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Pubbl. Sab, 3 Nov 2018

L´animale domestico è un bene di consumo?

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Francesco Cristiani


Commento alla sentenza della Cassazione, n. 22728 del 2018, che ha affermato l’applicabilità alla vendita di animali di affezione della normativa prevista dal c.d. Codice del Consumo, di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in luogo di quella codicistica di cui all’art. 1496 c.c.


Sommario: 1. Il caso; 2. Breve raffronto tra la disciplina codicistica e quella consumeristica; 3. Argomentazioni della Corte di Cassazione; 4. Conclusioni.

1. Il caso

La Corte di Cassazione con sentenza n. 22728 del 2018 ha affermato l’applicabilità della normativa prevista dal Codice del Consumo, di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 alla vendita di animali di affezione.

Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte riguardava l’acquisto, da parte di un privato, di un cane risultato, successivamente, affetto da grave cardiopatia congenita.

Dopo aver denunciato il vizio, l’acquirente citava in giudizio la società venditrice chiedendo che quest’ultima fosse condannata alla riduzione del prezzo nonché al risarcimento del danno.

In primo grado, la domanda attorea veniva rigettata dal Giudice di pace di Ravenna con sentenza, successivamente, confermata in appello.

In particolare, il Tribunale di Ravenna, in funzione di Giudice di secondo grado, ritenendo non applicabile al caso di specie la disciplina prevista dal Codice del Consumo, rigettava la domanda attorea alla luce della tardività della denuncia del vizio effettuata dall’attore, essendo stata posta in essere oltre il termine decadenziale di otto giorni previsto dall’art. 1495 c.c.

Avverso la sentenza di appello, il soccombente proponeva ricorso per Cassazione invocando l’applicabilità al caso di specie dell’art. 132 del Cod. Cons., il quale, in tema di vendita di beni di consumo, prevede un termine di decadenza più favorevole (2 mesi) rispetto a quello previsto dall’art. 1495 c.c.

2. Raffronto tra la disciplina codicistica e quella consumeristica

Prima di analizzare l’iter argomentativo della decisione in commento, sembra opportuno premettere un breve raffronto tra la disciplina contenuta nel codice civile in materia di compravendita e quella contenuta nel D. Lgs. N. 206/2005  in tema di vendita di beni di consumo, in particolar modo per quel che concerne la garanzia dei vizi e mancanza di qualità del bene venduto.

Il Codice Civile, all’art. 1476 n. 3), prevede tra le obbligazioni del venditore la garanzia per i vizi della cosa, ossia per quelle carenze o anomalie che la rendano inidonea all’uso o che ne diminuiscano sensibilmente il valore.

Affinché il compratore possa avvalersi della garanzia, egli ha l’onere, ai sensi dell’art. 1495 c.c., di denunziare i vizi al venditore entro il termine di otto giorni che decorrono dalla scoperta degli stessi.

La denuncia non sarà necessaria ove il venditore abbia riconosciuto il difetto o lo abbia occultato. In quest’ultima ipotesi, tuttavia, non è sufficiente che il venditore abbia semplicemente taciuto il vizio al compratore, ma è necessario che siano stati posti in essere particolari accorgimenti tecnici al fine di celare l’imperfezione o la irregolarità del bene venduto[1].

In presenza dei suddetti presupposti, quindi, il compratore potrà domandare la risoluzione del contratto con scioglimento ad effetto ex tunc del vincolo contrattuale, ovvero la riduzione del prezzo, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.

Relativamente al Codice del Consumo, invece, va osservato che ai fini della fruibilità delle relative norme è necessario che ricorrano alcune condizioni: occorre, in primo luogo, ai sensi dell’art. 3 del Cod. Cons., che il compratore sia un consumatore, ossia una persona fisica che agisca per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale.

In secondo luogo, è indispensabile che il bene compravenduto possa ricondursi alla nozione di bene di consumo di cui all’art. 128, comma 2, lett. a).

Quanto alla disciplina, l’art. 129 Cod. Cons., tale articolo prevede l’obbligo in capo al venditore di consegnare all’acquirente un bene conforme al contratto di vendita dovendosi la stessa ritenere presunta ove i beni siano idonei all’uso cui sono destinati, ovvero, siano “conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello", oppure, ancora, presentino “le qualità o le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo”, infine, allorquando siano idonei all’uso che di questi ne voglia fare il consumatore, purché tale uso sia stato fatto presente al venditore al momento dell’acquisto e quest’ultimo abbia accettato.  

In caso di difetto di conformità, l’art. 130 Cod. cons. prevede il diritto del consumatore alla riparazione o sostituzione del bene. Ove queste non possano avere luogo (perché impossibili o eccessivamente onerose per il venditore) o non abbiano avuto esiti positivi, ovvero in caso di inerzia del venditore, il consumatore potrà richiedere una riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.

Al fine di usufruire di tali rimedi è necessario che il consumatore, ai sensi dell’art. 132 Cod. Cons., denunci il difetto di conformità entro due mesi dalla scoperta (che deve avvenire entro due anni dalla consegna), a meno che il venditore non abbia riconosciuto l’esistenza del vizio, nel qual caso la denuncia non sarà necessaria.

Dalla breve analisi delle due discipline fin qui esposte,  emerge chiaramente come quella consumeristica sia più favorevole rispetto a quella codicistica, sia sotto il profilo delle tutele -  prevedendo quale rimedio principale la sostituzione e la riparazione del bene non conforme – sia sotto il profilo temporale della denuncia del vizio, atteso che la stessa può avvenire in un termine molto più ampio rispetto a quello previsto dal codice civile.

3. Argomentazioni della Corte di Cassazione

Fatta questa doverosa premessa, si può passare ad esaminare l’iter logico motivazionale della decisione in commento che passa attraverso due snodi principali: il primo riguarda il rapporto sussistente tra le discipline innanzi esaminate, il secondo attiene, invece, alla riconducibilità dell’animale, quale bene giuridico suscettibile di essere oggetto di diritti reali e di rapporti negoziali, alla nozione di bene di consumo di cui all’art. 128 D.lgs. n. 206/2005.

Quanto alla prima questione, dopo aver chiarito che gli animali possono costituire oggetto di compravendita, rientrando, ai sensi dell’art. 810 c.c., fra le “cose che possono formare oggetto di diritti”, La Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente tra le discipline innanzi citate un rapporto di sussidiarietà.

La Suprema Corte, infatti, ha osservato che la fattispecie di cui all’art. 1496 c.c., ma più in generale tutta la materia relativa al contratto e alla compravendita contenuta nel Codice Civile, non possa essere applicata senza tener conto della normativa sopravvenuta introdotta a tutela del consumatore. Quest’ultima, infatti, ad avviso dei giudici di legittimità, trova applicazione preferenziale rispetto a quella codicistica che, dunque, si applicherà solo per quanto non previsto dalla prima.

Ciò emergerebbe dall’inciso iniziale dell’art. 135, comma 2, Cod. del Cons., che introduce una clausola di riserva nei confronti della disciplina consumeristica, relegando quella codicistica ad un ruolo sussidiario; nonché dall’art. 1469 bis c.c., che stabilisce che le norme del codice civile in materia di contratti in generale si applicano solo ove non siano state derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli.

Chiarito il rapporto tra le due discipline summenzionate, la Corte di Cassazione passa ad esaminare la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità delle norme contenute nel Codice del Consumo alla fattispecie sottoposta al suo esame.

Innanzitutto, è necessario che il compratore sia un consumatore ai sensi dell’art. 3 Cod. Cons., ossia una persona fisica che agisca per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale.

In secondo luogo, è necessario che il venditore sia, ai sensi dell’art. 128 Cod. Cons., comma 2, lett. b), una persona fisica o giuridica che abbia posto in essere il rapporto negoziale nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale.

È necessario, infine, che il bene oggetto del rapporto negoziale possa essere ricompreso nella nozione di bene di consumo di cui all’art. 128, comma 2, lett. a) Cod. Cons..   

In relazione a tale ultimo presupposto, la Suprema Corte, al fine di ricondurre l’animale di affezione, quale bene giuridico, alla nozione di bene di consumo, fa leva essenzialmente sull’ampiezza della disposizione consumeristica, la quale dà una definizione per negazione dei beni di consumo, ritenendo tali tutti i beni mobili con esclusione dei beni oggetto di vendita forzata o comunque venduti con altre modalità dalle autorità giudiziarie,  l’energia elettrica, l’acqua e il gas se non confezionati per la vendita in un volume delimitato o in quantità determinata.

La Corte, infatti, una volta chiarito che l’animale di affezione - sebbene non sia un soggetto di diritto perché privo della capacità giuridica - è un bene giuridico, ha ritenuto che non vi fosse alcun ostacolo alla riconduzione dello stesso entro l’ampio perimetro della nozione di bene di consumo offerta dalla disposizione consumeristica.

Di conseguenza, i Giudici di Legittimità, hanno opinato che la compravendita di animali da compagnia o di affezione, in presenza di un consumatore, sia regolata dalle norme del codice del consumo, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto. 

Ne deriva, quindi, che in presenza dei predetti presupposti, l’acquirente consumatore potrà denunciare il vizio entro il termine di cui all’art. 132 Cod. Cons e non entro quello più stringente di cui all’art. 1495 c.c.

4. Conclusioni

La riconducibilità degli animali di affezione nel novero dei beni di consumo, con conseguente affermazione dell’applicabilità della disciplina di cui al D. Lgs. 206/2005 alla compravendita di animali, sebbene condivisibile nella prospettiva di accordare una maggiore tutela al consumatore, - con particolare riguardo al limite temporale entro cui eseguire la denuncia dei vizi - potrebbe condurre, tuttavia, ad effetti applicativi discutibili, ove si ritenesse di considerare gli animali di affezione quali beni fungibili. In tal caso, invero, il consumatore, in presenza di un difetto di conformità dell’animale di affezione acquistato, oltre a godere di un termine più lungo per la denuncia dei vizi, potrebbe pretenderne la riparazione e finanche la “sostituzione”, con conseguente pregiudizio dell'animale stesso che, per quanto bene giuridico ai fini civilistici, rimane un essere senziente e, come tale, oggetto di tutela da parte dell'ordinamento. 

Alla luce di quanto esposto deve ritenersi preferibile, pertanto, accedere ad una qualificazione dell'animale di affezione in termini di bene infungibile, con conseguente impossibilità, da parte del consumatore, di richiedere la sostituzione del bene, restando impregiudicato il diritto alla riduzione del prezzo e all'eventuale risarcimento del danno. Viceversa si darebbe la stura ad una fattispecie legittima di abbandono. 

 

Note

[1] F. CARINGELLA, L. BUFFONI, Manuale di Diritto Civile, VIII ed.