Pubbl. Mer, 31 Ott 2018
Il discrimen tra mutatio ed emendatio libelli alla luce della più recente interpretazione giurisprudenziale
Modifica paginaLa sentenza in rassegna riafferma il principio secondo cui la questione relativa alla novità, o meno, di una domanda giudiziale è correlata all’individuazione del bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta rilevando, a tal fine, la mutazione del corrispondente diritto e non già la sua mera qualificazione giuridica.
Sommario: 1. Profili introduttivi; 2. I confini tra mutatio ed emendatio libelli secondo la ricostruzione offerta dalle Sezioni Unite; 3. Nota di commento alla recente sentenza della Corte di Cassazione del 27 settembre 2018 n. 23167; 4. Conclusioni.
1. Profili introduttivi
Prima di svolgere una breve nota di commento alla recente sentenza della Suprema Corte, gioverà svolgere alcune premesse in ordine ai principi generali che informano il nostro sistema processuale civile in riferimento alla domanda introduttiva del giudizio.
Il principio della domanda rappresenta il corollario del più generale principio dispositivo in forza del quale il processo civile può essere avviato solo su richiesta di parte, potendo, per converso, il giudice procedere d’ufficio solo in ipotesi eccezionali ("Ne procedat iudex ex officio").
Il principio della domanda è previsto, come noto, dall’art. 99 c.p.c. secondo cui “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente” in stretta correlazione con l’art. 112 c.p.c. secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti”.
Tale correlazione sussiste per il semplice rilievo che la domanda proposta dalla parte rappresenta lo strumento di attuazione del potere di dare impulso al processo ed, al tempo stesso, vale a circoscrive il relativo thema decidendum, con l’effetto di inficiare per vizio di ultrapetizione o extrapetizione la pronuncia che ne travalichi o ne estenda i limiti.
L’art. 2907 c.c., primo comma, sotto diversa angolazione, prevede nel complesso normativo sostanziale che “Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giurisdizionale su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio”.
La domanda è contraddistinta, convenzionalmente, dal petitum (mediato ed immediato) e dalla causa petendi.
Il petitum mediato è rappresentato dal bene della vita che l’attore intende conseguire per effetto del provvedimento giudiziale (la “cosa oggetto della domanda” di cui all’art. 163 n. 3 c.p.c.).
Il petitum immediato è rappresentato dal provvedimento giudiziale che l’attore chiede, appunto, al giudice di pronunciare (indicato nelle “conclusioni” cui fa riferimento l’art. 163 n. 4 c.p.c.).
La causa petendi, invece, è la ragione della domanda ovvero il titolo giuridico su cui si fonda la pretesa sostanziale (l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda” di cui all’art. 163 n. 4 c.p.c.).
Secondo il prevalente orientamento, l’indicazione dei fatti, quale causa petendi, non sarebbe indispensabile per l’identificazione dei diritti c.d. autoderminati, cioè dei diritti assoluti, mentre lo sarebbe per i diritti c.d. eterodeterminati, vale a dire i diritti relativi o di credito, suscettibili di diversa modulazione tra gli stessi soggetti ed in relazione allo stesso oggetto.
Non va ignorato, in ogni caso, che alla luce del principio iura novit curia, secondo cui è attribuito al giudice il potere-dovere di inquadrare giuridicamente la fattispecie sottoposta al suo esame, anche in difetto ovvero in difformità delle norme invocate dalla parte a sostegno delle proprie richieste, l’importanza della causa petendi , sotto tale profilo, evidentemente, si vanifica.
L’interpretazione della domanda, al fine di individuarne l’esatta natura ed estensione, va compiuta non solo nella sua letterale formulazione, ma anche nel sostanziale contenuto con riguardo alle finalità perseguite nel giudizio e, quindi, in virtù di un esame organico e complessivo.
Tale indagine che vale, come innanzi osservato, a circoscrivere, tra l’altro, il thema decidendum del giudizio non può esaurirsi senza considerare la difesa svolta dall’altra parte che può, infatti, ampliarlo spiegando domanda riconvenzionale nei modi e termini di legge.
Si parla, invero, a tal proposito di oggetto del processo a formazione progressiva quale risultato delle rispettive domande proposte dalle parti.
Le domande, tuttavia, una volta proposte, sia in via principale che in via riconvenzionale, non rimangono cristallizzate o, meglio, necessariamente immutate rispetto ai contenuti determinati ab initio, così frustrando inevitabilmente i relativi diritti di difesa, potendo, al contrario, le parti, ai sensi dell’art. 183, quinto comma, c.p.c., nell’udienza di trattazione “precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate” ovvero differire tale facoltà nelle memorie successive ex art. 183, sesto comma , c.p.c..
A ben vedere, proprio la possibilità riconosciuta alle parti di “modificare le domande”, non espressamente delimitata sotto il profilo qualitativo e quantitativo, ha generato non poche questioni interpretative che, a tutt’oggi, impegnano dottrina e giurisprudenza nella delicata opera di armonizzazione dei valori fondamentali coinvolti.
Invero, trovare il punto di equilibrio, tra gli altri, che non sacrifichi, oltre una ragionevole misura, il principio di economia processuale a tutto vantaggio del principio del contraddittorio e viceversa, è opera affatto semplice se si considerano le varianti con cui si modulano le fattispecie concrete destinate a trovare, almeno in linea di principio, quella coincidenza che perfeziona il relativo sillogismo.
In tale prospettiva, si pongono numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità, con particolare attenzione a quella pronunciata a sezioni unite in funzione nomofilattica, di cui al successivo paragrafo, nonché, più di recente, a quella oggetto della presente nota di commento.
2. I confini tra mutatio ed emendatio libelli secondo la ricostruzione offerta dalle Sezioni Unite
La linea di demarcazione tra mutatio ed emendatio libelli è tradizionalmente rappresentata dall’essere la mutatio domanda nuova e l’emendatio una mera modifica della domanda già proposta, laddove solo quest’ultima è, quindi, consentita nel nostro sistema processuale.
Semplicistica e riduttiva, tuttavia, è tale impostazione, rappresentando solo in apparenza il frutto di un univoco orientamento giurisprudenziale.
Tale preoccupazione, invero, è stata espressa chiaramente dalle Sezioni Unite (sentenza 15 giugno 2015 n. 12310) secondo cui “La prima precisazione prende l’avvio dalla considerazione che, in linea generale, la giurisprudenza in materia sembra finora univoca e tetragona nell’affermare il principio secondo il quale sono ammissibili solo le modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono semplice “emendatio libelli”, ravvisabile quando non si incide né sulla causa petendi (ma solo sulla interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto) né sul petitum (se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere), mentre sono assolutamente inammissibili quelle modificazioni della domanda che costituiscono “mutatio libelli”, ravvisabile quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su di un fatto costitutivo differente, così ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo (v. tra numerose altre cass. numeri 1585 del 2015; 12621 del 2012; 17457 del 2009; 17300 del 2008; 21017 del 2007; 9247 del 2006). Questa apparente uniformità di principio (che relega senza incertezze nel campo della inammissibile mutatio libelli le modifiche alla domanda iniziale incidenti su petitum e causa petendi) sottende tuttavia una realtà più frastagliata, posto che, se pure nessuna pronuncia ha finora esplicitamente affermato che sono ammissibili domande “nuove” (intese come tali quelle delle quali risultano modificati in tutto o in parte il petitum e/o la causa petendi), nei singoli casi, escludendo che fosse intervenuto il suddetto inammissibile cambiamento, si è in concreto (talora attraverso equilibrismi teorici a volte comprendenti anche rivisitazioni e ridefinizioni dei concetti di petitum e causa petendi) giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano mutamenti in ordine ai suddetti elementi identificativi”.
Su tale premessa ed alla luce di articolata motivazione, le Sezioni Unite hanno offerto un’interpretazione innovativa che lascia ampio margine in ordine alla focalizzazione della domanda originariamente formulata, evidentemente più rispondente alle esigenze di difesa della parte che l’ha proposta senza frustrare, al tempo stesso, quella avversa, nel senso che “La vera differenza tra le domande “nuove” implicitamente vietate -in relazione alla eccezionale ammissione di alcune di esse- e le domande “modificate” espressamente ammesse non sta dunque nel fatto che in queste ultime le“modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate - eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali-, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”.
Alla luce di tale innovativa interpretazione ed in tale quadro ricostruttivo viene, quindi, superata la tradizionale distinzione tra mutatio ed emendatio libelli attesa la facoltà per le parti di modificare la domanda anche con riguardo ad uno od entrambi gli elementi identificativi della medesima (petitum o causa petendi) purchè la domanda, così modificata, risulti, comunque, connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che ciò implichi la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali.
Per completezza di indagine, va qui richiamato il più recente intervento delle Sezioni Unite (sentenza n. 22404/2018) che ha dato continuità all'indirizzo di cui innanzi per la valenza sistematica, in tema di esercizio dello ius variandi nel corso del processo, ad esso riconosciuta, che, superando in senso evolutivo il precedente criterio della differenziazione di petitum e causa petendi su cui si basava il più risalente e superato orientamento giurisprudenziale, ha spostato l'attenzione dell'interprete, dall'ambito circoscritto di una valutazione relativa alla fissazione dei suddetti elementi della domanda modificata rispetto a quella iniziale, in una prospettiva di più ampio respiro, volta alla verifica che entrambe tali domande ineriscano alla medesima vicenda sostanziale sottoposta all'esame del giudice e rispetto alla quale la domanda modificata sia, evidentemente, più confacente all'interesse della parte.
3. Nota di commento alla recente sentenza della Corte di Cassazione del 27 settembre 2018 n. 2316
La sentenza in commento si pone nel solco dell’orientamento giurisprudenziale consolidatosi dopo l’intervento delle Sezioni Unite di cui al superiore paragrafo.
La fattispecie concreta posta all’esame della Corte Suprema trae origine dalle doglianze mosse alla sentenza, emessa in sede d’appello, di rigetto dell'impugnazione proposta dallo stesso originario attore avverso la sentenza di primo grado di rigetto della sua domanda volta ad ottenere la declaratoria di inefficacia nei confronti del terzo acquirente della vendita dell’appartamento, da lui condotto in locazione ad uso abitativo, rispetto al quale, vantando il diritto di prelazione convenzionalmente pattuito e deducendo che l’offerta di vendita non gli era stata comunicata, aveva agito per far valere il diritto di riscatto previsto dagli artt. 38 e 39 L. 392/1978.
Il ricorrente nel sottoporre la questione all’esame della Corte di Cassazione ha contestato, tra gli altri motivi, la differenza che il giudice del gravame aveva delineato fra prelazione commerciale e prelazione abitativa, escludendo erroneamente gli effetti reali del diritto di riscatto, così da ritenere sussistente una mutatio libelli.
La sentenza impugnata, invero, nel confermare la pronuncia di primo grado aveva affermato che “esistono marcate differenze tra la prelazione abitativa e la prelazione commerciale e che avendo l’attore agito nei confronti della convenuta acquirente solo con riferimento alla prelazione convenzionale era incorso in una inammissibile mutatio libelli, avendo introdotto il riferimento alla prelazione legale solo con la memoria ex art. 183 c.p.c. modificando, in tal modo, la causa petendi originariamente prospettata”.
Con la decisione in esame, la Corte di Cassazione, sul rilievo della ritenuta erronea sussistenza di una mutatio libelli nelle precisazioni contenute nella memoria ex art. 183, comma quinto, c.p.c., ratione temporis vigente, riconducibili, invece, ad una ammissibile emendatio, ha accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e rinviato per un nuovo esame della controversia alla Corte di Appello, in diversa composizione anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.
La decisione così resa rappresenta il punto di arrivo di una articolata motivazione in cui sono richiamate la sentenza delle Sezioni Unite, esaminata nel superiore paragrafo, nonchè altre pronunce successive rese a sezioni semplici; tutti precedenti, questi, accomunati dalla chiara e pacifica tendenza a lasciare un margine più ampio alle parti per modulare le rispettive domande almeno nei termini e modi di cui all’art. 183, quinto comma e sesto comma, c.p.c. (ex plurimis Cass. 3806/2016; Cass. 26782/2016; Cass. 6389/2017; Cass. 27566/2017; Cass. 28385/2017; con riferimento ad identica fattispecie, ved. Cass. 9333/2016;).
La Corte di Appello, non avendo fatto, invero, corretta applicazione dei principi di diritto enunciati nelle citate sentenze, emetteva, quindi, una decisione errata per essere errata la ritenuta sussistenza di una mutatio libelli, pur trattandosi, invece, di una mera emendatio libelli.
Nel rinviare la controversia alla Corte di Appello per il nuovo esame, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto :“la questione relativa alla novità, o meno, di una domanda giudiziale è correlata all’individuazione del bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta, per cui non può esservi mutamento della domanda ove si sia in presenza di un ipotetico concorso di norme, anche solo convenzionali, a presidio dell’unico diritto azionato, presupponendo il cambiamento della domanda la mutazione del corrispondente diritto, non già della sua qualificazione giuridica” ; inoltre, con precipuo riferimento al diritto di prelazione legale ed al diritto di prelazione convenzionale, ha precisato che "il diritto di riscatto, previsto per le locazioni ad uso abitativo dall’art. 3 L. 431/1998 in combinato disposto con gli artt. 38 e 39 L.392/1978, è conseguenza della prelazione legale che può concorrere anche con la prelazione convenzionale, essendo compito del giudice di merito provvedere alla qualificazione della fattispecie concreta sulla base dei fatti complessivamente dedotti e tenuto conto delle parti processuali presenti in giudizio, anche alla luce dei principi di economia processuale e di conservazione delle prove”.
4. Conclusioni
Sulla premessa che alcuna norma disciplina le modalità con cui interpretare la domanda introduttiva del giudizio, molteplici sono stati nel tempo i canoni ermeneutici elaborati dalla dottrina e giurisprudenza.
La sentenza recensita in questa breve nota è di interesse per aver riaffermato, più di recente, l’orientamento giurisprudenziale che, nella delicata valutazione comparativa dei valori coinvolti, non riduce le regole processuali a meri divieti fini a se stessi ovvero a macchinosi formalismi, prediligendo interpretazioni tese ad una giustizia sostanziale.
In altri termini, l'interpretazione offerta dalla Corte di Cassazione, a far data da quella in funzione nomofilattica, esaminata innanzi, nel cui solco si pongono le successive e, tra queste, la sentenza oggetto della presente nota di commento, risulta, come evidenziato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, in quanto non solo incide sulla durata del processo in cui la modificazione interviene ma influisce positivamente anche sui tempi della giustizia in generale, favorendo la soluzione della complessiva vicenda sostanziale sottoposta all'esame del giudice in un unico contesto, evitando la proliferazione dei processi.
Il processo, giova ricordarlo, è retto da un sistema normativo che ha, evidentemente, quale unico e solo fine quello della tutela dei diritti riconosciuti nel nostro ordinamento; tutela, questa, che se resa gravosa nella sua concreta attuazione rischia di subire compressioni e, non da escludere, finanche vanificazioni.