Compensatio lucri cum damno: una panoramica prima delle Sezioni Unite
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Paolo Del Gaudio
I contorni di un istituto giuridico incerto, anche alla luce dell´ordinanza interlocutoria del 22 giugno 2017 n. 15534.
Sommario: 1. Premessa; 2. Sistematica tradizionale; 3. Criticità e nuove prospettive; 4. Conclusioni.
1. Premessa
È nuovamente tornato alla ribalta, nell’ambito della vasta galassia dei problemi riguardanti la liquidazione del danno da fatto illecito, quello concernente l’incidenza delle provvidenze, per la vittima o i suoi parenti, conseguite al sinistro.
La strage di Ustica costituisce l’occasione per interrogarsi su una delle figure più discusse dell’ordinamento: la compensatio lucri cum damno, nell’auspicio che fra non molto le Sezioni Unite possano fare luce sul punto, risolvendo decenni di contrasti giurisprudenziali. Il tema è, a dir il vero, assai più complesso di quel che sembra prima facie. La riflessione problematica sull’istituto, infatti, rappresenta l’angolo di visuale privilegiato per osservare il sistema della responsabilità civile, e meditarne ratio e finalità.
Di qui l’esigenza di approfondire la questione, che, a ridosso dell’udienza fissata innanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ne sperimenti la tenuta delle relative opzioni.
Il fatto da cui prende le mosse l’ordinanza attiene al lungo contenzioso tra la società “Itavia” e i Ministeri della difesa e dei trasporti inerente la tragica vicenda nota come disastro di Ustica, con un’importante e densa ordinanza 22 giugno 2017 n. 15534 viene rimessa alle Sezioni Unite la questione della compensatio lucri cum damno relativa al rapporto tra il risarcimento del danno aquiliano (riconosciuto all’Itavia) e l’indennizzo dalla stessa percepito per via assicurativa.
La questione è se i Ministeri, responsabili ex art. 2043 c.c. per non avere impedito l’evento, siano obbligati a risarcire anche quanto risulta già introitato, a titolo di indennizzo assicurativo, dal medesimo danneggiato.
Nello specifico, si tratta di definire se la compensatio operi soltanto quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via immediata e diretta dal fatto illecito e non operi invece negli altri casi, nei quali il lucro possieda come fonte la legge o un contratto.
Più in particolare, la Terza Sezione civile ha rimesso al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, le seguenti questioni oggetto di contrasto:
a) se, ai fini della liquidazione dei danni civili, il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla cd. “compensatio lucri cum damno”; se, di conseguenza, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, di essi il giudice deve tenere conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo;
b) se il risarcimento del danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, e consistito nella perdita dell’aiuto economico offertole dal defunto, va liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità attribuita al superstite dall’ente previdenziale.
Leggendo l’ordinanza, sembrerebbe emergere che finora il problema sia stato male impostato. Il fenomeno compensativo in esame, infatti, non costituirebbe una compensazione in senso tecnico, ma, un principio di perimetrazione del danno risarcibile.
L’ordinanza si premura di depurare la figura da confusioni teoriche e di valorizzarne il fondamento normativo nell’art. 1223 cod. civ. Il principio della compensatio, infatti, concerne la quantificazione del danno.
Problematica analoga ha suscitato l’interesse della giurisprudenza amministrativa. Il Consiglio di Stato con ordinanza 6 giugno 2017, n. 2719, ha difatti rimesso all’adunanza plenaria la questione concernente la possibilità di defalcare, dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno, le indennità pagate da assicuratori privati o sociali oppure da enti pubblici, specie previdenziali.
In questo caso, peraltro, a differenza degli altri, entrambe le obbligazioni, risarcitoria e indennitaria, gravano sul medesimo soggetto. Di qui l’esigenza di approfondire la questione. L’angolazione del problema si sposta, non rimanendo staticamente focalizzata sulle caratteristiche tralatizie dell’istituto, ma, dinamicamente, si dirige verso una nuova frontiera, che vorrebbe l’istituto della compensatio già pienamente operante nel nostro ordinamento, sotto le mentite spoglie del principio di indifferenza.
2. Sistematica tradizionale
I problemi della compensatio lucri cum damno nascono nel momento stesso in cui si cerca di definirla. In dottrina, infatti, si registrano ben tre orientamenti diversi: un primo orientamento riconducile a quegli autori che negano categoricamente l’esistenza nel nostro ordinamento di un istituto giuridico definibile come compensatio lucri cum damno; un secondo orientamento al quale aderiscono quegli autori che ammettono che, in determinati casi, danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò sia conseguenza dell’applicazione di una regola generale; altri autori, infine, sostenitori del terzo orientamento, fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.
Chi aderisce al primo orientamento[1] fa leva soprattutto sulla mancanza di una regola apposita che definisca l'istituto, ed inoltre, sulla "iniquità" del presunto istituto stesso, che ha l'effetto di sollevare l'autore d'un fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.
I sostenitori del secondo orientamento[2] condividono l'affermazione secondo cui il nostro ordinamento non riconosce cittadinanza alcuna alla norma generale che sancisca l'istituto della compensatio lucri cum damno, ma precisa che il problema delle individuazione delle conseguenze risarcibili di un fatto dannoso è questione di fatto, che necessita una soluzione caso per caso; e che non può escludersi a priori, nel singolo caso, che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito accordino alla vittima la possibilità di ottenere un vantaggio.
Chi asseconda il terzo[3], ed ultimo, orientamento, sostiene che l'istituto della compensatio lucri cum damno, il quale ha radici storiche antiche, che affondano nel diritto romano per ramificarsi attraverso il diritto dei glossatori e la dogmatica pandettistica, sino a giungere ai giorni nostri, è implicitamente riconosciuto dall'art. 1223 cod. civ., là dove consente il ristoro dei soli danni che siano "conseguenza immediata" dell'illecito e che, ancora, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali (tra queste, l'art. 1, comma 1-bis, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 o l'art. 33, comma 2, del d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327).
Bisogna, tuttavia, precisare ulteriormente che anche gli autori che accettano l'esistenza dell'istituto della compensatio lucri cum damno, esprimono, poi, opinioni assai diverse allorquando si tratta di individuarne il fondamento e l'ambito di operatività. Alcuni di questi autori tollerano la compensatio solo per i danni patrimoniali, altri anche per i danni non patrimoniali. Alcuni autori accettano la compensatio unicamente se danno e lucro siano espressione diretta della lesione del diritto; altri ritengono bastevole che danno e lucro traggano genesi dalla condotta illecita. Per l'applicabilità della compensatio, alcuni autori ritengono che danno e lucro debbano essere originati dall'azione del danneggiato, senza il concorso di altri; altri permettono che la compensatio operari anche quando il lucro consegua dalla condotta di un terzo. Il maggior numero degli autori che riconoscono la compensatio richiedono, per l'operatività dell'istituto, che il fatto delittuoso sia stato causa, e non già mera occasione, tanto del danno, quanto del lucro. Salvo poi tornare a dividersi allorché abbisogna stabilire quando un fatto illecito possa dirsi "causa", e quando "occasione", del lucro.
I dissidi non mancano nemmeno nella stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione, che però, ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico generale definibile compensatio lucri cum damno. Nondimeno, quando si è trattato di configurare l'àmbito applicativo di detto istituto, le soluzioni adottate si sono mostrate sensibilmente distanti tra loro.
Un primo orientamento[4] ritiene che la compensatio lucri cum damno operi solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via "immediata e diretta" dal fatto illecito. In conformità a questo principio è stata esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, oppure i congiunti di persona deceduta in conseguenza dell'illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, pubbliche amministrazioni, come pure di indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. Si giustificò questo modus operandi sostenendo che in questi casi il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto illecito, mentre il diritto all'indennità scaturisce dalla legge. Quindi, essendo esclusa la medesimezza della fonte, mancherebbe l'operatività della compensatio.
Un ulteriore orientamento, al contrario, riconosce con maggior larghezza l'operatività della compensatio lucri cum damno. Questo orientamento tuttavia giunge a tale risultato attraverso percorsi argomentativi diversi. Talune decisioni[5] ammettono l'istituto della compensatio ed ammettono, altresì, che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscono in via immediata e diretta dal fatto illecito, tuttavia, elevando la causa del lucro dal rango di "occasione" a quello di "causa", pervengono al risultato di defalcarlo dal risarcimento.
Altre decisioni[6] conducono al medesimo risultato, ma senza dichiarare apertamente di fare applicazione dell'istituto della compensatio. Si afferma, piuttosto, che se non si tenesse conto del lucro derivato dall'illecito, il danneggiato sarebbe pagato due volte sine causa; ed il danneggiante sarebbe costretto a risarcire due volte lo stesso danno.
Nell’ordinanza interlocutoria, il Collegio rimettente, non si limita a sollevare il quesito e a motivare in merito alla centralità della questione ma, nell’ottica di collaborare fattivamente al compito nomofilattico riservato alle Sezioni Unite, espone le ragioni di criticità dell’ordinamento e ritiene che i problemi interpretativi ed applicativi potrebbero rinvenire una soluzione in base ai seguenti princìpi:
a) alla vittima d'un fatto illecito compete il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione;
b) nella stima di questo danno bisogna considerare i vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato del fatto illecito;
c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell'illecito.
Corollario di quanto precede è che non potrebbe dirsi esistente nel nostro ordinamento un istituto definibile compensatio lucri cum damno. La regola tralatiziamente definita con questa espressione altro non è che un modo diverso di definire il principio di integralità della riparazione o principio di indifferenza, in ossequio del quale il risarcimento deve coprire l'intera perdita subita, ma non deve costituire un arricchimento per il danneggiato. Tale principio è desumibile dall'art. 1223 cod. civ.
Ma c’è di più. Emerge prepotentemente il rifiuto della logica punitiva del risarcimento: prospettiva, questa, estranea al fondamento politico-legislativo della responsabilità. Al contrario, si deve sottolineare la funzione autentica del meccanismo risarcitorio: funzione riequilibrativa, compensativa e non sanzionatoria. Tesa non all’arricchimento del danneggiato, come conseguenza del fatto del danneggiante, ma al mero ristabilimento delle condizioni patrimoniali iniziali, le quali devono essere ricostituite come se non ci fosse stato l’illecito, secondo una condizione differenziale.
3. Criticità e nuove prospettive
Per completezza di esposizione occorre, ora, evidenziare quali siano le ragioni di criticità dell’orientamento tradizionale, che rifiuta la compensatio lucri cum damno quando vantaggio e svantaggio non siano ambedue causa immediata e diretta nell'illecito.
Tale orientamento si fonda su quattro premesse teoriche non prive di ambiguità. La prima critica che va mossa all’orientamento tradizionale è di tipo logico. Di fatti, imponendo, per la operatività della compensatio, la medesimezza del “titolo” per il danno e per il lucro, si finisce per disapplicare di fatto l'istituto, giacché è assai raro (se non improbabile) che un fatto illecito possa da sé solo provocare, cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno. Ed in vero, la compensatio lucri cum damno di compensazione non ha che il nome.
In effetti, non costituisce una applicazione della regola di cui all'art. 1241 cod. civ., in quanto non è una compensazione in senso tecnico. La compensatio lucri cum damno, piuttosto, è una regola per l'accertamento dell'esistenza e dell'entità del danno risarcibile, ai sensi dell'art. 1223 cod. civ. Pertanto, "lucro" e "danno" non vanno intesi come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte. Occorre invece unicamente stabilire se il "lucro" derivante dal fatto illecito costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto contra ius ai sensi dell'art. 1223 cod. civ. Il secondo vulnus dell'orientamento tradizionale è di tipo dogmatico. L'asserzione secondo cui la regola della compensatio si applica soltanto se "danno" e "lucro" siano espressione diretta ed immediata del fatto illecito appare infatti frutto di un equivoco, a sua volta generato da un inconsapevole malinteso in cui è inciampata la dottrina tradizionale. Ed in vero, la regola secondo cui la compensatio pretende la medesimezza della condotta venne applicata, col passare degli anni, sempre più tralatiziamente e poiché la condotta è uno degli elementi dell'illecito, intorno agli anni Cinquanta del XX sec. la giurisprudenza nell'applicare il principio in esame incorse in un'autentica metonimia, finendo con l'indicare una parte per il tutto: così, l'originario requisito della "medesimezza della condotta", storico caposaldo della compensatio lucri cum damno, si trasformò nella "medesimezza del fatto", e questa a sua volta nella "medesimezza della fonte" tanto del lucro quanto del danno. Ma un conto è sostenere che danno e lucro, per essere compensati, devono discendere da una unica condotta del danneggiante, ben altro è sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa. In definitiva, la regola applicata dall'orientamento tradizionale altro non è che una deviazione dai princìpi e dall’istituto originario. Il terzo elemento critico ascrivibile all'orientamento tradizionale non è altro che un corollario del secondo: negando infatti l'operare della compensatio se non quando lucro e danno abbiano per causa unica ed immediata la condotta del danneggiante, non si ammette l'operatività dell'istituto quando la vittima in conseguenza del fatto illecito abbia ottenuto un vantaggio patrimoniale in conseguenza d'una norma di legge o d'un contratto. In tale ipotesi, si sostiene che il fatto illecito costituirebbe una mera occasione del lucro, e non la causa di esso, con conseguente disapplicazione della compensatio. Questa opinione, erronea nei presupposti storici da cui è desunta, è soprattutto incoerente, sia con la nozione di "causalità", sia coi princìpi generali della responsabilità civile. Il quarto vulnus dell'orientamento tradizionale è anch'esso di tipo sistematico e concerne l'ipotesi in cui il lucro derivato dal sinistro consiste nella percezione d'un beneficio previdenziale od assicurativo. Quanti negano la compensatio tra il danno ed i benefici erogati alla vittima dall'ente previdenziale o dall'assicuratore, infatti, altro non fanno che abrogare in via di fatto l'azione di surrogazione spettante (ex artt. 1203 e 1916 cod. civ. o in base alle singole norme previste dalla legislazione speciale) a quest'ultimo. È pacifico, invero, che limite oggettivo della surrogazione è il danno concretamente causato dal responsabile, il quale non può mai essere obbligato, per effetto dell'azione di surrogazione, a pagare due volte il medesimo danno, una al danneggiato, l'altra al surrogante. Dunque, una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l'intero risarcimento senza defalcare il beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell'illecito, non dovrebbe poi essere tenuto a rifondere, all'ente previdenziale od assicurativo, le somme da questo pagate alla vittima. Tale esito però cozza contro evidenti ragioni di diritto e di giustizia, in quanto si priverebbe l'assicuratore o l'ente previdenziale d'un diritto loro espressamente attribuito dalla legge (tra gli altri, art. 1916 cod. civ., applicabile anche alle assicurazioni sociali in virtù del rinvio di cui all'art. 1886 cod. civ.), e così facendo si addosserebbe alla fiscalità generale, e quindi alla collettività, un onere il cui peso economico serve non a ristorare la vittima, ma ad arricchirla, anteponendo un interesse individuale all’interesse della collettività. Esaminate le criticità ascrivibili all’orientamento tradizionale che riconosce la compensatio lucri cum damno, seppur nei limiti descritti, è necessario spostare l’angolo visuale e, dinamicamente, focalizzare l’attenzione sull’art. 1223 cod. civ., verificando se l’annoso problema della compensatio altro non sia che una lettura moderna del principio di indifferenza. È applicazione ortodossa del c.d. "principio di indifferenza", infatti, l’obbligo di considerare, nella stima del danno risarcibile, i vantaggi economici procurati alla vittima dall'illecito. Il principio di indifferenza è la regola in virtù della quale il risarcimento del danno non può rendere la vittima dell'illecito né più ricca, né più povera, di quanto non fosse prima della commissione dell'illecito. Corollario di questo principio è che il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto. Innegabili i punti di contatto tra le due figure, oggetto, tra l’altro, dei medesimi rilievi critici, ugualmente privi di pregio, poiché, in entrambe le ipotesi di applicazione degli istituti, l'offensore non si sottrae affatto alle conseguenze dell'illecito, ma semplicemente cambia creditore, pagando non la vittima a titolo di risarcimento ma il terzo solvens a titolo di surrogazione. Ma v’è di più, le critiche mosse si ancorano ad una rigida concezione sanzionatoria dell'illecito, che pare disarmonica con il nostro sistema della responsabilità civile che non assegna funzioni punitive al risarcimento del danno e non vede nel responsabile un reo da sanzionare. Il nostro diritto della responsabilità civile è, nel suo assetto generale, mirato sul danno, non sull'offensore: sicché, nella liquidazione del risarcimento, all'entità di questo deve guardarsi e non alla punizione del secondo. In definitiva, nello stabilire quali siano le conseguenze dell'illecito bisognerà tenere conto unicamente del principio di indifferenza che, nella stima delle conseguenze pregiudizievoli arrecate al danneggiato, impone di considerare adeguatamente tutte le risultanze derivate dall'illecito: sia in bonam, che in malam partem. Il risarcimento spettante alla vittima dell'illecito andrà dunque ridotto in tutti i casi in cui, senza l'illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile. Corollario di quanto esposto è il superamento della concezione della compensatio come una regola da applicare dopo avere liquidato il danno, al fine di "evitare l'arricchimento". In verità quando si procede alla aestimatio dei danni civili non si compiono due operazioni di calcolo, prima si liquida e poi si "compensa", giacché l'operazione è una soltanto e consiste nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima post sinistro. Così facendo, allorquando ci si imbatte in un vantaggio, che sia conseguenza dell'illecito, non si dirà che per quella parte si sta "compensando" danno e lucro, ma si dirà che l'illecito non ha provocato danno.
4. Conclusioni
Concludendo, da un attento esame della ordinanza interlocutoria del 22 giugno 2017 n. 15534, con cui la Terza Sezione civile ha rimesso la questione al Supremo Collegio, senza esimersi, peraltro, in un’ottica di collaborazione fattiva, ai compiti nomofilattici propri della Corte di Cassazione, emerge che il fenomeno della compensatio lucri cum damno, per quanti lo ammettano, altro non è che la moderna configurazione del principio di integralità della riparazione o, se si preferisce, del principio di indifferenza, desunto dagli artt. 1223 – 1224 c.c. e dagli artt. 1909 e 1910 c.c., in ragione del quale il danneggiato ha diritto al risarcimento del danno esistente alla liquidazione, il quale deve coprire l’intera perdita senza, però, sostanziarsi in una sorta di arricchimento per la vittima e che, nella stima del danno, bisogna considerare anche il vantaggio eventuale derivante dal fatto del danneggiante, applicando la medesima regola di causalità che serve per stabilire se il danno è conseguenza dell’illecito.
Non resta che attendere l’ultima parola da parte delle Sezioni Unite, per fare finalmente chiarezza su un istituto i cui contorni sono alquanto oscuri e incerti.
Nota della Redazione
Le Sezioni Unite si sono definitivamente pronunciate con sentenza n. 12565, pubblicata il 22 maggio 2018 e commentata per Cammino Diritto dall'Avv. Graziella Soluri nell'articolo "Compensatio lucri cum damno: le Sezioni Unite fissano l´orientamento da seguire"
Note e riferimenti bibliografici
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Corte di Cassazione, sentenza n. 3503 del 24 maggio 1986.
Corte di Cassazione, sentenza n. 5964 del 16 novembre 1979.
[1] CAZZARA, Il problema dei vantaggi connessi con l’illecito e la cosiddetta compensatio lucri cum damno, in Studi per Zingali, III, pp. 411 ss.
GALLIZOLI, Note critiche in tema di compensatio lucri cum damno, in Riv. Dir. Civ., 1977, II, p. 346.
Trib. ORISTANO, 11 febbraio 1985, in Resp. Civ. e prev., 1984, p. 780.
TRIMARCHI, Il contratto. Inadempimento e rimedi, Giuffrè Editore, Milano, 2010, p.188.
[2] PULEO, voce Compensatio lucri cum damno, in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, pp. 1378 ss.
CARINGELLA, Studi di diritto civile, Volume III, Giuffrè Editore, Milano, 2007, p. 284.
GIUSTI, voce Compensatio lucri cum damno, (agg. 2011), in Dig. Civ., Torino, p. 190.
FRANZONI, Il danno patrimoniale, in Danno e Responsabilità, Wolters Kluwer, Milano 2017, p.39.
SALVI, Il danno extracontrattuale: modelli e funzioni, Jovene, Napoli, 1985, p.86.
[3] CARINGELLA, Studi di diritto civile, Volume III, Giuffrè Editore, Milano, 2007, p. 281.
DE CUPIS, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 1946, p. 146.
FRANZONI, Il danno patrimoniale, in Danno e Responsabilità, 2010, 11-Allegatp 1, 21, Covegno “La quantificazione del danno patrimoniale”.
FRANZONI, Il danno risarcibile, Giuffrè Editore, 2008, p.39.
FRANZONI, Il danno risarcibile, Giuffrè Editore, 2008, p.46.
P.G. MONATERI-D.GIANTI-L.SILIQUINI GINELLI, Damno e risarcimento, Giampichelli Editore, Torino, 2013, pp 256 ss.
[4] Cass. n. 20448/2014; Cass. n. 5504/2014; Cass. n. 3357/2009; Cass. n. 18490/2006; Cass. n. 12124/2003; Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 2117/1996.
[5] Cass. n. 64/2004; Cass. n. 9779/1995.
[6] Cass. n. 9094/2004; Cass. n. 9228/2000; Cass. n.5964/1979; Cass. n. 3806/1998; Cass. n. 3503/1986.