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Pubbl. Ven, 27 Apr 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Il trionfo dell´autodeterminazione: il testamento biologico

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Paolo Del Gaudio
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Salerno


Dopo anni di battaglie etiche e scontri politici, l’Italia compie un primo, ma significativo, passo verso il riconoscimento e la legalizzazione del diritto di morire: il testamento biologico è legge.


Sommario: 1. Premessa; 2. La dimensione costituzionale del fine vita; 3. Analisi del recente dato normativo; 4. Conclusioni.

1. Premessa

Il contesto sociale e giuridico in cui viviamo sottende delle opzioni di fondo che orientano in un modo, piuttosto che in un altro, l’agire umano. Le questioni attinenti la vita umana, e quindi anche la morte, oltrepassano i limiti della specializzazione, concernendo il rapporto del singolo con la società e investendo l’essenza fondamentale della vita umana. Per cui ciascuno ha il diritto-dovere di prendervi posizione, tanto più chi si rivolge, per professione, ai problemi universali dell'esistenza cercando di scovare soluzioni. Si tratta di problematiche che rappresentano lo snodo fondamentale dell’esistenza, perché investono in radice il rapporto interno ad ogni uomo ed il suo concretizzarsi in scelte esterne.

La razionalità umana si scontra da sempre con il mistero della morte e si accosta con sofferenza all’idea di dover subire passivamente l’evento conclusivo della vita, irrimediabilmente ed inequivocabilmente sottratto alla volontà personale. L’idea di poter gestire, sia pure parzialmente, il momento della morte, seppur tranquillizzante perché contribuisce ad esorcizzare la paura di una fine ineluttabile, pone l’uomo di fronte ad innumerevoli ed angosciosi interrogativi ai quali è doveroso dare una risposta certa, quantomeno da un punto di vista meramente giuridico.

Tale risposta è tanto più sollecitata nella sua urgenza dalla sempre crescente entità della problematica del fine vita che si profila inscindibilmente legata ai progressi compiuti dalla tecnologia medica, da cui derivano numerosi interrogativi etici di difficile risoluzione che riverberano nel diritto tutte le loro incertezze. L’interesse rispetto al fenomeno non è soltanto del giurista, chiamato il più delle volte a definire i margini di liceità o di illiceità del momento patologico della vicenda, ma coinvolge la sua assorbente dimensione pre-giuridica, espressione dell’importanza del bene di cui si parla, ossia la vita dell’uomo, quando si è ormai avviata verso l’epilogo.

Il tema del fine vita, dunque, divide le coscienze, mettendo alla prova la capacità di prendere posizioni nette in proposito e scuotendo la professata laicità dello Stato. A lasciare questo mondo è, infatti, un individuo e la drammatica scelta si consuma interamente sulla considerazione della persona umana, della sua libertà e della sua dignità. La prima difficoltà che incontra chi intende trattare la tematica sotto un profilo giuridico è data dai recenti e incerti confini legislativi, che oggi configurano la possibilità del testamento biologico.

Occorre, in sostanza, analizzare il recente testo legislativo e chiarire la qualificazione che spetta al fenomeno del fine vita alla stregua dell’ordinamento attuale. Si intende, cioè, esaminare se la liceità delle “Disposizioni Anticipate di Trattamento” possa derivare dal bilanciamento con altri interessi, costituzionalmente rilevanti, che si possono contrapporre al diritto alla vita, neutralizzandolo.  

2. La dimensione Costituzionale del “Fine Vita”

L’art. 32 della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il diritto alla salute sancito dal testo repubblicano impone allo Stato italiano due ordini di obblighi: per un verso individua un obbligo positivo consistente  nel  garantire ai consociati i trattamenti sanitari basilari (a cui si ricollega il  più ampio concetto di stato assistenzialista e della gratuità delle prestazioni mediche essenziali), per altro verso delinea un obbligo negativo ossia l’obbligo di riconoscere ad ogni individuo il diritto di rifiutare le cure sanitarie ritenute non necessarie e, di essere tutelato dal c.d. accanimento terapeutico.

È in questo sottile equilibrio, tra il diritto di essere curati e il diritto a non essere curati, che si incastona il dibattito bioetico sul testamento biologico e sull’introduzione delle disposizioni anticipate di fine vita, problematica che oscilla tra il diritto di essere curati fino alla fine dei propri giorni ed il diritto di morire preservando quella “dignità umana” (precisata proprio nel secondo comma dell’art. 32 Cost.) che spesso per alcuni risulta essere vanificata con la malattia.

È pacifico che i recenti casi di cronaca concernenti persone gravemente inferme ed in stato vegetativo da anni, hanno sensibilizzato ulteriormente il popolo italiano ed hanno spinto il legislatore ad approvare anche in Italia un testo legislativo che prevedesse il “Biotestamento”, consentendo di poter disporre delle cure a cui sottoporsi nell’eventualità che la propria capacità di autodeterminazione sia grandemente scemata. L’ennesimo caso di cronaca[1] ha spinto i politici italiani a redigere un testo normativo che tenti di porre rimedio alle lacune legislative presenti nel nostro ordinamento, introducendo una legge che consacra l’istituto del testamento biologico e disciplina in maniera più limpida e specifica quei casi in cui il malato abbia deciso, prima di perdere del tutto o in parte la propria capacità di discernimento, cosa fare della propria esistenza (si fa riferimento a quelle ipotesi in cui si verifichino gravi situazioni fortemente condizionanti la propria personalità e la propria umanità). La recente normativa, approvata al Senato il 14 dicembre 2017 ed entrata in vigore il 31 gennaio 2018, si compone di soli otto articoli che nonostante l’esiguo numero sono molto corposi nonché chiaramente finalizzati a specificare e dare attuazione proprio all’art. 32 della Cost. Nella tematica delle dichiarazioni anticipate di trattamento, fulcro del disegno legislativo oggetto di studio, è forte il richiamo ai principi costituzionali, il disegno di legge recentemente approvato, infatti, richiama specificatamente gli artt. 2, 3, 13 e 32. Si rende quindi necessaria, per chiarezza espositiva, una breve disamina di questi articoli.

È d’uopo in via preliminare chiarire che i Costituenti hanno cercato nella redazione delle norme costituzionali, di prestare particolare attenzione al non ancorarsi troppo incisivamente all'aspetto letterale delle disposizioni. Nei lavori preparatori difatti, aleggiavano dubbi e paure sulla corretta interpretazione che poi sarebbe stata data dai posteri a quelle norme fondamento della nostra civiltà.

La Costituzione italiana, in discontinuità con la prassi affermatasi durante il regime fascista, nell'art. 2 assegna il primato all’individuo rispetto allo Stato, i diritti sono riconosciuti, preesistenti ed indipendenti dallo stesso, si asserisce l’esistenza di diritti innati dei cittadini che lo Stato deve soltanto riconoscere e regolare. Nell’articolo 2 Cost. viene di conseguenza riconosciuto e affermato il valore del singolo individuo, la possibilità di sviluppare integralmente la propria personalità, di fare le proprie scelte, facendo valere i propri diritti e adempiendo ai propri doveri. Siffatto principio assegna a ognuno di noi la responsabilità delle nostre scelte. La Costituzione riconosce così il valore della persona sia individualmente sia in gruppo (nelle “formazioni sociali ove si volge la sua personalità”: la famiglia, le associazioni, i partiti…). Rispetto all’individuo e alle formazioni sociali, lo Stato deve limitarsi a creare una cornice all’interno della quale ognuno possa compiere le proprie scelte.

Per ciò che concerne la tematica del testamento biologico si è affermato che questo articolo ha reso possibile l’inquadramento di diritti “nuovi” che non erano stati concretizzati nella Costituzione e che l’evolversi culturale della società ha evidenziato, come la tutela dell’ambiente, il riconoscimento della vita del nascituro, la privacy e, secondo alcuni, anche il diritto di morire con dignità. L’art. 2 della nostra Costituzione ha agito come “norma valvola” rispetto alle trasformazioni dei diritti riconosciuti espressamente dalla nostra Costituzione (pensiamo alla salute, alla libertà personale, al paesaggio). La formulazione dell’art. 2 Cost. ha pertanto costituito il perno di un’importante disputa che ha coinvolto dottrina e giurisprudenza. La quaestio interpretativa si è focalizzata su due letture alternative: quella secondo cui la disposizione dell’art 2 Cost. dovrebbe leggersi come norma “riassuntiva” del catalogo chiuso dei diritti enumerati nel testo costituzionale e quella, di converso, per la quale questa consentirebbe l’apertura del catalogo costituzionale, ricomprendendo anche diritti non enumerati espressamente.[2] La Corte Costituzionale ha mostrato un orientamento, nell’utilizzo dell’art. 2, in grado di attribuirgli il carattere di norma di principio autonoma, in grado di ricondurre alla tutela costituzionale “nuovi” diritti fondamentali.

Appare opportuno però, dover escludere che la Corte abbia inteso riferire all’art. 2 il significato di fattispecie “aperta”, in quanto più correttamente può dirsi che essa abbia compiuto un’interpretazione estensiva delle norme costituzionali sui diritti di libertà. Per quanto riguarda l’art 3, inserito nel novero degli articoli di riferimento solo nel disegno di legge della Camera, è certamente uno dei principi più significativi della Costituzione Repubblicana: esso è il portato dei valori che discendono dalla rivoluzione francese (Liberté, égalité et fraternité) e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. La proclamazione del principio di uguaglianza segna una rottura decisa nei confronti del passato quando la titolarità dei diritti e dei doveri dipendeva dall’estrazione sociale, dalla religione o dal sesso di appartenenza. Nell’art. 3, bisogna distinguere il primo comma che sancisce l’uguaglianza in senso formale, dal secondo che riconosce l’uguaglianza in senso sostanziale. Uguaglianza formale vuol dire che tutti sono titolari dei medesimi diritti e doveri in quanto tutti sono uguali davanti alla legge e tutti devono essere, in egual misura, ad essa sottoposti. Le diverse specificazioni «senza distinzioni di» furono inserite affinché non trovassero posto storiche discriminazioni, nondimeno, la nostra Costituzione non si limita al riconoscimento dell’uguaglianza formale: essa va oltre attribuendo allo Stato il compito di creare azioni positive per rimuovere quelle barriere di ordine naturale, sociale ed economico che non permetterebbero a ciascuno di noi di realizzare pienamente la propria personalità. Attraverso l’uguaglianza sostanziale, lo Stato e le sue articolazioni si assumono l’impegno di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Il compito dello Stato è quello di agire fattivamente per metter tutti nelle stesse condizioni di partenza, dotando ognuno di pari opportunità per sviluppare e realizzare pienamente e liberamente la propria personalità. È proprio in riferimento all'aspetto sostanzialistico, che risulta pregnante questo articolo in relazione alla tematica del fine vita in quanto la legge formulata sull'argomento ha consentito di eliminare la disuguaglianza tra soggetti capaci e non, nel momento finale della propria esistenza permettendo ad entrambi i soggetti di decidere le modalità con cui terminare la propria vita.

Il carattere aperto del principio di uguaglianza ha permesso alla giurisprudenza della Corte Costituzionale di adeguare continuamente il quadro dei diritti e dei doveri all’evoluzione economica e sociale del nostro Paese. Il principio di uguaglianza è stato declinato in un generale divieto di discriminazione. La disparità di trattamento è ammessa solo quando le differenze sono previste dal legislatore in modo ragionevole ed obiettivo[3]. Altro riferimento normativo è l'art. 13 Cost., che cristallizza il principio della inviolabilità della libertà personale, pacificamente considerato un principio generale. La norma testé citata è considerata dai più un’evoluzione di quella introdotta dallo Statuto Albertino, la quale, invece, disponeva che la libertà personale è garantita. L'art 13 Cost. è principio generale di cui gli altri principi possono considerarsi esplicazioni o corollari. Uno di questi corollari è l'art 32 Cost. nel quale viene garantita la salute come fondamentale diritto dell'individuo e della collettività. La salute è il primo requisito essenziale della libertà dell'individuo. L’aspetto problematico di questo articolo riaffiora con riferimento a quelli che ad oggi vengono definiti t.s.o. (trattamenti sanitari obbligatori), ovvero aspetti limitativi della libertà individuale ed all'obbligatorietà di alcune cure imposte dallo Stato. La formulazione originaria dell'art. 13 Cost., stabiliva in primis il divieto di trattamenti sanitari lesivi della dignità umana e in proposito, uno dei redattori, il Guia, affermando che in realtà ci si riferisse, (seppur non esplicitamente) alle pratiche abortive, interrogava l'assemblea su quali siano gli interventi classificabili come lesivi della dignità umana; ritenendo, inoltre, che non sia possibile generalizzare giacché possono presentarsi dei casi in cui alcuni interventi, seppur ritenuti tali, nella pratica non sono lesivi della dignità umana, generalizzazione che è stata fatta nei precedenti disegni legislativi sul testamento biologico. Si è affermato altresì, che il “limitare l'intervento di tale tipo di operazione renderebbe la missione del medico più difficile e si stabilirebbe non un principio a favore della salute del popolo bensì il contrario, sostenendo che bisogna applicare  per lo sviluppo della civiltà, i principi della scienza e della tecnica che devono essere applicati, perché progresso significa applicazione e sviluppo di questi principi; qualsiasi divieto si faccia per l'applicazione della scienza e della tecnologia è un divieto che si pone al progresso: è un arresto alla civiltà.” Leggendo questo intervento, affiora l'attualità dello stesso e, la fondamentale rilevanza che l’articolo 13 Cost. riveste per la tematica in oggetto, considerato che l’approvazione della Costituzione è avvenuta in un momento antecedente alla introduzione del respiratore artificiale e dalla nutrizione artificiale i quali hanno rappresentano, in passato, uno degli elementi maggiormente problematici per l’approvazione di una legge in tema di testamento biologico.

L’evoluzione della scienza medica ha portato a ritenere respirazione ed idratazione forzata cure a tutti gli effetti, quindi, come tali sempre rinunciabili, risolvendo il nodo gordiano del Biotestamento. Il legislatore, in passato, si poneva su posizioni opposte ritenendole irrinunciabili poiché rappresentavano forme di sostegno vitale e, fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Il dibattito si inasprì e i precedenti tentativi di normativizzazione abortirono, pur ritenendo questa irrinunciabilità come lesione della dignità umana perché non consentiva la cessazione delle cure[4].

Di converso, l’evoluzione del pensiero medico che è giunto a ritenere i predetti trattamenti cure vere e proprie, ha poi ritenuto lesivo della dignità stessa l'accanimento terapeutico, cioè, l'esecuzione di trattamenti di documentata inefficacia in relazione all'obiettivo a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un'ulteriore sofferenza in cui l'eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica. Necessariamente sono legati alla nozione di dignità umana il concetto sia di vita che di salute, riferimenti già presenti nei lavori preparatori nei quali sono stati analizzati anche gli scritti di Socrate sulla necessarietà che i medici curino sì il corpo ma anche l'anima. La giurisprudenza è univoca nel definire la salute quale “benessere psico-fisico”, concetto emerso in epoca recente con le famose quattro sentenze gemelle del novembre 2008[5] in tema di danno non patrimoniale risarcibile. È opportuno chiedersi se l'essere tenuti in vita artificialmente corrisponda ad un benessere psicofisico. Mens sana in corpore sano, afferma un famoso brocardo latino ed allora può ritenersi sano un corpo tenuto in vita artificialmente?

Il concetto di benessere e quello di vita sono difficili da inquadrare in fredde nozioni. La vita nel suo ciclo biologico inizia e finisce seguendo il suo corso. Inevitabilmente non si dovrebbe forzare la naturalità delle cose mantenendo in vita un soggetto quando naturaliter non ce l'avrebbe fatta. La problematica, così inquadrata, sottolinea quanto fosse necessaria una normativa che non precluda al soggetto la possibilità di autodeterminarsi. Il benessere psicofisico di un soggetto capace, può concretarsi anche nella previsione di poter decidere per quando non sarà più capace di farlo. Sapendo di cessare la sua esistenza in maniera dignitosa, il benessere psichico può consistere anche nell'evitare ai suoi cari una sofferenza senza possibilità certa di esiti fausti. Il testamento biologico trova un ulteriore appiglio costituzionale nell’art. 97 Cost., che cristallizza il “principio delle tre E”, economicità efficienza ed efficacia, e che, già nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, è stato esplicitamente posto in connessione con l’art. 32 Cost.,  e che oggi trova ulteriore conferma con il riconoscimento normativo del testamento biologico, giacché, accordare ad un soggetto il diritto di poter decidere, esercitando così un principio costituzionalmente rilevante come quello di autodeterminazione, comporta, in un visone pubblicistica, un miglioramento anche della gestione della cosa pubblica, più efficacie, economica ed aderente alla volontà del paziente. In alcuni sistemi giuridici europei e mondiali, forse cinicamente, si è scelto di permettere il living will anche per non appesantire la spesa pubblica, e per non gravare necessariamente sull'erario (cfr. eutanasia eugenetica in Cina). Altro dato che merita attenzione è che i costituenti, nella formazione delle sottocommissioni hanno scelto di escludere qualsivoglia presenza extra giuridica, nello specifico medici ed ecclesiasti, al fine di evitare ulteriori ingerenze che inevitabilmente sarebbero confluite nella redazione finale della Carta. La scelta dei Costituenti di espungere la scienza medica e la religione risultata, per l'epoca, lungimirante e consapevole, oggi nonostante la mutevolezza dei tempi e delle situazioni risulta ancora appropriata con la necessità di mantenersi però su posizioni meno rigide.

Il progresso scientifico è essenziale per la mutevolezza delle situazioni che sorgono nella proiezione del futuro, ma allo stesso tempo crea non pochi problemi in tema di certezza.  Nell'argomento che ci occupa, allora, la cifra della compatibilità delle D.A.T. al Testo Fondamentale è data dall’elemento fondante il testamento biologico, ovvero il consenso. L'art 32 Cost., considera il consenso elemento legittimante l'intervento del medico, ed in riferimento a ciò è anche intervenuta la Corte Costituzionale[6], affermando che “il consenso informato ha la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative”. Il consenso, per essere tale, nella sua ordinaria concezione, deve avere ad oggetto diritti disponibili, deve ulteriormente essere libero, attuale e concreto. I requisiti della attualità e della disponibilità del diritto hanno destato non poche perplessità in relazione all'oggetto trattato. Per quel che concerne l'attualità, si pone la problematica del lasso di tempo intercorrente tra la redazione del testamento biologico e la sua efficacia, tale che, in alcuni casi, non possa più ritenersi attuale, qualora la scoperta di nuove cure apra scenari non prevedibili al momento della prestazione del consenso. Il legislatore, per sopperire a questa evenienza ha previsto la necessarietà di rinnovare il testamento biologico ogni cinque anni, trattandosi comunque di un atto sempre revocabile. Taluni hanno argomentato, rifacendosi alla giurisprudenza creatasi nel caso Englaro, che potrebbe semplicemente implementarsi la volontà espressa nel testamento biologico con le convinzioni di vita del soggetto ed il cd. consenso presunto, qualora il testamento non fosse stato rinnovato e fossero stati conseguiti nuovi traguardi dalla scienza medica. L'altro elemento della disponibilità dei diritti, emerge palese in virtù della stessa indisponibilità del bene vita. Per definizione il bene vita è indisponibile e di conseguenza non può formarsi un consenso su questo diritto, si è difatti obiettato che in realtà non si dispone della vita, ma della scelta se curarsi o meno, rifacendosi all'art 32 Cost.

Ciò posto, quello che i nostri legislatori si sono domandati è se possa la scienza e la sua evoluzione rendere vano il consenso prestato da un soggetto pienamente capace di intendere e di volere in relazione ad una scelta, prettamente personale, inerente un diritto personalissimo come quello alla vita.  Memore dell'esempio dei nostri Padri Costituenti, che nei lavori preparatori alla Carta Costituzionale hanno tenuti scissi i vari campi, il legislatore ha fortunatamente optato per la supremazia del principio consensualistico, giacché il diritto è chiamato a dare certezza in modo equo, imparziale, come stabilito dall'art 3 Cost., quindi, tutti hanno diritto di vivere ugualmente in modo dignitoso e allora anche di morire come ritengano dignitoso.

3. Analisi del recente dato normativo

Il titolo del disegno di legge è: “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Il disegno di legge, formato da otto articoli, accoglie nel testo normativo la problematica della prestazione del consenso medico-terapeutico, potendosi riconoscere nelle norme di legge due momenti logici espressione dello stesso: un consenso da esprimersi all’inizio dell’iter clinico, nonché un consenso che può essere espresso anticipatamente (da qui le “disposizioni anticipate di trattamento”).

Il primo dei due temi affrontati dal testo normativo approvato dal Senato il 14 dicembre 2017, è quello che si può definire il rapporto di fiducia fra paziente e medico curante, prevedendo tre disposizioni atte a rendere più chiaro, trasparente e programmato tale rapporto di cura. L’articolo 1 del progetto, infatti, oltre ad affermare come sia “promossa e valorizzata la relazione di cura e fiducia tra paziente e medico il cui atto fondante è il consenso informato”, secondo un principio già ben noto alle Corti, aggiunge come “nella relazione di cura sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari”. In tale disposizione, di cui al comma 2 dell’articolo 1, si riscontra la novità di inserire, nel rapporto medico-paziente, anche il ruolo dei parenti di quest’ultimo, consentendo così una maggiore apertura del percorso curativo al nucleo familiare dell’ammalato. Nel comma successivo, l’articolo 1 approfondisce e precisa l’oggetto del consenso informato, laddove si statuisce che ogni persona ha “il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati”, il che non è altro che una specificazione di quanto viene tutt’oggi già ritenuto operante per quanto concerne il consenso informato, se non per l’espressa menzione del possibile “rifiuto o la rinuncia delle informazioni”, che possono essere dichiarate dallo stesso paziente o da uno dei familiari e che devono essere “registrati nella cartella clinica o nel fascicolo elettronico”. Il comma 5 dell’articolo 1 del disegno ricalca pedissequamente lo schema del comma 3, relativamente al consenso relativo al singolo accertamento diagnostico o trattamento sanitario, laddove si prevede che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere possa “accettare o rifiutare qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario”, stabilendo altresì come l’accettazione, la revoca e il rifiuto siano annotati nella cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico. Oltre i tecnicismi, ciò che emerge da questi due commi, da una lettura in abstracto, è certamente un modello idilliaco di sanità, con una cartella clinica, cartacea o su supporto elettronico, certamente in grado di raffigurare tutto il percorso diagnostico e terapeutico del paziente, integrato dalle sue dichiarazioni di volontà relative alle informazioni ed al consenso informato, nonché riguardanti gli accertamenti o le terapie proposte e rifiutate, o accettate, e realmente eseguite. 

Bisogna però chiedersi quanto, in concreto, con la situazione di grave disorganizzazione di molte aziende ospedaliere italiane, questa raffigurazione possa essere realistica e quanto le risorse, oggi, possano permettere una adeguata e ordinata rappresentazione della vita clinica del paziente. In conclusione, la legge presuppone una attenzione sicuramente pregevole verso il percorso del paziente che è giustamente visto come singolo all’interno di un rapporto, come quello clinico, dove è sicuramente la parte più debole in quanto inesperta, ma le disfunzioni dell’apparato sanitario possono pregiudicare, fino ad annientare del tutto, la visione di queste norme. In merito a ciò, non si prevedono oneri finanziari specifici, ed anzi si tende ad affidare tutto alle cure delle varie aziende sanitarie, prevedendo al comma 9 che ogni “azienda sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, curando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale”. In mancanza di ulteriori disposizioni, è bene ricordare che la giurisprudenza ha appurato come sia il medico il responsabile della corretta tenuta della cartella clinica[7].

La previsione relativa alla trascrizione dei vari consensi nella cartella clinica, rappresenta inoltre una novità di non poco conto soprattutto se la si legge congiuntamente alla legge sulla responsabilità medica. Da ciò scaturisce una notevole semplificazione delle, alquanto spinose, questioni di diritto affrontate dalle corti relative ai danni da trattamento medico-sanitario. Infatti, il medico, qualora si discostasse dalle dichiarazioni del paziente, incorrerebbe in un illecito: ciò è confermato dalla lettera del comma 6 dell’articolo 1 del progetto, che enuncia chiaramente come il medico “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale”. Anche questo, certamente, dovrà confrontarsi con le necessità del caso concreto, potendosi ritenere ancora validi quei principi affermati dalle corti relativi alle “buone pratiche mediche” in occasioni imprevedibili e ineluttabili come le urgenze occasionate durante degli interventi cui il medico, per dovere professionale, deve necessariamente far fronte. E proprio con uno sguardo volto alle pratiche esigenze, si afferma al comma 7 che in tali situazioni “il medico assicura l’assistenza sanitaria indispensabile, ove possibile nel rispetto della volontà del paziente”, lasciandosi intendere che la scelta, in ogni caso del curante, non deve essere deliberata. Continuando nell’analisi degli altri commi, il numero 4 dell’articolo 1 prevede unicamente che il consenso informato sia espresso in forma scritta, ovvero, se il paziente ne è impossibilitato, mediante strumenti informatici di comunicazione: parzialmente differente, invece, sarà la previsione della forma per le disposizioni anticipate di trattamento, di cui all’articolo 3 della legge in questione. A fini amministrativi, invece, è improntato il comma 8, per cui il tempo della comunicazione tra medico e paziente è da considerarsi come tempo di cura. Solo un accenno meritano gli articoli 2 e 4 del testo normativo oggetto di studio: il primo estende ai casi di minore d’età, interdizione o amministrazione di sostegno la facoltà di prestare il consenso informato ai genitori, tutori e amministratori dei soggetti coinvolti, che comunque hanno “diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, ricevendo informazioni sulle scelte ricevute sulla propria salute in modo consono alle sue capacità ed esprimendo la propria volontà”

L’articolo 5, rubricato “pianificazione condivisa delle cure”, invece, scruta il rapporto clinico in divenire ed estende il consenso informato all’intero percorso evolutivo della malattia, prevedendo un obbligo per il medico di informare il paziente, ed eventualmente i familiari di questo, sul “possibile evolversi della patologia in atto, di quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, delle possibilità cliniche di intervenire, delle cure palliative” (comma 2), nonché seguire la volontà del paziente anche “qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità” (comma 1). Anche qui il consenso, ai sensi del comma 5, deve essere documentato nella cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico. Tale ultima annotazione consente di approdare al secondo e ben più noto tema del consenso anticipato, richiamato anche dal comma 3 dell’articolo 4 della legge, per cui “il paziente esprime il proprio consenso rispetto a quanto indicato dal medico” nonché “i propri intendimenti per il futuro”, ma specificamente disciplinato all’articolo 3.

Questo articolo è frutto delle note vicende[8] che hanno fatto emergere, a livello sociale, istanze di intervento nella delicata materia del consenso medico chirurgico, senza invece toccare l’altro grande tema che sta emergendo dal dibattito pubblico dell’eutanasia e del suicidio assistito. L’articolo 4 della normativa è una norma la cui stesura appare complessa e tortuosa. Anzitutto la norma in esame inizia, al comma 1, precisando che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può, attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (“D.A.T.”) “esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari ivi comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiale”, che tuttavia il medico può disattendere se “sussistono motivate e documentabili possibilità, non prevedibili all’atto di sottoscrizione, di poter altrimenti conseguire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” (comma 5). Ciò in espressa deroga a quanto detto sulla responsabilità del medico qualora non seguisse la volontà del paziente. Questo è in linea con il comma 6 dell’articolo 1 del progetto per cui il “rifiuto del trattamento sanitario indicato o la rinuncia al medesimo non possono comportare l’abbandono terapeutico”. La disposizione lascia parecchio perplessi, anche solo per il fatto che è altamente discrezionale e rischia, così, di vanificare l’intenzione del legislatore nel permettere un consapevole rifiuto delle cure mediche. Per di più, al comma 1 è previsto che il paziente possa indicare una persona di sua fiducia, il c.d. “fiduciario”, che lo rappresenti nelle relazioni col medico e le strutture sanitarie invece nel caso in cui non venga individuato, è di nuovo il comma 3 a intervenire, stabilendo che in caso di trattamenti contro la volontà del soggetto “vengano sentiti i familiari”.

Il fiduciario, secondo il comma 2, deve essere maggiorenne e capace di intendere e di volere. Tutte le dichiarazioni del presente articolo devono essere redatte in forma scritta: così le D.A.T. devono essere scritte, datate e sottoscritte davanti a un “pubblico ufficiale, a un medico o a due testimoni o attraverso strumenti informatici di comunicazioni”, accostando ipotesi che, vista la loro eterogeneità, lasciano, invero, alquanto perplessi, anche solo per il fatto che la forma di comunicazione informatica non prevede la solennità della presenza dei soggetti indicati per l’atto scritto. Ulteriore momento di incertezza riguarda l’accomunare un pubblico ufficiale (notaio o pubblico impiegato autorizzato dalla legge) al medico e, soprattutto, a due testimoni, che la legge prevede, in linea di principio, accompagnare di solito la confezione dell’atto e non sostituirla. Il comma 6, sempre in merito alla forma, aggiunge che con la medesima forma sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento: qui le perplessità aumentano soprattutto con riguardo alla revocabilità laddove non si tiene dovutamente conto che, spesso, all’acuirsi delle patologie, non si ha la possibilità di trovare i soggetti indicati dalla norma che assistano il paziente nell’atto. Infine, la dichiarazione del fiduciario di accettazione è posta sottoscrivendo la D.A.T. o con atto scritto successivo, poi allegato alle dichiarazioni anticipate, mentre la rinuncia deve avvenire con atto scritto, poi comunicato al disponente (comma 2). Infine l’art. 7 del testo normativo, stabilisce la c.d. “Clausola di invarianza finanziaria”, addossando alle Amministrazioni Pubbliche interessate ogni onere economico “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

4. Conclusioni

La vita è chiaramente un valore pregnante l’intera trama costituzionale, implicitamente da annoverarsi nel novero dei diritti inviolabili. Nondimeno, si tratta di un diritto pur sempre tutelato in un’ottica liberale, ovvero precipuamente a fronte di aggressioni ad opera di terzi e non anche avverso atti di disposizione che il singolo decida di porre in essere. La centralità del principio personalista, infatti, impone a qualsivoglia disciplina giuridica di adottare quale presupposto imprescindibile il rispetto della dignità del singolo, inteso come unicum di fisicità e spiritualità, le cui scelte non possono essere sindacate se non a fronte dell’esigenza di salvaguardare più ampi interessi della collettività. Ne è prova la preminenza accordata alla determinazione del singolo che decida di rinunciare alla tutela della propria salute, pregiudicando la stessa fino al punto di lasciarsi morire, nei limiti in cui ciò si non traduca in un danno anche alla salute di terzi. In particolare, nel contesto sanitario, la forza riconosciuta alla libertà di autodeterminazione ha comportato un mutamento nel rapporto medico-paziente. Quest’ultimo non è più mero oggetto di cura, secondo un’ottica paternalistica, bensì soggetto cui il medico deve apprestare il proprio servizio professionale. Mettendo a disposizione le proprie competenze, il medico deve informarlo del suo stato di salute, fornendogli tutte le opzioni configurabili per ripristinarlo laddove danneggiato. Nel caso in cui non vi sia alcuna alternativa, ovvero laddove la prognosi si riveli indefettibilmente infausta per il paziente, la malattia non altrimenti arrestabile e le sofferenze non efficacemente lenibili, non può negarsi come in tal caso il bene del paziente possa coincidere con l’anticiparne la morte, naturalmente solo se questa sia la considerazione, tradotta in puntuale richiesta, da parte del malato.

La Costituzione non sancisce un obbligo di vivere, ma lo Stato, d’altro canto, non può neppure riconoscere un generalizzato dovere di uccidere in capo ai terzi, anche a fronte del consenso dell’interessato. Ma nella materia de qua, non si tratterebbe di un comportamento ammesso indiscriminatamente, bensì solo a fronte di determinate situazioni connotate dal presupposto oggettivo della terminalità della malattia e/o di sofferenze intollerabili. Il principio pluralista impone di rispettare la decisione del singolo che, in base a concezioni anche difformi rispetto alla maggioranza, decida, sulla base di una valutazione personale della propria dignità, di anticipare il processo del morire nel caso in cui la vita abbia per lui perso ogni umana valenza.

Una scelta, questa, determinata da motivazioni certamente non irrilevanti, se consideriamo che lo stesso Stato ha riconosciuto la necessità di impegnarsi attivamente a tutela del diritto a non soffrire dei malati terminali. Dunque, in quest’ottica, non è peregrino pensare che, allorquando la strada maestra delle cure palliative si riveli inidonea a placare l’agonia del malato, lo Stato debba adoperarsi per predisporre gli strumenti necessari per consentire una procedura medicalizzata di anticipazione della morte, purché espressamente richiesta dall’interessato. Ed in questa prospettiva, costituzionalmente orientata, che deve leggersi il recente intervento normativo espressione ulteriore dell’egemonia del principio personalista. Principio personalista che, in una delle sue più importanti proiezioni: il diritto all’autodeterminazione, impone di coordinare il progresso della scienza medica con la volontà del paziente, riconoscendone la forza dirompente. Ecco allora che la novella legislativa diviene espressione di civiltà giuridica, attualizzando e concretizzando in norme giuridiche la speranza che Aldo Spallicci rivolse all’Assemblea Costituente, auspicandosi “che il giorno verrà in cui la scienza non esiterà ad abbreviare le nostre disgrazie, la morte sarà una cosa dolce e serena, la vita se ne andrà piano piano come la luce del giorno cede al crepuscolo della sera”.

Si veda anche, su questa Rivista, l'articolo di I. VALENTINO, "La nuova legge sul biotestamento", 12, 2017.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Il caso di dj Fabo.
[2] PALADIN, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 159.
[3] Calamandrei nel suo discorso sulla costituzione afferma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana" riconosce, con questo, che questi ostacoli oggi ci sono e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo, contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare, attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile, che abbia fissato, un punto fermo. È una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire, non voglio dire rivoluzionaria, perché rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente; ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva,che mira alla trasformazione di questa Società, in cui può accadere che, anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche, siano rese inutili, dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità, per molti cittadini, di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della Società. Quindi polemica contro il presente, in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente".
[4] Cfr. caso Englaro.
[5]Cass. civ., Sez. Un., nn. 26972; 26973; 26974; 26975, tutte depositate in data 11 novembre 2008; in Giust. civ. Mass. 2008, 11, 1588. Ciò che le ha distinte da molte altre precedenti sentenze della stessa Corte, è stata la loro capacità di innovare i criteri risarcitori del danno non patrimoniale.
[6] Sentenza Corte Cost. n. 438/2008.
[7] Cass. Civ. Sez. III, sentenza 8 novembre 2016, n. 22639.
[8] Cfr. caso Englaro.