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Pubbl. Dom, 30 Set 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Sequestro probatorio e obbligo di motivazione: il nuovo intervento delle SS.UU. fuga ogni dubbio?

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Giacomo Tasca


Le SS.UU., con la recente sentenza n. 3607 del 2018, tornano sulla vexata quaestio della rilevanza ed estensione da attribuire alla motivazione del sequestro probatorio, sancendo la necessità di una motivazione che espliciti, oltre al nesso di pertinenza tra la res ed il reato, le esigenze probatorie che giustificano il provvedimento di cautela.


Sommario: 1. La questione; 2. Il caso; 3. Il sequestro probatorio; 4. Il travagliato excursus giurisprudenziale in merito all’obbligo motivazionale; 5. La decisione delle Sezioni Unite; 6. Riflessioni conclusive.

1. La questione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36072 del 27 luglio 2018, tornano nuovamente sulla vexata quaestio della rilevanza ed estensione da attribuire alla motivazione del decreto di sequestro probatorio, nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto il corpo di reato. Invero, nonostante i plurimi interventi della Suprema Corte, le sezioni semplici tendevano ad adottare soluzioni tra di loro antitetiche, richiedendo sul punto un esplicito intervento nomofilattico.

2. Il caso

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Nuoro proponeva ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di riesame, il quale, accogliendo la richiesta degli indagati in relazione al decreto di convalida del sequestro probatorio, lamentava l’insussistenza della motivazione in ordine alle esigenze probatorie.

Nello specifico, il Procuratore si doleva della decisione del Tribunale di annullare il provvedimento di convalida del sequestro disposto dal p.m. relativamente a determinati magazzini ed appartamenti oggetto di specifiche violazioni edilizie[1], lamentando, nei due motivi di ricorso, da un lato, la violazione e falsa applicazione dell’art. 253 c.p.p., avendo il Tribunale ritenuto «obiettivamente insussistente» la motivazione in ordine alle esigenze probatorie a fondamento del sequestro e, dall’altro, la violazione di legge per motivazione apodittica e apparente nel punto in cui ritiene mancante il fumus dei reati per i quali si procede.

Orbene, ad ausilio della proprio doglianza, il Procuratore evidenziava la sussistenza di due opposti orientamenti della Corte di Cassazione:

  • Da un lato, una più recente tendenza seguita dalle Corti di legittimità (da ultimo espressa da Sez. 2, n. 52259 del 28/10/2016, Esposito), tesa a riconoscere in re ipsa l’esigenza probatoria del corpo del reato, limitando l’idoneità della motivazione al solo rapporto tra la res sequestrata e il reato oggetto di indagine.
  • Dall’altro lato, una diversa impostazione (formulata da Sez. 3, n. 1145 del 27/04/2016, Bernardi), secondo cui il decreto di sequestro probatorio del corpo di reato deve essere sorretto, a pena di nullità, da adeguata motivazione al fine dell’accertamento dei fatti.

Per la Procura, anche volendo avallare, come fa l’ordinanza impugnata, il secondo orientamento, il Tribunale del riesame avrebbe dovuto ritenere sufficiente anche una motivazione sintetica, essendo evidente l’esigenza probatoria insita nel bene immobile corpo del reato edilizio.

Per di più, il sequestro operato dalla polizia giudiziaria nel caso de quo conterrebbe già nel relativo verbale chiara descrizione delle difformità riscontrate in ciascuna porzione immobiliare e gli articoli di legge che si assumono violati (tra cui l’illecito di cui all’art. 44 D.P.R. n. 380 del 2001), tali da ritenere sussistente il fumus del reato edilizio. Invero, sostiene il ricorrente, l’onere motivazionale del sequestro probatorio va modulato in ragione, da un lato, della “progressione processuale” che caratterizza la fase delle indagini e, dall’altro, della completezza del verbale di sequestro integrante il decreto di convalida. Pertanto, rileva il p.m., trattandosi di provvedimenti afferenti violazioni edilizie, rispetto alle quali è indubbia la qualifica di corpo del reato degli immobili abusivamente costruiti, i sequestri presentano

«quale connotato ontologico e immanente di immediata evidenza, la loro finalizzazione probatoria, dal momento che l'attività investigativa non potrà che passare attraverso una puntuale verifica delle difformità prima facie riscontrate nella fase iniziale dell'indagine».

Il Collegio della Terza sezione penale, pur ritenendo fondato il motivo di ricorso del p.m., sottolineano come l’eventuale annullamento dell’ordinanza impugnata comporterebbe un evidente contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5876 del 28/01/2004 in cui, di converso, si afferma la necessità, a pena di nullità, di idonea motivazione in ordine al presupposto delle finalità perseguite per l’accertamento del fatto.

Pertanto, ponendosi la tesi della terza sezione in contrasto con tale principio, ha dovuto rimettere con ordinanza del 1 dicembre 2017, ai sensi del nuovo comma primo bis dell’art. 618 c.p.p.[2], la decisione del ricorso alle Sezioni Unite, chiedendo

“se, per le cose che costituiscono corpo di reato, il decreto di sequestro probatorio possa essere motivato con formula sintetica ove la funzione probatoria del medesimo costituisca connotato ontologico ed immanente del compendio sequestrato, di immediata evidenza, desumibile dalla peculiare natura delle cose che lo compongono o debba, invece, a pena di nullità, essere comunque sorretto da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l'accertamento dei fatti”.

3. Il sequestro probatorio

Contrariamente alla previsione del previgente codice di rito che all'art. 337 stabiliva un unico e indifferenziato strumento di coercizione reale - il sequestro per il procedimento penale di cose pertinenti al reato -, non subordinato ad alcuna finalità predeterminata, il codice del 1988 ha distinto varie forme di sequestro in linea ai parametri dettati in materia dalla legge delega n. 81 del 1987, che, da un lato, attribuiva al PM il potere di disporre sequestri «in funzione dell'esercizio dell'azione penale» e dell'«accertamento di fatti specifici», e dall'altro prefigurava la disciplina di misure reali «in relazione a specifiche esigenze cautelari»[3].

Tale organica risistemazione, fondata sulle autonome specificità funzionali dell'istituto, è stata tradotta dal legislatore delegato nella previsione di opportune tipologie di sequestro, topograficamente collocate, il sequestro probatorio nel libro III, titolo III, attinente ai «mezzi di ricerca della prova», il sequestro conservativo e quello preventivo nel libro IV, titolo II, riguardante le «misure cautelari reali», la cui disciplina trova un comune denominatore nel regime delle impugnazioni.

Indicativo del chiaro obiettivo del legislatore di disciplinare separatamente gli ambiti e le regole del sequestro finalizzato all'acquisizione del materiale probatorio dalle misure coercitive reali possono trarsi dalla Relazione al prog. prel., laddove, in considerazione della funzione probatoria del primo tipo di sequestro, è sottolineata la decisa caratterizzazione in senso processuale dell'istituto, attraverso il riferimento dell'art. 253, comma 1, alla finalità di «accertamento dei fatti», volendosi «in tal modo escludere che il sequestro penale possa servire per fini diversi da quelli probatori - cioè per fini di cautela sostanziale o di prevenzione - rispetto ai quali è stata dettata una apposita disciplina nel titolo II del libro IV»[4]. E la distintiva autonomia di tale finalità viene rafforzata con riguardo alle regole dettate dall'art. 262 c.p.p. circa la durata del sequestro e la restituzione delle cose sequestrate. Ed infatti, esaurita l’esigenza di mantenere il vincolo reale a fini di prova, i beni sequestrati vanno riconsegnati agli aventi diritto.

Più nel dettaglio[5], il sequestro probatorio condivide con il sequestro preventivo e conservativo la caratteristica di generare un vincolo di indisponibilità su un bene mobile o immobile[6], attraverso uno spossessamento coattivo. Tale restrizione è disposta, nel caso di sequestro probatorio, al fine di mantenere immutate le caratteristiche del bene per l’accertamento dei fatti. Due i requisiti previsti dalla legge all’art. 253 del codice di rito: il primo, di carattere naturalistico, è la sussistenza di un bene; il secondo, di natura giuridica, è che si tratti del corpo di reato o di una cosa pertinente al reato e che sia “necessaria” per l’accertamento del fatto.

Per corpo del reato va inteso, secondo la definizione data dal secondo comma dell’art. 253 c.p.p. e l’orientamento più accreditato dalla giurisprudenza, il prodotto, il profitto o il prezzo del reato quale acquisito direttamente attraverso l’illecito, ovvero inteso come vantaggio, patrimoniale e non, realizzato in seguito ad esso, nonché i beni valutabili economicamente offerti o promessi al reo o i beni che, comunque, possono essere utilizzati per la prova del reato[7].

Il concetto di cose pertinenti al reato manca di una definizione codicistica e ricomprende, oltre al corpus delicti e ai producta sceleris, ogni cosa collegata non occasionalmente al delitto, strumentale all’accertamento dei fatti ed all’individuazione dell’autore[8].

La richiamata finalità istruttoria ha evidenti riflessi sul piano pratico-applicativo, rappresentando chiaro presupposto dell’istituto. Ne deriva che un utilizzo dell’istituto a fini meramente esplorativi di acquisizione della notitia criminis ovvero in presenza della mera intenzione di commettere un reato e, quindi, in assenza di un’ipotesi di reato, comporta l’illegittimità del provvedimento[9].

Il sequestro probatorio è normalmente disposto dal pubblico ministero con decreto motivato, d’ufficio o su richiesta di eventuali soggetti interessati (indagato, persona offesa o danneggiato). In caso di rigetto da parte del p.m. della richiesta avanzata dall’interessato, la competenza funzionale passa al g.i.p. (art. 368 c.p.p.). Al sequestro procede personalmente l’autorità giudiziaria o un ufficiale di polizia giudiziaria, operando anche se il bene si trovi nella disponibilità materiale di un terzo[10].

4. Il travagliato excursus giurisprudenziale in merito all’obbligo motivazionale

L’esigenza di definire l’ampiezza dell’obbligo di motivazione del sequestro attinente il corpus delicti è un profilo che ha visto il susseguirsi di diversi interventi da parte delle Sezioni Unite.

In particolare, la tesi dell’automatica assoggettabilità del corpus delicti al sequestro veniva avallata da specifici motivi testuali basati sul fatto che l’art. 253 c.p.p. collega l’aggettivo “necessarie” alle sole cose pertinenti al reato in quanto adoperato al femminile plurale. In altri termini, se il legislatore avesse voluto estendere la necessità di un’apposita verifica circa la sussistenza delle finalità probatorie anche al corpo del reato, avrebbe dovuto declinare l’aggettivo “necessarie” al maschile plurale, seguendo le logiche regole grammaticali. Pertanto, si deduce che il problema interpretativo si limite alla corretta qualifica come corpo del reato del bene in esame, essendo a quel punto immediata la sostenibilità del sequestro ai fini di prova e di accertamento dei fatti.

D’altro canto, al fine di evitare pericolosi automatismi presuntivi legati alla qualità della res, si è sostenuto in giurisprudenza la necessità di un’adeguata motivazione tale da far apparire necessario il sequestro, sia per le cose pertinenti al reato che ugualmente per il corpo del reato. A sostegno di questa tesi rileverebbe la lettura dell’art. 262 c.p.p., relativamente alla restituzione delle cose sequestrate all’avente diritto una volta venute meno le esigenze probatorie. Dalla disposizione si ricaverebbe, quindi, l’intenzione del legislatore di ancorare la misura ad esplicite necessità probatorie, scevra da ogni automatismo.

Su questo tema sono intervenute, in un primo momento, le Sezioni Unite nel 1991 sostenendo come «per ragioni di immediata contiguità sintattica è possibile la concordanza dell'aggettivo con l'ultimo nome femminile, quando questo è plurale, anche se è preceduto da nomi maschili», affermando in tal modo la necessità di una verifica tramite motivazione della legittimazione del decreto di sequestro (C., S.U., 18.6.1991, n. 10 Raccah).

Le stesse Sezioni Unite, con una pronuncia del 1994, hanno capovolto la precedente tesi, sostenendo all’opposto, come una volta qualificata la cosa come corpo di reato, la conseguente finalità probatoria sia in re ipsa, non essendo necessario giustificare il ricorso a tale mezzo di ricerca delle prove (C., S.U., 11.2.1994, n. 2 Carella)[11].

Dopo solo due anni è, tuttavia, ritornato sul punto il Supremo Collegio, ribadendo nuovamente l’orientamento più formale e garantista volto a richiedere l’esistenza di un effettivo rapporto tra la cosa e l’illecito penale, rendendo imprescindibile la motivazione sulle esigenze probatorie che rendono necessario il sequestro. (C., S.U., 20.11.1996, n. 23 Bassi).

Nonostante i reiterati interventi delle Sezioni Uniti, il problema non ha finito di affliggere la giurisprudenza, dividendola al suo interno alla ricerca di una soluzione condivisa. Parte della giurisprudenza, in linea con l’ultima pronuncia del Supremo Collegio, richiedeva un’esplicita motivazione sulla rilevanza della res ai fini del sequestro, configurando altrimenti un’ablazione della cosa priva dell’interesse pubblico, unica giustificazione in grado di consentire una deroga ai principi dell’art. 42 Cost. D’altro canto, altre pronunce di legittimità sostenevano, invece, l’esistenza di un rapporto di immediatezza tra la cosa e l’illecito penale quando si trattava di corpo del reato, trattandosi di bene indispensabile per l’accertamento dei fatti.

A tal riguardo, l’ennesimo intervento delle Sezioni Unite sul punto nel 2004 (C., S.U., 28.01.2004, n. 5876 Bevilacqua) ha nuovamente richiesto, nel solco tracciato dalla pronuncia del 1991, una specifica motivazione circa le finalità probatorie, a pena di nullità, sia nell’ipotesi di cosa costituente reato che di cosa pertinente allo stesso[12]. Inoltre, in caso di carente indicazione da parte del p.m., il giudice del riesame non potrà integrare la motivazione indicando le finalità del sequestro, trattandosi di atto riservato dalla legge al dominio del p.m. Perciò, a prescindere dall’ambigua declinazione al femminile plurale dell’aggettivo “necessarie” di cui al primo comma dell’art. 253 c.p.p., devono essere comunque

«esplicitate, così come avviene per le cose pertinenti al reato, le ragioni che giustificano in concreto la necessità dell'acquisizione interinale del bene “per l'accertamento dei fatti” inerenti al thema decidendum del processo, secondo il catalogo enunciato dall'art. 187 c.p.p., in funzione cioè dell'assicurazione della prova del reato per cui si procede o della responsabilità dell'autore».

Orbene, l’esatta interpretazione del codice di rito non consente di distinguere, accanto alle tre forme tipiche di sequestro (probatorio, preventivo e conservativo), la figura autonoma del sequestro del corpo di reato quale “quartum genus” suscettibile di inevitabile ed obbligatoria applicazione in virtù della sola qualità della res.

A sostegno di questa tesi la Suprema Corte fa riferimento al secondo comma dell’art. 354 c.p.p. che, con l’inciso “se del caso” riferito al sequestro probatorio d’urgenza effettuato dalla polizia giudiziaria del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti, esplicita la rilevanza funzionale dell’atto sul piano dell’accertamento dei fatti, con conseguente necessità di adeguata motivazione.

A nulla servirebbe il richiamo agli artt. 103 comma 2, 235 e 240 c.p.p. che si riferiscono ad ipotesi speciali di sequestro del corpo di reato ex lege, dalle quali non è possibile dedurre la regola generale circa la rilevanza probatoria in re ipsa del corpus delicti

In definitiva, l’apprensione della res mediante sequestro probatorio comporta un sacrificio alla libertà di un soggetto, che può anche essere terzo rispetto al reato commesso e che, pertanto, necessita di una concreta giustificazione circa le esigenze investigative perseguite, anche in funzione del controllo da parte del tribunale del riesame. Solo una tale interpretazione comporta un giusto equilibrio tra i motivi di interesse generale e il sacrificio del diritto del singolo al rispetto dei beni di sua proprietà, così come riconosciuto dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione Edu[13].

Corollario di tale principio è che nell’ipotesi in cui la mancanza del p.m. in merito alla motivazione del provvedimento sia radicale, la Corte di Cassazione dovrà pronunciare sentenza di annullamento senza rinvio, mentre, sarà con rinvio, nel caso di esistenza delle esigenze probatorie, ma senza una precisa ed idonea indicazione.

Malgrado le prese di posizione delle Sezioni Unite la divergenza tra orientamenti è, tuttavia, proseguita negli arresti delle sezioni semplici, arricchendo il contrasto con ulteriori sfumature e attenuanti. Per cui, ad esempio, in una serie di pronunce si è collegato l’obbligo motivazionale alla immediata o meno evidenza probatoria del tipo di bene sequestrato, modulandolo in relazione al caso concreto per cui si procede e alla progressione processuale[14]. Orbene, laddove la funzione probatoria appaia di immediata evidenza trovandosi il procedimento anche nella fase iniziale delle indagini, il p.m. potrà anche far ricorso ad una motivazione sintetica del provvedimento impositivo del vincolo reale[15] (Sez. 2, n. 44416 del 16/09/2016, Di Vito). La conseguenza più diretta di tale filone interpretativo è certamente quello di relegare ad una “extrema ratio” la nullità dell’atto impositivo.

5. La decisione delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, con la più recente pronuncia del 27 luglio 2018, n. 36072, sgomberano (forse) definitivamente il campo da interpretazioni contrastanti, ritenendo che un’esatta lettura dell’art. 253 c.p.p., comma 1 c.p.p., non consenta, nell’ambito dell’onere motivazione previsto dalla norma, di distinguere tra corpo del reato e cose pertinenti al reato.

Orbene, l’esegesi della norma alla luce del collegamento con il principio generale di cui all’art. 125 c.p.p., comma 1, deve indurre l’interprete a richiedere adeguata motivazione indipendentemente dalla natura attribuita alla res sequestrata, non consentendo alcuna distinzione al suo interno tra sequestro probatorio del corpo del reato e sequestro di cose pertinenti al reato. Talaltro, come anche affermato dalla stesse Sezioni Unite con la precedente pronuncia del 2004, manca all’interno del codice di rito qualsiasi riferimento a una tale ripartizione tale da giustificarne un trattamento differenziato.

Del resto, proseguono le Sezioni Unite, che non si possa mettere in discussione l’esigenza di motivazione del provvedimento di adprehensio non è possibile ricavarla nemmeno dall’opposto indirizzo promosso dalla sentenza “Carella” del 1994, dove, infatti, non si esclude in assoluto un onere motivazionale, ma solo in relazione alla funzione probatoria del corpo di reato essendo connotazione ontologica alla natura della res come corpo del reato.

Ciò nondimeno, atteso l’obbligo motivazionale e la finalità del sequestro probatorio ad accertare i fatti, già in base ad un profilo essenzialmente logico, su quali aspetti se non sulla finalizzazione probatorio dovrebbe ricadere la motivazione?

Accanto a tale dato logico, ulteriori elementi confermano un tale orientamento. Il primo dato si ricava dall’art. 262, comma 1, c.p.p. secondo cui, salvo che il sequestro probatorio si trasformi in sequestro preventivo, conservativo, ovvero non si disponga la confisca della res, qualora non risulti più necessario trattenere il bene a fini probatori, lo stesso va restituito all’avente diritto. Ciò appare in netto contrasto con l’assunto secondo cui il fine probatorio sarebbe insito e connaturato al corpo del reato, poiché se così fosse, il codice non ne dovrebbe prevedere la possibile restituzione. Tale posizione troverebbe ulteriore conferma nel dettato dell’art. 354 comma 2 c.p.p., il quale attribuisce alla polizia giudiziaria il potere di procedere, “se del caso”, al sequestro del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti, disposizione del tutto ultronea rispetto al corpo del reato, se quest’ultimo, data la matrice probatoria che lo connatura, dovesse sempre e comunque essere sequestrato. In definita, del tutto illogico è distinguere tra il sequestro del corpo di reato inteso come provvedimento obbligatorio e, all’opposto, il sequestro di cose pertinenti al reato, la cui attuazione è solo facoltativa.

Il secondo profilo rintracciato dal dictum delle Sezioni Unite è rinvenibile nella necessità di un corretto bilanciamento tra la misura adottata e l’esigenza perseguita, così come già sottolineato nella precedente pronuncia “Bevilacqua” del 2004. Orbene, l’unica interpretazione in grado di tutelare sul terreno delle libertà fondamentali il diritto della proprietà così come riconosciuto dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione Edu è quella favorevole all’onere motivazionale.

Una legittimità tout court del sequestro probatorio del corpo di reato, indipendentemente da ogni richiamo all’interesse pubblico collegato all’accertamento dei fatti di reato, autorizzerebbe un vincolo di indisponibilità sulla cosa arbitrario e irragionevole, in quanto saldato alla circostanza di essere la res oggetto sul quale o mediante il quale il reato è stato commesso o prodotto, profitto o prezzo dello stesso.

La Convenzione Edu, infatti, ammette una delimitazione del diritto di proprietà, ma unicamente «nei limiti previsti dalla legge e in quanto necessarie in uno Stato di diritto». Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del Protocollo addizionale, gli Stati membri, quindi, possono introdurre nel loro ordinamento leggi ritenute necessarie al regolamento dell’uso dei beni conformemente all’interesse generale, ma con il limite che tale diritto andrà esercitato garantendo il superiore principio di proporzionalità tra i mezzi usati e lo scopo perseguito, ossia tra interesse pubblico e privato[16]. Pertanto, solo con lo strumento motivazionale è possibile sottoporre a un controllo di legittimità costituzionale e convenzionale il provvedimento ablativo, garantendo, in tal modo, la proporzionalità tra la proprietà privata e l’accertamento penale.

Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte ritenuto applicabili anche alle misure cautelari reali i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall’art. 275 c.p.p. per le misure cautelari personali, proprio allo scopo di scongiurare indebite compressioni del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata[17] (Sez. 5, n. 8152 del 21/10/2010, Magnano; Sez. 5, n. 8382 del 16/01/2013, Caruso; Sez. 3, n. 21271 del 07/05/2014, Konovalov). In maniera del tutto analoga, non vi è alcun ostacolo ad un’estensione del principio affermato per le misure cautelari reali anche con riguardo ai mezzi di ricerca della prova, al quale il sequestro probatorio appartiene. Tutto ciò conduce, inevitabilmente, a richiedere una particolare connotazione dell’onere motivazionale, a nulla rilevando il riferimento a presunte ragioni di celerità o di “economia processuale”.

Il definitiva, la pronuncia della Suprema Corte ribadisce il principio di diritto secondo cui

«il decreto di sequestro (così come il decreto di convalida di sequestro) probatorio, anche ove abbia ad oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una specifica motivazione sulla finalità perseguita per l'accertamento dei fatti».

Alla luce delle suddette affermazioni, le Sezioni Unite ritengono infondato il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Nuoro in entrambi i motivi. Invero, l’ordinanza impugnata correttamente evidenzia l’inidoneità della motivazione contenuta nel decreto di sequestro, limitandosi quest’ultimo ad indicare che «trattasi di beni la cui detenzione è illecita e/o il cui mantenimento in sequestro è indispensabile al fine della prosecuzione delle indagini», omettendo, in tal modo, qualsiasi analisi, anche sintetica, circa la sussistenza della relazione di immediatezza tra la res sequestrata e il reato oggetto di indagine.

Sicché, riaffermata la necessità della motivazione del provvedimento con riguardo all’accertamento dei fatti, le Sezioni Unite non possono che rigettare il ricorso.

6. Riflessioni conclusive

La sentenza in commento prova a mettere fine ad un dibattito che da quasi trent’anni divide dottrina e giurisprudenza. Del tutto condivisibili appaiono le motivazioni adottate dalla Suprema Corte che, accanto a motivi logici ed esegetici, accompagnano un’interessante riflessione sul rapporto tra proprietà privata, libera iniziativa economica e i relativi limiti, alla luce dell’art. 42 Cost. e dell’art. 1 del Protocollo addizionale Convenzione Edu. Da qui, la necessità di una motivazione che espliciti, oltre al nesso di pertinenzialità tra la cosa ed il reato, anche l'esigenza probatoria che giustifica il provvedimento di cautela, giacché, se così non fosse, il vincolo sulla proprietà risulterebbe, in sé, mancante di una causa giustificatrice.

Rimane, tuttavia, lo spiraglio lasciato dalla Corte sul grado o quantum del compendio argomentativo che deve presentare il provvedimento per far ritenere adempiuto l’obbligo motivazionale. Invero, premesso che il legislatore ha già preso posizione in merito alle sentenze, stabilendo l’idoneità della “concisa” esposizione dei motivi, la palla passa ai p.m., a cui spetterà il delicato compito di individuare, caso per caso, il contenuto minimo da riservare alla motivazione.

Note e riferimenti bibliografici

[1] In relazione ai reati di cui agli artt. 110, c.p. e 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo a); artt. 110 e 481 c.p. (capo b); artt. 110 e 483 c.p. (capo c), commessi in epoca anteriore e prossima all’8 marzo 2018.
[2] Per un’analisi sulle modifiche apportate con la cd. riforma Orlando (legge 23 giugno 2017, n. 103; d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11) v. Capone A., La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Torino, 2018, 125 e ss.
[3] Sulla figura del sequestro probatorio in relazione al codice previgente, Garavelli, Il sequestro nel processo penale, Torino, 2002.
[4] Per il sequestro come mezzo di assicurazione della prova: Bellantoni, Sequestro probatorio e processo penale, Padova, 2005, 11; Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2009, 63.
[5] Tra i numerosi contributi v. Spangher G., Teoria e pratica del processo – Volume I, Torino, 2015. Grilli L., Le indagini preliminari della Polizia Giudiziaria e del Pubblico Ministero, Padova, 2012.
[6] Dal punto di vista materiale, possono essere oggetto di asservimento oltre ai beni mobili e immobili, anche quelli immateriali, ad esempio i diritti di credito. Sul punto vedi la nota di Lattanzi F. Brevi considerazioni sulla sequestrabilità dei beni immateriali, in Cass. Pen., 1999, 635.
[7] La giurisprudenza ha, ad esempio, ammesso, nell’ambito di un procedimento per violazione della disciplina sulle sostanze stupefacenti, la legittimità del sequestro di una banconota di cui era stato annotato il numero di serie, utilizzata per l’acquisto simulato della droga, e di un’autovettura di cui l’indagato si era servito per un più agevole trasporto della droga.
[8] Secondo Spangher G., La Pratica del processo penale, III, Milano, 2014, 616, il concetto di pertinenza consiste in qualsiasi relazione che intercorra tra cosa e reato, qualificata dalla potenzialità della cosa stessa ad essere un utile strumento di accertamento del fatto, o più precisamente degli elementi di cui all’art. 187 c.p.p.; si tratta d’un concetto rimesso all’apprezzamento discrezionale del magistrato da effettuarsi ex ante e non ex post.
[9] Vergine A. L., La Suprema Corte “ristabilisce l’ovvio”, in Riv. Giur. Ambiente, 2013, 548.
[10] Siracusano D. – Galati A. – Tranchina G. – Zappalà E., Diritto processuale penale, Milano, 2013.
[11] V. nota di Rigo F. Sequestro probatorio del corpo del reato e principio della motivazione, in Cass. Pen., 1994, 2915.
[12] V. nota di Massari, La necessità ai fini dell’accertamento come presupposto del sequestro del corpo del reato, in Cass. Pen., 2004, 1913.
[13] L’art. 1 del Protocollo addizionale afferma che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.
[14] V. in dottrina Fiorelli, Automatismi legati al corpus delicti: un nodo immotivatamente insoluto, in Cass. Pen., 5, 2014, 1737.
[15] Sul punto, Gabrielli, L’”intrinsecità giustificativa del sequestro” probatorio: una formula pericolosamente sfuggente, in Riv. It. Dir. e proc. Pen., 2008, 1409.
[16] Più approfonditamente sul rapporto tra tutela della proprietà e le pronunce della Corte Edu v. Maugeri A. M., La tutela della proprietà nella C.e.d.u. e la giurisprudenza della Corte Europea in tema di confisca, Torino, 2017, 5 e ss. Zella A., Il diritto di proprietà tra ordinamento interno e CEDU, Forsinone, 2015. Tra le più recenti pronunce europee sul punto v. Corte Edu, 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi San Ve Tic A. S. c. Bulgaria).
[17] Sulla stessa scia anche la giurisprudenza della Corte Edu, v. Corte Edu 13 dicembre 2016, S.C. Fiercolect Impex S.R.L. c. Romania.

Sommario: 1. La vecchia fattispecie di concussione e i problemi in ordine alla distinzione con la corruzione; 2. La legge Severino e lo “spacchettamento” della concussione; 3. Le Sezioni Unite: il criterio per distinguere concussione e induzione indebita; 4. Le riforme in materia di contrasto alla corruzione: la l. n. 69/2015.

1. La vecchia fattispecie di concussione e i problemi in ordine alla distinzione con la corruzione

Per poter meglio delineare i contorni della fattispecie di cui all’art. 317c.p., appare utile far un primo e doveroso riferimento al dettato normativo codicistico attuale, la cui norma così recita: “Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici anni.”

Preliminarmente, dalla norma sopra citata è possibile rilevare come la riforma anticorruzione abbia significativamente trasformato il delitto di concussione, adeguando la nostra normativa agli obblighi assunti dal nostro Paese a livello comunitario.

La novella legislativa  intervenuta nel 2012 con la legge n. 190, è tornata alla previsione del codice Zanardelli, procedendo non solo alla rimozione della persona incaricata di un pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi, ma anche all’eliminazione della condotta dell’ induzione.

Tale ultima condotta è a oggi disciplinata dall’art. 319 quater che punisce, oltre il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio, anche il c.d. extraneus, in altre parole colui il quale non essendo stato “costretto” dal pubblico ufficiale alla promessa ma solo all’indebita dazione e quindi “indotto”, resta pur sempre libero di assecondare o meno le indebite richieste rivoltegli dall’intraneus, non potendosi considerare una vera e propria vittima.[1]

La nuova condotta prevista dal legislatore disciplina, quindi, un’autonoma disposizione collocata tra i reati di corruzione, perdendo così definitivamente ogni collocamento con il delitto di concussione, al fine di suggellare una forma di corruzione sui generis, che si differenzia dagli stessi per non essere caratterizzata da un rapporto sinallagmatico fra le parti ma dalla presenza di un “abuso della qualità o dei poteri” perpetrato dell’intraneus.

2. La legge Severino e lo “spacchettamento” della concussione.

La questione riguarda gli effetti derivanti dall’entrata in vigore della legge 6 novembre 2012 n. 190, nonché della riforma del 2015 con la legge n. 69 che,nel novellare la disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, ha sostituito l'art. 317 c. p., con l'introduzione di una “diversa” fattispecie di“concussione” ed ha introdotto l'art. 319-quater c.p. riguardante l'innovativa figura criminosa della “induzione indebita a dare o promettere utilità”, figura sostanzialmente intermedia tra quella residua della condotta concussiva sopraffattrice e l'accordo corruttivo, integrante uno dei reati previsti dall'art. 318 o dall'art. 319 c. p.

La circostanza che il legislatore della novella del 2012, nello sdoppiare le fattispecie di reato, abbia riproposto, rispettivamente nella nuova versione dell'art. 317 e nell'art. 319-quater comma 1, formulazioni testuali sostanzialmente identiche, nelle quali l'unico dato di distinzione è, appunto, quello del verbo “costringe” nel primo caso, “induce” nel secondo, costituisce un indice che la voluntas legis sia stata nel senso di attribuire una qual continuità normativa rispetto alla disposizione incriminatrice precedentemente vigente, con la conseguenza che appare senz'altro possibile continuare a valorizzare le decisioni della Suprema Corte cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità che, pur nella indifferenza degli effetti pratici, aveva tracciato una  linea tra la condotta costrittiva e quella induttiva.[2]

Secondo tali orientamenti,sia la costrizione che l'induzione si realizzano laddove il comportamento del pubblico ufficiale, che abusa della sua qualità o dei suoi poteri, si sostanzi nella formulazione di una pretesa indebita, di dazione o di promessa di denaro o di altra utilità, manifestata con forme e modalità idonee ad incidere psicologicamente sulla volontà e, quindi, sulle determinazioni del destinatario; solo che, nel primo caso, si parla di costrizione perché la pretesa ha una maggiore carica intimidatoria, in quanto espressa in forma ovvero in maniera tale da non lasciare alcun significativo margine di scelta al destinatario, mentre, nel secondo caso, si parla di induzione perché la pretesa si concretizza nell'impiego di forme di suggestione o di persuasione, ovvero di più blanda pressione morale, sì da lasciare al destinatario una maggiore libertà di autodeterminazione, un più ampio margine di scelta in ordine alla possibilità di non accedere alla richiesta del pubblico funzionario.

Va, dunque, escluso che le modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 abbiano comportato una riqualificazione delle due condotte di "costrizione" e di "induzione", formule lessicali che appaiono entrambe capaci di indicare sia la condotta che l'effetto: solo che, anche alla luce del differenziato trattamento sanzionatorio, la prima descrive una più netta iniziativa finalizzata alla coartazione psichica dell'altrui volontà, che pone l'interlocutore di fronte ad un aut-aut ed ha l'effetto di obbligare questi a dare o promettere, sottomettendosi alla volontà dell'agente, la seconda una più tenue azione di pressione psichica sull'altrui volontà, che spesso si concretizza in forme di persuasione o di suggestione ed ha come effetto quello di condizionare ovvero di “spingere”  taluno a dare o promettere, ugualmente soddisfacendo i desiderata dell'agente.

In entrambe le ipotesi, quindi, la condotta delittuosa deve concretizzarsi in una forma di pressione psichica che determina, proprio per l'abuso delle qualità o dei poteri da parte dell'agente, uno stato di soggezione nel destinatario; e che, per essere idonea a realizzare l'effetto perseguito dal reo, deve sempre contenere una più o meno esplicita prospettazione di un male ovvero di un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, le cui conseguenze dannose il destinatario della pressione cerca di evitare soddisfacendo quella pretesa indebita, dando o promettendo denaro o altra utilità.

Su tale tema si è anche doverosamente espressa la Suprema Corte di che, in tal senso, ha avuto modo di precisare come, per un verso, “l'esito del confronto strutturale tra le due considerate disposizioni, permette agevolmente di rilevare come, a parte l'inciso iniziale, il legislatore della novella abbia riproposto nel nuovo art. 319-quater c. p. una descrizione degli elementi costitutivi del reato di induzione indebita sostanzialmente identica a quella degli elementi costitutivi del reato di concussione per induzione, di cui al previgente art. 317 c. p..Per altro verso, l'analisi del giudizio di disvalore che qualifica le due fattispecie, risultante identico in entrambe le norme, essendo ugualmente colpite vicende criminose identiche, consistenti nell'iniziativa di induzione illecita posta in essere da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.”[3]

Non ultima la recente sentenza n.30436/2018 in cui il Supremo Collegio ha così statuito “Si configura il reato di concussione, quando al vantaggio prospettato quale immediata conseguenza della promessa e della indebita dazione della utilità, si accompagni anche la prospettazione di un male ingiusto, attuale o futuro, di portata assolutamente spropositata rispetto al primo, in quanto la situazione di vantaggio prospettata si rileva, in siffatte occasioni, integralmente assorbita dalla netta predominanza del male ingiusto.”

Vale la pena evidenziare, come sia in dottrina che in giurisprudenza si ritenga che non  conduce ad una differente conclusione nemmeno la circostanza che il privato, destinatario della induzione, promette denaro o altra utilità al pubblico ufficiale oppure all'incaricato di pubblico servizio, già soggetto passivo nella previgente disciplina dell'art. 317 c. p., sia oggi punibile come concorrente necessario, giusta la previsione del sopra menzionato comma 2 dell'art. 319-quater c. p. Tale “struttura bilaterale” del nuovo reato non modifica affatto una fattispecie che, con riferimento alla posizione del pubblico funzionario, resta immutata nei suoi elementi strutturali, ad esclusione della fattispecie sanzionatoria prevista dalle due normativa.

3. Le Sezioni Unite: il criterio per distinguere concussione e induzione indebita

Prima di chiarire il contenuto della  Sentenza della Sezione Unite di cui al presente paragrafo, la giurisprudenza di legittimità si era espressa su di tre diversi orientamenti delle sezioni semplici della Cassazione a proposito dei criteri differenziali tra le figure delittuose di cui si tratta e, quindi, tra le condotte di costrizione (art. 317 c.p.) e induzione (art. 319-quater c.p.):

un primo orientamento, è rilevabile dalla sentenza c.d Nardi, il quale riproponeva il criterio, tradizionale nella giurisprudenza pre-riforma, della intensità della pressione prevaricatrice: “a modalità di pressione molto intense e perentorie, tali da limitare gravemente la libertà di determinazione del soggetto, corrisponderebbe la 'costrizione' ex art. 317 c.p.; a forme più blande di persuasione, suggestione, o pressione morale, che non condizionino gravemente la libertà di determinazione, corrisponderebbe l''induzione' ex art. 319-quater c.p.”[4]

un secondo orientamento, invece, è riferibile alla sentenza Roscia, che individuava  la linea di discrimine tra le due ipotesi delittuose nell'oggetto della prospettazione: danno ingiusto e contra ius nella concussione, danno legittimo (giusto) e secundumius nell'induzione indebita.

A tal proposito, al Suprema Corte a sostegno della tesi sosteneva come fosse ragionevole la più severa punizione dell'agente pubblico che (nella concussione) prospetta un danno ingiusto, e non già, come nell'induzione indebita, una conseguenza sfavorevole derivante dall'applicazione della legge (c.d. danno giusto).

Per altro verso rilevava, altresì, come fosse altrettanto ragionevole punire il privato nella sola ipotesi (induzione indebita) in cui, aderendo alla pretesa dell'indebito avanzata dall'agente, perseguisse un tornaconto personale (evitare un danno giusto).

Terzo ed ultimo orientamento (sentenza Melfi), si colloca in una posizione intermedia  due orientamenti, più di specifico, individuava il criterio discretivo tra le due figure di reato nella diversa intensità della pressione psichica esercitata sul privato, con la precisazione però che, per le situazione dubbie, si sarebbe dovuto far leva, in funzione complementare, sul criterio del vantaggio indebito da questi perseguito.       

 Le Sezione Unite, si sono pronunciate sul principale problema interpretativo posto sulla riforma “anticorruzione” introdotta dalla Legge Severino, oggetto sia di dibattito dottrinale che di contrasto interpretativo.

Va rilevato come le S.U. non avallino nessuno degli orientamenti appena descritti, in quanto la stessa Corte ritiene che ciascuno di essi “evidenzia aspetti che sono certamente condivisibili, ma non autosufficienti, se isolatamente considerati, a fornire un sicuro criterio discretivo”.[5]

Più di specifico le S.U., affermano come, il criterio dell'intensità della pressione psichica, indicato dal primo orientamento, “non coglie i reali profili contenutistici” delle condotte di costrizione e induzione e affida la determinazione della linea di confine tra le due modalità della condotta ”a un'indagine psicologica dagli esiti improbabili, che possono condurre a una deriva di arbitrarietà”, che il criterio dell'ingiustizia o meno del danno prospettato, propugnato dal secondo orientamento, “ha il pregio di individuare indici di valutazione oggettivi...ma incontra il limite della radicale nettezza argomentativa...la quale mal si concilia con l'esigenza di apprezzare l'effettivo disvalore di quelle situazioni 'ambigue', che lo scenario della illecita locupletazione da abuso pubblicistico frequentemente evidenzia” , ed infine che  la combinazione dei primi due criteri, prospettata dal terzo e ultimo orientamento, non fa d'altra parte venir meno gli anzidetti rilievi critici mossi ai criteri stessi (singolarmente considerati), e in particolare a quello, indicato, come principale, della intensità della pressione psichica.

Da tali osservazioni prende le mosse il tentativo di individuare i “parametri di valutazione, per quanto possibile più nitidi”.

Pertanto, dalla valorizzazione di tali parametri si sono mosse le stesse S.U., partendo da una analisi della riforma del 2012, nata sotto la spinta di obblighi sovranazionali quali il il GRECO (Group of Statesagainstcorruption),  che hanno inteso “chiudere ogni possibile spazio d'impunità al privato, non costretto ma semplicemente indotto” a pagare una “tangente”. Conferme in tal senso, osservano le S.U. (p. 21), si rinvengono d'altra parte nei lavori preparatori.[6]

La riforma quindi ha inciso fortemente su quello che viene inquadrata nella promessa o alla dazione indebita da parte del privato, il quale non è più visto quale vittima, impunita, di un fatto concussivo, bensì concorrente (necessario) nel nuovo reato di induzione indebita.

Ciò in coerenza con la natura plurioffensiva del reato di cui all'art. 317 c.p., viceversa, il privato non costretto ma indotto alla dazione indebita concorre nel delitto di cui all'art. 319-quater c.p. [7]

Il nuovo assetto normativo, dunque,definisce una nuova induzione indebita ex art. 319-quater c.p., la quale a parere delle S.U. non rappresenta un'ipotesi minore di concussione gravitando bensì nell'orbita della corruzione della quale condivide la “logica negoziale” di reato-contratto bilateralmente illecito.[8]

Tutto ciò premesso, le S.U. nella loro analisi (lunga 60 pagine) si sono  soffermate in un primo momento  sull'esame degli elementi comuni alle due fattispecie , per poi dedicare, come era naturale attendersi, ampio spazio alla trattazione degli elementi differenziali. La sentenza non si ferma però qui: si 'sporca le mani', nel lodevole tentativo di fornire una guida sicura all'interprete, prendendo in esame, in rapida successione, una serie di ulteriori casi “borderline”, qui di seguito menzionati:

  1. abuso di qualità di chi fa pesare la propria posizione soggettiva senza però fare riferimento a un atto specifico del proprio ufficio o servizio, come ad es. il poliziotto che pretenda di non pagare al ristoratore una cena con amici: si dovrà qui valutare, secondo le S.U., se il fatto si colora della sopraffazione o della dialettica utilitaristica;
  2. prospettazione di un danno generico:  che il destinatario, per autosuggestione o per metus ab intrinseco, può caricare di significati negativi, paventando di poter subire un'oggettiva ingiustizia. Anche in questo caso,il giudice dovrà valutare se vi è stata o meno prevaricazione costrittiva.

Evidenziano però le Sezioni Unite che “il percorso valutativo, per ritenere la sussistenza di questa, deve tenere presente, in particolare, che quanto più il supposto danno è indeterminato tanto più l'intento intimidatorio del pubblico agente e i riflessi gravemente condizionanti - per metus ab extrinseco - l'autodeterminazione della controparte devonoemergere in modo lampante, per poter pervenire a un giudizio di responsabilità per concussione”;

  1. minaccia-offerta o minaccia-promessa, che ricorre quando il pubblico ufficiale  minaccia un danno ingiusto (ad es., l'esclusione illegittima e arbitraria da una gara d'appalto) e contestualmente promette un vantaggio indebito (la sicura vincita della gara in caso di dazione o promessa dell'indebito): in casi del genere, come pi volte precisato anche dalla stessa Suprema Corte, il giudice deve stabilire se il motivo della dazione/promessa dell'indebito risiede nella prospettiva del danno o del vantaggio. Sono, secondo le S.U. per inciso, i casi nei quali il criterio impostato sulla dicotomia male ingiusto/giusto (patrocinato a partire dalla sentenza Roscia) mostra il suo limite;
  2. minaccia dell'uso di un potere discrezionale: concussione se l'esercizio sfavorevole del proprio potere discrezionale viene prospettato in via estemporanea  e pretestuosa, al solo fine di costringere alla dazione/promessa dell'indebito; induzione indebita se l'atto discrezionale pregiudizievole per il privato è prospettato nell'ambito di una legittima attività amministrativa, e si fa comprendere che, cedendo alla pressione abusiva, si consegue un trattamento indebitamente favorevole;

La parte conclusiva della motivazione della sentenza in esame è dedicata ai profili di diritto intertemporale e, cioè, alla connessa questione di diritto rimessa alle S.U., diretta a stabilire se la riforma della concussione abbia comportato o meno una parziale abolitiocriminis in relazione ai fatti di induzione, espunti dall'ambito applicativo dell'incriminazione.

La soluzione delle SU, che si richiama ai principi generali affermati in materia dalle precedenti sentenze Rizzoli (dello stesso relatore) e Giordano, è negativa: nessuna abolitiocriminis. La riforma ha solo comportato, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2, co. 4 c.p., una successione di leggi meramente modificative della disciplina di fatti che continuano ad essere previsti dalla legge come reato.

In applicazione dell’art. 2 del codice penale, si dovrà applicare la disciplina più favorevole al reo.

4. Le riforme in materia di contrasto alla corruzione: la l. n. 69/2015.

A meno di tre anni dalla riforma della legge Severino, le politiche di contrasto alla corruzione hanno conosciuto una nuova novella legislativa, che in parte consolida e in parte innova il precedente quadro normativo.

Con la legge n.69 del 2015, contenente le “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione , di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, il legislatore italiano è infatti tornato sulla disciplina penale della corruzione pubblica e fattispecie contigue, con l’intento di rafforzare ulteriormente il bene giuridico protetto dalla norma.[9]

La novella legislativa è intervenuta sull’inasprimento della fattispecie di concussione, corruzione e induzione indebita, fino a toccare figure di reato di tipo societario.

L’intervento riformatore del 2015 ha inciso in vario modo sulla disciplina dei reati dei pubblici ufficiali contro la P.A.

In primo luogo è intervenuto sul piano sanzionatorio: per i delitti di peculato ordinario, corruzione, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità sono aumentate le pene.

Passando a quelle che sono le modifiche concernenti i delitti contro la pubblica amministrazione,  si evidenzia come la legge Severino e la legge n.69\2015 siano intervenute con scelte opposte.

La legge Severino, infatti, come già sopra esposto, aveva portato la fattispecie “indietro nel tempo” a quelle che furono le previsione del codice Rocco, innovato in chiave estensiva dalla legge n.86\1990.

Secondo la riformata norma del 2012, solo il pubblico ufficiale avrebbe potuto ingenerare il c.d. metus publicae potestatis.

Per quanto riguarda gli abusi costrittivi dell’incaricato di un pubblico servizio, alla concussione erano subentrate le fattispecie comuni di estorsione (art. 629 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) o violenza sessuale (art. 609-bis c.p.); tutte aggravate dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti a un pubblico servizio (art. 61, n. 9, c.p.)[10] .

In dottrina si è però evidenziato come, rispetto all’ipotesi ex art. 629 c.p., vi sia una sperequazione sanzionatoria in sospetto attrito con l’art. 3 Cost.[11], in quanto l’incaricato di pubblico servizio responsabile di estorsione aggravata poteva essere punito con una pena – pari a 5-10 anni, aumentabili fino a un terzo – potenzialmente più elevata di quella comminata al pubblico ufficiale concussore, che per di più avrebbe potuto beneficiare anche dell’attenuante di cui all’art. 323-bis c.p. Proprio per rimediare a tali criticità, il legislatore ha opportunamente reinserito l’incaricato nella sfera d’incidenza soggettiva dell’art. 317 c.p.

A questo punto, sarà compito del giudice verificare in concreto quale sia la disposizione più favorevole per gli abusi costrittivi commessi prima della l. n. 190/2012 e per quelli successivi a questa ma anteriori alla novella del 2015[12].

Nella novella del 2015 può intravedersi un ulteriore passo in avanti incidente sul  tema della commisurazione della pena e della direttrice politico-criminale: “il tentativo di intraprendere un percorso non monoliticamente repressivo, ma più costruttivo sul piano della tutela degli interessi delle amministrazioni pubbliche”.[13]

Su tale punto la riforma ha infatti previsto il recupero coattivo del lucro illecito ottenuto dai funzionari pubblici, il neonato art. 323-quater c.p. (introdotto dall’art. 4 della l. n. 69), che prevede una nuova misura cogente, denominata riparazione pecuniaria,consistente nel “pagamento di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio” attraverso reati tassativamente indicati quali: peculato ordinario e d’uso, concussione, corruzione in tutte le sue forme (per l’esercizio delle funzioni, per atto contrario, in atti giudiziari, di pubblici agenti extra-nazionali), e induzione indebita a dare o promettere utilità. Il pagamento, che lascia impregiudicato il risarcimento del danno, è testualmente imposto “a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell'amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno”.

In linea con quanto disposto dal sopra citato articolo, va ricordato il nuovo comma 1-ter incorporato nell'art. 444 c.p.p., il quale consente di evitare che il reo, semplicemente aderendo al rito semplificato dell’applicazione della pena su richiesta, possa eludere il disposto dell’art. 322-quater c.p., che si applica solo in caso di “sentenza di condanna”. La norma ne subordina così l’ammissibilità “nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice penale […] alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato”.

E’ evidente che la legge Severino del 2012 aveva tralasciato qualsiasi incentivo normativo alla rottura del patto omertoso tra corrotto e corruttore, sia a livello politico che dottrinale, infatti, furono sollevate non poche perplessità in merito.

Negli ultimi tempi, però, si fece sempre più pressante l’idea che si dovesse far strada una politica criminale repressiva non solo dal punto di vita strettamente morale.

Tali perplessità hanno tratto nuova linfa anche dalla sopra citata legge Severino che nella lettura estensiva invalsa nella giurisprudenza prima della novella del 2012 dell’art. 317 c.p.non di rado finiva per fungere nella prassi, da causa di non punibilità dell’extraneusche avesse fornito alla pubblica accusa dichiarazioni utili a dimostrare la responsabilità del pubblico agente[14]. A seguito della riforma  il legislatore aveva due opzioni dinanzi a sé: introdurre una vera e propria causa di non punibilità fondata sulla collaborazione, ovvero, più riduttivamente, prevedere in simili evenienze un’attenuazione della risposta sanzionatoria, ferma l’obbligatorietà dell’azione penale e della condanna in presenza dei requisiti di un patto corruttivo. La soluzione radicale venne propugnata dalla nota Proposta di Cernobbio del 1994: per temperare l’auspicata introduzione di una rigorosissima fattispecie onnicomprensiva di corruzione, si pensò ad una causa di esenzione da pena del soggetto che avesse denunciato spontaneamente e per primo un episodio di corruzione entro tre mesi dalla sua realizzazione e anteriormente all’iscrizione della notitia criminis a suo nome, fornendo indicazioni utili per l’individuazione degli altri responsabili . Ma dalla stessa dottrina di sollevarono non poche perplessità sulla plausibilità di una “denuncia spontanea” antecedente alla scoperta del reato, per la “esaltazione contestuale di rigore repressivo delle sanzioni e di indulgenzialismo esasperato di istituti premiali”, ed infine, per il rischio di offrire “al corrotto o al corruttore una temibile “arma di persuasione” nei confronti del correo perché questi perseveri nel compimento di attività rientranti nel patto corruttivo”[15]

Questo intreccio di obiezioni fa comprendere la decisione del legislatore del 2015 di non spingersi sul terreno della premialità sino a prevedere una causa speciale di non punibilità. Si è ritenuto più ragionevole, per favorire la rottura del vincolo omertoso che lega le due parti dell’accordo corruttivo, senza però scardinare l’ordinaria sequenza reato-pena, la previsione di una mera circostanza attenuante, sia pure di consistente impatto. Recita, così, il comma aggiunto all’art. 323-bis c.p.: “Per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo a due terzi”.

Le condotte che vengono premiate sono quelle  sul piano delle prove o sul piano strettamente materiale Vengono, quindi, premiate condotte positive sul piano materiale o probatorio-processuale, senza peraltro fissare alcun termine, antecedente alla sentenza definitiva per la loro realizzazione (diversamente, ad es., dall’art. 62 n. 6 c.p.). L’attenuante si applica a tutte le ipotesi corruttive, incluse quelle istigatorie (art. 322 c.p.) e di rilievo internazionale (infra-Ue ed extra-Ue) ex art. 322-bis c.p., o paracorruttive, come l’induzione indebita a dare o promettere utilità. Dalla sfera applicativa della nuova circostanza, invece, è rimasta esclusa la concussione, cosicché non potrà beneficiarne il concussore che collabori, ad es. indicando i nomi di eventuali concorrenti nel reato ‘proprio’ da lui commesso.

Allo stesso modo l’attenuante non si applica al peculato.

In relazione ai reati commessi dopo la data di entrata in vigore della legge (14 giugno 2015), la collaborazione può temperare i consistenti aumenti edittali stabiliti dalla L. n. 69 del 2015. Al riguardo, l’incentivo alla denuncia e alla collaborazione dei privati corruttori sarebbe risultato sicuramente maggiore nel caso in cui il legislatore avesse limitato agli intranei alla p.a. l’incremento delle soglie edittali di pena dei delitti di corruzione. “Ma non era affatto agevole infrangere l’impostazione tradizionale che, nel nostro sistema penale, equipara nel trattamento punitivo entrambi i lati del pactum sceleris.”[16]

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Benussi, Titolo del volume, in Trattato di diritto penale parte speciale, a cura di Marinucci, Dolcini seconda edizione, Cedam, p. 489.
[2]Sez. 6, n. 33843 del 19/06/2008, Lonardo, Rv. 240795; Sez. 6, n. 49538 del 01/10/2003, P.G. in proc. Bertolotti, Rv. 228368.
[3]Ibidem.
[4]G. L. Gatta, diritto penale contemporaneo, 17 marzo 2014, p. 1.
[5]Ibidem.
[6]Ibidem.
[7]che - affermano le SU (p. 27) - ha natura monoffensiva: "presidia soltanto il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione e si pone, pertanto, in una dimensione esclusivamente pubblicistica" (p. 27). Nell'ipotesi considerata dall'art. 319-quater c.p. il privato non subisce dunque un'offesa a un bene di cui è titolare; concorre bensì nell'offesa al bene pubblico, e proprio per questo ne risponde penalmente.
[8]come farebbe pensare la metafora dello 'sdoppiamento' della concussione stessa, che ha avuto una certa fortuna nell'immediatezza della riforma.
[9]V. Mongillo, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n.69 del 2015, in diritto penale contemporaneo, p. 2.
[10]Sul piano del diritto intertemporale, era venuto a determinarsi un rapporto di continuità normativa con le fattispecie incriminatrici “comuni”, che pertanto avevano conosciuto un processo di riespansionein relazione alla figura soggettiva in discorso: cfr. Cass., s.u., 14 marzo 2014, n. 12228.
[11]Cfr. S. Seminara, I delitti di concussione, corruzione per l’esercizio della funzione e induzione indebita, in Dir. pen.proc., Speciale Corruzione, a cura di P. PISA, 2013, 16; E. DOLCINI - F. VIGANÒ, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen.cont. – Riv. trim., n. 1/2012, 243. P. SEVERINO, La nuova legge anticorruzione, cit. 9, aveva replicato adducendo che la circostanza aggravante comune fosse comunque suscettibile di bilanciamento ex art. 69 c.p.
[12]V. Mongillo, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n.69 del 2015, in diritto penale contemporaneo, p. 4.
[13] Cit. Ibidem p. 8.
[14]Si pensi, in particolare, alla “concussione ambientale”, ideata dalla giurisprudenza per “munirsi di un comodo espediente atto ad agevolare la collaborazione del privato”: G. FORTI, L’insostenibile pesantezza della “tangente ambientale”: inattualità di disciplina e disagi applicativi nel rapporto corruzione-concussione, in Riv.it. dir. proc.pen., 1996, 497.
[15]G. Fiandaca, Legge penale, cit., c. 3.
[16]Cit. Mongillo op. cit.