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Pubbl. Sab, 14 Lug 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

La colaboraçâo premiada nel sistema processuale penale brasiliano

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Luigi Esposito


La collaborazione premiale in Brasile dopo la legge n. 12850 del 2013.


Sommario: Premessa; 1. La repressione della criminalità organizzata in Brasile; 2. La collaborazione premiale; 3. Il ruolo del giudice e l’omologazione dell’accordo; 4. Il momento post-omologazione dell’accordo; 5. Collaborazione e diritto al silenzio; 6. Natura giuridica della collaborazione; 7. “Colaboração premiada” o “delação premiada”?; 8. Conclusioni.

Premessa.

Una tematica che più di ogni altra ha acceso il dibattito sulla giustizia in molti Paesi del mondo è sicuramente la normativa sui “collaboratori di giustizia”. Al riguardo, la legislazione italiana è una delle più significative e viene vista con particolare interesse dagli operatori giuridici degli altri Stati, non solo con riferimento ai tragici fatti storicamente accaduti, ma anche perché, purtroppo, in misura prettamente convenzionale, viene associata alle organizzazioni di stampo mafioso come strumento necessario da utilizzare al fine di tentare di debellarle dal loro interno.

In Brasile –  Paese che, alla settima Costituzione della sua storia, ha sposato tutti i fondamentali principi costituzionali e democratici dei Paesi giuridicamente più evoluti – si è osservata una spinta verso l’istituto premiale sin dal 1995, quando fu adottata una prima legge sulla criminalità organizzata (legge n. 9034/95), in cui si stabiliva che, nei reati commessi da organizzazioni o bande, la pena era ridotta da uno a due terzi, quando, grazie alla collaborazione spontanea di un soggetto agente che avesse operato in concorso, si portava alle autorità la denuncia del reato commesso e la sua paternità. Una legge promossa perché la criminalità organizzata andava imperversando e, in risposta a questa situazione, si pensò di definirne i confini. Tale primo tentativo, però, non fu dei migliori, in quanto molte furono le critiche sui suoi contenuti, poiché, per alcuni autori[1], la legge non aveva definito il concetto di “organizzazione criminale”: non vi era, infatti, nessuna previsione di collaborazione - premialità nel codice penale brasiliano alla sua entrata in vigore (avvenuta nel 1941), né tantomeno una precisa definizione di cosa si potesse intendere per “organizzazione criminale”. Si è dovuta attendere la Convenzione di Palermo del 2000, ratificata anche dal Brasile, le cui determinazioni chiarirono – e tuttora chiariscono – all’intero universo giuridico la situazione di estrema necessità volta alla ricerca di uno strumento efficace nella lotta alla criminalità organizzata, ma, soprattutto, si è dovuto riconoscere il merito di concentrarsi su una criminalità che non è più regionale, controllabile per certi versi attraverso le misure sociali e la politica criminale, su un determinato spazio in una singola regione del pianeta, ma “transnazionale” e attiva, quindi, nel campo internazionale. All’art. 2 della Convenzione, infatti, si stabilisce che «ai fini della presente Convenzione, per “gruppo criminale organizzato” s’intende un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla presente Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale». Anche questa definizione, salvo il miglior giudizio, non soddisfa la nozione di certezza quanto all’azione dell’organizzazione criminosa, considerando che, in una maniera diretta, si può affermare che il reato di formazione di gruppo o banda (previsto in Brasile a quel tempo), se percepito in alcune situazioni di ottenimento di beneficio economico, si adatta ai parametri di quello che la Convenzione ha trattato come un “gruppo criminoso organizzato”. Ma, per quanto il Trattato spieghi il concetto, si tratta solo di aiuto interpretativo, in quanto tale definizione non osserva i requisiti di complessità peculiare per differenziare, ad esempio, l’organizzazione criminosa da “gruppo o banda”.

1. La repressione della criminalità organizzata in Brasile.

Nella dottrina brasiliana, il concetto ha ricevuto severe critiche, principalmente in ragione dell’apertura semantica dell’espressione “criminalità organizzata”, che abbraccerebbe innumerevoli situazioni che, se verificate con totale cautela, non farebbero parte di un ambito d’imputazione penale[2]. In questo modo, anche se si è ottenuto un concetto prima assente nella norma speciale brasiliana, attraverso l’inserimento del “gruppo criminoso organizzato”, gli operatori del diritto devono fare attenzione nell’utilizzo ampio del concetto, per evitare la banalizzazione nell’applicazione delle misure processuali e repressive delle legislazioni di lotta al crimine organizzato, nella misura in cui, a volte, l’associazione tra agenti denota una specie di reato più blando, come quello della formazione di gruppo, ad esempio, descritta nell’art. 288 del codice penale brasiliano, la cui pena è da 1 a 3 anni di reclusione, non avendosi possibilità di un’imputazione più severa: quando s’implementa solo un concetto elaborato nell’ambito internazionale, come nel caso della Convenzione di Palermo, senza tracciare i limiti che il contesto sociale del paese esige, il pericolo è quello dell’imputazione eccessiva per casi semplici, rendendo l’emergenza sulla ricerca di un concetto una forma di arbitrio[3].

In tale contesto – e dopo un lungo periodo che può essere definito “un limbo”, in quanto mancava un’adeguata regolamentazione legale – la “collaborazione premiale”, termine scelto dal legislatore, è stata meglio attuata attraverso la legge n. 12850/2013, in particolare negli articoli da 4 a 7.

Con tale legge è stata colmata una lacuna persistente nell’ordinamento giuridico brasiliano: è stata inserita, già dal primo articolo, una definizione precisa di organizzazione criminale, considerata come l’associazione di quattro o più persone strutturalmente ordinate e caratterizzate dalla divisione di compiti, anche se in modo informale, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio di qualsiasi natura, attraverso la realizzazione di reati sanzionati con pena massima superiore a quattro anni, o che siano di natura transnazionale. Questa legge si applica anche ai reati previsti da un Trattato o una Convenzione internazionale quando, iniziata l’esecuzione del reato nel Paese, il risultato si è verificato, o si sarebbe dovuto verificare, all’estero o viceversa; si applica, altresì, alle organizzazioni terroristiche internazionali, riconosciute in conformità alle regole del diritto internazionale, di cui il Brasile è parte, i cui atti di sostegno al terrorismo, nonché gli atti preparatori o di esecuzione di atti terroristici, si verificano o possono verificarsi in territorio nazionale. Per configurare il reato, gli agenti devono tenere la condotta di cui all’art. 2, ossia promuovere, costituire, finanziare o integrare, personalmente o per interposta persona, una organizzazione criminale: la pena è della reclusione da 3 a 8 anni e ad una multa, fatte salve le pene relative ad altri reati commessi. Nelle stesse sanzioni incorre chiunque impedisca o, in qualsiasi modo, ostacoli le indagini che coinvolgono un’organizzazione criminale. Inoltre, vi sono delle aggravanti: la pena è aumentata della metà se l’organizzazione criminale utilizza armi da fuoco; è aumentata inoltre per coloro che sono a capo dell’organizzazione criminale, anche se non commettono personalmente atti di esecuzione; è aumentata se vi è partecipazione di bambini o adolescenti; è altresì aumentata se i proventi o i benefici del reato sono destinati, in tutto o in parte, all’estero o se l’organizzazione criminale mantiene una connessione con altre organizzazioni criminali indipendenti. Si evidenziano, come alcuni autori hanno fatto[4], le differenze tra l’organizzazione criminale contenuta nella legge n. 12850/13 e il reato di “associazione per delinquere”, prevista all’articolo 288 del codice penale brasiliano. In primis, con la legge 12850/13 si è sostituito, all’articolo 288 del codice penale, il termine “banda” con “associazione criminale”; inoltre, si aggiunge che, per il reato di associazione per delinquere di cui all’articolo 288 del codice penale, si richiede la presenza di tre o più persone, mentre per “criminalità organizzata”, di cui alla legge 12850/13, si richiede un minimo di quattro persone. Ancora, da un lato, l’articolo 288 del codice penale sulla associazione per delinquere è caratterizzato dalla condotta tipica che consiste nella associazione di almeno tre persone con lo scopo di commettere reati, mentre la legge del crimine organizzato dall’altro, richiede:
a) la formazione di gruppo di almeno quattro persone;
b) che venga commesso, da questo gruppo, un reato la cui pena massima è superiore a quattro anni;
c) la prova dell’esistenza di un’organizzazione strutturale del gruppo;
d) la prova dell’esistenza della divisione dei compiti tra i membri del gruppo;
e) lo scopo dell’organizzazione di ottenere qualsiasi vantaggio, distinto da quello inerente al crimine stesso praticato dal gruppo.

Non rispettando nessuno dei requisiti evidenziati, la questione deve essere analizzata sotto il prisma dell’articolo 288 del codice penale.

2. La collaborazione premiale.

Alla collaborazione premiale è dedicata un’apposita sezione (come già anticipato, agli articoli da 4 a 7), in cui si evince che il giudice può, su richiesta delle parti, concedere il perdono giudiziale, ridurre di due terzi la pena detentiva o sostituirla con una misura interdittiva, a coloro che hanno collaborato efficacemente e volontariamente con le indagini e con il procedimento penale, a condizione che, dalla collaborazione si pervenga ad uno o più dei seguenti risultati:

1) l’identificazione degli altri coautori e partecipanti all’organizzazione criminale e dei reati da loro commessi;
2) la rivelazione della struttura gerarchica e la divisione dei compiti dell’organizzazione criminale;
3) si prevenga uno o più reati riferibili alle attività dell’organizzazione criminale;
4) si ottenga il recupero totale o parziale dei proventi dei reati commessi dall’organizzazione criminale;
5) si riesca a localizzare una eventuale vittima e a preservare la sua integrità fisica.

In particolare, relativamente ai benefici che la collaborazione con l’autorità giudiziaria può portare, il perdono giudiziale non trova spazio nel contesto italiano[5].

In ogni caso, per la concessione del beneficio, si deve tenere conto della personalità del collaborante, della natura, delle circostanze, della gravità e della ripercussione sociale del reato e dell’efficacia della collaborazione. Considerando l’importanza della collaborazione fornita, in qualsiasi momento, il pubblico ministero – e il capo della polizia che ha condotto le indagini, previa autorizzazione pubblico ministero – possono richiedere al giudice la concessione del perdono giudiziale. Inoltre, se la collaborazione è successiva alla sentenza, la pena può essere ridotta della metà o la progressione del regime ammessa anche se i requisiti oggettivi non sono soddisfatti.

3. Il ruolo del giudice e l’omologazione dell’accordo.

Una volta raggiunto l’accordo, il documento che lo formalizza, accompagnato dalle dichiarazioni del collaboratore, nonché i documenti che possono essere presentati da quest’ultimo, devono essere sottoposti all’approvazione dell’autorità giudiziaria competente. Importante è sottolineare come, “l’accordo”, ai sensi dell’articolo 4 paragrafo 6, avvenga senza la partecipazione del giudice: egli, infatti, non parteciperà alle trattative tra le parti per la formalizzazione dell’accordo di collaborazione, che dovrà avvenire tra il delegato della polizia, l’indagato e il difensore, con la autorizzazione del pubblico ministero o, se del caso, tra il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore. Il giudice svolge comunque un ruolo importante circa l’omologazione di tale accordo, poiché, una volta raggiunto, in conformità con il paragrafo 7 e nel termine corrispondente, deve essere accompagnato dalle dichiarazioni del collaboratore e da una copia dell’indagine. A tal fine, il collaboratore può essere ascoltato anche segretamente dal giudice, in una udienza che deve essere riservata e, si comprende, deve essere eseguita dal magistrato nel luogo in cui il collaboratore è in custodia, nel caso, al fine di garantirne la riservatezza, e comunque in ogni caso, assicurando la presenza del difensore.

L’omologazione dell’accordo, per poter essere concessa, deve basarsi su un triplice controllo da parte del giudice: egli infatti, dovrà verificare se siano state adempiute tutte le prescrizioni previste dalla legge, come ad esempio la partecipazione del difensore e la forma scritta; verificare altresì i requisiti estrinseci dell’accordo, nel senso che quest’ultimo non deve contraddire l’ordinamento giuridico per mezzo di clausole illegittime o addirittura contenere misure contrarie al sistema giuridico; ed infine verificare la libera scelta del collaboratore di aderire all’istituto; il tutto si traduce dunque, in un controllo circa la regolarità, la legalità, e la volontarietà dell’accordo.

L’omologazione è il primo atto del giudice nel processo di collaborazione, attraverso il quale diventa consapevole dell’accordo e dei suoi termini. Sul corso, il giudice non partecipa alla negoziazione, che avrà luogo solo tra le parti interessate, il che, dovrebbe garantire l’imparzialità necessaria ai fini della valutazione della sua solidità, in vista dell’approvazione.

4. Il momento post-omologazione dell’accordo.

Se il procedimento di omologazione attiene principalmente all’analisi delle “formalità” dell’accordo, che si rinvengono come si è detto, nella regolarità, nella legalità, e nella volontarietà dello stesso, è al paragrafo 11 della legge 12850/13 che si deve far riferimento per stabilire il momento in cui la collaborazione, o meglio, l’accordo di collaborazione, diverrà effettivo: e cioè quando, attraverso la sentenza, l’autorità giudiziaria ne valuterà i termini e la sua efficacia sostanziale. E’ quindi il momento più importante della collaborazione, in cui il giudice valuterà l’essenza dell’accordo ed i suoi obiettivi, fissando quindi i benefici di cui il collaboratore potrà godere, in conformità con le disposizioni di legge; vale a dire: il perdono giudiziale, la riduzione fino a due terzi della pena, o la sostituzione di quest’ultima con una pena interdittiva limitativa di diritti. Ad ogni modo, al paragrafo 12 si evidenzia che anche nel caso in cui il collaboratore beneficiasse del perdono giudiziale, potrà comunque essere ascoltato in aula, o su richiesta delle parti, ovvero su iniziativa dell’autorità giudiziaria. Essenziale, e abbastanza problematica, è invece la questione legata al contenuto del paragrafo 14 di cui all’articolo 4, in cui si evince che nel prestare la “dichiarazione”, il collaboratore rinuncerà, in presenza del suo difensore, al diritto al silenzio, e sarà soggetto all’impegno legale di dire la verità. Dalla lettura del precetto legale, sembrerebbe possibile cogliere una certa incostituzionalità, come sottolineata da una parte dalla rispettabile dottrina brasiliana[6]. Questo perché, ciò che è chiaro in prima analisi, è il fatto che una legislazione che annovera fra le sue fonti la Costituzione come contenitore di valori, principi e diritti fondamentali, prevede allo stesso tempo un’ipotesi di rinuncia, di quegli stessi diritti fondamentali, inconcepibile in un contesto giuridico del genere. Nel sistema brasiliano si è constatato, infatti, che il “diritto al silenzio” è espressamente previsto dall’art. 5, LXIII della Costituzione brasiliana (la persona arrestata è informata dei suoi diritti, tra cui il diritto di rimanere in silenzio […]), e dalla Convenzione Americana sui Diritti Umani, all’art. 8.2, lett. g.

5. Collaborazione e diritto al silenzio.

A questo punto, bisogna fare delle considerazioni. Sebbene alcuni autori enfatizzino l’indifferenza tra “obbligo” e, “condizionamento”, vero è, che esiste una differenza abissale tra le due posizioni. L’obbligo è violenza in sé e per sé. È precisamente la condotta che è pericolosa, immorale e incompatibile con lo Stato democratico di diritto, inconcepibile in una società che ha raggiunto un grado ragionevole di civiltà giuridica. Se esistesse una legge che prevedesse l’obbligo di collaborare dell’imputato, non ci sarebbe spazio per la discussione: l’incostituzionalità salterebbe agli occhi. D’altra parte il condizionamento, che può portare al mancato esercizio del diritto al silenzio in virtù del godimento dei benefici, in cui v’è libertà assoluta del soggetto di misurare la convenienza della collaborazione con la giustizia, è abbastanza lontano dalla situazione precedente riferita. Inoltre, la procedura della collaborazione premiale si dota di meccanismi per garantire “la volontarietà” dell’agente, che è requisito necessario che deve essere espressamente esistente nella preparazione dell’accordo di cui all’articolo 4. Inoltre ancora, la presenza obbligatoria del difensore rimuove il possibile difetto di discernimento dell’accusato, il quale potrà contare sulla esperienza professionale e la conoscenza delle circostanze e dei benefici a cui può andare incontro, per misurare la tempestività e l’adeguatezza della conclusione dell’accordo. In realtà sarebbe ammesso il non esercizio dei diritti fondamentali, ma non è dato alla legge, raccomandare la rinuncia a uno di questi diritti. L’obiettivo, chiaramente, è stabilire che l’imputato, per collaborare, deve rinunciare a rimanere in silenzio. In realtà, sarebbe un dispositivo non necessario, dal momento che la collaborazione presuppone di per sé, un atteggiamento “positivo” dell’imputato.

Occorre ricordare però, che nei casi in cui venisse stabilita la non veridicità delle dichiarazioni del collaboratore, si ricade nel reato di cui all’art. 19 della legge n. 12.850/13 ossia, quando, nello status di collaboratore di giustizia si imputa un reato ad una persona che sia innocente, o si rivelino false informazioni sulla struttura criminale, la pena è della reclusione da uno a quattro anni e la multa.

6. Natura giuridica della collaborazione.

La natura giuridica della collaborazione è controversa in dottrina. Da un lato, vi sono coloro che indicano la sua duplice natura di confessione, da un lato, con riguardo a chi “riferisce”; e prova testimoniale nei confronti di coloro i quali sono stati indicati[7]. Ma un tale punto di vista è criticabile[8] in quanto il collaboratore non può essere considerato tecnicamente come testimone[9], perché è interessato al corso del procedimento[10]. Il paragrafo 16 della legge 12850/13 fornisce elementi imprescindibili sulla “qualità” della collaborazione, rispetto a “cosa” essa possa considerarsi: e cioè, un mezzo, una tecnica investigativa per ottenere prove; sulla base di questo assunto, si evince che: “nessuna condanna deve essere pronunciata solo sulla base delle dichiarazioni del collaboratore”. Tra le disposizioni finali della legge, si notano infine due enunciati che richiamano implicitamente due principi fondamentali; in uno, si sottolinea che l’indagine penale dovrebbe essere chiusa entro un “termine ragionevole”, che non può superare i centoventi giorni, estendibile per un periodo equivalente, previa decisione motivata, dalla complessità del caso. Nell’altro, si evidenzia che la riservatezza dell’indagine può essere decretata dall’autorità giudiziaria competente, al fine di garantire l’opportunità e l’efficacia dei procedimenti investigativi, assicurando che il difensore, nell’interesse del convenuto, abbia ampio accesso alle prove che riguardano l’esercizio di diritto di difesa, debitamente preceduto dall’autorizzazione giudiziaria.

7. “Colaboração premiada” o “delação premiada”?

L’avvento della legge 12850/13 è stato di notevole importanza in Brasile anche con riguardo alla scelta dell’utilizzo terminologico riferibile alla collaborazione premiale, in quanto vi era discordanza tra “delação premiada” e, “colaboração premiada”, termine quest’ultimo preferito dal legislatore, il quale ha operato una scelta precisa, enucleando il concetto di “collaborazione premiale” (colaboração premiada). I termini spesso sono stati confusi come sinonimi, soprattutto dai mass media e da alcuni autori, per i quali, la collaborazione o la “delazione” consistono nell’accordo tra l’indagato o l’imputato e l’autorità di polizia o il rappresentante del pubblico ministero”, il cui scopo è quello di ottenere informazioni sul reato commesso e sull’organizzazione criminale, ricostruendo i fatti praticati, in cambio di favori legali al collaboratore o all’informatore; tuttavia, sarebbe opportuno distinguere tra i significati di delação e colaboração premiada, anche se ontologicamente è possibile risalire ad un solo significato: la previsione di un “premio” concesso a qualcuno dallo Stato in modo che, rompendo il silenzio, renda informazioni utili nel perseguimento penale di gruppi criminali organizzati. Il termine “delação” è riferibile al concetto di accusare, attribuire, assegnare ad altri certi tipi di condotte illecite, nelle quali c’è stata partecipazione; “delação è tradire[11]” (che non è una virtù), ma in termini investigativi può essere utile, specialmente in paesi con un alto livello di corruzione, come nel caso del Brasile.

Prima della legge n. 12850/2013, la Procura della Repubblica e la giustizia federale avevano già lavorato con la raccolta di “dichiarazioni” che hanno notevolmente aiutato nella ricerca di prove, attraverso lo strumento della delazione, che non era ancora conosciuta come “collaborazione premiale”, né tantomeno era disciplinata come oggi; con la nuova legge, e con l’uso del termine “collaborazione”, si è rivisitato l’istituto, la cui l’applicazione conduce certamente alla lotta contro la criminalità e, di conseguenza, ad una forma di garanzia della società; ma, rispetto al periodo antecedente la nuova disciplina, ci si ritrova di fronte un quadro giuridico più ampio, diversamente dalla “disciplina” della delazione, che è stata introdotta nel sistema brasiliano con norme “sparse” e senza precisa regolamentazione. In un modo molto semplificato, possiamo definire quindi, la collaborazione premiale, come la possibilità prevista dalla legge per premiare l’autore o il partecipante di un reato che decide di collaborare volontariamente e in modo efficace al fine di consentire di indagare sui fatti, consentendo il raggiungimento di uno o più risultati previsti dalla legge. Da questo punto di vista, occorre sottolineare come la collaborazione possa avvenire anche senza l’indicazione di altri partecipanti, (a differenza della delazione), ad esempio indicando e consentendo di recuperare, in tutto o in parte, i proventi dei reati. Si può sostenere quindi, che non si debba confondere la delazione con la collaborazione premiale, in quanto quest’ultima è più completa, e può essere intesa come un contenitore della prima, in cui il collaboratore può riconoscere la sua colpevolezza, ma non per forza incriminare, e quindi accusare, altre persone. In conclusione, si potrebbe sostenere quindi, come fanno già alcuni autori, che la collaborazione sia un genus, che a sua volta è suddiviso in alcune species, che sono giustificate in base al risultato desiderato e raggiunto, essendo questi risultati, basati:
a) sulla delazione premiale
b) sulle rivelazioni circa il funzionamento dell’organizzazione;
c) sulla collaborazione preventiva con riferimento a nuovi reati;
d) sulla collaborazione per la localizzazione e recupero dei proventi dei reati;
e) sulla collaborazione per il rilascio di persone.

8. Conclusioni.

L’attuale scenario del campo legale-penale brasiliano aderisce alla temerarietà del “trionfo dell’accordo[12]" insito nell’ampio panorama del contesto internazionale. Nei vari sistemi criminali occidentali c’è l’introduzione e l’espansione degli spazi di consenso, consentendo la realizzazione anticipata del potere punitivo dello Stato. Tale trionfo, è persino spinto da trattati e accordi internazionali, che incoraggiano tale tendenza con il pretesto di combattere alcuni tipi di reato. E allora ci si potrebbe chiedere quali siano, a questo punto, le conseguenze dell'espansione di questi spazi di consenso rispetto alle premesse del processo penale, o, allo stesso tempo, ci si potrebbe chiedere se gli accordi realizzati tra l'accusa e la difesa per l’imposizione della sanzione penale basata sul riconoscimento della colpevolezza, in “cambio” di benefici, possano essere considerati “opzioni legittime” per la giustizia penale in uno Stato democratico di diritto. A questo, si potrebbe obiettare la possibilità che, il raggiungimento degli “accordi” in materia penale, che facilitano la “pretesa punitiva” (a partire dall’adesione dell’imputato alle accuse, in modo da “rimuovere” la sua posizione di resistenza), potrebbe comportare danni innumerevoli e inevitabili alla strutturazione del procedimento penale in uno Stato democratico di cui è essenziale la limitazione del potere punitivo. Lo svuotamento del peso probatorio imposto all’accusa, che cessa di essere responsabile per la produzione di prove per giustificare la sua tesi, rompe con la logica del processo accusatorio, imponendo agli imputati il peso della condanna stessa (“…è il “paradigma” della giustizia proclamata da un terzo imparziale e garante dei diritti in gioco dei più deboli, ma a spese esattamente dei più deboli”[13]). La sopravvalutazione dei meccanismi negoziali come la collaborazione premiale, sotto la giustificazione di accelerare il sistema di giustizia penale, nasconde la necessità di un’indagine critica sulla espansione del concetto di “controllo sociale” per il tramite del diritto penale. In questo contesto, non bisogna tralasciare la considerazione che, questo meccanismo basato sull’accordo tra le parti, “poste” su un piano di parità, potrebbe rivelarsi fallace e pericoloso, poiché, l'uguaglianza tra di esse è solo illusoria; si consideri, oltre alla disparità insita nei procedimenti penali, che in un sistema di “negoziazione” vi potrebbe essere un'indebita invadenza delle funzioni decisionali del procuratore, il quale, esercita i suoi poteri attraverso una possibile coercizione dell'imputato tramite minacce di sanzioni più gravi in caso di rifiuto dell'accordo. Sul concetto di “espansione degli spazi di consenso”, è importante affermare che la negoziazione e i suoi meccanismi possono implicare violazioni delle premesse democratiche che impongono il rispetto dei principi che governano il “giusto processo” come prerequisito per la sanzione penale, dal momento che tali violazioni rendono difficile esercitare il diritto di difesa, e distorcono i ruoli dei “protagonisti” nel campo giuridico - penale, aumentando esponenzialmente la possibilità di condannare persone innocenti, sminuendo i principi della presunzione di innocenza e del contraddittorio. Come espressione di giustizia negoziale, costituirebbe un prezioso ausilio se visto dal contesto sociale, che è permeato da discorsi costanti che richiedono rapidità ed efficienza nei procedimenti penali, o “miglioramento dell’operabilità del sistema giudiziario punitivo”. Innegabilmente, tale istituto è caratterizzato da una tendenza marcata nello scenario legale internazionale, essendo implementato in molte giurisdizioni e persino raccomandato da organizzazioni internazionali.

Ma la “negoziazione” in tal senso, da un lato verrebbe socialmente avvertita e percepita come “utilitaristica” e “pratica”, capace di rendere “giustizia” anche in tempi rapidi alimentando la pretesa punitiva dello Stato e il “senso” di giustizia da parte dei cittadini; mentre, dall’altro, non considera che il diritto al processo e il giudizio, sono elementi inerenti allo Stato democratico di diritto, e la condanna di un imputato può essere pronunciata solo dopo che l’intero procedimento sia stato espletato, con il rispetto delle disposizioni imposte dal giusto processo regolato dalla legge e con l’esaurimento della pretesa accusatoria debitamente comprovata mediante elementi probatori legalmente prodotti e, con la garanzia del contraddittorio. Solo così, si può superare il principio della presunzione di innocenza, e solo così il processo si può ergere a strumento indispensabile per la limitazione del potere punitivo dello Stato, costituendo altresì, uno strumento per la protezione dei diritti fondamentali dell'imputato. D’altronde, l'imposizione di una sanzione da parte dello Stato dipende inestricabilmente dal processo (nulla poena sine iudicio). Si tratta di un contributo complesso che nel sistema brasiliano incontra notevoli ostacoli, e che mette in discussione la costituzionalità dell’istituto nella sua concreta applicabilità, figlia di accordi, negoziazioni, tra difensori e procuratori, che potrebbe alimentare un “business” burocratico che avrebbe una sola vittima: la giustizia in generale.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] S.A. Franco, Crimes hediondos. 5. ed., 2005, São Paulo.

[2] L. Feldens, Organizações criminosas como critério determinante de competência jurisdicional: problemas à vista, 2007. […] In questo contesto, e già allo scopo di produrre un possibile senso per l’espressione analizzata, un’ipotesi deve essere immediatamente contestata. Precisamente quella che induca sinonimia tra i reati di gruppo o banda (art. 288 do CP) o di associazione per il traffico di stupefacenti (art. 35 Lei nº 11.343/2006) e il concetto stabilito dalla Convenzione di Palermo. Non esiste, in questo caso, relazione di giustapposizione. Non fosse che per il fatto che, se esistesse, sarebbe inutile all’incorporazione del documento internazionale al Diritto interno. Inoltre, se a prima vista saremmo autorizzati a cogitare che ogni organizzazione criminosa costituisce, in tesi, un gruppo o una banda, il fatto è che non ogni banda o gruppo configura di per sé, una organizzazione criminosa».

[3] Su questo punto, v. M. Pavarini. Per aprire un dibattito su criminalità organizzata e legislazione di emergenza, in Dei Delitti e delle Pene, fasc. 3, 1992, Torino.

[4] L.F. Gomes, Magister Magazine of Criminal Law e Criminal Procedure nº 55, Aug-Sep/2013

[5] Tale istituto è previsto solamente per i minori, all’articolo 169 del codice penale, in cui si afferma che se, per il reato commesso dal minore degli anni diciotto, la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a cinque euro, anche se congiunta a detta pena, il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio, quando, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 133, presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.

[6] F. Ribeiro, A história da máfia e do crime organizado, São Paulo, 29 mar. 2012.

[7] A. P. Grinovier; A. S. Fernandes; A. M. Gomes Filho, As nulidades no processo penal, 7° ed., São Paulo, 2001.

[8] «Da un punto di vista tecnico, non è corretto estendere il trattamento giuridico della testimonianza, confessione o qualsiasi altro mezzo di prova senza la preventiva cautela. Questo perché il soggetto non è un testimone, qualificato come parte terza, aliena all’oggetto del processo, ma piuttosto, è prima soggetto che ha una relazione diretta con i fatti imputati, quindi, con interesse non solo come soggetto processuale, ma anche per l’aspettativa del premio. Dichiarazioni sfavorevoli nei confronti di terzi non possono essere collocate nel nucleo di pertinenza della confessione di genere; la natura legale è diversa, con imputazione diretta dei fatti a terzi». Così P.F. Valdez, Delação premiada, cit., p. 160, 2014.

[9] G.H. Badarò, Processo penal. 2. ed., Rio de Janeiro, 2014.

[10] In questo senso, Frederico Pereira afferma che le dichiarazioni accusatorie del coimputato pentito non possono «conferire razionalmente gli attributi di certezza e sicurezza, poiché l’informazione del collaboratore proviene da una persona interessata al processo», impedendo così una condanna basata esclusivamente su tali contributi. In questi termini F. Pereira, Delação premiada, cit., p. 157.

[11] L.F. Gomes, Giustizia collaborativa e delazione premiale, 2014.

[12] V.Vasconcellos, Colaboração premiada no processo penal, 2017.

[13] A. M. Rodrigues, A celeridade no processo penal, cit., p. 241