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Pubbl. Lun, 22 Ott 2018

Contraffazione di marchio industriale e sequestro probatorio della merce

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Ilaria Mola


Ai fini del sequestro probatorio del corpo del reato, il fumus necessario è quello inerente all’astratta commissione del fatto nella sua materiale accezione, sicché il sequestro a fini di prova della merce contraffatta è legittimo se il marchio abusivamente riprodotto o utilizzato è registrato (Cass., Sez. II Pen., 11 luglio 2018, n. 31742).


Sommario: 1. Premessa; 2. Cenni sulla tutela penale dei contrassegni d’impresa; 3. Presupposti applicativi del sequestro probatorio del corpo del reato; 4. Le conclusioni della Corte di Cassazione.

1. Premessa

Con la sentenza n. 31742 depositata l’11 luglio 2018, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha precisato che, ai fini del sequestro probatorio del corpo del reato, il fumus necessario è quello inerente all’astratta commissione del fatto nella sua materiale accezione, sicché il sequestro a fini di prova della merce contraffatta è legittimo se il marchio abusivamente riprodotto o utilizzato risulti depositato, registrato o brevettato nelle forme di legge.

Il Tribunale del riesame di Napoli aveva confermato il sequestro disposto ex art. 253 c.p.p. nei confronti dell’indagato, con riferimento ai reati di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.) e ricettazione (art. 468 c.p.).

Avverso l’ordinanza aveva proposto ricorso per cassazione l’indagato, sul rilievo che la merce sequestrata non fosse idonea ad indurre effettivamente in errore gli acquirenti circa l’originalità e la provenienza del prodotto; di conseguenza, non potendosi ritenere sussistenti i reati contestati, la misura applicata avrebbe dovuto essere revocata in quanto illegittima.

Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’ordinanza impugnata non fosse censurabile, essendo l’ipotesi accusatoria configurabile in astratto sulla base degli elementi emersi dalle indagini.

2. Cenni sulla tutela penale dei contrassegni d’impresa

L’art. 474 c.p., contestato nella specie, punisce – fuori dei casi di concorso nei reati di contraffazione e alterazione previsti dall’art. 473 c.p. – l’introduzione nel territorio dello Stato, la detenzione per la vendita, l’immissione in commercio o in circolazione di prodotti industriali contrassegnati da marchi contraffatti o alterati.

Appare utile, a tal proposito, chiarire che la contraffazione consiste nella riproduzione integrale degli elementi essenziali del marchio o segno distintivo altrui, mentre alterazione è la modificazione parziale del simbolo, mediante l’eliminazione o l’aggiunta di elementi marginali, ma comunque tale da ingenerare nei terzi un rischio di confusione con l’originale (ex plurimis, Cass., Sez. V Pen., 27/5/1981, n. 4980).

Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, per l’integrazione delle condotte di contraffazione, alterazione o uso abusivo di marchio, punite dall’art. 473 c.p., non è necessaria una imitazione servile, bastando la loro idoneità a ingannare il consumatore circa l’originalità del prodotto e la sua provenienza da una determinata impresa, così da nuocere al generale affidamento (Cass., Sez. V Pen., 2/10/2008, n. 37553; Cass., Sez. V Pen., 2/8/2007, n. 31482; Cass., Sez. II Pen., 5/12/2005, n. 44297; Cass., Sez. V Pen., 20/10/2004, n. 40835; Cass., Sez. II Pen., 14/12/2000, n. 13031; Cass., Sez. V Pen., 15/3/1987, n. 3040; Cass., Sez. V Pen., 27/5/1981, n. 4980).

Il reato di contraffazione sussiste, ad esempio, quando un prodotto industriale venga presentato in una confezione diversa da quella originariamente indicata dal marchio depositato, anche se non ne siano alterate l’originalità o la qualità intrinseca e sia utilizzato lo stesso metodo di fabbricazione. Come affermato dalla giurisprudenza, “la confezione rappresenta nella sua specificità il mezzo idoneo ad identificare il prodotto, per cui la sua tutela da alterazioni, contraffazioni o imitazioni serve ad assicurare protezione alla privativa nell’ambito della pubblica fede nel commercio” (Cass., Sez. V Pen., 17/3/1986, n. 2128). Nel caso in cui l’abusiva utilizzazione di un prodotto leda soltanto lo specifico interesse patrimoniale di chi lo ha brevettato, ricorre invece il reato previsto dall’art. 127 comma 1 c.p.i. (Cass., Sez. V Pen., 2/10/2008, n. 37553).

Ciò detto, per l’integrazione del delitto di cui all’art. 474 c.p. non occorre un’effettiva contraffazione o alterazione del marchio, bastando una falsificazione anche imperfetta e parziale purché idonea a fare falsamente apparire il bene come proveniente da una determinata impresa, ingenerando confusione tra il prodotto originale e quello non autentico  (Cass., Sez. V Pen., 2/8/2007, n. 31482; Cass., Sez. II Pen., 5/12/2005, n. 44297; Cass., Sez. V Pen., 20/10/2004, n. 40835; Cass., Sez. II Pen., 14/12/2000, n. 13031; Cass., Sez. V Pen., 15/3/1987, n. 3040; Cass., Sez. V Pen., 27/5/1981, n. 4980).

Il reato, procedibile peraltro d’ufficio, tutela infatti la fede pubblica, qui intesa come generale affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, la cui funzione è individuare le opere dell’ingegno e i prodotti industriali, garantendone la circolazione anche a tutela del diritto esclusivo di fabbricazione ed uso acquisito dal privato mediante il brevetto ai sensi degli artt. 2569 c.c. e 1 r.d. n. 929/1942 (Cass., Sez. V Pen., 3/2/2014, n. 5260; Cass., Sez. V Pen., 27/5/1981, n. 4980; Cass., Sez. V Pen., 5/5/1980, n. 5610). Al contrario, il diverso reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci ex art. 517 c.p. richiede la mera somiglianza (non già falsificazione) dei contrassegni, anche se non registrati, tale da renderli equivoci e cioè confondibili per gli acquirenti: gli interessi protetti dalla norma, collocata non a caso nell’ambito dei delitti contro l’economia, sono l’ordine economico e l’onestà degli scambi commerciali (Cass., Sez. V Pen., 7/8/1996, n. 7720; Cass., Sez. V Pen., 15/3/1987, n. 3040; Cass., Sez. V Pen., 27/5/1981, n. 4980).

Trattandosi di una fattispecie di pericolo, va valutata la potenzialità lesiva della diffusione, in riferimento a un numero indeterminato e indeterminabile di consociati: basta accertare che si sia svolto il commercio di prodotti con marchio contraffatto, mentre non occorre la realizzazione dell’inganno sulla genuinità della merce e neppure rileva che il singolo acquirente fosse addirittura consapevole della falsità (Cass., Sez. II Pen., 27/9/2005, n. 34652; Cass., Sez. V Pen., 10/2/2004, n. 5237; Cass., Sez. V Pen., 5/3/1999, n. 3028; in proposito, si legga anche Cass., Sez. II Pen., 27/7/1990, n. 10874, secondo cui “acquistare oggetti con marchi contraffatti, avendo coscienza della contraffazione, integra gli estremi della ricettazione in quanto oggetto e marchio non sono scindibili neppure concettualmente, sicché, essendo l’oggetto con marchio contraffatto il risultato di un reato, lo stesso non può essere acquistato o ricevuto al fine di profitto”).

Di conseguenza, il reato ex art. 474 c.p. non può ritenersi impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano stati effettivamente indotti in errore circa l’originalità o la provenienza del prodotto (Cass., Sez. V Pen., 3/2/2014, n. 5260; Cass., Sez. V Pen., 16/3/2000, n. 3336). Affinché il falso possa essere considerato grossolano, quindi non punibile, è richiesta una riconoscibilità a prima vista dell’imitazione, che deve essere talmente ostentata e macroscopica per il suo grado di incompiutezza, da non poter ingannare nessuno (Cass., Sez. II Pen., 23/4/2008, n. 16821; Cass., Sez. II Pen., 5/12/2005, n. 44297; Cass., Sez. V Pen., 20/10/2004, n. 40835; Cass., Sez. V Pen., 16/3/2000, n. 3336; Cass., Sez. II Pen., 14/12/2000, n. 13031).

Va sottolineato che, ai sensi degli artt. 473 comma 3 e 474 comma 3 c.p., i delitti di contraffazione o alterazione di marchi ed immissione in commercio di merce contraffatta sono punibili “a condizione che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale”.

In altri termini, la tutela penale contro la contraffazione è limitata ai segni distintivi, nazionali o esteri, riconosciuti dall’ordinamento italiano in quanto regolarmente registrati ex art. 7 c.p.i., secondo cui “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”. Per di più, ai fini della configurabilità del reato è necessario che il diritto di privativa sia stato effettivamente conseguito, non essendo sufficiente il deposito della domanda di registrazione, contrariamente a quanto avviene in sede civile (Cass., Sez. V Pen., 26/6/2012, n. 25273; Cass., Sez. II Pen., 2/6/1998, n. 6418; contra, Cass., Sez. V Pen., 8/7/1999, n. 8758, che sostiene la possibilità di anticipare la tutela al momento della presentazione della domanda di brevetto). La prova della registrazione sarebbe superflua solo per un marchio celebre o comunque di larghissimo ed incontestato uso, perciò riconoscibile dal pubblico come indicativo della provenienza da una specifica impresa (Cass., Sez. V Pen., 3/2/2014, n. 5215; Cass., Sez. V Pen., 26/2/2012, n. 25273; Cass., Sez. V Pen., 12/9/2006, n. 33068; Cass., Sez. II Pen., 2/6/1998, n. 6418; Cass., Sez. V Pen., 6/7/1995, n. 7467; Cass., Sez. II Pen., 4/1/1994, n. 4265; Cass., Sez. V Pen., 27/5/1981, n. 4980).

Le conseguenze si riflettono, ovviamente, sul piano dell’elemento soggettivo del reato.

Nelle ipotesi di contraffazione o alterazione di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali, il dolo consiste non solo nella coscienza e volontà della contraffazione o alterazione, ma anche nella consapevolezza da parte dell’agente che il marchio sia stato depositato, registrato o brevettato nelle forme di legge (ex plurimis, Cass., Sez. V Pen., 5/5/1980, n. 5610). L’art. 473 c.p. esordisce, d’altronde, con l’inciso “potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale”.

La consapevolezza di detenere cose che si sappia essere contraffatte, destinandole alla vendita, è richiesta, altresì, nei casi di cui all’art. 474 c.p. (Cass., Sez. V Pen., 25/1/1999, n. 925). Ed il fine specifico di profitto o vendita può essere dimostrato sulla base dei più vari indizi, purché univocamente conducenti alla conclusione che il possesso del prodotto sospetto sia diretto al successivo commercio (Cass., Sez. II Pen., 10/1/2012, n. 142; per Cass., Sez. VI Pen., 12/4/1986, n. 2897 non sarebbe nemmeno necessario provare l’esistenza di concrete trattative per la vendita).

3. Presupposti applicativi del sequestro probatorio del corpo del reato

Valga come premessa che il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti, disciplinato dagli artt. 253 ss. c.p.p., è un mezzo di ricerca della prova finalizzato all’apprensione delle cose, mobili o immobili, sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso ovvero delle cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo nonché delle cose che costituiscono la prova del reato o delle conseguenze di esso.

È noto che nella nozione di corpo del reato, sostanzialmente ripresa da quella enunciata dall’art. 240 c.p. in tema di confisca, rientrano tutte le cose che sono in rapporto immediato e diretto con il reato.

Le cose pertinenti al reato, in quanto strumentali all’accertamento dei fatti secondo i principi della libera prova e del libero convincimento del giudice, possono invece essere legate all’azione criminosa da un nesso indiretto, purché non meramente occasionale. Tali sono, pertanto, a) le cose necessarie alla dimostrazione del reato e delle sue modalità preparatorie ed esecutive oppure b) le cose che servono per la conservazione delle tracce del reato, per l’identificazione del colpevole e per l’individuazione del movente (Cass., Sez. V Pen., 18/6/2014, n. 26444 e Cass., Sez. V Pen., 22/1/1997, n. 4421).

Premessa questa distinzione, la cosa da sequestrare va qualificata come corpo del reato o come cosa pertinente al reato sulla base degli elementi acquisiti nel corso delle indagini, senza il giudizio di certezza proprio della sentenza conclusiva (Cass., Sez. V Pen., 22/1/1997, n. 4421). Per quel che qui interessa, ad esempio, la giurisprudenza qualifica come corpo del reato i prodotti contrassegnati da simboli sospetti, anche qualora sia esibita documentazione d’accompagnamento formalmente ineccepibile (Cass., Sez. V Pen., 28/1/1998, n. 5535).

A lungo dibattuta in giurisprudenza è stata, però, la questione relativa all’ampiezza dell’onere motivazionale del decreto di sequestro probatorio del corpo del reato.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36072 del 27 luglio 2018 alla cui lettura integrale si rinvia, hanno confermato la necessità – ai fini della legittimità della misura – di una valutazione di funzionalità del sequestro rispetto all’accertamento del fatto contestato: anche con riferimento al corpo del reato l’applicazione della misura deve essere sorretta, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine alla rilevanza in funzione di prova, oltre che con riguardo al nesso di pertinenzialità tra res e azione criminosa.

Quindi, la finalità probatoria del corpo del reato non può essere presunta in re ipsa. Se così fosse, il sequestro non potrebbe mai essere revocato per essere venuta meno la necessità a fini di prova, come invece previsto dall’art. 162 comma 1 c.p.p.  (in questo senso, Cass., Sez. VI, 10/3/2017, n. 11817; Cass., Sez. III Pen., 27/4/2016, n. 1145; Cass., Sez. II Pen., 13/7/2012, n. 32941; Cass., Sez. II Pen., 9/3/2009, n. 10475; Cass., Sez. Un. Pen., 28/1/2004, n. 5876; Cass., Sez. Un. Pen., 18/6/1991, n. 10).

Secondo un indirizzo meno garantista, richiamato nella sentenza in commento (le cui motivazioni sono state depositate anteriormente all’intervento delle Sezioni Unite), il decreto di sequestro probatorio delle cose che costituiscono il corpo del reato deve essere invece sorretto da idonea motivazione soltanto in ordine al nesso di pertinenzialità tra la res sequestrata ed il reato oggetto di indagine. Non occorrerebbe invece motivare l’esigenza probatoria di apprendere il corpo del reato, sempre necessario per l’accertamento dei fatti, tanto che gli artt. 235 e 240 c.p.p. ne impongono l’acquisizione al fascicolo del dibattimento (Cass., Sez. II Pen., 20/7/2016, n. 46357; Cass., Sez. II Pen., 9/2/2016, n. 6149; Cass., Sez. II Pen., 28/10/2016, n. 52259; Cass., Sez. Un. Pen., 15/3/1994, n. 2).

Esiste poi una tesi intermedia, che considera necessario dimostrare le esigenze probatorie soltanto se non siano connotato ontologico ed immanente della cosa sottoposta al vincolo: è quel che accade, per esempio, nel caso del sequestro di sostanza stupefacente, di per sé finalizzato all’accertamento dei fatti (Cass., Sez. II Pen., 11/2/2015, n. 11325; Cass., Sez. II Pen., 28/1/2015, n. 4155; Cass., Sez. IV Pen., 15/1/2010, n. 8662; Cass., Sez. IV Pen., 24/10/2007, n. 39371).

La motivazione in ordine al reato da accertare può comunque essere modulata a seconda dello stato di avanzamento delle indagini, tanto che “è legittimo il decreto di convalida apposto in calce al verbale della polizia giudiziaria che si limiti ad indicare gli articoli di legge per cui si intende procedere, richiamandone per relationem il contenuto, sempre che i fatti per cui si procede risultino compiutamente descritti nel verbale di sequestro” (Cass., Sez. II Pen., 21/1/2016, n. 2787).

In sede di riesame del sequestro probatorio, allora, occorre verificare “l’astratta configurabilità del reato ipotizzato, valutando il fumus commissi delicti in relazione alla congruità degli elementi rappresentati, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa, ma con riferimento alla idoneità degli elementi su cui si fonda la notizia di reato a rendere utile l’espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione del bene all’indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell’autorità giudiziaria” (ex plurimis, Cass., Sez. III Pen., 14/4/2015, n. 15254).

Detto diversamente, il sequestro probatorio è legittimo ogni volta che il fatto possa ritenersi astrattamente sussumibile nell’ipotesi criminosa contestata, in ciò consistendo il fumus commissi delicti richiesto ex art. 253 c.p.p. (Cass., Sez. V Pen., 26/1/2015, n. 3600).

Qualora si proceda per i reati di contraffazione e alterazione di marchi o segni distintivi, in particolare, il presupposto cautelare del fumus commissi delicti deve ritenersi configurabile ove i contrassegni d’impresa risultino depositati, registrati o brevettati nelle forme di legge, non richiedendosi per la giurisprudenza alcuna indagine in merito alla loro validità sostanziale (Cass., Sez. V Pen., 5/6/2015, n. 24331; Cass., Sez. II Pen., 2/2/2010, n. 4217; Cass., Sez. V Pen., 19/12/1993, n. 48648, che ha confermato la misura disposta in pendenza del giudizio civile preordinato all’accertamento della titolarità del marchio).

4. Le conclusioni della Corte di Cassazione

Si ribadisce nella sentenza in commento che, se la finalità della misura consiste nella necessità di assicurare la prova del reato ipotizzabile in astratto, il fumus richiesto per il sequestro probatorio è quello inerente all’astratta commissione materiale dei reati e non alla colpevolezza; sicché “il mezzo è ritualmente disposto anche qualora il fatto non sia materialmente accertato, ma ne sia ragionevolmente presumibile o probabile la commissione”, desumibile anche dagli elementi logici che emergano prima facie dalle indagini (conformi, Cass., Sez. IV Pen., 30/9/2014, n. 43480; Cass., Sez. III Pen., 14/12/2007, n. 6465; Cass., Sez. II Pen., 16/1/1997, n. 84).

Secondo la Corte, nel caso considerato la riproduzione di un marchio figurativo registrato riferibile a nota casa automobilistica e la riproduzione di un modello protetto da marchio registrato impongono di ritenere astrattamente configurabile il pericolo di confusione dei consumatori circa la provenienza e autenticità del bene.

In fase cautelare, tale valutazione può limitarsi ad una verifica astratta riferita al titolo di reato ed agli atti acquisiti (nella specie, la consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, per i giudici correttamente valutata), mentre la verifica sulla idoneità della contraffazione a configurare in concreto il pericolo di confusione compete al giudice del merito, che all’esito di ulteriori accertamenti potrà eventualmente riqualificare i fatti (nello stesso senso, Cass., Sez. III Pen., 5/10/2017, n. 45735; Cass., Sez. II Pen., 5/5/2016, n. 25320; Cass., Sez. II Pen., 20/9/2007, n. 38603; Cass., Sez. V Pen., 26/4/2006, n. 19512).