Il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali del cittadino dell´Unione residente in uno Stato membro di cui non possiede la cittadinanza
Modifica paginaIl quadro della disciplina giuridica del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali dei cittadini dell’Unione Europea in uno Stato membro in cui risiedono, ma di cui non hanno la cittadinanza, nonché della prassi relativa all’esercizio di tale diritto.
Sommario: 1.Introduzione. 2.Il quadro giuridico di riferimento. 2.1.Gli articoli 40 e 52 CDFUE e gli articoli 20 e 22 TFUE. 2.2. La direttiva 94/80/CE. 3.L’attuazione della direttiva 94/80/CE negli Stati membri. 4.L’esercizio del diritto di voto alle elezioni municipali: l’esperienza europea e italiana. 5.La sentenza Delvigne della Corte di giustizia sul diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo: quale rilievo per il diritto di voto alle elezioni municipali. 6.Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
L’oggetto di questo elaborato è la disciplina giuridica del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali dei cittadini dell’Unione Europea in uno Stato membro in cui risiedono ma di cui non hanno la cittadinanza, nonché la prassi relativa all’esercizio di tale diritto.
Dopo un’analisi del quadro giuridico di riferimento nel diritto dell’Unione europea, in particolare gli articoli 40 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e gli articoli 20 e 22 del Trattato sull’Unione europea, e della sua ratio, si offrirà una panoramica sullo stato dell’attuazione delle norme rilevanti da parte degli Stati membri. Si procederà con un'analisi delle criticità che la Commissione ha avuto modo di rilevare negli anni, in particolare monitorando l’attuazione della direttiva 94/80/CE. In seguito si esaminerà la prassi relativa all’esercizio di questo diritto con un focus sull’esperienza italiana, cui si affiancherà il tentativo di spiegare e interpretare i dati raccolti e di dare una valutazione circa l’effettività del diritto in questione. Da ultimo, traendo spunto dalla sentenza Delvigne pronunciata in riferimento a una misura di disenfranchisement i cui effetti venivano fatti valere in relazione al diritto di voto per il Parlamento europeo, si proverà a comprendere quale possa essere la reale portata di questo diritto sottoponendolo a una “prova di resistenza”, immaginando prima che il signor Delvigne cerchi di rientrare in possesso di questo diritto invece che di quello all’elezione del Parlamento europeo e poi immaginando che a vedersi sottratto il diritto di voto sia un cittadino non francese bensì di un altro Stato membro.
2. Il quadro giuridico di riferimento
2.1. Gli articoli 40 e 52 CDFUE e gli articoli 20 e 22 TFUE
L’art. 20 TFUE, nell’istituire la cittadinanza dell’Unione, chiarisce anche a chi spetti: chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro.
Il diritto di voto e di eleggibilità del cittadino dell’Unione europea alle elezioni comunali in uno Stato membro in cui risiede ma di cui non ha la cittadinanza trova fondamento innanzitutto all’art. 22 par. 1 TFUE[1] che prevede, tra l’altro, che esso debba essere garantito alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato stesso. È questo un elemento centrale che sarà ripreso in seguito ma che già da ora offre l’occasione per osservare come il leit motiv della produzione dell’Unione in materia sia il principio di uguaglianza e di non discriminazione[2].
Il medesimo articolo inoltre rimette al Consiglio il compito di definire le modalità di esercizio del diritto in esame con deliberazione all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, evidente segno della volontà di dare maggior legittimazione democratica alle scelte in tema di voto.
Ai diritti elettorali troviamo poi espresso riferimento all’art. 40 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[3] (di seguito “la Carta”), nota anche come la Carta di Nizza che, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, ha acquisito il medesimo valore giuridico dei trattati ai sensi dell’articolo 6 paragrafo 1 del TUE[4]. L’esistenza stessa di questo riconoscimento si pone in controtendenza con un principio risalente nel diritto internazionale, ossia la possibilità per gli Stati di porre limitazioni all’attività politica di coloro che non ne sono citttadini, di cui si può trovare un esempio nell’art. 16 della CEDU, secondo cui le disposizioni relative ad alcune libertà di espressione o di associazione non possono essere interpretate nel senso di impedire alle parti contraenti di imporre restrizioni all’attività politica degli stranieri[5].
Tale innovazione appare del tutto giustificata in virtù del ruolo centrale che la possibilità di eleggere i propri rappresentanti, ovvero di essere eletti, svolge nel processo di integrazione dei cittadini di altri Stati membri nella comunità in cui si trovano a risiedere. E d’altronde, se obiettivo delle istituzioni europee è favorire il senso di appartenenza all’Unione, è opinione di chi scrive che sia fondamentale dare ai cittadini la sensazione di potersi sentire “a casa” ovunque essi si trovino. Quella che può apparire come una contraddizione, trova una sua composizione se si prova ad immaginare l’Unione Europea come un unico grande Stato al cui interno il cittadino possa muoversi liberamente, con la consapevolezza che, in qualsiasi luogo risieda, potrà, per il tramite dei diritti che l’Unione stessa garantisce, partecipare alla vita politica locale.
Per poter comprendere l’ambito di applicazione della disposizione summenzionata, è indispensabile integrarla con le altre previsioni dei trattati menzionate in precedenza, dal momento che l’art. 52 par. 2 della Carta dispone che i diritti nella stessa riconosciuti che “trovano fondamento nei trattati comunitari o nel trattato sull’Unione Europea si esercitano alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi”.
2.2. La direttiva 94/80/CE
Alle previsioni dei Trattati si è dato seguito con la direttiva 94/80/CE del Consiglio del 19 dicembre 1994 che stabilisce le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza.
Nel Preambolo si ricorda che il diritto di voto e di eleggibilità costituiscono una applicazione del principio di uguaglianza e non discriminazione tra i cittadini e i non cittadini, nonché un corollario del diritto di libera circolazione e soggiorno.[6] Proprio in virtù della rimozione di ogni discriminazione, il Consiglio avverte che non debbono essere imposti requisiti speciali, segnatamente quelli connessi alla prova e alla durata della residenza.[7] Tutto quanto appena detto, ricorda il Consiglio, è sostanzialmente finalizzato alla soppressione del requisito della cittadinanza ai fini dell’esercizio dei diritti elettorali.[8]
Passando alla disciplina delineata dalla direttiva, questa, dopo aver fatte salve le disposizioni di ogni Stato in materia elettorale dei cittadini residenti fuori dal territorio nazionale (art.1 par 2) definisce cosa si intende, tra l’altro, per ente locale di base ed elezioni comunali[9]. Con riferimento a quest’ultime, l’art. 2 par. 1 lett. b) parla di “elezioni a suffragio universale diretto volte a designare i membri dell’organo rappresentativo e, se del caso, a norma della legislazione di ciascuno Stato membro, il capo e i membri dell’organo esecutivo dell’ente locale di base”. La direttiva poi si preoccupa di definire con più precisione chi abbia il diritto di voto e di eleggibilità. Nello specifico chi è cittadino dell’Unione e, “pur non essendone cittadino, possiede tutti i requisiti cui la legislazione dello Stato membro di residenza subordina il diritto di voto e di eleggibilità dei propri cittadini”, precisando, però, nel successivo art. 4 che qualora sia prescritto un periodo minimo di residenza, tale requisito può ritenersi soddisfatto se l’elettore o il candidato ha risieduto in altri Stati membri per un periodo equivalente. Si potrebbe sostenere che la previsione di cui all’art. 4 si pone in contrasto con lo spirito della direttiva, volta a favorire l’integrazione e l’inserimento del cittadino mobile nella comunità in cui risiede. Essa infatti, equiparando ai fini del soddisfacimento di un eventuale requisito di permanenza in uno Stato membro, il tempo trascorso in un diverso Stato membro, sembrerebbe inserirsi in un contesto di rafforzamento del senso di appartenenza all’Unione europea piuttosto che di creazione di uno stretto legame con la comunità locale di residenza. Si ritiene tuttavia, come già in precedenza accennato, che le due cose non siano contrapposte bensì si completino a vicenda e siano piuttosto le due facce della stessa medaglia.
Si è già anticipato della centralità del principio di uguaglianza e non discriminazione nella produzione normativa dell’Unione. In questa ottica, vengono in rilievo alcune disposizioni specifiche.
Innanzitutto, l’art. 3, che alla lett. b) impone l’uguaglianza dei requisiti richiesti a cittadini e non per l’esercizio del diritto di voto. Da questa previsione discendono quelle dell’art. 8, che prevede per gli Stati l’obbligo di pretendere che siano fornite dal non cittadino le stesse prove dell’elettore cittadino dello Stato in cui si svolge la consultazione elettorale, ma anche, specularmente, quella dell’art. 9 che dispone che all’atto del deposito della dichiarazione della candidatura, la persona di cui all’art. 3 debba fornire le stesse prove richieste ai cittadini salva la possibilità di esigere che questo presenti una dichiarazione formale che indichi la sua cittadinanza e il suo indirizzo nello Stato membro di residenza. Peraltro, il medesimo articolo prevede che all’atto di deposito della propria candidatura, il soggetto indichi di non essere decaduto dal diritto di eleggibilità nello Stato membro di origine, cosa che dovrà essere provata solo e soltanto in caso di dubbio mediante un attestato rilasciato dalle autorità amministrative dello Stato membro di origine. Tali disposizione, unitamente all’art. 4 hanno creato alcuni problemi di attuazione che verranno trattati più avanti[10]. Infine, nello stesso solco dei summenzionati articoli si inserisce anche l’art. 6 che prevede che le persone di cui all’art. 3 siano soggette alle stesse disposizioni in materia di incompatibilità che si applicano ai cittadini dello Stato. Costituisce invece una deroga al principio di non discriminazione l’art. 5 par. 3 della direttiva in esame che fa salva la possibilità per gli Stati membri di riservare l’eleggibilità alle funzioni di capo dell’organo esecutivo di un ente locale di base ai propri cittadini. In questa disposizione trova il proprio fondamento la previsione di cui all’art. 1 par. 5 del decreto legislativo 197/1996[11] che ha attuato in Italia la direttiva che priva i non cittadini dalla possibilità di ricoprire la carica di Vicesindaco[12]
3. L’attuazione della direttiva 94/80/CE negli Stati membri
L’art. 13 della direttiva 94/80/CE, impone alla Commissione l’obbligo di presentare al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione sull’applicazione della stessa. La prima risale al 2002 e in essa[13] si evidenzia che sono state aperte delle procedure d’infrazione nei confronti di ben undici Stati membri per non aver comunicato le disposizioni nazionali di attuazione ovvero per una recezione compiuta solo parzialmente entro il termine fissato dalla stessa direttiva nel 1° gennaio 1996[14]. Tali procedure sono però state chiuse a seguito dell’avvenuta comunicazione delle norme di attuazione, con l’unica eccezione di quella diretta nei confronti del Belgio, di cui la Corte ha accertato l’inadempimento degli obblighi. Detta sentenza merita una particolare attenzione perché permette alla Corte di richiamare un’importante e costante giurisprudenza di cui si darà conto dopo una breve esposizione dei fatti.
Nel 1996 la Commissione proponeva ricorso diretto a far dichiarare l’inadempimento del Belgio all’obbligo di conformarsi, entro il termine prescritto, alla direttiva del Consiglio 94/80/CE. Non essendo stata messa al corrente circa l’attuazione della medesima, la Commissione intimava allo Stato membro di comunicare le proprie osservazioni entro il termine di due mesi. A fronte della persistente inerzia delle autorità belghe, la Commissione, in data 27 novembre 1996, indirizzava un parere motivato al Belgio il quale, in risposta non si opponeva a tale constatazione bensì si preoccupava di giustificare la propria posizione asserendo la necessità di rivedere la propria Costituzione, segnatamente l’articolo 8.
Nell’emanare la sua sentenza, la Corte ha modo di ricordare che, per giurisprudenza costante, “uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del suo ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini imposti da una direttiva”. Conseguentemente, la Corte accerta che il Regno del Belgio era venuto meno agli obblighi ad esso imposti dall’articolo 14, primo comma, della direttiva 94/80/CE.[15]
La relazione prosegue poi con una analisi della conformità delle normative nazionali con la direttiva europea. L’esito di tale disamina appare, già nel 2002, soddisfacente dal momento che ha condotto all’avvio di tre soli procedimenti di infrazione[16]. Dalla Commissione viene rilevato come la maggior parte dei problemi riguardi l’attuazione degli articoli 3, 4 e 8.
Con riferimento all’art. 3, la Commissione ha constatato che la normativa greca si poneva in contrasto con il contenuto dell’articolo e con le finalità antidiscriminatorie della stessa direttiva, prevedendo la necessità di parlare la lingua greca per poter esercitare il diritto di voto.
Sempre la normativa ellenica, ad avviso della Commissione, risultava essere contraria al disposto dell’art. 4 par. 1 e al principio dell’equivalenza del luogo di residenza nel soddisfacimento dell’eventuale requisito in merito al fine dell’esercizio del voto, prevedendo l’obbligo di risiedere nel territorio ellenico.
Anche l’attuazione dell’articolo 8 ha comportato alcuni problemi, segnatamente sono state ritenute incompatibili con la direttiva previsioni che imponessero al non cittadino dello Stato di presentare una dichiarazione scritta in cui affermasse di non essere stato privato del diritto di voto nello Stato membro d'origine (è il caso della Grecia) ovvero una dichiarazione giurata con cui l’interessato attestasse di risiedere da almeno tre mesi continuativi nel comune ove desiderava votare e di avervi il proprio centro di interesse (è il caso della Germania). Questi oneri, non previsti dalla direttiva, sono stati considerati eccedenti e quindi contrari ad essa.
La circostanza che oggetto di cattiva attuazione siano principalmente quegli articoli che più degli altri racchiudono in sé la finalità di lotta alla discriminazione e di tutela del principio di uguaglianza, evidenzia una certa riluttanza da parte degli Stati membri a concedere ai non cittadini una equiparazione effettiva con i cittadini, soprattutto sul piano politico; questo contrasta fortemente con l’obiettivo, più volte dichiarato[17] di rendere lo status di cittadino dell’Unione lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri oltre che con quello, già richiamato, di rimuovere il requisito della cittadinanza ai fini dell’esercizio del diritto di voto e di eleggibilità.
Nella successiva relazione del 2012,[18] la Commissione conferma il proprio giudizio favorevole sullo stato dell’attuazione, tuttavia emerge anche che i problemi di recepimento già rilevati nella precedente relazione non sono stati del tutto risolti. In particolare permane il requisito discriminatorio del periodo minimo di residenza nello Stato, non temperato dalla equiparazione della residenza per un periodo equivalente in un altro Stato membro ai fini del soddisfacimento del requisito medesimo. La Commissione, inoltre, giudica non conforme alla direttiva “qualsiasi norma nazionale che imponga l’obbligo di presentare sempre un certificato dello Stato membro di origine in cui si dichiari che l’interessato non è decaduto dal diritto di eleggibilità”. Ciò che suscita le perplessità della Commissione è principalmente la sistematicità di questa richiesta che, al contrario, l’art. 8, consente solo in caso di dubbio.
Ancora una volta, dunque, emergono le resistenze degli Stati membri nei confronti di una visione unitaria dell’Unione e della cittadinanza europea.
Per quanto attiene l’ordinamento italiano, il recepimento della direttiva è avvenuto attraverso il decreto legislativo 197/1996 che recepisce adeguatamente quanto previsto nella direttiva 94/80/CE.
4. L’esercizio del diritto di voto alle elezioni municipali: l’esperienza europea e italiana
L’analisi del concreto esercizio dei diritti elettorali in seguito offerta si muoverà su due piani, verrà dato un quadro generale a livello europeo, cui farà seguito un approfondimento sull’Italia con particolare menzione della Toscana.
Nella relazione del 2002, la Commissione stima un bacino di 4,7 milioni di potenziali elettori, beneficiari dei diritti garantiti dalla direttiva 94/80/CE ma, dove non è prevista l’iscrizione d’ufficio, la percentuale di iscritti nelle liste elettorali, requisito necessario per l’esercizio del diritto di voto, varia da paese a paese, attestandosi su una desolante media del 26,7 %. Ai due estremi troviamo l’esempio virtuoso dell’Irlanda e dell’Austria dove gli stranieri iscritti risultano essere superiori alla metà dei residenti sul territorio e quello negativo di Grecia, Portogallo e Lussemburgo dove la media non supera il 10%. La probabile spiegazione del maggior successo del caso irlandese è da trovare nella circostanza che per i residenti non cittadini fosse possibile votare già a partire dal 1963. Il dato allarmante però risiede nella tendenza negativa che emerge nella relazione successiva, distante 10 anni.
Sebbene il numero di potenziali elettori sia pressoché raddoppiato, raggiungendo la cifra di 8 milioni, i dati evidenziano come di questi soltanto il 10% circa abbia chiesto l’iscrizione nelle liste elettorali. Va detto però che tale calo risulta coerente con i rilievi sulla partecipazione complessiva alle elezioni amministrative che ha subito un netto calo nei dieci anni trascorsi sintomo di una generalizzata disaffezione alla politica.
Con riferimento al voto dei non cittadini residenti occorre considerare anche che i dati raccolti si riferiscono soltanto all’ iscrizione nelle liste elettorali perché, una volta che questa si è perfezionata, viene a cadere la distinzione tra cittadini e non cittadini, dal momento che gli Stati non sono soliti raccogliere questi dati per non incorrere in discriminazioni. Ciò però significa che il numero dei votanti effettivi potrebbe essere ancora inferiore.
Un’ulteriore osservazione statistica viene effettuata dalla Commissione. Essa rileva che “la
netta prevalenza di una specifica comunità nazionale rispetto al numero complessivo di cittadini dell’Unione residenti in uno Stato membro e privi della cittadinanza di quello Stato membro corrisponde in alcuni casi a un’elevata partecipazione di tale comunità alle elezioni amministrative. È il caso questo di Irlanda, Spagna e Svezia”. È probabile che si possa spiegare tale fenomeno, immaginando queste comunità come gruppi da tempo radicati sul territorio di uno Stato e ben integrati con il tessuto sociale dello stesso, e quindi desiderosi di partecipare attivamente alla vita politica.
Per quanto attiene più specificamente all’esperienza italiana[19], appare interessante riportare una statistica che evidenzia una peculiarità del nostro Paese. Secondo i dati Eurostat, l’Italia è, dopo Germania, Regno Unito e Spagna, uno dei paesi con la più alta percentuale di cittadini comunitari residenti. Al tempo stesso però è il terzo Stato con il più alto numero di cittadini residenti in un altro Stato europeo, dietro solo a Romania e Polonia.
Una ricerca effettuata da Cittalia[20] su tredici città italiane[21] rivela come in media suolo l’8% degli aventi diritto decidano di iscriversi alle liste elettorali aggiunte, con una preferenza marcata per le liste relative alle elezioni amministrative.
Concentrandosi sull’esperienza toscana, si rileva come dei circa 3.800.000 residenti, 110.000 siano cittadini di un altro Stato membro , in particolare Romania e Polonia. Tra questi, solo 1319 sono iscritti alle liste elettorali per il Parlamento Europeo e 3804 a quelle per le amministrative[22]. Anche a livello regionale si conferma quindi la tendenza nazionale alla predilezione per le seconde rispetto alle prime, condivisa peraltro con i cittadini. Tale squilibrio, a parere di chi scrive, può trovare spiegazione in almeno un paio di fattori. In primo luogo la percezione che il voto alle elezioni amministrative possa avere un impatto maggiore sulla vita quotidiana del residente elettore che quindi può essere più incline a dare il proprio contributo in quella sede. È in effetti innegabile che le politiche degli enti locali siano quelle che più immediatamente permettono di apprezzare le conseguenze del voto. Al contrario, gioca un ruolo negativo la diffusa opinione che le istituzioni europee siano lontane dai problemi dei cittadini. L’altra ragione che potrebbe spiegare questo squilibrio è da ricondursi alle difficoltà che incontra un cittadino di uno Stato membro diverso ad identificarsi e a riconoscere le proprie idee nei partiti italiani e soprattutto a comprendere come il proprio voto influenzerà la composizione del Parlamento, cosa che potrebbe spingerlo a tornare nel proprio Paese d’origine per esercitare il proprio diritto di voto. Sono in effetti noti i deficit di chiarezza nei collegamenti tra partiti nazionali e partiti europei che hanno spinto le istituzioni europee ad adottare numerosi atti[23] che invitano i primi ad attuare una politica di maggior trasparenza ai fini dell’individuazione della futura affiliazione sugli scranni del Parlamento europeo.
5. La sentenza Delvigne della Corte di giustizia sul diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo: quale rilievo per il diritto di voto alle elezioni municipali[24]
Prima di avviare una riflessione sul punto, è indispensabile una esposizione sintetica dei fatti della causa. Il signor Delvigne, a causa di una condanna penale, si vedeva privato dei suoi diritti elettorali[25]. Egli chiedeva perciò al giudice del rinvio di adire la Corte in via pregiudiziale, lamentando la violazione ad opera della legge del 16 dicembre 1992 di diverse disposizioni della Carta dei Diritti Fondamentali[26].
La questione sarebbe puramente interna: egli è un cittadino francese, detenuto in Francia con una pena prevista dal codice penale francese.
Chiamata a pronunciarsi in merito, la Corte statuisce però positivamente sulla propria competenza[27] riconducendo la situazione del signor Delvigne al diritto dell’Unione europea.
Sebbene l’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla decisione del Consiglio 76/787/CECA, CEE, Euratom, del 20 settembre 1976 [in seguito per brevità, l’atto del 1976] nulla disponga circa i soggetti che godono del diritto di voto all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo e quindi tale scelta sia rimessa alla competenza degli Stati membri, questi non godono di discrezionalità assoluta in quanto tenuti al rispetto dell’obbligo di cui all’articolo 1 paragrafo 3 dell’atto del 1976[28] e di cui all’articolo 14 paragrafo 3 del TUE[29] di assicurare che l’elezione dei membri del Parlamento europeo si svolga a suffragio universale diretto, libero e segreto. Proprio questo vincolo permette alla Corte nella sentenza Delvigne di ricondurre alla propria competenza la situazione del ricorrente affermando che “uno Stato membro il quale, nel contesto dell’attuazione dell’obbligo ad esso incombente, ai sensi degli articoli 14, paragrafo 3, TUE e 1, paragrafo 3, dell’atto del 1976, preveda, nella normativa nazionale, l’esclusione dai beneficiari del diritto di voto alle elezioni al Parlamento europeo dei cittadini dell’Unione che, al pari del sig. Delvigne, sono stati oggetto di una condanna penale divenuta definitiva prima del 1o marzo 1994, attua il diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta[30].”
Con riferimento ai diritti elettorali alle elezioni comunali manca una disposizione assimilabile all’atto del 1976 tuttavia a parere di chi scrive, non si porrebbe al di fuori del solco tracciato dalla Corte l’interpretazione che vede nelle previsioni della direttiva 94/80/CE un collegamento con il diritto dell’Unione Europea.
Sebbene la disciplina concreta delle modalità di partecipazione alle elezioni degli enti locali di base sia rimessa agli Stati membri, similmente a quanto avviene per le elezioni del Parlamento europeo, la fonte europea si preoccupa di definire dei criteri ispiratori (ben esplicitati nei considerando in precedenza trattati[31]) arrivando anche a dare indicazioni più precise con riferimento alla concreta disciplina da adottare (ad esempio l’equiparazione della residenza in un altro Stato). A maggior ragione dunque il collegamento al diritto europeo apparirebbe ancora più stretto. ,
Occorre però tenere in considerazione un ulteriore elemento che distingue le due ipotesi. Il diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo sembrerebbe incontrare una protezione incondizionata, non solo per il cittadino dell’Unione che vota in uno stato membro di cui non ha la cittadinanza ma anche per coloro che votano nel proprio Stato di origine[32]. Una tale affermazione può essere corroborata dalle parole dell’Avvocato Generale che nelle sue conclusioni nelle sentenze Spagna c. UK ed M. G. Eman e O. B. Sevinger contro College van burgemeester en wethouders van Den Haag afferma, al paragrafo 69, quanto segue: “(...) la titolarità del diritto di voto alle elezioni europee discende per i cittadini dell’Unione anzitutto dai principi di democrazia su cui questa si fonda, ed in particolare (...) dal principio di universalità del voto, che costituisce «oramai il principio di riferimento». degli ordinamenti democratici europei (...). Tale regola milita, infatti, a favore del riconoscimento del diritto di voto «al maggior numero possibile di persone e quindi, almeno in linea di principio, a tutti i consociati della comunità statale».” E prosegue poi affermando: “ Credo quindi che si possa affermare che, già in forza dei principi fondamentali (...), i cittadini dell’Unione sono titolari per così dire «necessari» del diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo, nel senso che almeno in linea di principio essi possono tutti vantare tale diritto” a prescindere quindi che questi abbiano o meno esercitato il diritto alla libera circolazione e soggiorno.[33]
Nella sentenza Delvigne la Corte sembrerebbe aver finalmente accolto quella visione già prospettata dall’Avvocato Generale di cui si è appena dato conto[34], secondo la quale il diritto di voto per il Parlamento europeo si rivolge e vede come beneficiari indistintamente tutti i cittadini dell’Unione. Se si condivide questa impostazione appare comprensibile il ragionamento per cui il fatto che la situazione del signor Delvigne sia puramente interna non osti a che la Corte la riconduca al diritto dell’Unione nelle modalità già descritte: il ricorrente rientra tra i destinatari delle norme europee concernenti il diritto di voto al Parlamento europeo e perciò sulla sua situazione può pronunciarsi il giudice europeo.
Con riferimento alle elezioni comunali non è altrettanto facile. La direttiva 94/80/CE, infatti, fin dai suoi considerando, dichiara espressamente che i diritti elettorali di cui all’articolo 40 CDFUE nonché di cui all’articolo 22 TFUE costituiscono oltre che applicazione del principio di uguaglianza, un corollario della diritto alla libera circolazione e soggiorno. È proprio questo riferimento che solleva qualche interrogativo sulla concreta possibilità di ricondurre la situazione del signor Delvigne al diritto dell’Unione Europea. Egli infatti non ha esercitato il diritto di circolazione e soggiorno ed è perciò difficile immaginarlo tra i beneficiari della direttiva . Reciso questo collegamento, viene a mancare una fonte normativa di riferimento applicabile al caso concreto che permetta di ricondurlo al diritto dell’Unione.
Quanto appena considerato permette di giungere a una conclusione differente qualora si immagini che il ricorrente sia non un cittadino francese bensì di un altro Stato membro. In questo caso infatti un soggetto che si trovasse detenuto in un Paese di cui non ha la cittadinanza, incontrerebbe quella condicio sine qua non per poter invocare i diritti garantiti dalla direttiva 94/80/CE. In quanto beneficiario di una normativa europea quindi, il cittadino potrebbe esigerne l’applicazione nei propri confronti e quindi invocare la tutela della propria situazione giuridica di fronte alla Corte, similmente a quanto ha fatto il signor Delvigne.
6. Considerazioni conclusive
Alla luce di quanto fin qui esaminato possono essere fatte varie considerazioni. In primo luogo non si può non sottolineare lo sforzo delle istituzioni europee nella lotta alle disuguaglianze in materia di esercizio del diritto di voto, in direzione di un’Europa sempre più vicina ai suoi cittadini in cui la libertà di circolazione e di soggiorno possano essere più serenamente esercitati perché non più in grado di incidere negativamente sull’esercizio dei diritti politici. La strada è ancora lunga però perché i dati dimostrano come, nonostante un buon livello di consapevolezza dei cittadini europei mobili[35], anche grazie a varie iniziative dei Governi europei quali pubblicazioni informative sui propri siti istituzionali, invio di fac-simile dei materiali elettorali e addirittura l’istituzione di helpline dedicate, il concreto esercizio dei diritto di votare e di essere letto è ancora insufficiente. Va infine rilevata ancora una certa ritrosia degli Stati membri ad abbracciare pienamente lo spirito antidiscriminatorio della direttiva 94/80/CE, attestata dalle procedure di infrazione avviate e dalle criticità evidenziate dalla Commissione nelle sue relazioni sull’attuazione della direttiva medesima.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Il primo paragrafo dell’articolo 22 dispone quanto segue: “Ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.”
[2] Più diffusamente si tratterà nel tema nel capitolo successivo.
[3] L’articolo 40 CDFUE recita quanto segue: “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato”.
[4] L’articolo 6 paragrafo 1 TUE dispone che: “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.”
[5] Si vedano, sul punto le spiegazioni all’articolo 40 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
[6] Nel terzo considerando della direttiva in esame si legge che: “ il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza, previsto dall'articolo 8 B, paragrafo 1 del trattato che istituisce la Comunità europea, costituisce un'applicazione del principio di uguaglianza e non discriminazione fra cittadini e non cittadini, nonché un corollario del diritto di libera circolazione e di soggiorno, sancito dall'articolo 8 A dello stesso trattato”.
[7] Si fa qui riferimento al quinto considerando che recita quanto segue: “considerando che (...) è quindi necessario che i requisiti che uno Stato membro prescrive per i cittadini di altri Stati membri, segnatamente quelli connessi alla prova e alla durata della residenza, siano identici a quelli eventualmente prescritti ai propri cittadini; che ai cittadini di altri Stati membri non dev'essere imposto il possesso di requisiti speciali, a meno che, in casi eccezionali, delle circostanze specifiche giustifichino un trattamento differenziato dei cittadini degli altri Stati membri rispetto ai propri cittadini”.
[8] È questo il quarto considerando in cui si afferma quanto segue: “considerando che l'applicazione dell'articolo 8 B, paragrafo 1 del trattato non presuppone un'armonizzazione integrale dei sistemi elettorali degli Stati membri; che tale articolo mira essenzialmente a sopprimere il requisito della cittadinanza, che attualmente è prescritto dalla maggior parte degli Stati membri ai fini dell'esercizio del diritto di voto e di eleggibilità”.
[9] La definizione di ente locale è data dall’articolo 2 paragrafo 1 lettera a ed è la seguente: “gli enti amministrativi (...) che, a norma della legislazione di ciascuno Stato membro, dispongono di organi eletti a suffragio universale diretto e sono competenti ad amministrare, al livello di base dell'organizzazione politica ed amministrativa dello Stato, determinati affari locali sotto la propria responsabilità”.
[10] Più diffusamente si veda infra paragrafo 3.
[11] Sul tema si è tratto spunto da: A. NICCOLI Le assunzioni di cittadini stranieri nella Pubblica amministrazione italiana, in Altalex, articolo del 19/06/2006.
[12]Ciò è permesso dal disposto dell’articolo 45 paragrafo 4 del TFUE che prevede la non applicabilità agli impieghi nella pubblica amministrazione delle disposizioni sulla libera circolazione dei lavoratori in esso contenute. In merito peraltro ebbe modo di pronunciarsi la Corte di Giustizia Europea nella causa 149/79 che nell’occasione chiarì il carattere non assoluto di tale esclusione che può aversi soltanto per quei posti e quelle funzioni che implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero attengono alla tutela dell’interesse nazionale. In merito dispone l’art. 38 del D.Lgs. 165/2001 che rinvia ad un regolamento l’individuazione dei posti e delle funzioni per i quali è indispensabile la cittadinanza italiana. Tale regolamento è il DPCM 174/1999. Per lo stesso motivo, è preclusa al non cittadino la possibilità di candidarsi a Sindaco.
[13] Relazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio concernente l'applicazione della direttiva 94/80/CE sulle modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali del 30 maggio 2002.
[14]All’articolo 14 si legge che: “Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva anteriormente al 1° gennaio 1996. Essi ne informano immediatamente la Commissione. (...)”.
[15] Corte di Giustizia sent. 9 luglio 1998, Commissione delle Comunità europee c. Regno del Belgio, causa 323/97, in Raccolta, 1998, p. I-04281.
[16] Uno contro la Germania e due contro la Grecia.
[17] Tra i vari casi, si veda: Corte di giustizia, sent. 20 settembre 2001, Rudy Grzelczyk c. Centre public d'aide sociale d'Ottignies-Louvain-la-Neuve, causa 184/99, in Raccolta, 2001, p. I-06193 e anche Corte di giustizia, sent. 2 marzo 2010, Janko Rottmann c. Freistaat Bayern, causa 135/08, in Raccolta, 2010, p. I-01449.
[18] Relazione della commissione al parlamento europeo e al consiglio riguardante l’applicazione della direttiva 94/80/CE che stabilisce le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza del 9 marzo 2012.
[19] I dati e le considerazioni sull’argomento sono tratte dal report: “Operation Vote. Promuovere la partecipazione dei cittadini dell’Unione Europea alle elezioni locali e del Parlamento Europeo” del 2014 ad opera del COSPE e con il patrocinio della Regione Toscana.
[20] M. GIOVANNETTI, G.PERIN, I cittadini comunitari e la partecipazione al voto, Cittalia, settembre 2012.
[21] Alessandria, Asti, Bologna, Firenze, Forlì, Genova, Monza, Padova, Parma, Reggio Emilia, Torino, Varese e Verona.
[22] Fonti: ufficio elettorale Regione Toscana ottobre 2013 e Istat 2011.
[23] Si vedano, tra le altre, la Raccomandazione della Commissione del 12 marzo 2013, Sul rafforzare l’efficienza e la democrazia nello svolgimento delle elezioni del Parlamento europeo (2013/142/UE), in, G.U.U.E L 79 del 21 marzo 2013, pp. 29 ss. o la Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Verso elezioni più democratiche, Relazione sull’attuazione delle raccomandazioni della commissione del 12 marzo 2013 sul rafforzare l’efficienza e la democrazia nello svolgimento delle elezioni del Parlamento europeo, COM(2014) 196 final ma anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 4 luglio 2013 sul miglioramento delle modalità pratiche per lo svolgimento delle elezioni europee del 2014 (2013/2102(INI)).
[24] Corte di Giustizia, sent. 1 marzo 1994 Thierry Delvigne c. Commune de Lesparre Médoc e Préfet de la Gironde, causa 650/13, Raccolte Digitali.
[25] Tale privazione si applicava de iure ex artt. 28 e 34 del vecchio codice penale francese in seguito alla condanna ad una pena privativa della libertà di dodici anni per un delitto grave, pronunciata nel 1988. Sebbene nel nuovo codice penale tale pena accessoria non possa più discendere d’ufficio ma debba essere pronunciata da un giudice, ai sensi dell’articolo 370 della legge del 16 dicembre 1992, la privazione dei diritti civili del signor Delvigne era stata mantenuta poiché risultava da una condanna penale divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore del nuovo codice penale.
[26] Nello specifico il giudice del rinvio sottoponeva alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: 1) “se l’articolo della Carta (...) debba essere interpretato nel senso che osta a che na disposizione di legge nazionalee mantenga un fivieto, del resto indefinito e sproporzionato, di far beneficiare di una pena più lieve le persone condannate pprima dell’entrata in vigore della legge penale più favorevole” 2) Se l’articolo 39 della Carta (...) applicabile alle elezioni del Parlamento europeo debba essere interpretato nel senso che impone agli Stati membri dell’Unione Europea di non prevedere un divieto generale, indefinito e automatico di esercitare i diritti civile e politici, al fine di non creare una disparità di trattamento tra i cittadini degli stati membri”.
[27] La Corte, dopo aver ricordato che” l’ambito di applicazione della Carta, per quanto riguarda l’operato degli Stati membri, è definito all’articolo 51, paragrafo 1, della medesima, ai sensi del quale le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”, precisa che “ove una situazione giuridica non rientri nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente al riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza”. Tale giurisprudenza era già emersa in: Corte di giustizia, sent. 26 febbraio 2013, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, Causa 617/10, in Raccolte Digitali.
[28] “L’elezione si svolge a suffragio universale diretto, libero e segreto”.
[29] “I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto, per un mandato di cinque anni”.
[30] Il quale dispone che: “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze”.
[31] Si rimanda qui al paragrafo 2.1.
[32] Sul punto si è tratto ispirazione da: HANNEKE VAN EIJKEN & JAN WILLEM VAN ROSSEM, Prisoner disenfranchisement and the right to vote in elections to the European Parliament: Universal suffrage key to unlocking political citizenship?, in European Constitutional Law Review, 2016, pp. 114-132.
[33]Va però rilevato, a onor del vero, che nella sentenza Eman e Sevinger la Corte di giustizia rileva che le previsioni sulla cittadinanza del Trattato sull’Unione Europea “non riconoscono ai cittadini dell’Unione un diritto incondizionato di voto attivo e passivo per il Parlamento europeo”. Il cambiamento di rotta della Corte potrebbe essere dovuto, come osserva SHAW, alle spiegazioni dell’articolo 39 CDFUE in cui si osserva che: “L’articolo 39 paragrafo 2 riprende i principi di base del sistema elettorale in uno Stato democratico”.
[34] In questo senso anche J. SHAW Prisoner voting: now a matter of EU law, in EU Law Analysis, articolo del 15 ottobre 2015.
[35] “Operation Vote. Promuovere la partecipazione dei cittadini dell’Unione Europea alle elezioni locali e del Parlamento Europeo” del 2014 ad opera del COSPE e con il patrocinio della Regione Toscana.