Principio giuridico di laicità e società multiculturale: i simboli religiosi negli spazi pubblici
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Paolo Del Gaudio
Uno stato integralmente neutro, asettico e insensibile a qualsivoglia valore ideale, religioso o politico solo utopicamente può trovare spazio nello scenario dove i consociati sono esseri umani.
Sommario: 1. Premessa 2. Principio di laicità e questione italiana 3. I simboli religiosi e il crocifisso 4. Laicità e simboli religiosi nello spazio comune europeo 5. Conclusioni
1. Premessa
Le democrazie europee del nostro tempo si trovano ad affrontare il non facile compito di adeguare i tradizionali assetti istituzionali ai mutamenti socio-culturali indotti principalmente dai massicci flussi migratori che, con risvolti spesso anche drammatici, si proiettano verso i territori dell’Europa occidentale. Protezione dei diritti umani, sicurezza, libertà, giustizia, integrazione, riconoscimento delle istanze identitarie di gruppi portatori di tradizioni culturali molto diverse da quelle dei paesi “ospitanti”, sono solo alcuni dei problemi su cui oggi i governi nazionali sono chiamati a riflettere e ad intervenire con urgenza, onde evitare che, in questa fase storica di assestamento e di ricerca di nuovi equilibri, siano messe a rischio le condizioni basilari della pacifica convivenza sociale. Il principio di laicità e la presenza dei simboli religiosi nello spazio pubblico si collocano in questo scenario di grande cambiamento dei contesti tradizionali e testimoniano, forse più di altre problematiche, come la diversità culturale e religiosa sia suscettibile di mettere in crisi non soltanto gli assetti socio-economici degli Stati europei recettori di flussi migratori, ma anche il sistema di valori e le stesse funzioni dello “Stato Democratico Moderno”. In vero, i diversi Stati europei, impegnati a gestire i complessi problemi delle moderne società multietniche e multiculturali — rappresentati in modo emblematico dalle questioni dell’uso in pubblico di capi di vestiario o di segni esteriori identificativi (in forma più o meno discreta) di (una specifica) appartenenza confessionale — continuano a mantenere differenze tutt’altro che trascurabili o marginali nel modo di intendere la posizione occupata dalle estrinsecazioni fideistiche personali nella sfera pubblica. E, pur di fronte ad una questione che sembra mettere in gioco le basi stesse del costituzionalismo liberale, il diverso atteggiamento degli Stati nei confronti dell’esperienza religiosa è destinato a riflettersi sui termini del concreto bilanciamento, che gli interessi in conflitto necessariamente richiedono, quando si tratta di stabilire entro quali limiti o fino a che punto sia doveroso assicurare il rispetto di ciò che è espressione di personali esigenze identitarie estranee alle più consolidate tradizioni e usi locali. Qualunque sia il fondamento delle tesi inclini a ravvisare un orientamento prevalente delle organizzazioni sovranazionali europee volto ad emarginare le religioni dallo spazio pubblico, occorre necessariamente sottolineare che l’”impetuoso sviluppo” della tutela dei diritti dell’uomo, a livello internazionale e in ambito europeo, potrebbe concorrere a definire, anche nella materia in esame, un quadro di riferimento essenzialmente uniforme, al cui interno risulterebbero molto contenuti i margini di azione per gli Stati. Peraltro, andrebbe ribadito che le risposte da dare a questo tipo di problemi non possono trascurare “the risk of judicial standardisation in the field of fundamental rights as well as the opposite risk of disaggregation”. In definitiva, è ancora una volta chiamato in gioco il dilemma tra le esigenze di “universalità” e i margini di “pluralismo culturale” da riservare in quest’ambito; dilemma non certo nuovo, ma oggi reso viepiù drammatico in Europa dal complesso intreccio e dalla articolazione di un sistema multilevel, o, meglio, “pluricentrico”, di tutela dei diritti umani fondamentali. La stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, pur rimanendo fedele, in linea di principio, alla dottrina del margine di apprezzamento, modulata in rapporto alla rilevazione della base di consenso comune agli Stati europei nel trattamento di una particolare questione, è andata sempre più assumendo — anche per effetto della crescente disomogeneità delle tradizioni costituzionali dei paesi facenti ormai parte del Consiglio d’Europa — un ruolo sostanzialmente creativo nella fissazione degli standard unitari di tutela dei diritti umani fondamentali, collocandosi ben oltre ogni logica di interpretazione degli “existing National standards” e subendo, quindi, di fatto, i condizionamenti di particolari tradizioni costituzionali.
2. Principio di laicità e questione italiana
La laicità è un concetto difficile da definire in modo puntuale e completo per diverse ragioni. Innanzitutto non fa riferimento ad una realtà sostanziale, avente un contenuto autonomo, ma ad una relazione tra due realtà: lo Stato e la religione. In secondo luogo, la laicità è una nozione relativa, in continua evoluzione, condizionata dal contesto storico, politico e sociale in cui si sviluppa. Inoltre, è una nozione a carattere negativo giacché esprime una negazione della religione in seno allo Stato. Parlando di laicità, dunque, ogni forma di certezza va esclusa poiché vi sono plurime definizioni, addirittura contrapposte tra loro. Così, alcune “false” definizioni tendono a considerare la laicità come un patto analogo al contratto sociale; ma parlare di “patto laico” con riferimento alla laicità è inaccettabile ed improprio. Un patto è frutto di un compromesso raggiunto tra le parti, in questo caso tra Stato e confessione religiosa, mentre sappiamo che in alcuni paesi, quali la Francia, ma anche Messico e Turchia, la laicità è nata da una decisione unilaterale[1]. E così, la laicità è stata configurata come una “lotta” non contro la religione, ma intesa nel senso di lottare per mantenerla costante nel tempo ed impedire il ritorno della religione nell’ambito della sfera pubblica: la vigilanza parrebbe necessaria perché lo Stato resti laico. Questa definizione appare non del tutto inappropriata ma alquanto insufficiente a definire la laicità; la quale è stata ricondotta alla semplice distinzione tra potere temporale e spirituale. Definizione insufficiente visto che la laicità richiede la separazione effettiva tra la sfera politica e religiosa, in modo che lo Stato sia totalmente indipendente dalla religione. Se queste concise definizioni appaiono alcune false e altre insoddisfacenti, ve ne sono altre che appaiono molto più complete e apprezzabili. Una prima definizione degna di nota è stata data dal giurista Henri Capitant[2] nel 1936, che ha inteso la laicità come una concezione politica. Questa definizione, che si fonda sull’idea della separazione, è senza dubbio una delle migliori e più complete definizioni, ma sembra discutibile soprattutto su un punto: Henri Capitant parla di società civile opponendola alla società religiosa, quando nella realtà l’opposizione è tra Stato e religione. Altra definizione affascinante, ma comunque insufficiente, è quella proposta da Paul Poupard[3] nel 1984, basata sul presupposto di una doppia incompetenza: quella dello Stato in materia religiosa e quella della Chiesa nelle materie appartenenti allo Stato. Popard non considera la laicità come una dottrina che si impone a tutti i cittadini, ma la considera mezzo per poter assicurare la libertà religiosa e garantire la tolleranza e rispetto nei confronti delle diverse credenze dei cittadini. Su questa definizione si edifica il concetto di laicità come libertà. Altra impostazione interessante è quella di Catherine Kintzler[4], che ha evidenziato due aspetti della laicità piuttosto che proporne una definizione formale. Questi aspetti riguardano: l’indipendenza dello Stato e la sua neutralità rispetto alla religione. In effetti, la laicità è un concetto di filosofia politica che si basa sul presupposto che l’apparato statale deve espungere dalla sua organizzazione e dai suoi aspetti ogni riferimento religioso. Questa concezione implica totale indifferenza e si traduce giuridicamente nel silenzio della legge, escludendo che lo Stato possa legiferare in materia religiosa: il suo unico compito è quello di garantire l’ordine pubblico al fine di assicurare l’esercizio della libertà religiosa.
Si ritiene che tutte queste definizioni siano apprezzabili, se unitariamente considerate, in quanto evidenziano quegli aspetti fondamentali utili alla nozione di laicità.
Le diverse declinazioni del principio di laicità operanti in Italia hanno risentito del contesto sociale, culturale e giuridico nel quale operavano, di tal guisa si rende necessario offrire un breve excursus nel quale inquadrare il principio di riferimento, onde evidenziare la parabola evolutiva e i tratti marcanti di un principio supremo dai contorni ancora incerti. Lo Statuto Albertino, che rappresentava la Carta costituzionale del 1848, si preoccupava di qualificare lo Stato come confessionale. Difatti, il suo primo articolo si apriva con la formula solenne: “La religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”. Continuava l’art. 3: “Gli altri culti attualmente esistenti nello Stato sono tollerati secondo gli usi e i regolamenti speciali che li riguardano[5]”. A questa affermazione di carattere formale, lo stesso Statuto faceva seguire una serie di disposizioni dalle quali era possibile cogliere il grado di adeguamento sostanziale dell’ordinamento alla religione cattolica assunta come ufficiale. Possiamo fare l’esempio dell’art. 28 dello Statuto, nel quale era sancita la libertà di stampa, con la limitazione, per le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiere, che non potevano essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo; con la conseguenza, facilmente intuibile per cui l’esercizio di un diritto, che oggi non si esiterebbe a definire come fondamentale, in quanto rientra a far parte dei diritti inviolabili dell’uomo, veniva ad essere limitato da principi esterni all’ordinamento, ed in particolare, da norme confessionali. Giustamente, questo processo di “confessionalizzazione” dello Stato andava oltre l’assunzione di una religione ufficiale, perché veniva a toccare lo stesso Stato-apparato nella misura in cui gli organi della confessione entravano ad integrare poteri ed organi dello Stato. Si pensi, riguardo al potere legislativo, all’art. 33 dello Statuto, per il quale “Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato” costituivano delle categorie dalle quali il sovrano avrebbe dovuto trarre i membri del Senato. Lo Stesso quadro interessava il potere giudiziario ed esecutivo, nel quale gli uffici ecclesiastici erano considerati al pari degli altri uffici statali[6].
Nel giro di pochi anni, lo Stato venne a mutare il suo atteggiamento, sia formale che sostanziale, nei confronti della Chiesa Cattolica, assumendo le caratteristiche tipiche di uno Stato agnostico e confessionista. L’indifferentismo religioso, la laicità, l’ateismo e, in molti casi, il più deciso anticlericalismo, dominarono tutte le manifestazioni statali politiche e giuridiche in materia ecclesiastica. Vigeva sempre, per lo meno in teoria, il testo dell’art. 1 dello Statuto Albertino visto che esso, in realtà, se non era stai mai esplicitamente abrogato, risultava in ogni modo caduto in desuetudine, svuotato di ogni politico contenuto e contraddetto da tutta una successiva legislazione antitetica nello spirito e nel contenuto[7]. L’abbandono del principio confessionistico inizia già con la legge 19 giugno 1848 n. 735 (c.d. legge del Sineo, così dal nome del suo proponente), nella quale si sanciva il principio per cui “la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari”, e con essa, l’affermazione della piena libertà e dell’eguaglianza dei cittadini, senza distinzione alcuna di religione. Ciò fu possibile senza una formale abrogazione o modificazione dell’art. 1 dello Statuto, giacché quest’ultimo, essendo una costituzione flessibile, non richiedeva per la sua revisione dei procedimenti speciali ed aggravati, potendo di conseguenza essere modificato con legge ordinaria. L’art. 1 rimase, pertanto, solo formalmente in vigore in un ordinamento evolutosi in maniera del tutto difforme[8]. Sicché la dottrina giuridica, sul finire dell’età liberale, dinanzi all’aporia riscontrabile nel sistema normativo, veniva concordemente ad affermare che la formula dell’art. 1 dello Statuto dovesse intendersi nel senso che la religione cattolica “è quella che la maggioranza dei cittadini segue e che del suo culto si serve l’autorità civile quando gli occorra di accompagnare alcuno dei suoi atti con cerimonie religiose”. Lo Stato, quando riteneva di dover dare un’intonazione religiosa alle sue cerimonie, si serviva dei ministri e delle cerimonie della religione cattolica anziché degli altri culti.
Di fatti, poi, sia nel suo atteggiamento esteriore che nel suo comportamento effettivo, esso tendeva ad affermare l’uguaglianza di tutte le confessioni ecclesiastiche e ad estraneizzarsi per quanto possibile dai fenomeni fideistici e religiosi[9]. Con i Patti del Laterano venne ad operarsi una “riconfessionalizzazione” dell’ordinamento, nel senso che il richiamo fatto allo Statuto Albertino, mai formalmente abrogato, ne avrebbe prodotto il rinnovamento della giuridica operatività. Quindi, dal 1929 in poi, la Chiesa cattolica e i cattolici godettero dell’esercizio della libertà religiosa, mentre le altre confessioni religiose e gli acattolici, che nel periodo liberale avevano goduto della stessa misura di libertà, regredirono da questa posizione ad un regime di tolleranza dispotica, che limitava in stretti confini l’esercizio, anche privato, del culto ed escludeva la propaganda ed il proselitismo. Ciò che si vuole evidenziare in questo contesto storico, è il fatto che formalmente lo Stato si venne ad uniformare al contenuto confessionale cattolico, con la proclamazione solenne dell’art. 1 dello Statuto, anche se la dottrina si è divisa sull’effettiva portata del disposto dell’articolo stesso. Quella più vicina alla parte cattolica ha visto nella disposizione un preciso orientamento confessionale, in senso cattolico, con un impegno ad armonizzare la vita dello Stato con i principi del cattolicesimo; quella più laica, invece, ha ritenuto che in realtà la clausola avesse un carattere puramente programmatico poiché non poteva non avere presente come, negli ottanta anni trascorsi dall’emanazione dello Statuto Albertino, non avesse impedito la laicizzazione dello Stato e la politica anticlericale che si ebbe prima e dopo l’Unità d’Italia. La clausola statutaria poteva, così, essere ritenuta come una questione di limitata importanza, quasi formale, al più da intendersi come un riferimento alla religione della maggioranza dei cittadini. La storia degli ultimi decenni di vita della società italiana, sotto la spinta del dibattito dottrinale e dei profondi mutamenti religiosi, ha confermato l’interpretazione più laica[10]. Quindi la formula statutaria sarebbe stata sempre e nient’altro che una pura dichiarazione di forma, priva di conseguenze giuridiche, tant’è vero che con gli accordi del Laterano l’Italia non sarebbe diventata un vero e proprio Stato confessionale, bensì solo uno Stato concordatario.
Non per nulla proprio l’art. 1 del Concordato veniva a racchiudere il peculiare regime dato alla Chiesa cattolica in Italia nei limiti definiti dal concordato stesso. Bisogna evidenziare, inoltre, come si trattava di un confessionismo diverso da quello che ispirava i principi cattolici. Questo era contraddistinto dalla tendenza ad utilizzare nell’ordinamento i dettami della religione; quello del 1929, invece, era un confessionismo miscredente e cinico, diretto ad utilizzare in modo strumentale la religione maggioritaria come mezzo di governo[11].
Nella Costituzione italiana non è dato trovare una norma esplicita, come quella prevista nello Statuto Albertino, che espressamente qualifichi lo Stato in materia religiosa, né come Stato confessionista né come Stato laico.
Il nostro costituente non affrontò, quindi, direttamente ed in modo unitario e sistematico, il tema della laicità dello Stato: tema del tutto impensabile per la società italiana del tempo. I fattori che portarono a tale decisioni furono diversi: la prevalente accezione separatista del termine e la connotazione antireligiosa che tal espressione ancora conservava presso l’opinione pubblica e nella stessa dottrina del tempo, sì da identificarla con il regime. L’Italia liberale è sempre stata un paese cattolico e non ha mai conosciuto l’estremismo delle svolte separatiste, sia prima che dopo l’Unità del paese, poiché il cattolicesimo è stato sempre la religione di riferimento per gli italiani, sia nell’adesione come nel rifiuto. La peculiarità del caso italiano si evidenzia, soprattutto, dalla forte influenza che la Chiesa ha avuto e continua ad avere nel nostro paese, impedendo di fatto l’affermazione di uno Stato laico. Altro fattore, poi, fu la forte presenza dei rappresentanti della “Democrazia Cristiana” alla Costituente, che rappresentò un motivo determinante dell’assenza di un dibattito specificatamente rivolto al tema, allora immaturo, della laicità. Così il dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa portò, semplicemente, all’approvazione dell’art. 7 della Costituzione, con l’affermazione, al primo comma, che lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, e al secondo comma il richiamo ai Patti Lateranensi per la disciplina dei loro rapporti. Il nostro costituente, dunque, respinse la concezione separatista, propria della dottrina liberale, della laicità come mera neutralità dello Stato in materia religiosa.
Accolse, invece, sia pure implicitamente, una versione della laicità fondata, oltre che sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) e della libertà religiosa (art. 19), sul principio della distinzione degli ordini, temporale e spirituale (art. 7), sulla eguale libertà di tutte le confessioni religiose (art. 8), manifestando una considerazione dei valori religiosi come fattori positivi di sviluppo della persona umana (favor religionis)[12]. Già dai lavori preparatori della Costituzione, il Costituente rifiutò formule e proposizioni con connotazione confessionale; così fu rifiutata la proposta dell’on. Giorgio La Pira di far precedere il nuovo testo costituzionale dalla formula “In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione” per non imprimere una qualifica di Stato confessionale. Si affermò la convinzione che la Costituzione dovesse essere “non ideologica”, ma che in essa sarebbe possibile una libera azione non soltanto delle forze politiche, ma anche di tutti i movimenti nei quali la persona umana potesse trovare il suo libero sviluppo. Si delineò una prospettiva nella quale la qualificazione laica del testo costituzionale non derivasse da una definizione dottrinale, ma da un più generale impianto pluralista, nel quale lo Stato e società civile svolgessero ciascuna la propria parte senza rigide prefigurazioni ideologiche o confessionali[13]. Infatti, passando all’esame delle singole disposizioni costituzionali attinenti al fatto religioso, si trova confermata la linea di condotta seguita dall’Assemblea: nessun contenuto confessionista è rintracciabile nel testo costituzionale, anzi, vi sono principi del tutto opposti: la libertà religiosa garantita a tutte le confessioni, la libertà di professare liberamente la propria fede, la piena eguaglianza davanti alla legge dei cittadini e delle formazioni sociali senza distinzione di religione. Alcuni autori favorevoli ad una qualifica in senso confessionale dello Stato, hanno sostenuto che il principio del confessionismo era da considerarsi in vigore, in ragione della copertura costituzionale accordata ai Patti Lateranensi nell’art. 7 secondo comma, dove si sancisce che: “I rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi”, sostenendo dunque che il richiamo della disposizione dell’art. 1 dei Patti fosse ancora vigente; anzi, che il richiamo nella Carta costituzionale gli avesse fatto acquisire un valore, una solidità e stabilità, con caratteristiche pari a quelle delle altre clausole costituzionali[14]. Tale concezione, oggi, può essere ampiamente superata alla luce degli sviluppi legislativi in materia di qualifica dello Stato in materia religiosa.
La Corte costituzionale, occupandosi proprio dell’interpretazione da dare alla norma in questione, ebbe ad affermare, nella ormai storica sentenza n. 30 del 1971, che l’art. 7 “non sancisce solo un generico principio pattizio, ma contiene altresì un preciso riferimento al Concordato in vigore e, in relazione al contenuto di questo, ha prodotto diritto; tuttavia, giacché riconosce allo Stato e alla Chiesa cattolica una posizione di reciproca indipendenza e sovranità, non può avere forza di negare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Sicché l’art. 7 non precluderebbe “il controllo di costituzionalità delle leggi che immisero nell’ordinamento interno le clausole dei Patti Lateranensi, potendone valutare la conformità o meno ai principi dell’ordinamento costituzionale”[15]. Seguendo la giurisprudenza costituzionale, non solo in materia di diritto concordatario ma anche in materia di diritto comunitario, si afferma che il principio del confessionismo di Stato urta con i principi fondamentali dell’ordinamento, i quali non possono essere derogati da norme costituzionali, come appunto quelle pattizie ex art. 7 comma secondo Cost., o quelle comunitarie ex art. 11 Cost., poiché si tratta di principi identificanti l’ordinamento costituzionale al punto che la loro disapplicazione comporterebbe lo stravolgimento dello stesso. Intanto, con L’Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984, tale obiezione non ha più ragione giacché nel Protocollo Addizionale all’Accordo, che apporta modificazioni al Concordato Lateranense, è esplicitamente contemplata la fine del principio confessionistico (art. 1: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”). Il nuovo Accordo si può considerare uno sviluppo necessario e consequenziale, a cui doveva giungere il Trattato Lateranense in seguito alle trasformazioni sociali e culturali che hanno portato ad una più matura concezione dei valori di laicità e i libertà religiosa, confermando oramai l’aconfessionalità dell’ordinamento costituzionale[16]; ciò non significa affatto separazione ostile dalla Chiesa, tanto meno ateismo o indifferentismo dello Stato al fattore religioso: entrambe le istituzioni devono collaborare, ciascuna per le proprie competenze, al bene dell’unica persona, al tempo stesso cittadino e credente. Il principio sancito nell’Accordo è da ritenersi oltre che un principio meramente dichiarativo, anche come principio d’interpretazione di tutte le norme pattizie e di derivazione pattizia, nel senso che queste non saranno passibili di applicazione da parte degli organi dello Stato secondo interpretazioni che possono essere difformi rispetto al principio non confessionista[17]. Prima che intervenisse la sentenza n. 203 del 1989 della Corte Costituzionale, dove per la prima volta si riconosce la laicità come principio supremo dell’ordinamento, alcuni autori sostenevano che, procedendo già ad una analisi dell’intero ordinamento, si potesse constatare come esso si sia gradualmente orientato verso una seppur timida laicizzazione delle istituzioni. Infatti, se si guarda a tutto l’ordinamento, nelle sue norme e nei suoi istituti, nello stesso “diritto vivente”, vale a dire nel modo in cui il diritto vigente viene interpretato ed applicato dagli organi dello Stato, in sede amministrativa e giudiziaria, si può accertare se l’ordinamento possa essere qualificato confessionale o meno. Un’analisi di questo tipo deve essere eseguita a posteriori, avendo presente tutta la legislazione; legittimamente, se guardiamo alle sole norme costituzionali, sia alla formulazione letterale che alla interpretazione del legislatore e della giurisprudenza costituzionale, è da convenire che quello italiano non è uno Stato confessionale. Oggi si può constatare, nel diritto vissuto, un progressivo allontanamento dalla matrice confessionista; per cogliere meglio quest’evoluzione, possiamo far riferimento al concetto di “famiglia” sancito formalmente nella nostra Carta.
La Costituzione riconosce la famiglia come una “società naturale fondata sul matrimonio”. È indubitabile che tale formula rifletta la matrice culturale cattolica, caratterizzata dall’indissolubilità del matrimonio. Tuttavia, bisogna prendere atto come nel corso del tempo, in seguito alle trasformazioni sociali e culturali, nell’esperienza giuridica ci si è allontanati da tale concezione, pur rimanendo immutato il dettato costituzionale. Si pensi al progressivo allargarsi della c.d. “famiglia di fatto”, alle leggi sul divorzio e sull’aborto, alla secolarizzazione di alcuni istituti in contrasto con gli stessi principi del cattolicesimo, alle interpretazioni delle norme costituzionali alla luce dei nuovi sviluppi culturali che hanno contribuito all’affermazione del principio di laicità. Teniamo dunque presente come nel nostro ordinamento non figura il principio d laicità dello Stato sancito formalmente in una norma della Costituzione o in una legge dello Stato; è stata la Corte costituzionale che, con la sua giurisprudenza, chiamata a pronunciarsi su questioni assai diverse tra loro (insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, tutela penale del sentimento religioso, obiezione di coscienza, sanzione della bestemmia, ecc.) ha enucleato progressivamente il concetto di laicità, annoverandolo tra i principi supremi dell’ordinamento[18].
Un importante contributo per la precisazione della laicità dello Stato è fornito dalla sentenza n. 203 del 1989 della Corte Costituzionale. Tale sentenza è emessa in sede d’obiter dictium, dove la Corte, investita del giudizio di costituzionalità della nuova disciplina di derivazione pattizia in tema d’insegnamento religioso cattolico nella scuola pubblica, ha avuto il merito di aver per la prima volta enunciato il principio di laicità, affermando che i valori degli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost. concorrono a strutturare il principio supremo di laicità, che è uno dei profili della forma di Stato delineato nella Carta Costituzionale della Repubblica. Il principio enucleato dalla Corte è un principio di laicità positiva, poiché non si pone in una posizione di avversione rispetto al fenomeno religioso, anzi ne riconosce l’importanza sociale e il ruolo determinante che svolge nello sviluppo di ciascun individuo, senza che l’appartenenza religiosa costituisca fattore discriminante tra gli individui stessi. Pur senza sopravvalutare il contenuto della sentenza, senz’altro bisogna prendere atto delle affermazioni ivi contenute che esprimono valutazioni non solo sul piano metodologico, ma anche sul piano sostanziale dell’individuazione dei contenuti assegnati alla nozione di laicità dello Stato sul piano giuridico. Un principio di natura composita (se osservato alla luce delle norme positive della Costituzione formale) perché tutte le norme richiamate concorrono alla sua complessiva determinazione, nella quale è peraltro implicita una gerarchia dei valori o principi che in esso trovano espressione. Dalla prospettiva della Corte, emergono due principali contenuti del principio di laicità: l’aspetto garantista e l’aspetto promozionale.
L’aspetto garantista, risalente alla dottrina liberale, si riferisce al profilo negativo della libertà di religione o libertà di coscienza, e impegna lo Stato a tutelare l’individuo da ogni imposizione o condizionamento giuridicamente rilevante in materia religiosa o di coscienza appunto. Il primo e più folto gruppo di interventi statali con natura garantistica in materia religiosa si ricollega all’art. 19 del testo costituzionale, che riconosce “a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato e in pubblico il culto”, dove non ci si limita a garantire ai singoli la facoltà di aderire o meno ad una determinata fede religiosa, ma ci si impegna altresì a consentire ai fedeli la possibilità di adempiere ai doveri dettati dalla propria fede. Emerge una forte affermazione dei contenuti di garanzia della libertà religiosa del singolo, libertà di non abbracciare alcuna religione, di recedere dall’appartenenza alla stessa, come pure cambiarla o respingerne a priori la stessa dimensione religiosa nella propria esperienza personale. L’altro aspetto, quello promozionale, richiede un impegno positivo e di attenzione dei pubblici poteri nei confronti delle istanze religiose, nella misura in cui risultano espressione di reali esigenze e bisogni avvertiti dai cittadini (libertà positive). La laicità dello Stato democratico aiuta, e non ostacola il cammino della religione; essa riflette gli orientamenti e le istanze espresse nella comunità sociale e, pertanto, accoglie il fattore religioso come elemento positivo di sviluppo della persona umana da tutelare e promuovere[19]. In questa prospettiva è dato rilievo ai contenuti in positivo della libertà religiosa, ossia quelli che attendono dalla comunità civile e dalle istituzione non un mero atteggiamento di astensione, di non interferenza rispetto alle convinzioni religiose dei cittadini, ma una serie di interventi positivi (le varie forme di aiuto economico, sia attraverso contribuzioni che esenzioni o agevolazioni fiscali) che rendono effettivo e accessibile a tutti l’esercizio di questa libertà, consentendo di superare eventuali ostacoli di carattere economico e sociale e, dunque, ampiamente tutelato dagli articoli 2, 3 comma 2 e 19 Cost. In questo ambito assumono particolare rilievo le confessioni religiose, in quanto formazioni strumentali al pieno sviluppo della persona umana, e la normativa pattizia sottoposta al vaglio della Corte (art. 9 n. 2 Acc.: L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole indicate è impartito – in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni…), riconosciuta sostanzialmente conforme al principio di laicità in quanto ritenuta funzionale al soddisfacimento di concrete istanze dei cittadini. Entrambi questi aspetti, di garanzia e di promozione, secondo la Corte, entrano a comporre il principio di laicità dello Stato. Dopo tale storica sentenza, che segna una discontinuità con l’anteriore elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria che aveva mancato di considerare il tema della laicità, la Corte ha emanato diverse sentenze che hanno più volte ribadito il principio come “principio supremo dell’ordinamento”. La successiva sentenza n. 440/1995 della Corte costituzionale, dove si sancisce che la religione di Stato è incompatibile con il principio costituzionale della laicità, si fonda sul criterio quantitativo della pari protezione della coscienza individuale che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza. Anche la sentenza n. 13/1991 della Corte, sempre in tema d’insegnamento della religione cattolica compresi tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con il diritto riconosciuto ai genitori e agli studenti di scegliere se avvalersi di tale insegnamento, non è causa di discriminazione e non contrasta col principio supremo di laicità dello Stato, essendone, al contrario, una sua manifestazione.
La laicità che si è delineata nel nostro ordinamento, evidenzia come nel nostro sistema di relazioni ecclesiastiche si sono voluti conciliare la tradizione di rispetto della libertà religiosa, quale maturata nell’esperienza separatista, con un articolato sistema di contrattazione con le confessioni religiose (previsto attualmente dal Concordato con la Chiesa cattolica e dalle Intese con i culti non cattolici). La conciliazione tra contrattualismo e libertà religiosa hanno portato a tracciare un tipo di laicità che non accoglie il concetto tradizionale che implica una separazione totale dal fenomeno religioso, ma valorizza in tanti modi il carattere sociale e il valore storico della religione e delle confessioni religiose. Lo Stato riconosce le formazioni sociali (tra le quali si annoverano le confessioni religiose) nelle quali si svolge la personalità dell’individuo (art. 2 Cost.), si impegna a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza (anche religiosa) dei cittadini, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Quanto all’art. 8, che afferma che “tutte le confessioni sono egualmente libere di fronte alla legge”, viene ad escludere che lo Stato sia in qualche modo interessato a favorire l’espansionismo di una confessione rispetto alle altre; sancisce il diritto di organizzazione di tutte le confessioni e si propone di entrare in rapporto con esse attraverso le relazioni ecclesiastiche. Viene rifiutata l’emarginazione della religione a livello privato, sia l’interpretazione ottocentesca della libertà religiosa come libertà essenzialmente negativa.
Lo Stato riconosce che, fermo restando i principi di laicità e di eguaglianza dei cittadini, è possibile e necessario intervenire a livello giuridico, sociale, finanziario per agevolare e favorire l’effettività del diritto di libertà religiosa da parte dei cittadini e delle istituzioni religiose. Possiamo dunque dire che il modello di laicità affermato nel nostro ordinamento è basato sulla piena neutralità dello Stato in materia religiosa, garantendo il diritto di libertà ed eguaglianza religiosa a tutti i cittadini; ma allo stesso tempo riconosce il carattere e il ruolo sociale svolto dalla religione e, di conseguenza, del metodo pattizio per regolare i rapporti istituzionali tra Stato e Chiesa. Deriva da ciò la qualificazione dello Stato italiano come uno Stato laico sociale[20].
3. I simboli religiosi e il crocifisso
Il simbolo è un “indicatore di una grande forza, suggestiva, una realtà-forza invisibile che diventa visibile attraverso i suoi effetti”[21]. Questa sua forza suggestiva gli attribuisce una funzione di fondamentale importanza: la salvaguardia della coesione sociale. Infatti, ogni comunità ha sempre avuto bisogno di simboli per riconoscersi in culture, per evocare valori, per affermare principi; e poiché il diritto nasce dal sociale e nel sociale cresce e si evolve, non può essere esclusa una rilevanza giuridica dello stesso simbolo. In una prospettiva propriamente giuridica, il tema in discorso assume specifica rilevanza nella risoluzione dei diversi casi afferenti, rispettivamente, alla libertà di esposizione dei simboli e alla possibilità di adottare, da parte dello Stato, simboli espressivi di quanto di irrinunciabile vi sia nella propria identità nazionale. L'esame della natura dei “simboli di Stato” ammissibili in una democrazia costituzionale solleva, a ben vedere, una considerevole mole di problemi teorici quanto mai complessi, che in questa sede ci si limiterà soltanto ad individuare. Un primo punto da cui iniziare è costituito dalla stessa nozione di “simbolo” alla quale s’intende fare riferimento. Secondo un’accezione oggi particolarmente diffusa, il “simbolo è il segno arbitrario legato al relativo oggetto da una mera convenzione”[22]. Si tratta di un impiego che, tuttavia, non si attaglia a tutti gli ambiti culturali: ad esempio, non alla tradizione letteraria e a quella religiosa, nelle quali, com’è stato rilevato, il “simbolo è un segno fortemente motivato e ricco di implicazioni emotive e narrative”[23]. La capacità di esprimere “una serie di proprietà che si riferiscono a campi diversi e difficilmente strutturabili di una data enciclopedia culturale”[24], sta alla base del carattere inesauribile e, in sostanza, indescrivibile del simbolo. Non sembra potersi accogliere, in assoluto, una scissione (da più parti proposta) tra un significato religioso ed un significato culturale del simbolo, tuttavia esiste qualche eccezioni: si pensi ad esempio al caso di specie del crocifisso, ritenuto dal Consiglio di Stato un simbolo religioso e al tempo stesso un simbolo culturale.
Di qui una prima conclusione rilevante ai nostri fini. Un approccio ragionevole e realistico all’ermeneutica del simbolico deve adottare un principio di massima inclusione di significato, in base al quale il simbolo non può non indicare “quantomeno tutto ciò che viene ad esso ricondotto dagli usi storicamente verificabili nell’ambito del contesto sociale considerato”[25]. Per quanto il simbolo possa dire molte cose, esso non potrà mai rappresentare qualunque oggetto pensabile e sarà sempre dato riscontrare un sufficiente grado di concordia nell'esclusione dal suo contenuto di alcuni possibili significati. Ad esempio, si può disquisire a lungo sé, in particolare, il crocifisso abbia solo una valenza religiosa o se, invece, si presti anche a simboleggiare le radici cristiane della cultura italiana ed europea, ma nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che esso rappresenti in qualche modo religioni diverse da quella cristiana o culture e civiltà del tutto estranee ai valori del cristianesimo. Non è dato escludere, tuttavia, la possibilità (e forse anche la necessità), per uno Stato democratico, in quanto pur sempre prodotto di una determinata cultura, di autorappresentarsi attraverso entità simboliche. I simboli di cui può fregiarsi una democrazia pluralista devono essere, inevitabilmente, desunti dalla storia e dalle tradizioni di una comunità costituitasi a Stato in un determinato momento storico, ciò nonostante devono essere quanto più possibile aperti ed elastici nei confronti degli apporti provenienti dalle diverse realtà culturali che aspirino all'integrazione.
La III sezione penale della Corte di Cassazione ha spiegato che l’esposizione del crocifisso non viola la libertà religiosa sancita dalla Costituzione[26] perché rappresenta un simbolo della cultura cristiana come essenza universale, indipendentemente da una specifica confessione. Ancora, “il crocifisso non è unicamente il simbolo della religione fondamentale del nostro Paese e della tradizione del nostro popolo, ma è anche espressione profonda di cultura, di umanità e segno di 2000 anni di storia, di civiltà e di cultura, della quale si trova testimonianza in tutti i comuni d’Italia”[27]; addirittura, con una espressione forte, “il crocifisso oltre ad essere il simbolo della religione cristiana è l’emblema di valori quali la libertà dell’individuo e della persona, il rispetto di tutte le fedi religiose, la separazione tra Dio e Cesare, fondamento della laicità dello Stato che sono i valori che fondano l’identità dell’Italia, dell’Europa e dell’intero Occidente”. Una valenza formativa che produce un’espansione della forza culturale del simbolo, attribuendo al simbolo – come il Consiglio di Stato ha fatto – addirittura un “valore universale”[28]. Riconnettere un valore culturale ad un simbolo religioso è operazione che lascia trasparire tutta l’evidenza delle motivazioni più vere e profonde che spingono a quella difesa: proprio per evitare lo scontro con altre culture è “indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità” attraverso un “simbolo non solo non contrastante, ma addirittura affermativo e confermativo del principio di laicità dello stato repubblicano”[29]. Il delicato problema, però, non può essere risolto con questi strumenti ed argomenti perché altrimenti rischieremmo di cadere in un paradosso abbastanza pericoloso, per il quale difendendo in questo modo la nostra identità culturale e religiosa, finiamo con lo smentire noi stessi. Infatti, “con l’eliminazione di questo simbolo non rinnegheremmo comunque noi stessi, la nostra identità culturale, la nostra storia, perché la nostra identità resta scritta prima di tutto in noi stessi, nei nostri codici interiori; poi rimane e permane scritta nei nostri luoghi di vita, ad esempio nei nostri tessuti urbani storici, tutti e sempre raccolti intorno ad edifici di culto: la simbologia religiosa continuerebbe a trovar posto nei luoghi della contemplazione e della preghiera, in contesti di vita privata”[30].
A cosa avremmo dunque rinunciato?
Potrebbe paradossalmente sembrare che non mantenendo questo simbolo religioso non faremmo altro che rinnegare qualcosa di noi: rinnegheremmo forse la tradizione del potere politico occidentale e i principi del liberalismo, o addirittura la nostra stessa natura di democrazia avanzata, pluralista e aperta. Dunque, una parte di noi stessi, della nostra storia, cultura e civiltà giuridica.
Poiché il diritto nasce dal sociale e nel sociale si evolve, esso si occupa non solo di simboli del potere, ma anche di altri simboli che si definiscono “simboli della coscienza”[31]: questi simboli rappresentano uno o più valori non coincidenti con quelli imposti o proposti dal potere, cui si riferiscono individui o comunità intermedie che operano all’interno della collettività istituzionale. Tali sono i simboli religiosi, che possono essere alternativamente simboli del potere ovvero simboli della coscienza, a seconda che essi siano diretti o meno a veicolare i valori di una determinata religione ed i valori di una comunità istituzionalizzata: ciò avverrà allorché l’ordinamento di tale comunità ripeta i propri valori da quelli di una ideologia religiosa anziché possederli sulla base ed in funzione dell’intera società da esso ordinata[32]. Nell’ordinamento italiano, la vigenza del principio supremo di laicità[33] comporta alcune importanti conseguenze logiche e pratiche. Innanzitutto, lo Stato non può effettuare una selezione di simboli religiosi ed imporre la loro ostensione a tutti i consociati; tuttavia, se il simbolo trova un fondamento diverso (cultura, tradizione di un popolo), diventa possibile – come infatti è accaduto – legittimarne la presenza attraverso particolari e diverse motivazioni, quale quella di riconoscere al crocifisso, per esempio, un valore universale. In secondo luogo, come può lo Stato avvalersi di strumenti (tale è il simbolo) appartenenti ad una confessione religiosa?
La domanda non dovrebbe neanche essere posta, visto che è sancito nel nostro ordinamento il principio di distinzione degli ordini (statale e confessionale). Da queste considerazioni logiche sembra conseguire che nell’ordinamento italiano i simboli religiosi possono venire in rilievo solo come “simboli della coscienza”; tale sarebbe diventato il crocifisso, trasformatosi da simbolo religioso in simbolo di civiltà e cultura, quindi “liberamente utilizzabile dalle istituzioni ad emblema dello Stato-comunità”[34]. È vero, identificare lo Stato italiano con la cultura e la civiltà cristiana comporta una esclusione dalla comunità di tutte quelle minoranze (dalla quella ebraica a quella musulmana) che sarebbero costrette a vedersi rappresentate da un simbolo del tutto estraneo alla loro identità e cultura. Ma anche queste hanno una loro identità e cultura. E allora come comportarsi? Accertata la funzione aggregante (ma anche escludente) del simbolo religioso e la valenza che ha nella cultura occidentale, è opportuno adesso affrontare il complesso e spinoso tema dell’esposizione di quel simbolo che più di ogni altro interessa la sensibilità della società italiana: il crocifisso. Partendo dal presupposto che la laicità non è un mero sistema di rapporto tra Stato e confessione religiosa ma un modo di essere dello Stato stesso, ogni soggetto (Stato o Chiesa che sia) si fa portatore di un insieme di valori che non riescono – perché non possono – garantire una posizione neutrale. Lo Stato, in quanto tale, è anch’esso portatore di valori, ha un minimo di eticità[35], rappresenta gli interessi (anche religiosi) dei propri consociati; il problema dell’esposizione del crocifisso, infatti, riguarda non tanto la materialità dell’oggetto simbolico quanto l’investimento contenutistico che su di esso viene proiettato.
Innanzitutto occorre focalizzare l'attenzione sull’oggetto della discussione, in modo da presentare con chiarezza il protagonista del dibattito tanto acceso quanto controverso che ha animato negli ultimi anni il nostro paese e non solo, interrogando la dottrina, chiamando in causa giudici di ogni ordine e grado e coinvolgendo non poco l’opinione pubblica. Per far ciò è opportuno porsi immediatamente una domanda alla quale si cercherà, in seguito, di fornire una risposta adeguatamente documentata. Che cos’è il crocifisso? Ma soprattutto, quale valore gli viene attribuito nella società moderna che palesemente si sta sempre più distaccando, giorno dopo giorno, da quelle basi culturali cristiane che hanno contribuito fortemente a fondarla, arricchendola di quei valori indispensabili per la crescita e lo sviluppo di ogni civiltà moderna e che difficilmente altrove potevano essere reperiti? Il crocifisso è il simbolo certamente di questa cultura. Con questa affermazione non si vuole spogliare il crocifisso del valore religioso che gli è proprio, ma constatare senza ombra di dubbio che esso è anche «espressione del patrimonio storico di un popolo alla cui identità il simbolo va anche riferito»[36]. È doveroso richiamare, in proposito, il parere del Consiglio di Stato secondo cui nel 1988 «il Crocifisso o, più semplicemente, la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa»[37].
È innegabile la portata che il cristianesimo ha avuto nei secoli ed ancora oggi ha, nonostante sia in atto da tempo un incalzante processo di secolarizzazione. In questo senso Giovanni Paolo II intervenne il 15 ottobre del 2002, mentre proliferavano le polemiche sul crocifisso a seguito delle iniziative di Adel Smith, presidente dell'unione Musulmani d'Italia, affermando che «di fronte al processo di secolarizzazione questo simbolo principale del cristiano doveva essere mantenuto nelle Chiese, nelle case, negli ospedali, nei cimiteri, ma anche nelle scuole». Ma perché nelle scuole? È pacifico che la scuola, come la famiglia, sia uno dei più importanti luoghi di educazione e formazione dei futuri cittadini italiani, quale che sia la loro origine. Nessuna scuola in Italia, sia essa confessionale o pubblica, privata o statale, può prescindere dall’insegnamento della storia del cristianesimo e dei rapporti tra le istituzioni di governo e la Chiesa Cattolica, data l’enorme importanza che il cristianesimo ha avuto nella storia del nostro paese e più in generale dell’Europa. Non si può studiare la storia, il diritto, l’arte, la musica, la letteratura, l’architettura, la lingua e la grammatica e altro ancora del nostro paese senza sapere nulla di Cristo e della Chiesa. Dalla Divina Commedia ai Promessi Sposi, dai capolavori dell’arte a quelli dell’architettura, tutto il nostro panorama storico, culturale e mentale è impregnato della presenza del messaggio cristiano. È fuori di dubbio che uno studio della storia che volesse prescindere da ogni riferimento al cristianesimo approderebbe a risultati a dir poco aberranti. E rispetto a tutto questo, «il crocifisso nella scuola è nient’altro che un riflesso di un dato della realtà, è nient’altro che la riproduzione di un segno disseminato in ogni angolo del nostro paese, che la scuola, se vuole essere luogo effettivo di formazione, non può ignorare»[38]. Quindi «il progetto educativo e l’offerta formativa non possono non partire dal concreto contesto sociale e culturale, dalle istanze che le singole comunità locali esprimono, in particolare dalla loro identità»[39]. È chiaro che questa identità è stata forgiata dal cattolicesimo. Prediligere una parete bianca alla presenza di un simbolo che è insito nel nostro DNA significherebbe troncare con le nostre radici.
Altre espressioni culturali e religiose, pur rispettose, non hanno avuto un’influenza paragonabile a quella operatasi nella cultura dell’Europa, ed in particolare in Italia, a seguito della diffusione del cristianesimo. È per tali motivi che «a prescindere dal credo religioso professato da ognuno, in un luogo formativo delle coscienze e delle menti delle giovani generazioni, il crocifisso merita di essere affisso. È un tributo ad una cultura; anzi ne è autorevole sintesi» [40]. In tal senso bisogna segnalare la puntuale affermazione del Presidente emerito della Corte costituzionale Casavola, secondo la quale «vietare la presenza del crocifisso in una scuola equivale a negare che la nazione italiana sia identificabile culturalmente»[41]. Il crocifisso non trasforma la scuola pubblica in un apparato confessionale, ma contribuisce a configurare la scuola come quel luogo di elaborazione culturale capace di dare ai giovani risposte, suscitando in loro la ricerca di quel senso della vita tanto necessario quanto difficile da far proprio. Infine, si può aggiungere come «la mera presenza del crocefisso negli ambienti pubblici non imponga assolutamente niente a nessuno, ma sia semplicemente (continui ad essere) il semplice richiamo al valore del cristianesimo, al quale dobbiamo (volenti o nolenti) i contenuti della nostra civiltà (è questo il senso dell’ormai famoso “perché non possiamo non dirci cristiani” di crociana memoria)»[42]. Ecco che nelle aule scolastiche, negli uffici pubblici, per le strade, è opportuno che alberghi anche questo simbolo che è certamente conforme alla nostra sensibilità, alle nostre tradizioni storiche, socio-culturali oltre che religiose.
Non può sfuggire all'evidenza come la presenza di immigrati nel nostro paese sia in costante aumento e le classi scolastiche sono in tal senso un indicatore inequivocabile. La nostra società, sempre più multiculturale, deve quotidianamente convivere con le sfide e con le molte problematiche che da un siffatto ambiente derivano. Un contrasto circa l’esposizione del crocifisso mai si sarebbe potuto verificare in un’epoca dove il cristianesimo era a tutti gli effetti la religione del popolo. Ma oggi, non c’è da meravigliarsi che un simbolo come il crocifisso appeso al di sopra di una lavagna possa far scaturire polemiche e azioni volte alla sua soppressione. Non stupisca che un individuo, che non si riconosca in questo simbolo, né per ragioni di fede né per motivi di appartenenza ad un paese con chiare tradizioni cristiane come è il nostro, esprima il suo disappunto sulla presenza di questo segno nelle aule scolastiche o comunque in un ufficio pubblico, ma da qui a chiedere di eliminarlo la strada è lunga. Se si desse udienza a questo appello si rischierebbe di trovarsi di fronte alla paradossale pretesa di estirpare le croci piantate sulle cime delle montagne o, perché no, cancellare tutte le rappresentazioni sacre che spesso appaiono anche su palazzi di importanza civile come ad esempio l’immagine della Vergine e del bambino sulla torre dell’orologio del Quirinale[43]. Ma ci si interroga su come sia possibile che il crocifisso, l’immagine di un uomo innocente ucciso brutalmente, possa ledere la coscienza degli studenti. Non è forse più realistico affermare che esso è portatore di un significato profondo per tutti? Infatti «per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l'immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l'idea di Dio, ma conserva l'idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per una loro fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c'è l'immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti [...] perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli, tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva mai detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini». Per questo è «bene che i ragazzi, i bambini lo sappiano, fin dai banchi di scuola»[44].
In tal senso, in una classe scolastica che ospita ragazzi di diversa cultura e religione, il crocifisso è foriero di significati alti, nei quali ognuno può trovare la sintesi di valori condivisi, valori che sono alla base della convivenza civile. Nessuno dovrebbe ragionevolmente dirsi offeso o leso dalla sua presenza in un’aula scolastica, in un ospedale, in un tribunale, ove ricorda ai giudici l’obbligo dell’umiltà, la possibilità dell’errore. A tal proposito si è constatato che «prendere la croce significa sopprimere le passioni, uccidere i vizi, evitare le cose vane, rifiutare ogni errore». E che «la croce riconcilia il mondo con Dio, distruggendo ogni inimicizia, e riconduce alla vera pace tutte le cose per mezzo del sacrificio dell’agnello immolato»[45]. Anche per l’islam, forse l’esperienza religiosa con la quale più difficilmente si riesce a relazionare, Cristo è il simbolo di un grande profeta di cui nel Corano Dio dice: «demmo a Gesù figlio di Maria prove evidenti e lo confermammo con lo Spirito di Santità (II, 87)». I mussulmani potrebbero vedervi l’immagine del sosia, che, secondo una tradizione cristiana eretica accolta dal Corano, sostituì Cristo sulla Croce (IV, 57). Certo non si può trascurare che l’islam, come d’altronde l’ebraismo, siano «religioni di vittoria», in cui il giusto trionfa; e non viene appeso ad una croce (di qui la negazione nel Corano della morte ignominiosa di Cristo). Ma l’esposizione del crocifisso (così come il Bambino del Presepe) non scalfisce in alcun modo la libertà dei mussulmani e degli ebrei (o degli atei), come non ledono la libertà dei cristiani le stelle di David dello Stato ebraico, le mezze lune delle bandiere islamiche (la libertà dei cristiani è lesa, in gran parte del mondo, da fatti purtroppo ben più sconvolgenti e tragici)[46]. Interessante ciò che Natalia Ginzburg ha efficacemente scritto: «Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager?»[47]. Il crocifisso non è capace, quindi, di offendere, la sua silenziosa presenza tuttalpiù invita a riflettere e ad interrogarsi; ed è solo ponendosi domande che una società multiculturale come quella italiana può trovare le soluzioni ai contrasti che la turbano[48]. Ma ai fini del nostro discorso, occorre osservare come, anche tra le Chiese cristiane, «persistono posizioni diverse e talvolta distanti sia nell’uso liturgico del simbolo del crocifisso, sia nelle considerazioni di natura pastorale, teologica e giuridica che, a seconda delle rispettive impostazioni, consigliano la sua esposizione o al contrario la rendono impropria e/o inopportuna»[49]. In ambito ortodosso, ad esempio, non emerge un’elaborazione unitaria e il tema rimane affidato alle particolari sensibilità nazionali.
La prevalente posizione protestante ritiene, poi, che l’assenza di particolari simboli religiosi nello spazio pubblico sia essenziale per la libertà religiosa e un effettivo pluralismo a tutte le comunità di fede, trovandosi così in assonanza con la soluzione del cosiddetto “muro bianco”, soluzione che comporta la rimozione del crocifisso con lo scopo di evitare differenziazioni e garantire il principio della separazione degli ordini fra Stato e Chiesa. In ambito cattolico, infine, possiamo evidenziare che «il riconoscimento dello specifico patrimonio religioso di una società richiede il riconoscimento dei simboli che lo qualificano. Se, in nome di una scorretta interpretazione del principio di eguaglianza, si rinunciasse ad esprimere tale tradizione religiosa ed i connessi valori culturali, la frammentazione delle odierne società multietniche e multiculturali potrebbe facilmente trasformarsi in un fattore d'instabilità e, quindi, di conflitto...»[50].
4.Laicità e simboli religiosi nello spazio comune europeo
Il problema dell’esposizione dei simboli religiosi, ed in particolare del crocifisso, concerne prima ancora che il nostro Paese, l’intera Europa. Per tale ragione, appare conveniente fare alcune considerazioni preliminari. innanzitutto, occorre chiedersi se nel contesto sociale e culturale dell’Europa sia possibile rinvenire effettivamente delle radici cristiane. È un tema questo che è stato molto discusso, soprattutto qualche anno fa, quando fu bocciata la proposta, tutta italiana, di inserire, nel progetto volto a dotare l’Europa di una Costituzione, un richiamo alle radici giudaico-cristiane. Di certo, non sarà opportuno proporre un’analisi tutta soggettiva, poiché la ricerca dell’esistenza o meno di queste radici ha bisogno di elementi inconfutabili ed inopinabili; proprio per questa ragione, è pacifico come l’essere cristiani non sia una condicio sine qua non per vedere nelle migliaia di chiese, di cattedrali, di edifici che popolano le nostre città, che il cristianesimo ha segnato profondamente la nostra storia. Ugualmente, non è necessario essere cristiani per veder come le radici del patrimonio giuridico europeo risalgono al principio cristiano dello ius commune, configurato come cognizione unitaria del diritto nella sua forma universale: universale poiché deriva dallo ius naturale; lo ius commune non è scomparso, ma sopravvive ancora nella dottrina dei diritti umani e nei “principi generali del diritto” ai quali si rivolgono gli ordinamenti civili in presenza di lacunae iuris. È indubbio che parlare di radici cristiane non equivale a ledere l’autentica laicità dello Stato; per quanto paradossale possa apparire, la difesa di una sana laicità di una comunità politica passa, ancora adesso, attraverso la presenza del fattore religioso, quale basilare termine di paragone, secondo cui non tutto è riconducibile a Cesare, dal momento che esistono ambiti sottratti al potere politico.
L’Europa, e quindi l’Italia, esige, oggi più che mai, di un solido fondamento comune e, prima di stabilire quale sia, va riconosciuto che tale fondamento comune è necessario. Basti pensare al caso dell’immigrazione: la risposta ad essa è l’integrazione; ma l’integrazione vera si ha in una realtà, dentro un contesto ben definito: non ci si integra nel nulla! Anche in tale prospettiva, l’Europa ha il dovere di mostrare serenamente e con un po’ di coraggio la propria identità, radicata appunto nelle radici cristiane; solo così coloro che scelgono di immigrare possono integrarsi, in special modo se portatori di altre culture “forti”. Non occorre neanche essere cristiani per comprendere come questo fondamento comune non può che essere il diritto naturale; ma la storia ci insegna che il diritto naturale è stato concretamente e compiutamente rispettato solo nell’ambito del cristianesimo: si pensi, ad esempio, al concetto di aequitas: “equità è fonte e origine della giustizia, è armonia, è null’altro che Dio; essa diviene giustizia nel momento in cui la volontà umana se ne appropria. Volontà che, se si concreta in precetti, viene qualificata diritto”[51]. Pertanto, il concetto cristiano di aequitas caratterizza e qualifica il diritto, ne diviene la fonte primaria in quanto voce stessa della divinità. È, ancora, col cristianesimo che si realizza quel “salto culturale” rispetto al mondo egiziano, ebraico ed arabo, seppur nel contesto culturale romano; infatti, inizia ad assumere importanza non più il rituale ma l’intenzione e la volontà della persona: da qui la forza della “parola” individuale[52]. E il diritto, la codificazione del diritto come fondamento della convivenza civile, si è realizzata nel mondo romano proprio perché affidata alla forza e alla verità della parola. Non c’è bisogno di essere cristiani, dunque, per dire che l’Europa è debitrice verso il cristianesimo perché, lo si voglia o no, esso le ha conferito forma, significato e valori, nel bene e nel male. Rifiutare tutto ciò significherebbe, per l’Europa, negare sé stessa.
Nell’attuale contesto storico e politico, purtroppo, sembra che esistano solo gli europei senza Europa; le crociate, le guerre di religione, la notte di San Bartolomeo, la Santa Inquisizione, non possono essere strumentalmente rievocate per liquidare come negativa l’esperienza e la presenza della Chiesa. La storia richiede una analisi critica ed onesta.
Storicamente l’Europa affiora come una costruzione strutturalmente complessa. Ha alle spalle la res publica romana e la sua cultura letteraria, ma anche scientifica e del diritto, su cui sempre più idealmente l’Europa si incardina come ripresa e prosecuzione. Ha alla base la res publica christiana, la chiesa e il cristianesimo che si fanno cemento comune, pur aprendosi alle tensioni ereticali e a una storia drammatica di differenze teologiche e ecclesiali. Ha poi al centro la ripresa economica delle città, dell’economia di scambio e la nascita del protocapitalismo, ma – nel contempo e nello stesso periodo storico (il basso Medioevo) – la crescita delle nazioni, degli Stati nazionali e delle loro tradizioni linguistiche e letterarie.
L’Europa è nata da un lungo e complesso travaglio storico e si propone come un organismo assai peculiare in cui unità e pluralismo, omogeneità e differenza si saldano insieme alternandosi al fondo di quella coscienza comune che, però, si carica sempre anche di tensioni, di sfide, di utopie e di esclusioni. Se l’Illuminismo settecentesco può essere indicato come il tempo dell’unità culturale, morale e civile europea, che secolarizza l’animus cristiano dell’Europa e dei suoi principi-valori, il Novecento è stato, invece, il secolo dei nazionalismi e dei razzismi che dalla prima guerra mondiale alle guerre della ex Jugoslavia ha messo a nudo l’altro volto dell’Europa, divisionista e conflittuale, per poi venire a ricostituirsi nell’Europa di Maastricht e del post 1989, con l’avvio della Comunità europea che si è lasciata definitivamente alle spalle la lotta per l’egemonia tra le potenze europee. “Europa” significa dunque “unità nella differenza” e capacità di dialogo tra popoli che per lingue, etnie, tradizioni appartengono a identità diverse, ma che pure si saldano a principi-valori condivisi, cristiani o ex-cristiani, borghesi, illuministici che fanno da plafond a questa coscienza comune. Valori di razionalità e di efficienza, ma allo stesso tempo valori legati all’individuo, alla libertà di coscienza, alla libertà tout court e alla solidarietà, al rispetto dei diritti umani. Valori, questi, che stanno consolidandosi e crescendo nella coscienza comune europea e che si atteggiano, oggi, come il vero traguardo della complessa e travagliata storia dell’Europa stessa. Scorsa dall’oggi la storia d’Europa si delinea non solo come area di conflitti, di lotte, di persecuzioni, di roghi, di pulizie etniche, etc., bensì anche e soprattutto come il cantiere di una nuova coscienza sociale e civile che proprio in questi anni viene nettamente a delinearsi su scala planetaria come la forma della coscienza civile nel tempo della globalizzazione e delle sfide planetarie. Tale forma della coscienza civile è avvinta, nello specifico, al principio della laicità, quale risultato più maturo della storia europea e un principio nato proprio da quel travaglio carico di conflitti che è stata la storia d’Europa dopo il Medioevo e che ne ha trascritto, con la secolarizzazione, i principi etici legati alla tradizione cristiana, applicandoli all’interno di una comunità civile. Laicità significa “unità nel pluralismo”, tolleranza e rispetto reciproco, esaltazione della coscienza individuale, impegno civile e solidarietà sociale.
Laicità, inoltre, significa partecipazione alle istituzioni (Stato, Chiesa, Partiti). Laicità indica l’etica della responsabilità, l’etica della comunicazione che implica il rispetto e il dialogo come valori-chiave e come mezzi-principe. Laicità esprime, ancora, un ethos diffuso che nelle differenze riconosce occasioni di arricchimento di una cultura (e non una minaccia) e una sfida ai propri pregiudizi, quindi lo stimolo a ripensare costantemente la propria identità. Tale laicità è tuttora in cammino in Europa. Ma l’Europa si è fatta sempre consapevole che lì sta il proprio più intimo valore, rielaborandolo, affinandolo e offrendolo anche come modello di convivenza planetaria nel tempo in cui le relazioni (e gli intrecci) tra i popoli, le culture, le identità si sono fatte più strette, le convivenze più necessarie, le condizioni di dialogo più imperative. Infine, emerge lucidamente come il modello di laicità europeo si configura oggi come una necessità indefettibile, che impone di approntare un modello comune per tutti i popoli, un modello di pacifica convivenza e rispetto delle specifiche identità religiose che dovrà essere esportato e dovrà attecchire nelle politiche dei Governi o, almeno, dovrà inserirsi in esse come una nuova possibilità o un nuovo indicatore.
Molti documenti europei in tema di libertà religiosa convergono nello statuire l’importanza del principio comune della libertà religiosa e la necessità che esso sia preservato da ogni forma di negazione e discriminazione. L’art. 9 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (1950) recita: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell'ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”. Il documento conclusivo della riunione di Vienna dei rappresentanti degli stati partecipanti alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (1986-1989), all’articolo 16 prevede: “Al fine di assicurare la libertà dell'individuo di professare e praticare una religione o una convinzione, gli Stati partecipanti, fra l'altro, 1. adotteranno misure efficaci per impedire ed eliminare ogni discriminazione per motivi di religione o convinzione nei confronti di individui o comunità per quanto riguarda il riconoscimento, l'esercizio e il godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in tutti i settori della vita civile, politica, economica, sociale e culturale e assicureranno l'effettiva uguaglianza fra credenti e non credenti; 2. favoriranno un clima di reciproca tolleranza e rispetto fra credenti di comunità diverse nonché fra credenti e non credenti”. Ancora. Sia nell’ambito del Trattato di Amsterdam, sia in quello dell’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Chiesa cattolica e quelle protestanti hanno richiesto uno specifico riconoscimento dell’importanza dei loro culti e del retaggio “religioso” europeo. La dichiarazione numero 11 adottata in allegato al Trattato di Amsterdam (1997) garantisce che “l’Unione Europea rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri. l’Unione Europea rispetta ugualmente lo status delle organizzazioni filosofiche e non confessionali”. In sostanza equipara le associazioni dei non credenti alle chiese. L’articolo 10, comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) recita: “ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.
Tra le peculiarità identitarie dell’Europa – molte delle quali anche contraddittore, com’è fisiologico in una realtà complessa, una e molteplice quale l’Europa è, è stata e si è via via costruita e definita – nella seconda metà del Novecento quello che si è affermato sempre più come essenziale è proprio la laicità. Laicità distinta da laicismo, che di quella è solo un momento, una tappa, un ingrediente. Laicismo è controllo e riduzione del potere ecclesiastico e del dominio della Chiesa nella società, forieri entrambi di intolleranza e di conformismo. Laicismo è anticlericalismo, lotta al giurisdizionalismo ecclesiastico, riduzione della fede a affare di coscienza. Laicità, invece, è un caleidoscopio di valori, e valori storici, che sono stati un’ardua conquista nella società occidentale e che in essa vigono sì, ma sempre sottolineati, ridiscussi, messi in questione e che, quindi, vanno saldati, coltivati, avvalorati, ripensati, sviluppati.
Quel caleidoscopio di valori – regolato dall’unità/differenza come principio ispiratore o guida – è edificato su un quadrilatero, costituito da tolleranza, dialogo, integrazione, diritti e conduce al riconoscimento della democrazia come valore. Sono tutti valori e principi che hanno alle spalle una lunga e travagliata storia, costituita di lotte sociali, di battaglie ideali, di sconfitte e riprese. Dopo il la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’Olocausto, dopo la decolonizzazione, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Europa non ha potuto che riconfigurare sé stessa, sotto la spinta anche del suo processo di unificazione (ancora in corso, ma che è sempre più un fattore-chiave della sua storia attuale e del suo compito planetario), e di un’unificazione che pone anche una rottura rispetto al passato di lotte, conflitti, egemonie interne e esterne. È in questo contesto che il valore-tolleranza si è imposto per il nuovo volto dell’Europa (unità nella diversità) e per il suo nuovo ruolo di accoglienza rispetto all’immigrazione. Tolleranza è pluralismo, è rispetto delle differenze. Ma la tolleranza si integra col dialogo, con la volontà/capacità di vedere l’altro come un volto, come un soggetto carico di sue tradizioni, con le quali confrontarsi e nel confronto dar luogo a uno spazio di integrazione delle varie identità. Da qui la centralità del valore-integrazione, della stipula di accordi, formali e/o vissuti, che danno luogo a regole, a diritti. E ciò vale dentro la stessa Europa e oltre di essa, con gruppi che da altre aree del mondo entrano a far parte del concerto europeo. Integrazione ardua (si pensi solo al dislivello culturale e politico presente tra Europa dell’Ovest e quella dell’Est, e quella balcanica in particolare) e ancora in cammino. E sono proprio i diritti – comuni, riconosciuti, interiorizzati – che possono fungere da integratori-chiave, e soprattutto i diritti umani (del rispetto della persona oltre che delle identità/appartenenze; di libertà, di autonomia, di autodeterminazione, etc.; diritti umani da definire, da legiferare, da cristallizzare in codici che li espongano alla presa di coscienza collettiva e li impongano come regole dell’azione, pubblica e privata). Ma anche questo è un processo in itinere, nient’affatto già concluso e ben circoscritto. È un compito aperto.
Laicità dell’Europa si svela essere, quindi, un problema di formazione della cittadinanza europea che può, e deve, divenire modello anche planetario, ergendosi oggi come il paradigma più maturo di convivenza. Il crescente interesse e l’acceso confronto che, da sempre, suscita la presenza nei luoghi pubblici dei simboli religiosi[53], in relazione alle controversie giudiziarie originate dalle obiezioni circa la permanenza del crocifisso sulle pareti delle aule scolastiche o dalla contrarietà all’esibizione negli istituti di istruzione statali (nonché nello spazio sociale in genere) di segni o indumenti identificativi di specifiche appartenenze religiose, ha impegnato non solo gli organi di giustizia nazionali, ma ha finito per interessare anche le istanze giurisdizionali operanti nel quadro di legalità del Consiglio d’Europa. Nella complessiva cornice delle norme di garanzia delle libertà fondamentali della persona umana predisposta dalla Convenzione di Roma del 1950, la posizione centrale riconosciuta al diritto di libertà religiosa è stata tale da consentire, in diverse circostanze, l’intervento della Commissione, prima, e, successivamente, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in risposta alle doglianze sollevate per presunte violazioni del dettato convenzionale. In questo senso, il rilievo conferito alla libertà religiosa (concepita in stretta connessione con la libertà di pensiero e di coscienza) è testimoniato dall’ampia articolazione delle facoltà che l’art. 9.1 della C.E.D.U. riconosce, ai singoli come alle collettività, lecitamente esercitabili in suo nome[54]: diritto di professione di qualsivoglia fede religiosa (o di non professarne alcuna), di mutamento delle personali convinzioni religiose, di creazione di originali concezioni del mondo e del rapporto col numinoso, di manifestazione (in forma individuale o associata, in pubblico come in privato) delle preferite determinazioni d’ordine spirituale (anche attraverso le pratiche cultuali, l’insegnamento o la realizzazione di riti).
Nondimeno, la latitudine delle libertà riconosciute, ben lungi dall’essere illimitata, è circoscritta, nel dettato dell’art. 9.2 C.E.D.U., dalla previsione della liceità di eventuali interventi autoritativi dei pubblici poteri nazionali tesi a limitare la libera manifestazione delle convinzioni religiose. Le restrizioni realizzate, in ogni caso, dovrebbero soddisfare alcune precise condizioni, dovendo risultare legislativamente previste, finalizzate al perseguimento di uno scopo legittimo (e, in tal senso, proporzionate) e contraddistinte dai caratteri della necessarietà ai fini della conservazione degli assetti consolidati dell’odierna società democratica[55]. In chiave di completamento della specifica tutela riconosciuta dalla Convenzione di Roma alla libertà di religione - insieme alle statuizioni degli artt. 8 (diritto alla vita privata), 10 (libertà di espressione), 11 (libertà di riunione e di associazione) e 12 (diritto al matrimonio) – concorre, in quest’ambito, ad assicurare un sistema compiuto di garanzie anche il dettato dell’art. 14 (divieto di discriminazione). Quest’ultimo, infatti, riconoscendo alle opzioni religiose la qualità di condizioni personali non suscettibili di originare trattamenti discriminatori nel godimento dei diritti e delle libertà protette dall’accordo convenzionale, ha contribuito sensibilmente a rafforzare il già robusto impianto garantistico operante in favore dell’esperienza religiosa[56] (parallelamente, del resto, alla previsione dell’art. 2 del Protocollo n.1 alla Cedu, in relazione al diritto dei genitori di fruire per i propri figli di un’educazione conforme ai loro convincimenti di carattere religioso e filosofico[57]. È in questo quadro di principi e di valori che gli organi di giustizia del Consiglio d’Europa si sono trovati a dover giudicare in quali ipotesi la lecita manifestazione della propria libertà religiosa, esplicantesi anche per mezzo di simboli e comportamenti espressivi delle convinzioni interiori, scontrandosi con altri diritti e libertà parimenti garantite dal dettato convenzionale, abbia la possibilità di prevalere o debba, per converso, risultare recessiva.
Le decisioni della Commissione e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di simbologia religiosa, ancorché occasionati da vicende tra loro abbastanza diversificate ed articolate, permetterebbero (sia per il loro numero, che per le implicazioni politico-giuridiche derivanti) di evidenziare alcune precise (ed ormai consolidate) linee di tendenza. Sintomatica è la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 15 febbraio 2001, con cui si è esclusa la fondatezza delle doglianze sollevate contro la Svizzera da Lucia Dahlab, insegnante nella scuola primaria di una località del Cantone di Ginevra (caso Dahlab contro Svizzera). In questa vicenda, la protagonista, convertitasi dal cattolicesimo all’islamismo e legata in matrimonio con un immigrato di origine algerina, sin dalla fine del 1990 aveva assunto l’abitudine di utilizzare il tradizionale copricapo islamico in tutti i rapporti sociali e di vita comunitaria; abitudine rispettata anche nell’esplicazione delle sue funzioni didattiche, senza che ciò sollevasse la minima contestazione da parte delle autorità scolastiche, degli studenti, o dei loro genitori. Successivamente, nel 1996, si comunicava alla docente, su indicazione della direttrice dell’istituto d’istruzione, il divieto di utilizzo del foulard islamico nello svolgimento dei propri compiti, giustificando l’adozione della misura al fine di favorire il massimo rispetto delle previsioni dell’art. 6 della legge del 6 Novembre 1940 sull’istruzione pubblica (ai sensi del quale si precisa che l’insegnamento pubblico garantisce il rispetto delle convinzioni politiche degli studenti e dei genitori), nonché del dettato dell’art. 27, III comma, della Costituzione elvetica[58] (secondo cui le scuole pubbliche devono essere frequentate dagli aderenti a tutte le Confessioni religiose ed essi non devono soffrire alcuna limitazione alla loro libertà di coscienza o di credenza). Al richiamo formale degli organi dirigenti dell’istituto, faceva, quindi, seguito, nell’agosto del 1996, una decisione imperativa della Direzione Generale dell’Insegnamento Primario, con la quale si faceva divieto assoluto alla ricorrente di far uso del copricapo tramandato dalla tradizione coranica. La singolare decisione ad personam adottata dalle autorità scolastiche elvetiche, in danno della libertà religiosa dell’insegnante Dahlab, veniva motivata ritenendo che l’uso del foulard islamico, esemplificativo di un comportamento non compatibile con il carattere laico del sistema scolastico pubblico, fosse tale da proporre agli studenti un modello ostentato di appartenenza religiosa, da questi non liberamente scelto e surrettiziamente imposto.
Orbene, considerando le decisioni adottate nei suoi confronti come fortemente lesive del diritto di libera professione delle personali convinzioni interiori, la ricorrente decideva di sottoporre le proprie doglianze alla valutazione del Consiglio di Stato di Ginevra, senza, però, ottenere alcun significativo riconoscimento della bontà delle argomentazioni addotte a sostegno delle sue tesi. All'opposto, il massimo organo cantonale di giustizia amministrativa, nel respingere il ricorso inoltrato, ribadiva l’obbligatorietà del rispetto della neutralità confessionale nell’esercizio delle attività didattiche nelle scuole pubbliche, confermando la posizione critica (puntualmente espressa dalle autorità scolastiche con l’imposizione del contestato divieto) rispetto alla liceità di abbigliamenti e simboli veicolanti uno specifico messaggio religioso in ambiti, come quelli devoluti all’organizzazione e alla gestione dei pubblici poteri, necessariamente (e naturalmente) depurati da peculiari contaminazioni ideologiche[59]. Un successivo ricorso al Tribunale Federale non sortiva, alla stregua del pregresso giudizio amministrativo, alcun esito positivo per le richieste della ricorrente, riconfermandosi, per converso, la specifica qualità di simbolo religioso del copricapo islamico e l’inopportunità della sua ostentazione negli istituti d’istruzione. Tali valutazioni venivano sostenute evidenziando la difficoltà ad assicurare, nelle ipotesi in cui si fosse consentito l’utilizzo del foulard, non solo la massima tutela della libertà di coscienza e di religione degli studenti, ma anche l’obbligatoria adesione al principio di non identificazione e di laicità da parte dei responsabili delle pubbliche funzioni. Di fronte ai deludenti risultati conseguiti dai gradi di giudizio interni, la ricorrente decideva, conseguentemente, di adire la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione degli artt. 9 e 14 della Convenzione del 1950.
Ciononostante, i magistrati del massimo organo giurisdizionale europeo, ben lungi dal riconoscere la validità delle doglianze sollevate, scelsero di confermare gli orientamenti già espressi dal Consiglio di Stato di Ginevra e dal Tribunale Federale, ritenendo che la centralità del principio di neutralità dell’insegnamento negli istituti d’istruzione statali[60] (assistita da puntuali indicazioni costituzionali) giustificasse, nelle sue concrete applicazioni, l’adozione di eventuali limitazioni (pur se ben calibrate rispetto alle funzioni svolte in ambito scolastico) alla libera espressione dei personali convincimenti religiosi. Emerge, così, come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia valutato come prevalente la tutela della sensibilità religiosa dei discenti rispetto al concorrente (ed ugualmente meritevole di rispetto) diritto di libertà religiosa della docente, nel momento in cui ha ritenuto giustificate le misure restrittive adottate al solo fine di evitare che l’ostentazione di un simbolo religioso particolarmente evocativo di una specifica appartenenza confessionale, quale il foulard islamico, recasse turbamento alle coscienze dei giovani studenti (e, in aggiunta a ciò, potesse, eventualmente, minare la pace religiosa della comunità educativa). In quest’ordine d’idee, pertanto, i giudici europei, nel valutare come legittimo il divieto di utilizzo di uno specifico capo d’abbigliamento tradizionale nell’esplicazione delle attività di insegnamento, sono sembrati sensibili ad una difesa politica della scuola laica, ove tutti gli studenti dovrebbero fruire del diritto ad un’istruzione rispettosa delle proprie convinzioni religiose[61], anche se a prezzo di particolari limitazioni per la libertà religiosa dei docenti.
Nell’assumere questa posizione, sufficientemente controversa e suscettibile di contrastanti valutazioni di merito, risulta lampante la volontà della Corte di Strasburgo di voler fugare qualsiasi dubbio rispetto ad un possibile differente giudizio, modulato in ossequio ad una presunta prevalenza di genere[62] ed affermare che la liceità della misura restrittiva della libertà religiosa, oggetto del contendere, sarebbe stata giudicata con i medesimi parametri anche nell’ipotesi in cui il protagonista della vicenda fosse stato un docente di sesso maschile, censurato per l’utilizzo di un abbigliamento ostentatorio di una specifica appartenenza religiosa[63]. In vero, l’impianto concettuale fatto proprio dalla Corte Europea appare poco convincente, in ragione della contraddittorietà rinvenibile, nel caso di specie, tra il riconoscimento – nel novero degli obblighi ascritti alle dirette competenze di uno Stato laico – del dovere di consentire il massimo godimento dei diritti connessi alla libertà religiosa dei singoli (e delle comunità) e la contestuale legittimità di eventuali interdizioni alla libera manifestazione delle convinzioni religiose (esemplificata, in questa vicenda, dal divieto di un determinata scelta d’abbigliamento). La inibizione, oggetto del contendere, al di là delle giustificazioni invocabili in difesa della sua necessità, sembrerebbe concretare, pur sempre, una reale (e non necessitata) limitazione delle libertà espressive riconosciute alla persona umana. Difatti, pur essendo pacifico che i pubblici poteri possano (sempre, ben inteso, in specifiche e ben delimitate circostanze) limitare, in vantaggio delle esigenze della collettività, l’utilizzo degli spazi comuni per il perseguimento di fini di parte, non sembra che l’impiego del foulard tradizionale rechi lesioni tali alla libertà religiosa altrui da giustificare la compressione della naturale dialettica tra le differenti posizione di fede che, nella logica del confronto democratico libero[64], è parte integrante della stessa missione educativa[65].
Quanto detto, ovviamente, escludendo che l’utilizzo dei simboli religiosi nell’esplicazione della funzione docente, da semplice adesione personale ad uno specifico messaggio religioso (scevra da qualsiasi intento divulgativo o propagandistico delle convinzioni interiori), possa trasformarsi in una subdola forma di indottrinamento forzato[66]. In termini generali, comunque, la scelta di indossare il velo, anche se effettuata da un insegnante, deve ritenersi come una mera decisione di carattere personale, non in grado di turbare le coscienze dei giovani studenti. L’obbligo dell’imparzialità didattica dei docenti non sembrerebbe violato dalla specificità dell’abbigliamento eventualmente adottato dall’insegnante, né dovrebbero temersi indebite ingerenze nella libertà di coscienza degli studenti[67].
Questi ultimi, infatti, si troverebbero soltanto dinanzi ad una manifestazione esteriore della fede prescelta dal docente, da interpretarsi come una delle forme espressive del pluralismo religioso della società contemporanea. In aggiunta a ciò, deve anche convenirsi che il rapporto tra insegnante e discente non si fonda su un’assoluta mancanza di capacità di giudizio e di valutazione razionale delle manifestazioni ideali a cui i giovani allievi potrebbero essere sottoposti, e non dovrebbe ritenersi positivo che l’educazione delle nuove generazioni finisca per basarsi su una “strategia” di occultamento delle eterogenee identità di cui la convivenza sociale sta attualmente caratterizzandosi[68]. Tali argomentazioni, però, non apparirebbero essere condivise dalla Corte di Strasburgo che, nel caso in esame, stante l’evidenziato timore di surrettizi condizionamenti psicologici imposti ai discenti, ha espresso la sua particolare sensibilità rispetto alle possibili forzature realizzabili in danno della libertà di coscienza. Ciò l’avrebbe indotta ad una rigida difesa dell’integrità del foro interno, da essa ritenuta, in ormai consolidati orientamenti, uno dei fondamenti della società democratica, nonché ‹‹(…) un bene prezioso per gli atei, gli agnostici e gli scettici o gli indifferenti››[69]. Le valutazioni fin qui evidenziate hanno ricevuto, ulteriori specificazioni dalla decisione, resa dalla Corte Europea il 29 giugno 2004, nel caso Şahin contro Turchia.
La breve disamina di alcune pronunce giurisprudenziali europee sembra consentire, verosimilmente, un esame più lucido dei problemi offerti dalle nostre vicende interne, che si contraddistinguono per la ricchezza e, in alcuni casi, per la contraddittorietà, delle argomentazioni sollevate nelle frequenti dispute relative all’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Il dato che emerge prepotentemente è, infatti, il rilevare come, in difesa della presenza negli spazi comuni del simbolo maggiormente evocativo della tradizione religiosa cristiana, vengano addotte – forse anche sulla scia delle soluzioni individuate dagli organi di Strasburgo nelle controversie sottoposte al loro esame40 - giustificazioni volte a preservare il principio di laicità dello Stato così come strutturatosi nella esperienza storico-sociale della Nazione. In questo senso, per le pubbliche potestà l’adozione di un atteggiamento autenticamente laico, rispetto alla varietà delle opzioni ideologiche in campo, consisterebbe nell’assumere, in materia di politica ecclesiastica, una posizione di apertura e di inclusione, e non di pregiudiziale chiusura ed aprioristica difesa.
5. Conclusioni
Concludendo, il problema del confronto multiculturale, riconducibile in ambito europeo, soprattutto ai massicci flussi migratori risulta essere oggi un problema affrontato dai governi nazionali essenzialmente in una prospettiva di gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica, trascurando, troppo spesso, la complessità di un fenomeno che, in realtà, ha importanti ricadute sotto molteplici profili. Si bypassano spesso le criticità connesse alla mancata adozione di politiche volte ad attribuire adeguata rilevanza alle problematiche scaturite dalla diversità religiosa, che molto spesso, costituisce la variabile identitaria avvertita come assolutamente irrinunciabile in quanto intimamente radicate nella coscienza individuale e collettiva dei migranti. In tal senso anche Fidel Castro sosteneva che: “il socialismo aveva commesso un errore nel sottovalutare la forza del nazionalismo e della religione”. In vero, si tratta del medesimo errore commesso da molte moderne ideologie, a volte mutuate ed applicate da alcune politiche statuali. Così l’indifferenza laica (nel senso di laicità alla francese, cioè con pregiudizi a priori verso la religione) di alcune politiche di Stati europei verso le religioni ha finito per diventare anche una indifferenza giuridico-politica verso identità etniche, che nelle religioni trovano uno dei tratti rilevanti per intraprendere battaglie a difesa della propria differenza.
Talora, poi, si è imboccata la strada sbagliata per affrontare il problema: si pensi al multiculturalismo che ha favorito la tendenza alla mancata integrazione di molti immigrati, con ricadute negative sulla coesione sociale, o ancora peggio, alla scelta di rinunciare a manifestare pubblicamente il sentimento religioso della grande maggioranza della popolazione per paura di urtare la sensibilità di coloro che, venuti da fuori, professano altre religioni, con la conseguenza di coltivare l’errata attitudine a comprimere i diritti di religione e di coscienza di una consistente parte della popolazione, omettendo di ragionare che la propria identità è tale in quanto è ontologicamente diversa da altre identità e può esistere solo risaltando e distinguendosi, altrimenti scompare. La soluzione non è quella di sopprimere il pluralismo, e neppure le tensioni che inevitabilmente nascono quando delle differenze si incontrano, bensì quello di coltivare la cultura della tolleranza: in una società c’è inevitabilmente una cultura dominante che non deve soffocare altre credenze o culture, l’importante è che tra i gruppi, a volte contrapposti, vi sia tolleranza. In definitiva, la diversità esaltata dal multiculturalismo, moderato dalla interculturalità, è un dato di fatto se non lo riduciamo a un cammino di politica relativa ai migranti.
Malauguratamente però, le legittime differenze sono state utilizzate per dominare o per discriminare, e quindi non sempre vengono giustamente valorizzate. Occorre dunque concepire la giusta diversità come un valore, sviluppando una visione plurale della realtà. Perché, come detto, Europa deve significare unità nella differenza e capacità di dialogo tra popoli che, per lingue, etnie, tradizioni, appartengono a identità diverse, ma che pure si saldano a principi-valori condivisi, cristiani o ex-cristiani, borghesi, illuministici che fanno da plafond a questa coscienza comune. Valori di razionalità e di efficienza, valori legati all’individuo e alla libertà tout court nonché valori di solidarietà e di rispetto dei diritti umani. Valori, questi, che devono instillarsi, consolidarsi e maturare nella coscienza comune europea, vero traguardo della complessa e travagliata storia dell’Europa stessa, consapevoli che l´uomo di oggi è il frutto di quello che è stato ieri e stringe la mano all´uomo del domani, in una catena esponenziale senza soluzioni di continuità.
[1]Ricordiamoci che lo Stato francese ha realizzato la famosa legge di separazione, la legge del 9 dicembre 1905, in un clima conflittuale, stabilendo delle condizioni inaccettabili per la Chiesa cattolica.