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Pubbl. Gio, 29 Mar 2018

Il contratto di donazione e la donazione indiretta di beni futuri

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Luigi Rubino


Una breve riflessione su un tema spesso assente nella casistica giurisprudenziale, affrontato mediante il ricorso alle recenti evoluzioni del concetto di causa del contratto.


Per definire il contratto di donazione non può prescindersi dal dato normativo e, più precisamente, dall’art. 769 c.c. secondo il quale “per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”.

Emerge chiaramente dalla disposizione che l’essenza della donazione è scolpito nell’effetto di liberalità per cui una parte decide di depauperare spontaneamente la propria sfera giuridica – disponendo di un suo diritto o assumendo un’obbligazione – a vantaggio del beneficiario, il quale ne risulta arricchito. Trattasi dunque di un contratto gratuito e animato dall’intento di liberalità, elemento quest’ultimo non sempre sovrapponibile con la gratuità, atteso che, se per un verso, tutte le liberalità sono negozi gratuiti, sovente invece non accade il contrario; la gratuità infatti inerisce al profilo del rapporto contrattuale (basti pensare al mutuo senza la pattuizione di interessi), la liberalità invece alla causa del negozio, che dunque produce quell’effetto duplice poc’anzi descritto: impoverimento e locupletazione.

La donazione è contratto unilaterale, modellato sulla schema ex art. 1333 c.c., essendo le obbligazioni poste a carico del solo donante; consensuale, poiché si perfeziona normalmente con il consenso delle parti legittimamente manifestato (salvo il caso della donazione di modico valore, qualificata come contratto reale); ad effetti reali oppure obbligatori, a seconda che l’intento prodigale venga attuato mediante la disposizione di un proprio diritto – donazione reale traslativa – oppure l’assunzione di un’obbligazione, nel qual caso si discorre di donazione obbligatoria. Trattasi infine di contratto formale, in quanto non soltanto è prescritto sempre l’atto pubblico sia per i beni mobili che per gli immobili, ma anche la presenza di due testimoni, come prescritto dalla legge notarile.

Da quanto appena descritto è possibile individuare agevolmente i requisiti strutturali della donazione, così come enunciati nell’art. 1325 c.c.: l’accordo delle parti, imprescindibile per il perfezionamento del negozio; la causa, individuata nello spirito di liberalità che anima il comportamento del disponente e determina il duplice effetto summenzionato; la forma, prescritta “ad substantiam” a pena di nullità ed infine l’oggetto, sul quale occorre soffermarsi più approfonditamente.

Giova innanzitutto precisare che, come afferma autorevole dottrina, può distinguersi l’oggetto immediato da quello mediato del contratto. Se il primo infatti riguarda le prestazioni a cui è tenuto il donante, il secondo è individuato nella “res” oggetto della liberalità.

Non v’è dubbio che suscettibili di donazione siano i diritti reali immobiliari, tra i quali la proprietà e tutti gli altri diritti reali minori di godimento, quali esemplificativamente l’usufrutto o la servitù. È altresì possibile donare l’universalità di mobili, l’eredità nel suo complesso, beni mobili o immobili presenti nel patrimonio del donante, nonché partecipazioni sociali di società.

L’art. 771 c.c. assume una fondamentale importanza con riguardo all’oggetto del contratto, perché vieta categoricamente che l’atto di liberalità sia rappresentato da beni futuri. Il veto del legislatore risiede nell’intento di porre un argine alla prodigalità del disponente, il quale potrebbe non avere reale contezza del valore delle “res” donate e, dunque, sperperare il proprio patrimonio. L’espressione “beni futuri”, lungi dal rappresentare un concetto dalla semantica chiara e ben definita, ha dato vita ad un accesso contrasto in dottrina e giurisprudenza, culminato poi nella sentenza resa dalla Cassazione a Sezioni Unite n. 5068/2016.

Alla base delle incertezze ermeneutiche degli ultimi anni si è posto il concetto di futurità, da alcuni inteso in senso oggettivo e da altri – soprattutto in tempi più recenti – in termini soggettivi. I sostenitori della prima impostazione ritengono infatti che il dettato della norma non lasci alcuno spazio per l’interpretazione e che, pertanto, il divieto di alienazione contenuto nell’art. 771 c.c.si riferisca a tutti i beni non venuti ancora ad esistenza nella realtà fenomenica. Essi sarebbero in altri termini oggettivamente inesistenti, sicché un eventuale atto dispositivo a titolo gratuito sarebbe affetto da nullità.

Secondo l’interpretazione più evoluta, invece, la futurità attiene non soltanto ai beni non esistenti in natura, ma anche a quelle “res” che, seppur presenti nella realtà materiale, non possono essere alienate perché non appartenenti al donante al momento dell’atto di disposizione; esse costituirebbero beni futuri sotto il profilo esclusivamente soggettivo, stante la loro mancata presenza nella sfera giuridica del disponente.

Siffatta opzione ermeneutica è stata fatta propria dal Supremo Consesso della Corte di Cassazione, la quale si è trovata ad affrontare anche la correlativa tematica – irrilevante ai nostri fini – del decorso del termine dell’usucapione conseguenziale all’aver posseduto ininterrottamente il bene per un certo numero di anni. A prescindere da ciò, la pronuncia delle Sezioni Unite è rilevante in quanto se, da un lato, sancisce la nullità della donazione di cosa altrui tutte le volte in cui il donante non sia a conoscenza dell’altruità del bene donato, dall’altro invece ritiene di salvare siffatta operazione allorché il disponente sia conscio della terzietà della “res” e si impegni a procurarsene la titolarità.

La soluzione adottata nel primo caso, tuttavia, non discende dall’applicazione dell’art. 771 c.c. alla donazione di beni altrui, ma prende le mosse dal disposto dell’art. 769 c.c., a tenore del quale il donante può compiere la liberalità “disponendo di un suo diritto”; soltanto l’appartenenza del bene alla propria sfera giuridica consentirebbe la produzione del duplice effetto di arricchimento e, soprattutto, impoverimento richiesto dal contratto di donazione. La causa di tale negozio giuridico consiste infatti proprio nell’attribuzione effettuata a scopo di liberalità, con la conseguenza che giammai la donazione di un bene altrui realizzerebbe la relativa funzione prevista dalla legge; il contratto sarebbe dunque nullo per mancanza di causa.

Diversa la situazione in cui il disponente conosca l’altruità del bene gratuitamente alienato. La giurisprudenza reputa indispensabile tale condizione per la validità del negozio posto in essere, con la conseguenza che il depauperamento economico del donante non si verifica nell’immediato, bensì in un momento successivo, ossia al momento dell’acquisto del bene dal terzo.

Quanto appena detto vale naturalmente per le donazioni dirette, ossia tutte quelle operazioni negoziali che si avvalgono dello schema previsto dall’art. 769 c.c. per realizzare lo scopo tipico della liberalità. Nel nostro ordinamento, tuttavia, allo stesso risultato può pervenirsi mediante il ricorso a strumenti diversi da quello legalmente previsto: si discorre in questi casi di donazioni indirette, istituto caratterizzato dalla divergenza tra lo scopo di liberalità perseguito dalle parti e lo schema negoziale da queste adoperato. In siffatte ipotesi il fine resta lo stesso della donazione – impoverimento e arricchimento – sebbene si faccia ricorso a svariati mezzi giuridici che vengono, pertanto, “piegati” alla funzione in concreto voluta dalle parti.

Il prevalente orientamento giurisprudenziale sostiene la riconducibilità della donazione indiretta nell’ampio “genus” del negozio indiretto, istituto non espressamente disciplinato dal codice civile ma sovente utilizzato nella prassi contrattuale per gli evidenti vantaggi relativi alla obliterazione delle formalità richieste per la donazione. Invero, anziché ricorrere a quest’ultima e ai correlativi oneri di forma dell’atto pubblico e dei testimoni, il medesimo risultato può raggiungersi attraverso un tipo negoziale più snello e per il quale la legge non richiede prescrizioni di forma; è notorio, infatti, che nel negozio indiretto – caratterizzato da un negozio mezzo e un negozio fine – la forma richiesta è quella relativa al primo (ad esempio, nel nostro caso, una cessione del credito gratuita) e non certamente al secondo (liberalità donativa).

Orbene, nel silenzio della legge, è discussa l’applicabilità dell’art. 771 c.c. alla donazione indiretta di beni futuri, cioè il compimento di atti di disposizione, diversi appunto dalla donazione, aventi ad oggetto “res” non esistenti nella realtà oppure cose non rientranti nella titolarità del disponente al momento dell’atto. L’interrogativo potrebbe trovare risposte diverse a seconda delle prospettive dalle quali si analizza la questione.

L’art. 771 c.c. non fa alcuna menzione, né tantomeno differenzia la disciplina applicabile alle due tipologie di liberalità (donative e non), tanto che parte della dottrina sostiene che, ove il legislatore avesse previsto un differente regime per le donazioni indirette di beni futuri, lo avrebbe esplicitamente previsto in ossequio al brocardo “ubi lex voluit, dixit”.

Di diverso parere un’altra corrente dottrinale, secondo cui l’articolo in esame si riferisce solo ed esclusivamente alle donazioni dirette, in quanto norma non suscettibile di applicazione analogica e, dunque, non riferibile anche agli atti di prodigalità attuati con mezzi diversi dallo schema donativo tipico.

A parere di chi scrive, sembra preferibile la prima soluzione anche e soprattutto in virtù della moderna impostazione della causa in concreto affermatasi nel panorama giurisprudenziale dell’ultimo decennio. Occorre infatti sottolineare che, in virtù di questa nuova teoria, la causa del contratto costituisce la c.d. sintesi degli effetti essenziali del negozio giuridico concluso, restando oramai sullo sfondo la concezione della causa in astratto quale funzione economico sociale individuata a monte dal legislatore attraverso la predisposizione di determinati modelli negoziali.

Se è dunque necessario accertare in concreto la destinazione teleologica del negozio, non può non fornirsi risposta positiva al quesito relativo alla riconducibilità della donazione indiretta nell’alveo dell’art. 771 c.c., quantomeno quella avente ad oggetto beni oggettivamente futuri, ossia beni ancora non presenti in rerum natura. Sia pure con mezzi alternativi allo schema tipico, le parti vogliono l’arricchimento e l’impoverimento mediante atti dispositivi di beni futuri; per tale ragione, anche in siffatte ipotesi, troverà applicazione il divieto di alienazione rivolto a frenare la prodigalità del disponente.

Per ciò che concerne infine i beni soggettivamente futuri, cioè le cose indirettamente donate senza esserne titolari, giova richiamare quanto statuito dalle Sezioni Unite nella succitata sentenza 5068/2016. Sarà pertanto valida la donazione indiretta di beni altrui allorquando la terzietà della “res” sia ben nota al donante ed egli faccia in modo di procurarsene l’acquisto, così da dare il crisma della definitività ad una fattispecie in via di formazione.