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Pubbl. Mar, 17 Mar 2015

Malattia e prestazioni a favore di terzi. Legittimo il licenziamento?

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Eva Aurilia


La Corte di Cassazione si pronuncia sul licenziamento per giusta causa nel periodo di "malattia".


La “malattia” è la più frequente causa di sospensione del rapporto di lavoro dovuta ad una impossibilità, di regola temporanea, del lavoratore di rendere la prestazione dedotta nel contratto e che mantiene fermo l’obbligo in capo al datore di lavoro di corrispondere la retribuzione, salvo forme equivalenti di prestazioni previdenziali.

Il datore di lavoro sopporta quindi l’assenza della prestazione senza che questa faccia venir meno la sua obbligazione. Di qui una serie di poteri gli vengono riconosciuti per accertare l’effettiva sussistenza della malattia, mediante visite di controllo ad opera di medici imparziali e la possibilità, per il tramite di investigatori privati, di verificare, anche al di fuori delle fasce orarie che costringono il lavoratore a non lasciare il domicilio, che quest’ultimo non tenga comportamenti tali da ostacolare o rendere difficile la guarigione ovvero che svolga attività tali da attestare la simulazione della malattia stessa. Pena il licenziamento per giusta causa.

Vediamo cosa può fare il lavoratore interessato da un periodo di malattia e quando rischia il licenziamento.

La Corte di Cassazione con sentenza n. 4237 del 3 marzo 2015 ha accolto la domanda avverso la sentenza del giudice d’Appello che aveva dichiarato legittimo un licenziamento intimato ai danni di un lavoratore sul presupposto di aver svolto, questi, mansioni presso terzi durante il periodo di malattia . Mansioni, che il datore sosteneva essere compatibili con quelle dedotte nel contratto di lavoro e che di conseguenza attestavano la simulazione della malattia.

Nell’ipotesi di specie la compatibilità non è stata ritenuta dimostrata. E allo stesso tempo le mansioni svolte presso terzi non sono state ritenute pregiudizievoli per la guarigione. Il lavoratore, infatti, aveva ripreso a lavorare regolarmente alla scadenza del periodo determinato dall’ INAIL per la malattia.

Fondamentale, a tal proposito, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione.

“Non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare - durante tale assenza - attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera. Pertanto non si configura giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza con altre imprese concorrenti oppure - anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa - abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trame un reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia ed in danno del proprio datore di lavoro “ (vedi, per tutte: Cass. 8 ottobre 1985, n. 4866; Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916).

Inoltre è il lavoratore a dover dimostrare qualora gli “sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia, la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto “ (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916 cit.; Cass. 13 aprile 1999, n. 3647).

Non va, inoltre, dimenticato che “la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto" (vedi tra le molte: Cass. 18 settembre 2012, n. 15654).

Al datore di lavoro di lavoro residua la possibilità di una sola sanzione conservativa del rapporto.