• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Gio, 22 Mar 2018

L’overruling giurisprudenziale non autorizza la revoca della sentenza passata in giudicato

Modifica pagina

Annamaria Di Clemente


La Suprema Corte ha riaffermato il principio in base al quale, in tema di esecuzione, la sentenza di condanna passata in giudicato non può essere revocata ex art. 673 c.p.c., nell´ipotesi in cui, in assenza di innovazione legislativa ovvero di declaratoria di incostituzionalità, si verifichi un mutamento dell´interpretazione giurisprudenziale


Sommario: 1. Introduzione; 2. Nota alla sentenza della Cassazione penale n. 6990/2018

 1. Introduzione.

Il principio di certezza del diritto che informa il nostro sistema normativo sostanziale e processuale non impone alcun vincolo in capo al giudice, chiamato a decidere il caso concreto e, quindi, ad applicare la norma di legge, di conformarsi, nella sua attività interpretativa, ai precedenti giurisprudenziali; precedenti, questi, che possono, quindi, subire, sotto il profilo del criterio interpretativo seguito, modifiche fino a giungere ad un nuovo ed opposto orientamento, definito anche come overruling o revirement.
Il nostro ordinamento non prevede, invero, la regola dello stare decisis, propria dei sistemi del common law, per il cui effetto il giudice è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una precedente sentenza relativa ad una fattispecie identica sottoposta al suo giudizio, e, per converso, non è obbligato a conformarsi quando la fattispecie abbia solo un'apparente similarità (c.d. distinguishing).
In tale sistema i precedenti rappresentati dalle sentenze emesse anteriormente operano come fonti del diritto a cui si attribuisce negli ordinamenti, appunto, del common law la produzione di una considerevole parte delle norme.
E' appena il caso di osservare, inoltre, che secondo il principio dello stare decisis, l'efficacia vincolante del precedente, è limitata alla ratio decidendi, ossia alle argomentazioni essenziali su cui si fonda la decisione laddove quelle che non rivestono tale carattere costituiscono i c.d. obiter dicta (valutazioni incidentali) ai quali, viceversa, è riconosciuta una mera efficacia persuasiva.
Inoltre, si distingue uno stare decisis orizzontale che ricorre nel caso in cui il giudice è vincolato ad uniformarsi ad una precedente pronuncia emessa dall'ufficio a cui lo stesso appartiene ed uno stare decisis verticale che ricorre nel caso in cui il giudice è vincolato ad uniformarsi ad una precedente pronuncia emessa da un giudice a lui superiore per funzione o competenza.
Le regola dello stare decisis, in ogni caso, non esclude la revoca adeguatamente motivata e, quindi, l'overruling, del precedente da parte di un giudice superiore e, conseguentemente, la sua sostituzione, con effetto retroattivo.
Nel nostro ordinamento, invece, non esistendo la regola dello stare decisis, i precedenti giurisprudenziali, se pure frutto della interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, lasciano a ciascun giudice la facoltà di uniformarsi o meno.
Tale facoltà di non uniformarsi è riconosciuta al giudice rimettente pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente» (Corte Costituzionale, sentenza 12 marzo 2004 n. 91).
Riguardo alla natura dei precedenti giurisprudenziali, come fonti del diritto, con particolare riferimento al diritto penale, la Corte Costituzionale ha reiteratamente puntualizzato come nell'ordinamento italiano sia di centrale rilevanza il principio della riserva di legge, nell'accezione recepita dall'art. 25, secondo comma, Cost., che "demanda il potere di normazione in materia penale - in quanto incidente sui diritti fondamentali dell'individuo, e segnatamente sulla libertà personale - all'istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall'intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all'esito di un procedimento - quello legislativo - che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione" (sentenza 12 ottobre 2012 n. 230).

2. Nota alla sentenza della Corte di Cassazione n. 6990/2018

Svolta la superiore e breve premessa, si passa in rassegna il recente intervento della Suprema Corte in tema, appunto, di overruling giurisprudenziale in riferimento alla sentenza penale passata in giudicato.
Il caso trae origine dal ricorso per cassazione proposto dagli interessati avverso l'ordinanza pronunciata dal Tribunale, quale giudice dell'esecuzione, tesa ad ottenere la declaratoria di ineseguibilità della sentenza di condanna alla pena di quattro mesi di reclusione, emessa nei loro confronti dallo stesso Tribunale, quale giudice di appello, in riforma della sentenza assolutoria emessa dal Giudice di pace, divenuta irrevocabile.
La Corte di Cassazione nel decidere il suddetto caso, sulla premessa che il sindacato del giudice dell'esecuzione è limitato al controllo dell'esistenza e della legittimità del titolo esecutivo, non potendosi parlare di illegalità della pena in caso di "un mero revirement giurisprudenziale", ha riaffermato, citando una precedente pronuncia della stessa Corte, il principio di diritto in base al quale " in tema di esecuzione, la sentenza di condanna passata in giudicato non può essere revocata, ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., nell'ipotesi in cui, in assenza di innovazione legislativa ovvero di declaratoria di incostituzionalità, si verifichi un mutamento dell'interpretazione giurisprudenziale di una disposizione rimasta invariata, in quanto tale mutamento - anche se sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - non determina alcun effetto abrogativo della disposizione interpretata" (Cass. n. 11076/2016).
Con la motivazione in esame, nel rafforzare il suddetto principio, la Corte ha richiamato, altresì, la pronuncia mediante la quale la Corte Costituzionale "ha tenuto ben distinto il mutamento legislativo dal mutamento di indirizzo giurisprudenziale escludendo la possibilità di estendere il procedimento di revoca del giudicato in executivis ex art. 673 cod. proc. pen. per i casi di abolitio criminis all'ipotesi di overruling favorevole" (sentenza n. 230/2012, cit.).  
Si evidenzia, oltre ai precedenti richiamati nella sentenza in rassegna, una pronuncia a Sezioni Unite della Cassazione secondo cui "in riferimento al solo caso di abolitio criminis (sia pure riconosciuta come tale da un intervento giurisprudenziale successivo) che il giudice dell'esecuzione può revocare, ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen. , una sentenza di condanna pronunciata dopo l'entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorchè l'evenienza di detta abolitio criminis non sia stata rilevata nè apprezzata dal giudice della cognizione (atteso che in caso diverso ci si trova di fronte ad errore di diritto, emendabile solo in sede di impugnazione), precisando, altresì, che la revocabilità della sentenza deve invece essere esclusa, nella diversa ipotesi in cui, in assenza di interventi del legislatore, si verifichi un mutamento dell'interpretazione giurisprudenziale di una disposizione rimasta invariata, in quanto tale mutamento - anche se sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - non determina alcun effetto abrogativo della disposizione interpretata (S.U. sentenza 29 ottobre 2015 n. 26259).
In conclusione, si precisa che a riaffermare il suddetto principio è stato un altro recente intervento della Cassazione secondo cui il "mutamento di interpretazione giurisprudenziale, ove verificatosi in epoca posteriore rispetto alla formazione del giudicato, pur se potenzialmente favorevole, non rientra in alcuna delle ipotesi di revocabilità della sentenza ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., nè rappresenta la possibile ragione di un intervento da parte del giudice della esecuzione in punto di rivedibilità post-giudicato della sola entità della sanzione" (Cass. n. 11076/2017).