), Codice di procedura penale.
[82] Cass. Pen. Sez. V 16 ottobre 2017 - 30 gennaio 2018, n. 4401
[83] Cass. Pen. Sez. I, n. 48900/2015
[84] In senso conforme Cass. Pen. Sez VI 1 aprile 2015 n.18134; Sez IV 11 luglio 2012 n.38070 in CED Cass n 254371.
[85] In tal senso anche Cass Pen. Sez. IV, 23 febbraio 2012, n. 11209.
[86] Si collocano perfettamente nel dibattito anche Cass Pen Sez II, 17 dicembre 2014, n. 4261- quando, a seguito di riqualificazione giuridica della contestazione interviene un nuovo accordo fondato, appunto, sulla nuova imputazione, la nuova manifestazione di volontà si sovrappone alla precedente e comporta un’ovvia carenza di interesse delle parti sul primo accordo e , di conseguenza, sull’illegittimità della revoca del consenso prestato al primo accordo; Cass pen Sez IV, 12 febbraio 2010, n. 7300 – “una volta che le parti abbiano prestato il proprio consenso al patteggiamento, non possono più revocarlo, come si desume dall’art.447 comma 3 c.p.p. il quale stabilisce, da una parte, che, prima della scadenza del termine fissato all’altra parte per esprimere il consenso o il dissenso, non è consentita la revoca, e, dall’altra, che, una volta che l’altra parte abbia dato il proprio consenso, il giudice deve fissare l‘udienza per la decisione nel corso della quale sono previste solo le ulteriori normali attività processuali, ma non certo la revoca del consenso che, essendo il frutto di un accordo bilaterale, non può essere revocato “ad nutum”.
[87] Quelle analizzate sono, di certo, le ipotesi più frequenti, ma non mancano pronunce relative anche ad altri casi di consenso. In tal senso Cass Pen Sez II del 4 febbraio 2016, n 4864, la quale, in tema di mandato d’arresto europeo , dichiara irrevocabile il consenso alla consegna validamente prestato dall’interessato, trattandosi di un negozio unilaterale recettizio insuscettibile di revoca, esplicita o implicita; ed ancora Cass Pen Sez VI del 15 ottobre 2013, n. 46205, la quale, in tema di esecuzione all’estero di una sentenza penale italiana di condanna a pena detentiva, prevede che il condannato possa revocare il consenso al trasferimento anche dopo la deliberazione della Corte d’appello quando le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sue determinazioni si siano successivamente modificate per effetto di nuovi elementi non prevedibili.
[88] V.LARUFFA, La “messa alla prova”: novità applicative e criticità di uno strumento giuridico di deflazione carceraria, in Rass. Avv. Stato n.4, 2015, p. 231.
[89] V.MUSCATIELLO, Il processo senza verità, in AA.VV., Verità e processo penale, INCAMPO- GAROFOLI (a cura di), Milano, 2012, p.82-92.
[90] G.DALIA, Convincimento giudiziale e ragionevole dubbio, A.GIARDA-G.SPANGHER-P.TONINI (studi raccolti da) Problemi attuali della giustizia penale, Milano, 2017, p. 13.