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Pubbl. Mer, 12 Dic 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Il rigetto della richiesta di C.T.U. va motivato dal Giudice

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Maria Avossa
Università degli Studi di Salerno


Sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851 della Suprema Corte di Cassazione: la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d´ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare.


Sommario: 1. Introduzione. - 2. La consulenza tecnica d’ufficio: struttura e funzione. - 2.1. La natura della C.T.U.: il rapporto tra consulenza tecnica d’ufficio e mezzi di prova. – 2.2 La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. - 2.3. I precedenti giurisprudenziali in tema di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. – 3. La sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851 della Suprema Corte di Cassazione: il caso. – 3.1. Il commento della sentenza. - 4. Osservazioni conclusive. – Note al testo. – Bibliografia.

1. Introduzione

La Suprema Corte di Cassazione si è espressa con sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851 sulla questione giuridica relativa al potere discrezionale del giudice di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio. Dalla parte motiva della pronuncia è dato apprendere che il giudicante è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti allorquando decida di non avvalersi dello strumento tecnico previsto dall’art 61 c.p.c. In sede di motivazione il giudice dovrà, inoltre, dimostrare di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi connessi alla valutazione degli elementi tecnici rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza di parte sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare.

La sentenza in commento porge l’occasione al giurista di valutare la prospettiva della funzione della consulenza tecnica d’ufficio in rapporto all’esercizio della iurisdictio, attuata in maniera conforme all'art. 111, comma 6, della Costituzione italiana[1]. Questa disposizione -di carattere precettivo- ravvisa il fondamento del principio di obbligatorietà della motivazione nel nostro ordinamento processuale[2]. Preliminare all’avvio di talune riflessioni che si andranno ad affrontare in questa trattazione, è d’uopo una considerazione di carattere generale. Non vi è dubbio che un ottimale risultato formale e sostanziale di giustizia, volto a garantire la corretta soluzione al migliore esercizio del potere giurisdizionale e al diritto di difesa[3], sia rappresentata da una decisione completa di dispositivo e di una esaustiva motivazione. Quest’ultima è tradizionalmente intesa come la giustificazione giuridica e razionale della decisione giudiziaria. Essa è la manifestazione delle ragioni oggettive -suscettibili di verificabilità esterna- che hanno persuaso il giudice a decidere nei termini enunciati nel dispositivo[4]. L’obbligo della motivazione del giudicato assume un carattere ancora più evidente allorchè quest’ultimo coinvolga specifici elementi incidenti sul libero convincimento del giudice.

Al giorno d’oggi, il processo civile (come anche quello penale ed amministrativo) si presenta sempre più caratterizzato dall’ipertecnicità delle materie oggetto di indagine del giudice, tale da richiedere, sovente, l’intervento di professionisti portatori di nozioni diverse da quelle giuridiche che richiedono un impiego di sapienze che vanno al di là della cognizione dell’uomo medio. In tal maniera, l’assenza di un bagaglio di esperienze tecnico-scientifiche, relativo ad un particolare oggetto di indagine giudiziale all’esame del giudicante, gl’impedisce di fondarsi esclusivamente sulle proprie conoscenze per poter risolvere le specifiche questioni poste al suo vaglio. Si crea, pertanto, la necessità di fare riferimento all’apporto di cognizioni ampliative di soggetti esperti ed “esterni” che contribuiscano -con il proprio contributo professionale- alla decisione della controversia. Ciò può accadere in diversi modi ossia, integrando i collegi giudicanti con degli esperti designati in funzione della specializzazione dell’organo giudicante; in altri casi il quid pluris esterno consiste nell’audizione come testimone di un soggetto qualificato, sia pure nei limiti consentiti per tale prova testimoniale scientifica; in altri casi, ancora, si ha attraverso il ricorrere allo strumento, senz’altro più efficace, della nomina di un consulente tecnico -operata  dal Giudice- al quale conferire un preciso incarico per il singolo giudizio o per un atto specifico. In tale ultimo caso, che riguarda più da vicino l’oggetto di questo scritto, il peculiare rapporto che si crea tra giudice e consulente tecnico, si inserisce nel tema della c.d. “prova scientifica”. Questa s’innesta, a sua volta, nel contenzioso attraverso un accertamento spesso determinante per la decisione del procedimento, la cui elaborazione e valutazione va oltre la “perizia” (alias: conoscenza) del giudice, delle parti e dei loro difensori[5].

Si coglie, così, l’importanza del ruolo del consulente d’ufficio nell’ambito del processo (come anche, del perito e del consulente di parte) ma, soprattutto, si percepisce l’importanza del ruolo che svolge la preparazione tecnica e professionale di queste figure prestate a servizio della giustizia. Il dato è strettamente interconnesso al principio del “libero convincimento” del giudice. Se, da un lato, la consulenza tecnica di ufficio è destinata, per natura e funzione, a supportare ad adiuvandum l’organo giudicante nell’esercizio del suo libero convincimento, dall’altro quest’ultimo elemento tende a comprimersi in presenza di una prova scientifica rigorosa in materie caratterizzate da elevato tecnicismo.

Volendo approfondire il discorso, strutturandolo in un ragionamento per cerchi concentrici da più grande a più piccolo, ci si presenta dinanzi il problema di capire sino a che punto si estenda la discrezionalità del giudice nel rapporto esistente tra il libero convincimento dello stesso e la presenza di dati tecnici da assumere o assunti in una controversia. La riflessione, che tale circostanza ci porta a fare, si articola in diversi ambiti di indagine.

Un primo ambito si ha nell’ipotesi ampia in cui i dati tecnici siano stati ammessi ed assunti nel procedimento. In questo caso il processo risulta istruito da materiale probatorio costituito, in tutto o in parte, dalle risultanze di una prova tecnica o scientifica oppure è arricchito dagli elementi forniti da una consulenza di ufficio.  In tal caso si ragiona in termini di esistenza nel giudizio di elementi e dati forniti da tecnici incaricati: è in relazione a ciò che andrebbe valutato il potere discrezionale del giudice, come si dirà a breve.

Un altro ambito di indagine si ha nell’ipotesi inversa, cioè quella dell’assenza nel giudizio di elementi e dati provenienti da tecnici.  In tal caso un primo possibile interrogativo è: sino a che punto si estende il potere del giudicante di non avvalersi affatto di stime valutative conoscibili dagli esperti o dai tecnici di una determinata disciplina specialistica?

Andando, ancor più nello specifico e, quindi, tendendo ad avvicinarsi verso il centro dell’immaginifico cerchio concentrico del ragionamento qui imbastito, appare opportuno indagare, anche, su un terzo aspetto (ulteriore interrogativo) ossia: sino a che punto si estende il potere discrezionale del giudice di non fare ricorso (e quindi, non ammettere) la consulenza tecnica, anche, quando questi venga compulsato dall’ istanza di una o più parti del processo di ammettere una C.T.U.?

Andando per ordine si può osservare che la risposta al primo ambito di indagine risiede, in maniera palese, nell’importanza del ruolo del consulente tecnico e nella natura della sua opera. Il giudicante -pur potendo - difficilmente può discostarsi dal risultato di consulenza tecnica d’ufficio, dato l’ambito di assoluto rilievo dei profili di particolare specializzazione che quest’ultima offre all’accertamento giudiziale. Per quanto concerne, invece, il primo dei due interrogativi sopra illustrati, la risposta proviene da numerose pronunce della Corte di Cassazione e, non ultima, dalla recente sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851 che risolve il quesito, anche, del secondo interrogativo, che qui ci si è posti. La pronuncia rende evidente che il potere discrezionale del giudice si scontra (così, trovando il suo limite attuativo) con la posizione centrale assunta dalla “motivazione” del provvedimento, la quale condiziona la legittimità della scelta -pur possibile al giudice- “di non fare ricorso” a stime valutative del C.T.U. oppure “di rigettare” la relativa istanza di ammissione proveniente da una delle parti. A questo punto, è opportuno chiarire la funzione, la struttura e la natura della C.T.U. e, inoltre, soffermarsi sulla motivazione del provvedimento giudiziale, prima di affrontare l’analisi della sentenza in commento. Il fine ultimo è quello di inquadrare esattamente il potere discrezionale del giudicante di utilizzare o meno mezzi istruttori ausiliari per giungere alla decisione della controversia.  

2. La consulenza tecnica d’ufficio: struttura e funzione.

Ai sensi dell’art. 61 c.p.c. [6] [7], il giudice per dirimere questioni tecniche, scientifiche o artistiche complesse, può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti forniti di particolare competenza tecnica[8], scelti tra le persone iscritte in Albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile[9]. La consulenza tecnica di ufficio è il mezzo attraverso il quale è possibile introdurre nel processo un soggetto non facente parte del procedimento giudiziario, sia pur in funzione ausiliaria al giudice, poiché dotato di una particolare esperienza in una determinata arte o professione. I consulenti e i periti sono, pertanto, i soggetti adatti al compimento di attività cognitive che, per la loro complessità scientifica, il magistrato non è in grado di compiere.

La consulenza tecnica si connota nella sua struttura come la summa delle informazioni tecnico-scientifiche di cui il giudice “può” avvalersi ai fini della decisione, ma, al contempo, non costituisce un giudizio a cui il giudicante deve necessariamente conformarsi. Il magistrato, quindi, può accogliere le risultanze tecniche del consulente nominato oppure disattenderle. In tale ultima ipotesi il giudice dovrà obbligatoriamente esprimere le ragioni giuridiche in base alle quali ritenga di non accogliere le conclusioni dell’ausiliario preposto all’incarico. Ciò detto, il presidio dell’attività compiuta dal consulente tecnico ha come fine ultimo quello di integrare l’attività del Giudice quale organo decidente, e come tale può offrire:

  1. elementi per valutare le risultanze di determinate prove;
  2. elementi diretti di giudizio del quale, tuttavia, è comunque responsabile sempre e soltanto il Giudice.

Autorevole dottrina[10] ha efficacemente precisato che la Consulenza Tecnica rappresenta l’integrazione tecnica di un giudizio o, più chiaramente, definibile come “la dichiarazione disinteressata di un soggetto diverso dal Giudice, con la quale si pone quest’ultimo in grado di valutare gli elementi di giudizio raccolti per la decisione”.

  1. La natura della C.T.U.: il rapporto tra consulenza tecnica d’ufficio e mezzi di prova.

La consulenza tecnica -nei termini in cui oggi è nota- si pone in linea di ideale successione rispetto alla perizia prevista nella versione codicistica originaria del codice Zanardelli che la collocava tra i mezzi di prova a disposizione delle parti. L’odierna figura, però, se ne distacca. Nel rito civile, pur essendo regolamentata dal codice di procedura al secondo Libro, capo II, sezione III, sotto la rubrica “Dell’istruzione probatoria”[11], la C.T.U. trova il suo primo referente nel primo Libro, fra gli organi giudiziari, accanto agli altri ausiliari del giudice[12] [13]. Di fatto, il ricorso alla consulenza non è rimessa alla disponibilità delle parti, ma al potere discrezionale del giudice. A lui è demandata la facoltà di valutarne la necessità o l’opportunità, essendo la stessa utilizzabile per la soluzione di questioni relative a fatti accertabili a mezzo di cognizioni di ordine tecnico, dei dati di esperienza, dei fatti che sono strettamente collegati alla materia delle indagini che il Giudice può porre a fondamento della propria decisione. Ciò vale ad escluderlo come mezzo di prova[14], perché la precipua natura ausiliaria della consulenza d’ufficio comporta che il consulente demandato non possa essere incaricato di svolgere accertamenti di fatto, il cui onere probatorio incomba a carico di una o più parti processuali. Inoltre, quest’ultimo è indipendente dalle parti in causa, proprio perchè nominato per colmare eventuali lacune tecniche del giudicante e non per surrogare l’attività istruttoria non adempiuta dalle parti stesse.

E’ chiaro che la funzione propria della consulenza tecnica è quella di ausilio del giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni tecniche. L’aiuto fornito al giudice è quello di consentire il formarsi del suo convincimento sui fatti che sono rappresentati da altri mezzi di prova. Quindi, -si ribadisce- non un mezzo di prova in sé[15]. Ciò vuol dire che la C.T.U. non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume e può essere, pertanto, legittimamente negata dal giudice, qualora la parte disattenda all’onere probatorio. Invero, per principio generale incombe sulla parte del giudizio - ai sensi dell’art. 2697 c.c.[16] - l’onere di allegare i fatti che servono all’individuazione dei diritti che si fanno valere in giudizio e dei fatti che possono fondare eccezioni in senso stretto. I fatti giudizialmente rilevanti ai fini dell’oggetto di indagine sono fissati dal giudice in base ai mezzi di prova ed ai mezzi di presunzione ovvero alla mancata contestazione ai sensi dell’art. 115, comma 1°, c.p.c.. Rispetto a questi la consulenza tecnica serve a “interpretare” quei fatti quando per il loro inquadramento è necessario avere una conoscenza tecnica o scientifica volta a formare il convincimento giuridico del giudicante[17]. Il giudice non avrebbe la possibilità di basare la sua decisione su tali fatti, se questi, non fossero allegati dalle parti, o risultanti comunque dagli atti.  E’, però, altrettanto vero che il giudice può utilizzare fatti che non individuano i diritti fatti valere o che fondano eccezioni c.d. in senso lato (rilevabili anche dal giudice) se questi risultino dagli atti, quindi, emergano dall’attività istruttoria, anche se le parti non li abbiano espressamente allegati (fatti c.d. avventizi). In ragione di ciò, in riferimento alla consulenza tecnica, certamente quest’ultima non può essere utilizzata come strumento che valga a sostituire gli oneri di allegazione delle parti, purché, però, si specifichi l’ambito entro il quale quegli oneri operano. Detto ambito, si ripete, riguarda solo i fatti che individuano i diritti azionati ed i fatti che fondano eccezioni in senso stretto (rilevabili solo ad istanza di parte)[18].  Ad onor del vero, la giurisprudenza in maniera molto chiara ha individuato le due forme che può assumere la consulenza tecnica”[19]. È una distinzione netta. La prima cosiddetta “deducente” prevede attività di conoscenza che esige una “valutazione” circa fatti che risultano dalle mancate contestazioni, dai mezzi di prova o mezzi di presunzione, documenti etc. in quanto il consulente è chiamato, attraverso la sua specifica competenza, a dare una valutazione “su fatti già provati”. La seconda cosiddetta “percipiente” comporta un’attività che non esige una valutazione, ma “l’acquisizione della prova del fatto nel processo”, eventualità che si prospetta quando un simile accertamento è possibile solo se compiuto da un soggetto che abbia determinate conoscenze specialistiche. La giurisprudenza in tema di  C.T.U. c.d. “percipiente” ha tenuto a chiarire che, questa può essere considerata un mezzo istruttorio, anche se le parti non possono fondarsi semplicemente su di essa senza assolvere i loro oneri probatori, in particolare, i loro oneri di allegazioni[20]. Quand’anche la consulenza tecnica d’ufficio non sia da ritenersi prova nel processo, ma solamente un mezzo istruttorio rimesso alla disponibilità del Giudice, può, tuttavia, essere in grado di costituire fonte oggettiva di prova quando si concretizzi in uno strumento che, al di là di una valutazione tecnica, offra, anche, un accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente con il ricorso all’accertamento specialistico e a determinate cognizioni di carattere tecnico[21].

  1. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.

Più volte si è fatto riferimento sia alla motivazione dei provvedimenti giudiziari, sia al particolare profilo del diniego del giudice di voler far uso della consulenza tecnica di ufficio ed al suo dovere di motivarne la scelta. I due aspetti fanno da corollario all’analisi della sentenza 16 ottobre 2018, n. 25851 della Suprema Corte di Cassazione, qui in esame.

La motivazione del provvedimento giurisdizionale si configura come un elemento di valore essenziale nell’ottica dell’esternazione della tutela giurisdizionale di diritti ed interessi, di garanzie, di legalità e dell’effettività del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.. La motivazione è una delle parti essenziali della sentenza (o di altro provvedimento giurisdizionale), poiché rende pubbliche le ragioni della decisione assunta dal giudicante. L'obbligo della motivazione è, tradizionalmente, inteso come la giustificazione giuridica e razionale della decisione giudiziaria, ovverosia, l’esteriorizzazione delle ragioni oggettive-suscettibili di verificabilità esterna- che hanno condotto alla decisione nei termini enunciati nel dispositivo. A livello costituzionale la previsione dell’obbligo è indicata all'art. 111, comma 6 [22] ed è consacrata nella Carta Europea dei diritti dell’Uomo (art 6 C.e.d.u.)[23]. E’ attraverso la motivazione che le parti possono comprendere l’iter logico giuridico seguito dall’organo giudicante e, quindi, eventualmente (qualora ne sussistano i presupposti) sottoporlo a censure attraverso lo strumento dell’impugnazione, venendo così tutelato e garantito il diritto di difesa (art. 24 Cost.). Le forme, le strutture, i contenuti ed il modo in cui deve essere resa la motivazione vengono individuati dal legislatore ordinario per il tramite delle disposizioni processual-civilistiche[24]. Il codice di rito delinea una tripartizione dei provvedimenti giudiziari: la sentenza, l’ordinanza ed il decreto. Tale distinzione non opera soltanto sul piano formale ma rileva, anche, in rapporto alla funzione processuale svolta.  L’art. 131 c.p.c. prevede espressamente che sia la legge a prescrivere in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza e decreto e che, in mancanza di tali prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo[25]. Ogni tipologia di provvedimento fa capo, nella logica codicistica, ad una tecnica motivazionale differente. Le norme di riferimento sono le prescrizioni dell’art. 132 n. 4 c.p.c. (e 118 disp. att. c.p.c.) per la sentenza, l’art. 134 c.p.c. per l’ordinanza e, infine, l’art. 135 c.p.c. per il decreto. In particolare, mentre il decreto non deve essere motivato, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, ricorrenti i quali è sufficiente una motivazione “sommaria”[26], la sentenza e l'ordinanza devono essere, a pena di nullità, motivate: la prima “concisamente[27]”, la seconda “succintamente[28]”. L'uso locuzioni diverse è indicativo della volontà del legislatore di differenziare i tre tipi di motivazione in base al carattere diversificato delle tipologie di provvedimenti giudiziari indicati dall’art 131 c.p.c., senza con ciò escluderne l’essenzialità. Se da un lato la motivazione “coincisa” della sentenza fa capo ad una sommaria esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione (art.118 disp. att. c.p.c.), dall’altro la motivazione più snella e sintetica racchiusa nella locuzione “succinta” per l’ordinanza, denota per entrambe il “non venir meno” dell’obbligo del giudice di spiegare (motivare) le ragioni logico-giuridiche ricavate delle risultanze probatorie applicandole agli argomenti di diritto a base della decisione. Se si sposta l’ottica sull’ammissione o meno della consulenza tecnica d’ufficio richiesta da una o entrambe le parti in causa appare evidente che analogo dovere motivazionale, anche in questo caso, grava sul giudice con l’obbligo di adeguata motivazione nel caso in cui non ammetta o si discosti dalla C.T.U.. In tale caso la motivazione -sia pur resa nelle diverse forme previste per i provvedimenti- deve dimostrare la capacità del giudice di giungere alla decisione di una controversia: ciò vuol significare la possibilità di risolvere autonomamente e correttamente i problemi tecnici eventualmente connessi all’oggetto di accertamento, ai fatti di causa ed alle allegazioni delle parti. Non è sufficiente, quindi, una motivazione che si limiti a rigettare una richiesta di C.T.U. adducendo la carenza di prova in relazione ai fatti che l’ausiliare del Giudice avrebbe potuto accertare. La motivazione assenza o non adeguata (insufficiente) consisterebbe in un vizio del provvedimento suscettibile di censura in sede di impugnazione nelle forme e nei modi previsti dal codice di rito civile[29].

           2.3.  I precedenti giurisprudenziali in tema di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.

La Suprema Corte di Cassazione – sezione V – con sentenza 11 marzo 2015 n.4851 ha avuto modo di precisare che” In materia civile, deve ravvisarsi il vizio di carenza di motivazione tutte le volte in cui la sentenza non dia conto dei motivi in diritto sui quali è basata la decisione e dunque non consenta la comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, non evidenziando gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione  ed impedendo ogni controllo sul percorso logico-argomentativo seguito per la formazione del convincimento del Giudice”. Ulteriori lumi sono forniti dalla sentenza della Corte di Cassazione, sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642 la quale precisa che: “… si richiede infatti che una motivazione esista, sia chiara, comprensibile, coerente (pertanto non solo apparente), e - prima della riforma del 2012 - si richiedeva altresì che fosse sufficiente e non contraddittoria…” L’orientamento espresso in quest’ultima citata pronuncia della Suprema evidenzia che la giurisprudenza di legittimità ha spesso dato “…una lettura informale e funzionale della sentenza, meglio, della sua motivazione, affermando, nell'ottica della semplificazione e dello "snellimento" del lavoro del giudice, pur senza sacrificare chiarezza e precisione, che non è viziata per omessa o insufficiente motivazione la sentenza stesa su modulo predisposto, quando questo sia stato utilizzato o adattato in maniera tale che la motivazione ne risulti aderente alla concretezza del caso deciso, con gli opportuni specifici riferimenti agli elementi di fatto che lo caratterizzano (v. Cass. nn. 1570 del 1984; 275 del 1995 e - più recentemente, benché la diffusione del p.c. abbia diminuito di molto, anche nelle cause seriali, l'uso di prestampati - 24508 del 2006)..”. Più da vicino a ciò che riguarda la motivazione in tema di C.T.U., le Sezioni unite  prendono in esame, nella pronuncia, la  giurisprudenza di legittimità che ormai da decenni afferma che “…il giudice non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall'esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione (v. tra le altre Cass. nn. 2114 del 1995; 26694 del 2006; 10222 del 2009 e 28647 del 2013)…”. Nel caso del rigetto della C.T.U. (o della non aderenza alla stessa) se ne ricava che permane in capo al giudice l’obbligo di motivazione. Stando ai canoni ermeneutici espressi dalla Corte, deve riconoscersi il contenuto dell'obbligo costituzionale di motivazione, al di là di ogni formalismo, riconducendolo sul piano esegetico alle diverse previsioni processuali riguardanti la materia attraverso una lettura delle medesime ispirata a principi di effettività e funzionalità. La Corte osserva ancora che : “ La sentenza che emerge dagli interventi censori della giurisprudenza di legittimità degli ultimi decenni è infatti una sentenza funzionale, flessibile, deformalizzata, improntata al contemperamento delle esigenze di effettività della tutela ed efficienza del sistema attraverso”...”una motivazione comprensibile e idonea ad esplicitare il ragionamento decisorio che sia tuttavia concisa, succinta …”.

Detto ciò non resta che applicare i criteri espressi dalla Suprema Corte per apprezzare il contenuto della sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851 circa l’obbligo di motivazione del giudice in caso di rigetto della C.T.U. richiesta da una o più parti del processo.

3. La sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851 della Suprema Corte di Cassazione: il caso.

Un lavoratore evocava in giudizio il proprio datore di lavoro al fine di ottenere declaratoria di illegittimità del licenziamento intervenuto dopo un lungo periodo di tempo in cui era stato effettuato dal datore stesso un demansionamento, che il lavoratore assumeva avergli causato dei danni alla salute. Il Tribunale di Vasto respinse la domanda con declaratoria di legittimità del licenziamento intimato. La Corte di appello di L'Aquila -successivamente adita- con la sentenza n. 950/2016 ( in sede di procedimento ex lege n. 92 del 2012 avverso la decisione assunta dal Tribunale di Vasto) aveva rigettato il reclamo proposto. Proposto ricorso per Cassazione dal lavorare, la Suprema Corte con sentenza 16 ottobre 2018, n. 25851 rigettava il ricorso.

3.1. Il commento della sentenza.

Il fulcro della questione sottoposta all’attenzione della Suprema Corte riguarda la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per omissione da parte della Corte territoriale di L’Aquila di pronunciarsi in ordine alla richiesta di C.T.U. medico legale e di prova testimoniale dallo stesso avanzata relativa a disturbi di ansia e disagio psichico che il lavoratore assumeva di aver patito in ragione delle nuove mansioni.

Ma procediamo con ordine per comprendere -alla luce di quanto detto nei paragrafi precedenti- il tenore del ragionamento logico-deduttivo seguito della Suprema Corte di Cassazione e quello della Corte territoriale, che ha rigettato la C.T.U. medico-legale richiesta dal lavoratore in sede di merito. In primo luogo, osserva la Cassazione che, la Corte territoriale -nel merito- aveva ritenuto che non si era verificato alcun demansionamento in danno il lavoratore. Ciò risultava provato dai testi escussi e dal raffronto delle mansioni in concreto. In secondo luogo, la Corte escludeva il nesso causale tra la patologia diagnosticata (disturbi di ansia e disagio psichico) e le nuove mansioni. In particolare, aveva escluso l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento dannoso subito dal lavoratore, oltre a ritenere, comunque, legittima la sanzione espulsiva irrogata ai danni del lavoratore.  Per tale ragione alla Corte territoriale è apparsa inconferente la richiesta di C.T.U. medico- legale e di prova testimoniale avanzata dal lavoratore in sede di merito e, come tale, aveva rigettato le istanze con idonea motivazione. Avverso detta decisione, proponendo ricorso per cassazione, il lavoratore, lamentava, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per avere omesso la Corte territoriale di pronunciarsi in ordine alla richiesta di C.T.U. medico legale e di prova testimoniale dallo stesso avanzata. La Suprema Corte di Cassazione fa due osservazioni essenziali l’una conseguenziale all’altra.  La prima  è: il “ ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare.” La Suprema Corte non è nuova a questo tipo di enunciato. Infatti, già con sentenza, sez. I Civile, sentenza 26 giugno – 1 settembre 2015, n. 17399 Presidente Di Palma – Relatore Lamorgese[30] , ha affermato che il Giudice è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti.

Del resto, in sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851, la Cassazione afferma un ulteriore corollario al principio ora espresso con un secondo ordine di osservazioni, prima accennato. Ciò attiene “al necessario legame che deve prioritariamente sussistere tra accertamento tecnico e decisività dei risultati raggiunti”.  Questo elemento (il necessario legame) è escluso dalla Corte territoriale con una motivazione adeguata e coerente tale da rendere inconferente (assente il requisito della decisività) ogni ulteriore accertamento operato attraverso una consulenza tecnica d’ufficio, così come era stata richiesta dal lavoratore per accertarne le condizioni psico-fisiche nonché la compatibilità della presenza dello stesso in luoghi ed attività con lo stato di malattia in atto. Tutto ciò in assenza della dimostrazione del prioritario nesso causale tra i fatti denunciati e la malattia, tanto, da rendere ininfluente e non decisivo, rispetto alla controversia, l’accertamento medico legale richiesto. Precisa la Suprema Corte che “ogni determinazione in tale senso, se pur positivamente conclusa, non avrebbe minimamente inciso sul presupposto inerente il nesso causale tra la denunciata patologia e la ragione lavorativa…” Per le analoghe ragioni viene, anche, ritenuta ininfluente la chiesta prova testimoniale. La circostanza è confermata dall’accertamento compiuto dalla Corte territoriale che aveva escluso l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento dannoso subito dal lavoratore, oltre a ritenere comunque legittima la sanzione espulsiva allo stesso irrogata.

Alla luce di quanto precede, la sentenza del 16 ottobre 2018, n. 25851 della Suprema Corte di Cassazione risulterebbe essere perfettamente in linea con i dettati dell’art. 132, n.4, c.p.c e 115 disp.att. cp.c. in quanto prende in considerazione l’operato della Corte Territoriale e lo giudica esatto. La Corte territoriale, in effetti, altro non fa se non valutare inconferente (rispetto all’oggetto di accertamento) la consulenza d’ufficio richiesta dal lavoratore come anche la prova testimoniale non essendo stato dimostrato il nesso causale tra il fatto lesivo e l’evento danno. I giudici di merito (I° e II° grado) correttamente motivano – come del resto fa la stessa Corte di Cassazione- il rigetto della C.T.U.. Del resto la pretesa falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. assunta dal lavoratore in ricorso risulterebbe destituita di fondamento, sia per ciò che concerne l’ammissione della prova testi, sia -in particolar misura- per il rigetto della richiesta la C.T.U..  Si è già detto che l’onere di allegazione probatoria “incumbit ei qui dicit” - ai sensi dell’art. 2697 c.c.- per i fatti che servono all’individuazione dei diritti che si fanno valere in giudizio e dei fatti che possono fondare eccezioni in senso stretto. Sta al giudice la scelta dell’ammissione o meno del mezzo di prova offerto dalla parte a seconda della conferenza rispetto alla domanda e al tema d’ indagine. Si è detto che la parte non aveva dimostrato il nesso causale di tal che ogni mezzo di prova offerto per definire l’entità del danno subito risulterebbe inconferente. Lo stesso criterio di scelta riguarda C.T.U. di ausilio al giudice. Si è già osservato che non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume e può essere, pertanto, legittimamente negata dal giudice, qualora la parte disattenda all’onere probatorio. L’ulteriore passaggio della sentenza della Suprema Corte riguarda l’obbligo di motivazione del giudice. Si legge in testo il richiamo a precedente Cassazione n. 17399/2015 in forza della quale : “…La decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare…”. La Corte, qui, precisa il tenore del precedente aggiungendo il dato del “… necessario legame che deve prioritariamente sussistere tra accertamento tecnico e decisività dei risultati raggiunti”.

L’ accertamento medico legale richiesto dal ricorrente sarebbe stato rivolto a valutare le sue condizioni psico-patologiche, ma alla logica del giudice di merito risulta ininfluente e non decisivo, rispetto alla controversia, poiché quand’anche ogni decisione ammissiva ci fosse stata, in tal senso, da parte del Giudice Territoriale, comunque, non avrebbe potuto incidere, anche in minima parte, sul presupposto inerente il nesso causale tra la denunciata patologia e la ragione lavorativa che era stato già escluso dalla Corte territoriale con motivazione adeguata e coerente. Per la stessa ragione risultano ininfluenti al fine della decisione i capitoli di prova non ammessi dalla Corte territoriale, in quanto diretti a provare le medesime circostanze oggetto della richiesta C.T.U..

Su questi presupposti, ovvio è l’epilogo a cui volge, in dispositivo, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 16 ottobre 2018, n. 25851: il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

4. Osservazioni conclusive.

Per concludere, chiudendo il cerchio strutturale del discorso utilizzato per imbastire le pagine introduttive di questa trattazione si può giungere alla conclusione che la motivazione del provvedimento giurisdizionale è, quindi,  il punto centrale su cui si impernia il potere discrezionale del giudice che gli consente di praticare o meno gli strumenti messi a sua disposizione dai codici procedurali per giungere ad una decisione della controversia confacente ai dettami imposti dall’art. l'art. 111, comma 6 della Costituzione. La soluzione -apparentemente scontata- è, però, il frutto di un articolato percorso evolutivo della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha teso in maniera crescente a dettare coordinate ermeneutiche rivolte a tracciare un perimetro preciso all’interno del quale il concetto ampio di “motivazione del provvedimento” assume connotati concreti, indicandoli in varie sentenze, tra cui quella pronunciata dagli Ermellini il 16 ottobre 2018, n. 25851, la quale altro non è, se non  un ulteriore esempio applicativo. Basta osservare il ragionamento giuridico offerto dalla Suprema Corte di Cassazione S.U. del 16 gennaio 2015, n. 642 per comprendere come il valore funzionale del provvedimento giudiziario e l’obbligo di motivazione, ad essa connesso, sia ispirato all'ottica della semplificazione e dello "snellimento" nella stesura del provvedimento giudiziario, pur senza sacrificare chiarezza e precisione, e senza con ciò viziare per omessa o insufficiente motivazione il provvedimento stesso. Del resto, volendo parafrasare le Sezioni Unite si può -ulteriormente- concludere che il provvedimento giudiziario (la sentenza e gli altri provvedimenti in funzione decisoria) conclusivo di un processo può essere considerata un risultato "corale"[31]: in esso hanno agito più soggetti, ciascuno con la propria funzione, facendo convergere le proprie attività per fornire elementi utili alla decisione finale del giudice. Il compito e dovere del giudice è proprio quello di valutare, tra i fatti dedotti e i diritti vantati, le ragioni sostenute e le pretese avanzate, le prove addotte e le argomentazioni spiegate, quel che di volta in volta sia da ritenersi giuridicamente corretto e, "verificato" in fatto quindi, quanto risulti effettivamente meritevole di tutela da parte dell'ordinamento. Il tutto racchiuso in una decisione completa di dispositivo e di una esaustiva motivazione. Ed è proprio la motivazione che individua, nella decisione assunta, le ragioni, giuridiche e di fatto, che la sostengono, riconoscendo al giudice la possibilità di esporle nel modo che egli reputi più idoneo - purché succintamente ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva. L’obbligo motivazionale del giudice in sede di rigetto della C.t.u. richiesta da una o più parti del processo segue la stessa logica in applicazione delle norme processualistiche interpretate attraverso una lettura delle medesime ispirata a principi di effettività e funzionalità di cui la sentenza 16 ottobre 2018, n. 25851, qui commentata, rappresenta un fulgido esempio.

Note e riferimenti bibliografici
[1] Così testualmente l'art. 111, comma 6 Cost.: “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”;

E’ una norma che, da una parte, per la posizione che riveste nella gerarchia delle fonti, influisce sulla legislazione ordinaria concernente la struttura ed il contenuto di siffatti provvedimenti e, dall'altra, esercita una precisa efficacia in sede di individuazione dei criteri cui va commisurata la completezza della motivazione.

[2] In tal senso, Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, il quale ritiene che la conseguenza immediata della mancanza di motivazione sia la nullità del provvedimento che ne risulti sprovvisto e ciò senza che, a tal fine, possa essere ritenuta preclusiva la mancata espressa previsione di tale ipotesi di invalidità sul piano del diritto positivo, poiché essa discende direttamente, sia dall'art. 111 Cost., sia dall’art. 360 n. 5 c.p.c., che prevede quale motivo di ricorso per cassazione, tra le altre ipotesi, l'omessa motivazione, sia dalla connessione tra il “deve” di cui all’art. 132 c.p.c. ed il riferimento alle nullità della sentenza di cui all’art. 161 c.p.c. In tal senso anche Carnelutti, Diritto processuale civile, Milano, 1957, II; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1981, I; Betti, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936.

[3] Nell'ambito di una concezione liberale dello Stato di diritto, si pone quale presidio di tutela, nell'esercizio del potere giurisdizionale, del principio di legalità di cui all'art. 101 Cost. nonché garanzia del diritto di difesa ex art. 24 Cost..

[4] si veda nota 1.

[5] Positano G., Guida alla Consulenza Tecnica d’Ufficio, in sede civile e penale, 2014, Editore, MAP Servizi s.r.l, p. 13 e s.

Si veda, anche, per approfondimento, Guida alla Consulenza Tecnica d’Ufficio in sede civile e penale a cura della Commissione di Studio UNGDCEC, e-book, 2014, Editore: MAP Servizi s.r.l..

Per gli ultimi aggiornamenti e trattazioni in materia, si veda Brescia G., Manuale del perito e del consulente tecnico nel processo civile e penale, Edizione: 8, 2018 Maggioli Editore.

[6] La norma di cui al primo comma dell’art. 61 cod. proc. civ. consente all’autorità giudiziaria, quando sia necessario, di farsi assistere da uno o più professionisti di particolare competenza tecnica. In tali casi può nominare uno o più consulenti per tutta la durata del processo o per il compimento di un singolo atto, sulla base del suo prudente apprezzamento e nell’ambito dei suoi poteri discrezionali. La maggior parte delle norme che disciplinano la Consulenza Tecnica d’Ufficio nell’ambito del processo civile e la perizia in sede di processo penale sono contenute, rispettivamente, nel codice di procedura civile e nel codice di procedura penale, nonché nelle relative disposizioni attuative.

In particolare, per quanto riguarda le Consulenze Tecnico d’Ufficio tra questi si annoverano:

gli artt. 61-64 c.p.c., e gli artt. 191-201 c.p.c. disciplinano la perizia in generale;

gli artt. 87, 92, 177, 259, 260 e 261 disciplinano la CTU in vari momenti del processo;

gli artt. 5-26 disp. att. c.p.c. e l’art. 146 disp. att. c.p.c. disciplinano la formazione e la tenuta dell’Albo speciale dei CTU presso il Tribunale;

gli artt. 89-92 disp. att. c.p.c. e gli artt. 145 e 150 disp. att. c.p.c. contengono alcune ulteriori norme procedurali sulla nomina e sull’attività del CTU.

Parallelamente, per quanto riguarda la perizia in ambito penale:

gli artt. 220 c.p.p. e segg. disciplinano la perizia in generale;

l’art. 392 c.p.p. disciplina la perizia nell’ambito dell’incidente probatorio (vale a dire durante le indagini preliminari);

l’art. 422 c.p.p. disciplina la perizia nell’udienza preliminare;

l’art. 501 c.p.p. disciplina la perizia nel dibattimento.

[7] Si veda anche, in codice di rito del processo penale, il disposto dell’art. 220 c.p.p..

[8] Ciò consente al giudice di superare la mancanza ontologica di specifiche conoscenze scientifiche e professionali essenziali alla definizione del procedimento. Volendo fare breve cenno storico-ricostruttivo dell’istituto si veda Guida alla Consulenza Tecnica d’Ufficio, op.cit ove viene sottolineata la diversa natura della consulenza tecnica introdotta dal codice Zanardelli del 1865, che prevedeva la figura del “perito”. Ivi si precisa che: “Il codice di procedura civile italiano del 1865 inquadrava la perizia nel sistema delle prove ed attribuiva la nomina del Perito alle parti in causa (o al Giudice solo in caso di disaccordo tra le parti). Nei diversi progetti di riforma del codice di procedura civile, si è iniziato a considerare il Perito quale ausiliario del Giudice e a non far rientrare la perizia quale mezzo di prova. Così, in ambito civile, con la trasposizione della figura del Consulente Tecnico tra gli ausiliari del Giudice, si è avuto un mutamento di terminologia da perizia a Consulenza Tecnica. Il mutamento di terminologia non ha, tuttavia, risolto i problemi relativi alla Consulenza Tecnica e ai compiti del consulente che è destinato a svolgere una funzione di accertamento, di conoscenza e di deduzione in campo tecnico al fine di fornire al Giudice gli elementi necessari per il giudizio” .

Si veda, anche, in tal senso S. Satta, “Diritto Processuale Civile”, Padova, 1981. Per le differenze di funzioni e disciplina in termini attuali si veda Viola L. (a cura di), Codice di procedura civile: Schema dell'iter procedimentale - Approfondimenti di dottrina e giurisprudenza – Formulario, 2016, CEDAM.

[9] Proprio per garantire la competenza dei consulenti del Giudice, dunque, l’art. 61 c.p.c. e l’art. 221 c.p.p (norma di contenuto parallelo rispetto a quella del rito civile) dispongono che gli stessi debbano normalmente essere scelti tra le persone iscritte negli Albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile e penale.

Presso ogni Tribunale sono a tal scopo istituiti:

a) l’Albo dei Consulenti Tecnici (in ambito civile) (art. 13 disp. att. c.p.c.);

b) l’Albo dei Periti (in ambito penale).

In base alla legge, poi, gli Albi sono sempre divisi in più categorie, a seconda delle attività esercitate dai rispettivi professionisti.

In particolare, l’Albo dei Consulenti Tecnici, ai sensi dell’art. 13 disp. att. c.p.c., presenta una suddivisione (seppure non tassativa in quanto potrebbe ricomprendere ulteriori aree specialistiche) deve essere suddiviso nelle seguenti categorie:

a) medico-chirurgica;

b) industriale;

c) commerciale;

d) agricola;

e) bancaria;

f) assicurativa.

Gli albi sono tenuti dal Presidente del Tribunale (anche nel caso di Tribunale suddiviso in sezioni) e dagli stessi attingono tutti gli altri uffici giudiziari aventi sede nella circoscrizionedel Tribunale (quindi sia la Corte di Appello, sia i giudici di pace). La formazione e la tenuta di questi Albi speciali è affidata ad appositi organismi ed è assoggettata a norme specifiche.

[10] Si veda G. Franchi, in Commentario al codice di procedura civile, diretto da F. Allorio, Torino, 1973.

[11] Si veda § 1 – Della nomina e delle indagini del consulente tecnico- artt. 191 e segg. codice procedura civile.

[12] Si veda in particolare CAPO III - DEL CONSULENTE TECNICO, DEL CUSTODE E DEGLI ALTRI AUSILIARI DEL GIUDICE, Art. 61. E segg. codice procedura civile.

[13] Risulta utile alla comprensione della ratio dell’istituto e delle dinamiche processuali, la lettura della La legge 18 giugno 2009 n. 691 che ha a apportato a tutto il corpo del Codice di procedura civile numerose modifiche con l’intento di semplificare e velocizzare il processo civile anche per ciò che concerne la c.t.u. Si veda in tal senso Sirianni F., Le nuove regole sulla consulenza tecnica, il sole24ore, n. 11, anno 2009.

[14] La consulenza non è un mezzo di prova. L’art. 2697 del codice civile, recita: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”. Tale è il principio dell’onere della prova legato strettamente al principio dispositivo delle parti. Infatti, l’attività del consulente, a differenza di quella del testimone che è di mera narrazione dei fatti, costituirebbe una valutazione degli stessi e come tale non può valere da sola ad assolvere l’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c..( cfr. autori e testo di cui in nota 1).

[15] Si discute sulla diversa natura della consulenza tecnica nel processo amministrativo.

L’art Art. 63 c.p.a. rubricato “Mezzi di prova” dispone che:

“1. Fermo restando l'onere della prova a loro carico, il giudice può chiedere alle parti anche d'ufficio chiarimenti o documenti.- 2. Il giudice, anche d'ufficio, può ordinare anche a terzi di esibire in giudizio i documenti o quanto altro ritenga necessario, secondo il disposto degli articoli 210 e seguenti del codice di procedura civile; può altresì disporre l'ispezione ai sensi dell'articolo 118 dello stesso codice.- 3. Su istanza di parte il giudice può ammettere la prova testimoniale, che è sempre assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile.-4. Qualora reputi necessario l'accertamento di fatti o l'acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche, il giudice può ordinare l'esecuzione di una verificazione ovvero, se indispensabile, può disporre una consulenza tecnica.-5. Il giudice può disporre anche l'assunzione degli altri mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, esclusi l'interrogatorio formale e il giuramento.”

L'art. 63, 4° co. C.P.A. include, la C.T.U., insieme alla verificazione, tra le prove. Ciò nonostante una parte autorevole della dottrina, tuttora, la esclude da tale ambito. Per approfondimenti in dottrina si veda De Francisco E., Il nuovo Codice del processo amministrativo: il giudizio di primo grado, 26 Aprile 2011 in www.giustizia-amministrativa.it; Greco, R. e l’accertamento del fatto nel codice del processo amministrativo 3 gennaio 2011 in www.giustizia-amministrativa.it;  Di Modugno N., Francesco Carnelutti, Salvatore Satta e la controversa natura della perizia in Giustamm, n. 2 - 2017 Editore:Editoriale Scientifica S.r.l.

[16] Nel disposto dell’art. 2697 del codice civile, è contenuto principio dell’onere della prova che recita: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

[17] Sulla valenza “interpretativa” della consulenza si veda vedi G. Franchi, La perizia civile, Padova 1959, G. Franchi, in Commentario al codice di procedura civile, diretto da F. Allorio, Torino, 1973.

[18] Bove M. Il sapere tecnico nel processo civile, in Riv. Dir. Proc., 2011, 6, 1431.

[19] Cass. 13 marzo 2009, n. 6155, Cass. 13 marzo 2008, n. 6754; Cass. 30 maggio 2007, n. 12695; Cass. 28 febbraio 2007, n. 4743.

[20] Si legga a tal proposito la seguente massima Cass. 26 novembre 2007, n. 24620: “Le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d’ufficio cosiddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti

[21] Una particolare nota va cennata per la perizia percipiente nel processo penale. L’art. 228 c.p.p. introduce una fattispecie particolare di perizia percipiente nel processo penale, laddove prevede che “qualora, ai fini dello svolgimento dell’incarico, il Perito richieda notizie all’imputato, alla persona offesa o ad altre persone, gli elementi in tal modo

acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell’accertamento peritale”. Si tratta evidentemente di una norma che trasforma profondamente il ruolo del Perito, in quanto gli attribuisce la facoltà di determinarsi autonomamente a richiedere notizie per l’espletamento dell’incarico ed a svolgere un’attività di indagine ulteriore rispetto a quella del magistrato. Ma non solo. La portata della norma è enorme in quanto essa consente al Perito di entrare in possesso di atti, documenti e cose che non solo non sono noti al Giudice, ma che non sono nemmeno suscettibili di essere acquisiti nel fascicolo di causa ed utilizzati ai fini del giudizio. Ciò genera un evidente squilibrio fra il Giudice ed il suo ausiliario, posto che al Perito viene consentito di conoscere contenuti che devono essere invece ignorati dal giudicante. Il rilievo è riportato in anche Guida alla Consulenza Tecnica d’Ufficio in sede civile e penale op.cit..

[22] Nell'ambito di una concezione liberale dello Stato di diritto, secondo l'opinione dominante è quale presidio di tutela,

nell'esercizio del potere giurisdizionale, del principio di legalità di cui all'art. 101 Cost. nonché garanzia del diritto di difesa ex art. 24 Cost..

[23] Nonostante non contenga un riferimento letterale alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, è comunemente considerato come il fondamento normativo dell’obbligo della motivazione nell’ordinamento sovranazionale. La Cedu, sancisce infatti che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e delle sue obbligazioni di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente (…)”.

[24] L'art. 132 c.p.c. è la disposizione codicistica di riferimento ai fini della individuazione degli elementi che compongono la sentenza.  Essa, pronunciata è nel nome del popolo italiano e reca l'intestazione “Repubblica Italiana” si compone di tre parti: la prima contiene i cosiddetti “meta-dati”, individuati nell'epigrafe della sentenza, ovvero l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata, delle parti e dei lori difensori, nonché la trascrizione delle conclusioni delle parti e del pubblico ministero che, eventualmente, abbia preso parte al processo. La parte conclusiva reca, invece, il dispositivo, che riassume l'essenza volitiva della sentenza e contiene il comando giudiziale, nonché la data di deliberazione e la sottoscrizione del giudice.  Tra la parte descrittiva e la parte dispositiva, si colloca, la parte motiva; l'art. 132 n. 4 c.p.c., prevede, infatti, tra i requisiti giuridici formali della sentenza, “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.

[25] La sentenza è, decisoria. Il decreto ha prevalentemente funzione ordinatoria amministrativa ed è ampiamente utilizzato nei casi in cui non è prescritto il contraddittorio, con applicazioni anche nell’ambito della volontaria giurisdizione e, dunque, anche per la decisione sui diritti. Diversa è la natura dell’ordinanza, la quale assolve alla c.d. funzione ordinatoria, interlocutoria ed istruttoria, regolando l’iter procedimentale, eventualmente risolvendo le questioni che possono insorgere in proposito tra le parti, e solo in casi eccezionali ed espressamente previsti dalla legge assume una funzione direttamente decisoria, come nel caso dell’ordinanza di convalida e dell’ordinanza di rilascio di cui agli artt. 663 e 665 c.p.c., nell’ambito del procedimento speciale per convalida di licenza o sfratto. Il carattere di normale revocabilità segnato dall'art. 177 c.p.c., infatti precisa che “comunque motivate, (le ordinanze) non possono mai pregiudicare la decisione della causa (…) e possono essere sempre modificate o revocate dal giudice che le ha pronunciate” salvo ipotesi espressamente previste (ad. es. nel caso in cui avverso l'ordinanza è previsto uno speciale mezzo di reclamo). L'unica eccezione è rappresentata dalle ordinanze di convalida e l'ordinanza di rilascio di cui agli art. 663 e 665 c.p.c. sopra accennate alla presente nota. Tali provvedimenti sono emessi con ordinanza, però, sono emessi in ragione di specifici  presupposti cioè la mancata comparizione della parte intimata o la mancata opposizione Essa non è impugnabile (se non con opposizione tardiva ex art. 668 c.p.c. ma nelle limitate ipotesi di mancata tempestiva conoscenza dell'intimazione per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore) Su tali basi la motivazione, in tali ipotesi, consiste nella semplice enunciazione dell'esistenza dei presupposti di emanabilità del provvedimento.

[26]  In varie pronunce della Cassazione (tra cui Cass. civ. 08.07.2005 n. 1430 in Giust. Civ. Mass. 2005, 7/8, ma in senso conforme già Cass. civ. n. 1049/1980 in Giust. Civ. Mass. 1980, fasc. 2, Cass. civ.20.09.2002 n. 13762 in Giust. Civ. Mass. 2002, 1693, Cass. civ. 13.02.2004 n. 2776 in Giust. Civ. Mass. 2004, ed altre ) è stato chiarito che :  “La motivazione del decreto, ove necessaria, come nel caso in cui tale provvedimento sia emesso per definire un procedimento in camera di consiglio, non deve essere ampia come quella della sentenza, né succinta come quella dell’ordinanza, ma ben può essere sommaria, nel senso che il giudice, senza trascriverli nel decreto, può limitarsi ad indicare quali elementi, tra quelli indicati nell’istanza che lo ha sollecitato, lo abbiano convinto ad assumere il provvedimento richiesto, essendo comunque tenuto, in ottemperanza all’obbligo di motivazione impostogli dall’art. 111, comma 6, Cost., a dar prova, anche per implicito, di aver considerato tutta la materia controversa”.

[27] La motivazione che, secondo quanto precisato dall'art. 118 disp. att. c.p.c. , “consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Nella motivazione, in particolare, devono essere esposte concisamente ed in ordine le questioni discusse e decise, indicati le norme di legge ed i principi di diritto applicati.

[28] Per ciò che concerne l'ordinanza, l'unico riferimento normativo in materia di motivazione è l'art. 134 c.p.c. in base al quale l'ordinanza è “succintamente motivata”. Si confronti in tal senso Mandrioli, Diritto processuale civile, XXI ed., Giappichelli ed., I vol.  il quale afferma che la motivazione si lega al profilo, che è già di contenuto-forma, dell’ordinanza che si colloca in una posizione intermedia tra sentenza e decreto. Si osservi anche che per l’ordinanza il concetto di “succinto” sottende che è sufficiente una motivazione più snella e sintetica rispetto a quella della sentenza potendosi sostanziare nell’ esposizione succinta degli elementi sui quali si fonda il convincimento del giudice.

[29]Per approfondimenti in dottrina si veda Capponi B. La motivazione della sentenza civile- Dopo la Cass., sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642- anno 2015, in questionegiustizia. In giurisprudenza, si veda tra le altre Corte di Cassazione – sezione V – con sentenza 11 marzo 2015 n.4851 citata in testo.

[30] Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 26 giugno – 1 settembre 2015, n. 17399 Presidente Di Palma – Relatore Lamorgese. Si veda anche Cassazione civile Sez. 1, n. 06138/2015 in Portale del Massimario 2015 CIVILE VOL 2( url : https://www.portaledelmassimario.ipzs.it/frontoffice/rassegneAnnuali/5/getDoc.do) dove la Suprema Corte ha precisato che, in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali, il giudice che non intenda disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, alle risultanze di perizie e consulenze.

[31] Si legga l’espressione in sentenza della Suprema Corte di Cassazione S. U. Civile del 16 gennaio 2015, n. 642.

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