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Pubbl. Gio, 28 Giu 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Il prototipo delle libertà moderne: la libertà religiosa

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Francesco Del Gaudio


Porre “la persona” al centro di ogni intervento normativo, al fine di garantire l’efficace sviluppo delle politiche di integrazione.


Sommario: 1. Premessa - 2. La libertà di religione: breve excursus storico – 3. La libertà religiosa: profili generali, dalla dimensione negativa alla qualificazione positiva - 4. L’art. 19 Costituzione: contenuto e limiti, la connessione tra l'art. 19 e l'art. 21 Cost. - 5. La religione come fattore di integrazione sociale. La Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione - 7. Conclusioni.

1. Premessa

È impossibile definire «come propriamente giuridica l’essenza della libertà religiosa»[1], dovendosi ritenere, che la libertà religiosa «si presenta sempre, anzitutto ed essenzialmente, non come un istituto ontologicamente giuridico, ma propriamente come un valore»[2]: un valore religioso, indubbiamente, filosofico, etico e al contempo politico che «si riconnette, geneticamente e strutturalmente, alla concezione dell’uomo e della società che ha accompagnato»[3]; un valore che «non è di per se stesso né assoluto, né universale, ma si rivela essenzialmente come valore storico, relativo ad una cultura data, analizzabile e intelligibile unicamente nella sua connessione col sistema di valori proprio di ogni cultura»[4]. Sin dai tempi più antichi, infatti, è stato affermato con forza il «diritto intangibile della coscienza individuale alla dulcissima libertas […] di professare quella fede, in cui effettivamente si creda e che spontaneamente si sia eletta al di fuori di ogni ingerenza e pressione della autorità e senza incontrare alcuna coartazione o repressione da parte dello Stato»[5]. Nessuna Costituzione, benché tuteli più o meno apertamente il diritto di libertà religiosa, non fornisce o ha mai fornito una nozione giuridica di “religione”, e ciò in ragione dell’aspetto estremamente complesso del fattore religioso, qualcosa di talmente intrinseco, profondo e personale che difficilmente può essere sindacato e racchiuso in rigidi e generici schemi dogmatici[6]. La libertà religiosa, allora, è quella sottilissima linea che sta in mezzo e che si propone di tutelare, non il bene della fede in sé, che in quanto tale è personalissima e legata ai propri convincimenti verso il trascendente, bensì il diritto del singolo o dei gruppi di assumere gli orientamenti che ritengano più consoni ai propri convincimenti, in relazione alla manifestazione esterna di quella personalissima fede religiosa. 

2. La libertà di religione: breve excursus storico

 La libertà religiosa, «è stata la prima ad essere rivendicata in forme prossime a ciò che intendiamo oggi per libertà tout court ed ha costituito, in vari sensi, il prototipo delle libertà moderne»[7], concorre, insieme ad altri fattori, al “pieno sviluppo della persona umana”[8] e al “progresso materiale o spirituale della società. Basterebbe questa premessa, a rendere manifesto il carattere necessario, ed insieme complesso del fattore religioso la cui storia va di pari passo con la storia stessa dell’uomo. È verosimilmente a causa di questo suo aspetto profondamente antropologico, che la libertà religiosa è stata definita come la prima libertà affermatasi nello stato moderno. La libertà religiosa è la «facoltà spettante all’individuo di credere quello che più gli piace, o di non credere, se più gli piace, a nulla»[9], secondo una celebre definizione del primo e più importante studioso sul tema, Francesco Ruffini. Prendendo le mosse da questa, seppur remota, definizione è possibile delineare un quadro storico della libertà in esame per giungere, in seguito, al contesto delle fonti che la regolano dettagliatamente. La storia della libertà di religione, infatti, è remota e tormentata; già nell’anno 212, lo scrittore Tertulliano, seppur restio al riconoscimento di una vera e propria libertà di religione, sosteneva che «è un diritto umano ed una esigenza naturale che ciascuno veneri la divinità di cui è convinto; le convinzioni religiose di uno non portano ad altri né danni né vantaggi. Inoltre la religione esige di per sé il rifiuto di ogni coazione […] dovendo essere accettata con spontaneità e non per violenza»[10]. Riveste significativa importanza il periodo storico che va dallo stato liberale all’attuale assetto costituzionale con riguardo ai diritti di libertà, quindi, invero solo in tale lasso temporale le prime costituzioni liberali, cominciarono a plasmare il principio di neutralità dello Stato nei confronti delle varie confessioni religiose, soppiantando il vecchio principio “Cuius regio, eius et religio”[11], in ragione del quale tutti i sudditi erano tenuti a professare rispettivamente la religione del re, del principe o dell’imperatore, cui erano sottomessi. Lo stesso Statuto Albertino, nonostante all’art. 1 recitasse che «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi», si apriva successivamente ad un’impronta liberale e di forte laicizzazione del proprio ordinamento giuridico: basti pensare, ad esempio, che la Legge Sineo del 19.6.1848, laddove in un unico articolo, disponeva che «la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari». Il fenomeno religioso veniva comunque concepito come una questione individuale, come mera sfera di autonomia del singolo nei confronti dello Stato, la libertà della persona umana, in quanto singolo individuo rappresentava, quindi, il valore centrale oggetto di tutela dell’ordinamento, mentre notevolmente inferiore era l’interesse e la tutela delle libertà dei gruppi sociali nei quali il singolo era inserito. La tolleranza verso le minoranze religiose, i loro ministri e i loro fedeli, pertanto, era decisamente molto limitata anche per la persistenza in vigore delle norme del Codice penale Albertino che aspiravano a proteggere, in maniera molto severa, la religione cattolica da ogni possibile offesa o attacco. Veniva, quindi, disconosciuto uno dei profili più importanti della libertà religiosa: quello collettivo-istituzionale. Con l’avvento del fascismo, la situazione peggiora perché viene limitata ogni estrinsecazione di libertà in virtù della superiorità dello Stato nei confronti degli individui e dei corpi sociali (soprattutto dei gruppi acattolici e protestanti). L’ascesa del fascismo segna, infatti, la c.d. svolta concordataria, culminata con la conclusione dei Patti Lateranensi l’11 febbraio 1929 e con la successiva legge n. 1159 del 24 giugno dello stesso anno «sull’esercizio dei culti ammessi e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi». Sintomatico, al riguardo, è il fatto che il titolo della legge si riferisca ai “culti ammessi” soppiantando la locuzione di “culti tollerati” usata dal previgente Statuto Albertino, la legge sui culti ammessi, infatti, sanciva il principio dell’ammissibilità nello Stato di culti diversi da quello cattolico, «purché non contrari all’ordine pubblico o al buon costume». Ne scaturiva pertanto, il potere discrezionale delle pubbliche autorità di limitare o interdire l’esercizio di un culto sulla base di valutazioni di merito[12]. Sono questi gli anni “delle speranze e degli auspici”[13], gli anni nei quali, si delinea la configurazione costituzionale della libertà religiosa e si tracciano, al contempo, i futuri rapporti tra lo Stato democratico e la Chiesa Cattolica, giungendo così all’1 gennaio 1948, giorno in cui entra in vigore la Costituzione Italiana, nella quale il grado di libertà religiosa formalmente riconosciuto è espresso da quelle norme che contemplano il principio di sovranità popolare e «le garanzie per i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e come membro delle varie formazioni sociali, per l’eguaglianza dei cittadini, per la libertà delle associazioni religiose, per la libertà dell’esercizio di culto, per la libertà di riunione religiosa, per la libertà di propaganda, per la posizione giuridica dei ministri di culto, per la libertà di formazione e di informazione in materia religiosa»[14].  Lo Stato che viene delineato dalla Costituzione del 1948 è, in ragione di ciò, uno Stato nuovo che si oppone sia a quello moderno che a quello fascista, e che deve reagire all’indirizzo confessionista del 1929 gettando le basi per una laicità e un pluralismo che diano nuova rilevanza sociale al fenomeno religioso. In questo mutato scenario, pertanto, la Chiesa Cattolica viene considerata parte della convivenza democratica e la libertà di tutte le confessioni religiose diventa principio costituzionale: l’art. 7 della Costituzione, infatti, accetta senza modifiche i Patti Lateranensi ma l’art. 8 afferma con forza l’uguaglianza di tutte le religioni di fronte allo Stato e la completa libertà di culto e propaganda. Si asserisce, in tal modo, il principio del pluralismo religioso quale aspetto della libertà di religione che si affianca a quello individuale e collettivo contemplato dall’art. 19 della Costituzione.  

3. La libertà religiosa: profili generali, dalla dimensione negativa alla qualificazione positiva

Al fine di meglio comprendere il modo in cui la libertà religiosa è garantita nel nostro ordinamento, è necessario prendere le mosse dal fatto che l’Italia «favorisce il dialogo interreligioso e interculturale per far crescere il rispetto della dignità umana e contribuire al superamento di pregiudizi e intolleranza»[15]. I diritti di libertà, sono concepiti non solo come libertà negative, ossia sottratte all’ingerenza pubblica, ma anche e soprattutto come libertà positive con le quali, cioè, l’uomo realizza sé stesso e sviluppa la propria personalità. Preliminare al discorso sulla libertà religiosa in senso stretto è il discorso sulla libertà di coscienza, quale sede del procedimento psicologico che termina con l’assunzione di una determinata credenza religiosa. La sfera intima della coscienza individuale, considerata un bene costituzionalmente rilevante va pertanto protetto dai condizionamenti esterni, influssi ambientali, sociali, istituzionali in grado di alterarne il processo formativo e comporta, inevitabilmente, «l’obbligo di ogni moderno Stato costituzionale di predisporre le condizioni giuridiche perché ogni cittadino possa essere libero da costrizioni o da interferenze e possa effettivamente esercitare il suo diritto. Proprio perché il diritto alla libertà religiosa può essere azionato anche nei confronti dello Stato, esso è qualificato in dottrina come diritto pubblico soggettivo»[16].  Il concetto di libertà religiosa nella sua valenza negativa implica in primo luogo, un’azione di difesa contro costrizioni e discriminazioni frapposte tanto nella fase iniziale e genetica della scelta del credo religioso, quanto nella esigenza di evitare ostacoli alla decisione del civis-fidelis di mutare la scelta compiuta, sia nel caso di un semplice recesso, sia nel passaggio da un credo religioso ad un altro. Normalmente la scelta religiosa coincide con l’ingresso e l’appartenenza ad un gruppo religioso; se non ci sono problemi per l’ingresso nel gruppo, ve ne possono essere per quanto riguarda il recesso, che difende la libertà religiosa non contro i poteri pubblici, ma contro il potere rappresentato dallo stesso gruppo di appartenenza. Le più importanti religioni monoteiste considerano l’abbandono della religione “vera” come un grave delitto: alcuni paesi che si conformano al diritto confessionale islamico prevedono nella loro legislazione il reato di apostasia, nei casi più gravi punito con la pena di morte. L’ordinamento, quindi ha il dovere di tutelare il singolo anche, contro quello che appare un abuso di potere del gruppo religioso. La religione rappresenta un valore che comporta un convincimento affettivo ed emozionale a cui si può dare il nome di “sentimento[17]”. Il sentimento religioso costituisce un bene costituzionalmente rilevante, in quanto riconducibile alla coscienza, e giustifica una tutela della sensibilità dei credenti contro le offese che possono essere recate ai loro convincimenti. Per tutelare effettivamente la libertà non basta fermarsi alle restrizioni costituite dagli illegittimi attacchi da parte di poteri pubblici e privati, ma occorre guardare alle restrizioni “de facto” costituite dalla carenza di mezzi economici, e dagli altri ostacoli di tipo giuridico. Per consentire ai fedeli di compiere la loro esperienza religiosa il gruppo confessionale ha dunque bisogno di risorse materiali e giuridiche, maggiori le risorse del gruppo tanto più agevole sarà la realizzazione del diritto dei soggetti membri dello stesso. Quando si parla di aspetti positivi della libertà religiosa, bisogna tener conto che essa non è un diritto immediato dei singoli, ma un diritto riflesso (il singolo ne gode in proporzione alle risorse del gruppo). Nella dimensione positiva, intimamente connessa con le scelte politiche di promuovere le attività compiute dai gruppi religiosi, gli stessi strumenti di negoziazione, Concordati e Intese, si configurano come una risorsa consentendo al gruppo di far valere al meglio i propri interessi. La legittimazione e l’opportunità del potere pubblico ad assegnare risorse ai gruppi confessionali è rinsaldata dal fatto che la fruizione della libertà religiosa, oltre ad essere un valore in sé può essere ritenuta socialmente rilevante tenuto conto dell’art. 4.1 Cost, il quale indirizza l’ordinamento al progresso materiale e spirituale della società, che può realizzarsi attraverso la formazione morale e intellettuale dei consociati. A tale obiettivo concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchirne la sensibilità[18] ed il perfezionamento della loro personalità mediante il progresso spirituale oltre che materiale. Uno dei settori in cui è più percepibile il passaggio dalla dimensione negativa a quella positiva della libertà religiosa è quello dell’edilizia di culto. Gli edifici di culto possono essere considerati opere pubbliche, poiché la loro costruzione è legittimata da un interesse pubblico, ponendosi nel quadro del compito della Pubblica Amministrazione. La legge 865 del 1971 annovera Chiese ed altri edifici religiosi fra le opere di urbanizzazione secondaria, ovvero quelle funzionali ai servizi urbani e sociali che devono caratterizzare un ambiente di vita dignitoso.

4. L’art. 19 Costituzione: contenuto e limiti la connessione tra l'art. 19 e l'art. 21 Cost.

La libertà religiosa in Italia, è in primis un diritto soggettivo riconosciuto a tutti per il semplice fatto di essere uomini; ed è un diritto soggettivo non solo pubblico, perché la sua tutela non deve provenire solo dallo Stato ma anche dalla generalità dei consociati. Nella nostra Carta Fondamentale, pertanto, il principale riferimento normativo alla libertà religiosa è dato dall’art. 19 e dalla connessione che questo crea con le altre libertà individuali espressamente tutelate. Ai sensi dell’art. 19 della Costituzione «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato e in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». Come appare evidente dal dettato normativo, l’art. 19, diversamente dalle espressioni utilizzate per enunciare altre libertà costituzionali, non proclama la libertà religiosa ma si limita a riconoscere a tutti il “diritto” di professare liberamente la propria fede religiosa; il “diritto” di farne propaganda e il “diritto” di esercitarne il culto[19]. Non quindi, una libertà in generale ma il diritto positivo di porre in essere questi comportamenti, questi tre aspetti dello stesso fenomeno. Titolari del diritto in questione sono “tutti” gli uomini, siano o meno cittadini dello Stato, e pertanto, sia gli stranieri che – anche – le formazioni sociali aventi una qualificazione religiosa. Ragion per cui, in dottrina, si parla di un diritto che è, contemporaneamente, sia individuale che collettivo.  La propensione ad identificare la libertà religiosa con un diritto positivo ha spinto la dottrina italiana a tracciare, sin dagli inizi del 900, una netta linea di demarcazione tra la sfera interna della coscienza individuale e quella esterna. Posto che il diritto deve preoccuparsi solo dei comportamenti esteriori e delle relazioni esterne tra gli individui ed i loro comportamenti, ne consegue che la libertà religiosa tutelata dalla Costituzione consiste nei comportamenti esteriori che l’ordinamento tutela come espressione di diritti soggettivi e che sono connotati dal fattore religioso[20]. L’art. 19, dal canto suo, indica chiaramente quali siano questi comportamenti, specificando al contempo il contenuto stesso del dettato costituzionale: le libertà di professare, di propagandare e di esercitare il culto religioso che si è liberamente scelto, rappresentano, pertanto, il contenuto essenziale del diritto in esame. Se la libertà di professare la propria fede religiosa equivale a dichiarare pubblicamente il proprio credo – o il proprio ateismo – di contro propagandare una fede religiosa significa mettere in opera una serie di comportamenti più specifici. La propaganda religiosa, infatti, si accompagna al proselitismo cioè al tentativo di convertire al proprio credo altri soggetti, inducendoli ad entrare in una comunità di fedeli, di qui la necessità di bilanciare le proiezioni della libertà di propagandare il proprio credo con gli indici di tutela forniti dagli altri enunciati costituzionali[21], in primis con l’altrui libertà personale e di coscienza. L’ultimo contenuto specifico di cui all’art. 19 è quello relativo alla libertà di esercitare il proprio culto, ossia alla libertà di “attuare” le attività rituali proprie di una credenza religiosa, si tratta dell’aspetto probabilmente più importante connesso all’interpretazione della norma costituzionale, perché è quello che individua, al contempo, anche i limiti della libertà religiosa. La disposizione in oggetto, infatti, consente liberamente le pratiche rituali purché «non si tratti di riti contrari al buon costume». Si tratta di un’espressione che è stata oggetto di varie interpretazioni e che la dottrina ha inteso, ora in maniera ristretta, come «riti che offendono la libertà sessuale, il pudore e l’onore sessuale»[22], ora in senso più ampio, come riti contrari all’intero vivere civile e all’intero campo sociale[23]. In realtà sembra da escludersi che con il termine “buon costume” debba intendersi qualcosa di più del rispetto del comune pudore sessuale, sebbene sia da sottolineare il fatto che il “buon costume” individua uno standard di valutazione generica, inevitabilmente condizionato dall’ambiente e dalla sensibilità sociale diffusa al momento della presunta lesione[24]. Ciò che è dato per assodato, è che l’esercizio della libertà religiosa non può essere soggetto a limiti sotto il generico profilo dell’ordine pubblico[25], così come è sicuro che l’intervento della pubblica autorità in ordine a presunti riti contrari al buon costume non può essere di tipo preventivo e astratto ma deve essere subordinato alla concretezza e all’attualità dei comportamenti in questione: ad ogni limitazione costituzionale, infatti, non è implicito un controllo preventivo da parte della pubblica autorità; un controllo può essere solo successivo e solo se una precisa legge ad hoc lo dispone[26]. Il limite del buon costume, pertanto, è destinato a rimanere inoperante nei confronti di quei movimenti religiosi che contemplassero – astrattamente – riti contrari al buon costume ma che poi, concretamente, non li mettessero in atto.  Al riguardo, infatti, si afferma che la libertà religiosa incontra poi altri due limiti intrinseci: i diritti fondamentali formalizzati nella Costituzione e le norme penali del nostro ordinamento. In questo senso, quindi, pratiche religiose che, ad esempio, imponessero sacrifici umani, sarebbero comunque vietate dall’art. 2 della Costituzione che tutela il diritto alla vita; allo stesso modo, rituali che praticassero la mutilazione sarebbero vietati dal diritto costituzionale alla salute di cui all’art. 32 e via dicendo[27]. Altro limite alla libertà religiosa si ritrova, infine, nella tutela penale prevista dal codice attualmente in vigore. Per altro verso, una delle questioni più importanti connesse alla libertà di religione è il suo rapporto con la libertà di coscienza. In realtà, la nostra Costituzione non prevede una norma che tuteli specificatamente la libertà di coscienza sebbene questa sia considerata, ormai globalmente, come diritto inviolabile dell’uomo in quanto collocata «come diritto “naturale” primordiale ed essenziale, nell’area di rispetto della personalità dell’uomo, nel rispetto cioè dell’opinione di ciascuno di comportarsi appunto secondo il proprio libero arbitrio»[28]. Nella nostra Costituzione, inoltre, non solo manca il riconoscimento specifico della libertà di coscienza[29] ma, a differenza di quello che avviene a livello internazionale in materia, manca anche un riferimento esplicito al diritto di mutare credo o di non averne nessuno. L’art. 21 sarebbe assolutamente esplicito nella sua formulazione idonea ad essere applicata a tutti e quindi anche agli atei. Esso, quindi, consentirebbe all’ateismo l’esplicazione della propria libertà, tutelando gli atei  «non in quanto membri di gruppi associati e organizzati di miscredenti, areligiosi, etc., quale un loro diritto sia individuale sia anche collettivo di libertà, così come si verifica per gli adepti delle confessioni religiose, ma soltanto in quanto cittadini singoli, che hanno bensì come tali, il diritto di manifestare e propagandare il loro pensiero sia individualmente, sia in forma associata, ma sempre e soltanto quale un loro puro e semplice diritto inviolabile di libertà»[30]. L’art. 19 della Costituzione, quindi, va inteso come una specificazione del diritto, riconosciuto nell’art. 21, di manifestare liberamente il proprio pensiero e rappresenta, dunque, l’estrinsecazione o meglio l’esternazione di tutte «quelle opinioni e manifestazioni sociali, che hanno un diretto collegamento con la tematica religiosa»[31] alla quale è inevitabilmente connessa anche la libertà di coscienza degli atei e dei non credenti. La libertà di coscienza, pertanto, rappresenta il «caput et fundamentum di tutti i diritti connessi con la libertà religiosa»[32] perché grazie a essa l’individuo ha la facoltà di scegliere se e come schierarsi o non schierarsi in campo religioso, se aderire o meno ad una fede o ad una particolare concezione di vita.

5. La religione come fattore di integrazione sociale. La Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione

L’ordinamento italiano è stato stravolto da fenomeni migratori che hanno svelato la difficoltà ad affrontare problematiche nuove, sollecitando una rilettura del dettato costituzionale in materia religiosa. I flussi dei migranti sono stati così consistenti da influire sulla dimensione strutturale della intera società. Le ultime stime della Fondazione Ismu[33], aggiornate al 1° gennaio 2016 mostrano quanto è variegato il panorama delle religioni professate dagli immigrati. Per quanto riguarda le incidenze percentuali gli immigrati musulmani sono il 2,3% della popolazione complessiva (italiana e straniera), quelli cristiano-ortodossi il 2,6%, i cattolici l’1,7%. Nelle stime non sono stati conteggiati gli irregolari, gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana, né quelli che non sono iscritti in anagrafe. La regione in cui la presenza di stranieri di fede cristiano-ortodossa è maggiore è la Lombardia, con 265.000 presenze; segue il Lazio (260.000), il Veneto (176.000), il Piemonte (163.000), l’Emilia Romagna (157.000) e la Toscana (116.000). La regione in cui vivono più stranieri residenti di fede musulmana, minorenni inclusi, è la Lombardia: sono 368.000 (pari al 26% del totale degli islamici presenti in Italia). Al secondo posto troviamo l’Emilia Romagna con 183.000 musulmani (pari al 12,8% del totale degli islamici in Italia), al terzo il Veneto dove i musulmani sono 142.00 (pari al 10% del totale), al quarto il Piemonte con 119.000 presenze. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani residenti in Italia provenga dal Marocco (424.000), seguito dall’Albania (214.000), dal Bangladesh (100.000), dal Pakistan (94.000), dalla Tunisia, (94.000) e dall’Egitto (93.000).  Gli interventi giurisprudenziali e normativi, che ’’non hanno integrato il dettato costituzionale ma ne hanno progressivamente esplicitato tutte le potenzialità[34]’’, non hanno scartato l’idea dell’emanazione di una legge generale sulla libertà religiosa che raccordi diritti della persona e pluralismo etico-religioso[35]. Un’idea cavalcata in diverse legislature, che ha suscitato molteplici incertezze, in ragione della revisione che si veniva a determinare di un principio costituzionale per mezzo di una legge ordinaria[36]. Il problema attiene sempre al principio di laicità dello Stato, principio supremo, che si appalesa agli art. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 cost. Già nel 2006 il Ministro dell’Interno nominava un Comitato scientifico per l’elaborazione della Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione[37], con il compito affidato ad un comitato scientifico di:  “ a) elaborare, proporre e promuovere le più opportune iniziative per la conoscenza e la diffusione della Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione nella società italiana e nel mondo dell’immigrazione;  b) elaborare e predisporre ulteriori documenti che, in coerenza con la Carta, costituiscano strumento di orientamento per l’integrazione degli immigrati nei diversi settori della vita sociale; c) ricercare e studiare, anche sulla base dell’esperienza di altri paesi europei, forme e modalità che agevolino l’armonica convivenza delle comunità degli immigrati e comunità religiose nella società italiana, nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica.” La Carta è stata stipulata sulla base della Carta Costituzionale e delle ’’capacità profetiche della stessa, che ha saputo proiettarsi nel futuro, ed è riuscita a dare risposte a problemi che all’epoca non erano prevedibili’’[38], nonché delle principali Convenzioni europee ed internazionali. La preoccupazione principale che si evince dal documento attiene alla tutela della dignità umana e dei diritti fondamentali di ogni individuo, sia cittadino che immigrato, al fine di agevolare la condivisione di valori e principi che abbiano una valenza universale. La Carta ha riservato particolare attenzione poi alla vexata quaestio della libertà religiosa, rimarcandone il divieto di violazione ma, anche stigmatizzando ogni forma di violenza o istigazione alla violenza motivata da personali convinzioni fideistiche. L’anzidetta libertà si esplicita sia nei confronti del cittadino che dell’immigrato e delle comunità religiose[39], nel rifiuto di ogni forma di integralismo e di esclusione sociale. Nel documento all’art. 24 viene sancito il contenuto della libertà religiosa, nel diritto di avere una fede religiosa o di non averla, di praticare o non il proprio credo, di mutare convinzione fideistica, di diffondere la fede professata e di unirsi in organizzazioni confessionali, nella vigenza del divieto di contrasto con le leggi penali e, più in generale, con i diritti altrui. L’identificazione della religione come strumento di arricchimento sociale[40] è accentuata se rapportata ad uno Stato laico, che si mostra accogliente verso ogni ideologia fideistica. L’art. 25 affronta poi una spinosa questione, richiamando la tradizione religiosa e culturale italiana, ricorda il rispetto dovuto ai segni e simboli di ogni confessione, e che nessuno può ritenersi offeso dai segni e simboli di religioni diverse dalla propria. Tali precisazioni assumono grande rilievo, sia per la soluzione dei conflitti socio-giudiziari emersi sul velo islamico e sull’affissione del crocefisso nei luoghi pubblici[41], sia per la promozione del dialogo interreligioso, veicolo indispensabile ed inevitabile per l’accrescimento del rispetto della dignità umana ed il superamento di pregiudizi e intolleranza.

6. Conclusioni

In uno sfondo sociale sempre più votato al pluralismo confessionale e culturale le istanze provenienti dal nuovo tessuto sociale richiedono una nuova lettura del principio di laicità, che giammai scada nell’indifferentismo statuale dinanzi alle religioni, ma che si erga a baluardo e difesa delle libere opzioni religiose. La libertà religiosa, nell’incarnare la facoltà di ogni uomo di conseguire fini supremi[42] senza che alcuno possa contrastarlo, è stata ampiamente tutelata, come irrinunciabile valore della persona[43], nucleo portante dell’intero sistema giuridico positivo. Il principio personalista di cui all’ art.2 Cost. impone di considerare la persona umana come valore di rango più elevato, nel senso che il ‘costituente ha accolto l’idea della preesistenza ed anteriorità logica dei diritti fondamentali dell’uomo rispetto ad ogni potere costituito[44]’’. Prerogativa che ciascun individuo ha di scegliere e professare liberamente e apertamente la propria fede, o di non professarne alcuna, se meglio crede: un diritto inviolabile e fondamentale connesso al riconoscimento della dignità umana ed allo sviluppo della personalità individuale. Superare le tensioni causate dalle differenze fideistiche e culturali, non può che avvenire attraverso l’affermazione e attuazione del principio personalista insito nell’art. 2 cost. Sullo sfondo di un pluralismo etico e religioso che caratterizza sempre con più vigore il nostro paese, porre “la persona” al centro di ogni intervento garantisce l’efficace sviluppo delle politiche di integrazione. Con la finalità di agevolare l’inclusione sociale delle variegate comunità religiose, indipendentemente dalle individuali ideologie fideistiche, nell’osservanza dei principi cardine del nostro sistema giuridico.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] L. GUERZONI, Libertà religiosa ed esperienza liberal-democratica, in AA.VV., Teoria e prassi delle libertà di religione, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 219.
[2] Ivi, p. 234; cfr. F. RUFFINI, La libertà religiosa. Storia dell’idea, introduzione di ARTURO CARLO JEMOLO, Feltrinelli, Milano, 1967.
[3] Ivi, p. 243.
[4] Ivi, p. 241.
[5] L. GUERZONI, Libertà religiosa ed esperienza liberal-democratica, in AA.VV., Teoria e prassi delle libertà di religione, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 219.
[6] S. LARICCIA, La libertà religiosa nella società italiana, in AA.VV., Teoria e prassi delle libertà di religione, Il Mulino, Bologna, 1975, pp. 315. 
[7] S. FERLITO, Diritto soggettivo e libertà religiosa. Riflessioni per uno studio storico e concettuale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2003, p. 20.
[8] L’art. 3 comma 2 della Costituzione, invero, dispone che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]».
[9] F. RUFFINI, La libertà religiosa: storia dell’idea, Torino 1911, rist. Bologna 1992, p. 7.
[10] TERTULLIANO, Ad Scapulam, anno 212.
[11] Formula inserita tra le clausole della pace di Augusta del 1555, il cui significato letterale è “la sovranità sia di colui del quale è la religione”.
[12] C. CARDIA, Libertà di credenza, in Enc. giur., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1990, p. 3.
[13] S. LARICCIA, op. cit.
[14] Ibidem.
[15] Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, aprile 2007.
[16] O. FUMAGALLI CARULLI, A Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio, Vita e pensiero, Milano, 2006, p. 99.
[17] VITALE A., Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi, Giuffre 2005.
[18] VITALE, ibidem.
[19] M. RICCA, Art. 19, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Vol. 1, art. 1-54, Utet Giuridica, Torino, 2006, p. 424.
[20] Ibidem.
[21] M. RICCA, op. cit. p. 435.
[22] F. FINOCCHIARO, sub Art. 19-20, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli Editore, Bologna-Roma 1976, p. 475.
[23] P. A. D’AVACK, voce Libertà religiosa (dir. eccl.), in Enciclopedia del Diritto, XXIV, Milano, 1974,  p. 598.
[24] M. RICCA, op. cit., p. 436.
[25] Il limite dell’ordine pubblico era, infatti, previsto dalla formulazione originaria dell’articolo ma venne, successivamente modificata dall’Assemblea costituente, nella seduta del 12 aprile 1947, in accoglimento di un emendamento degli onorevoli Calamandrei e Cianca.
[26] Al riguardo, infatti, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 45 del 1957, ha disposto che «la regola che si vorrebbe dedurre […]  cioè che ad ogni limitazione posta ad una libertà costituzionale debba implicitamente corrispondere il potere di un controllo preventivo dell'autorità di pubblica sicurezza, non sussiste nel nostro ordinamento.
[27] Il c.d. Caso Oneda.
[28] P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 63.
[29] E’, comunque, da tenere presente che, nonostante questa mancanza nell’ambito del dettato costituzionale, l’Italia ha dato esecuzione all’art. 9 della Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), il quale dispone che «ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti». Anche nel nostro paese, quindi, è “implicitamente” riconosciuta la libertà di coscienza.
[30] P.A. D’AVACK, Trattato di diritto ecclesiastico, vol. I, Giuffrè, Milano, 1969, p. 374.
[31] C. CARDIA, op. cit. p. 102.
[32] F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 135.
[33] http://www.stranieriinitalia.it, ultima consultazione 6 giugno 2018.
[34] DALLA TORRE G, Libertà di coscienza e religione, in Stato Chiese e pluralismo confessionale, marzo 2008 (www.statoechiese.it).
[35] M.C. FOLLIERO, La formula attuale della laicità e la (legge sulla) libertà religiosa possibile, in Il diritto ecclesiastico, 2007.
[36] M. TEDESCHI, I problemi attuali della libertà religiosa, Soveria Mannelli, 2002.
[37] Presieduta dal prof. Carlo Cardia, erano presenti pure i Proff. Francesco Zannini, Khaled Fouad Allam, Adame Mokrani, Roberta Aluffi Beck Peccoz.
[38] C.CARDIA, Carta dei valori e multiculturalità alla prova della Costituzione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica dicembre 2008.
[39] Cfr. Art. 20.
[40] Cfr. Art. 21.
[41] Caso Lautsi vs Italia, sentenza CEDU 18 marzo 2011, ricorso n. 30814/2006.
[42] A. FUCCILLO, L’attuazione privatistica della Libertà religiosa, cit., 161.
[43] C. CARDIA, op. citata.
[44] L. MEZZETTI, Manuale breve di diritto Costituzionale, Milano 2006.