Pubbl. Lun, 19 Feb 2018
Il Codice delle Pari Opportunità e le modifiche contenute nella Legge di Bilancio 2018
Modifica paginaRiflessioni sul Codice delle pari Opportunità (D.lgs 198-2006) e sulle relative modifiche normative susseguitesi nel tempo e, in particolare, nell´ultima Legge di Bilancio (L. 205-2017 art. 1, c. 218)
Sommario: Introduzione.; 1. Nascita del codice delle pari opportunità: D. Lgs. 198/2006; 2. Prima modifica al Codice delle parti opportunità: D. Lgs. 5/2010; 3. Seconda modifica al Codice delle pari opportunità: L. 205/2017 art 1, c. 218.
Introduzione.
Con il D.lgs 198/2006, in attuazione dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005 n. 246, è stato approvato il così detto “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”, finalizzato a combattere le discriminazioni esistenti tra i due sessi, ovvero a garantire una valida uguaglianza degli stessi in ogni ambito sociale ed economico. Tale legge istitutiva del Codice del 2006 ha subito nel tempo delle rivisitazioni, in particolar modo attraverso il D.Lgs 5/2010 ed attraverso la recentissima legge di bilancio 205/2017. È necessario, al fine di una valida comprensione, procedere per gradi.
1. Nascita del codice delle pari opportunità: D. Lgs. 198/2006
Il concetto di pari opportunità si basa sulla necessità di uguaglianza giuridica e sociale fra uomini e donne, al fine di rivendicare la propria differenza di genere e di stabilire un giusto rapporto fra i sessi. L’obiettivo principale che ogni stato sociale deve raggiungere è infatti la piena uguaglianza tra i due generi sessuali, da intendersi non tanto in linea formale, quanto piuttosto sostanziale.
Teoricamente, la nostra carta Costituzionale, all’interno dei due commi dell’articolo 3[1], conferisce pari dignità sia all’uguaglianza formale che a quella sostanziale, ed anzi, entrambi i principi sono costruiti non come blocchi distinti e contrapposti, ma contigui, finalizzati al raggiungimento di un unico concetto di “uguaglianza democratica”[2]. Tuttavia, è il raggiungimento di una uguaglianza sostanziale ad essere l’obiettivo ambito dal Legislatore[3], il quale ha da sempre cercato di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” al fine di pervenire ad uno status di uguaglianza tra i sessi reale, e non fallace.
Orbene, è proprio a tal fine che il Legislatore nel 2006, attraverso la legge n. 198, ha emanato il così detto “Codice delle pari opportunità”, il quale si suddivide in quattro libri, ossia:
- Libro I: Libro I - Disposizioni per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna (artt. 1-22)
- Libro II: Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti etico-sociali (artt. 23 - 24)
- Libro III: Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti economici (artt. 25- 55)
- Libro IV: Pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti civile e politici (artt. 56 - 58)
La ratio posta alla base di tale codice è il pieno perseguimento di un principio di parità delle parti da ogni punto di vista, sia etico-sociale, sia economico, e sia civile-politico. La necessità di tale testo legislativo era lampante, soprattutto in considerazione del fatto che tali principi non trovavano una formulazione chiara e diretta né all’interno della Costituzione e né all’interno del Codice Civile.
L’introduzione di tal codice ha inquadrato il principio di pari opportunità tra uomo e donna come “parità di chance”[4], da intendersi come uguaglianza di possibilità ed occasioni di vita tra i due sessi, sulla scia del riformato diritto di famiglia.
2. Prima modifica al Codice delle parti opportunità: D. Lgs. 5/2010[5].
Al fine di recepire la direttiva comunitaria 2006/54/Ce[6], riguardante le pari opportunità e la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, il Legislatore ha emanato D. Lgs. 5/2010, il quale ha novellato il Codice delle pari opportunità introducendo significative novità in materia di occupazione, lavoro, e retribuzione a tutela soprattutto del così detto “sesso debole”. La ratio fondante tale modifica normativa si evince già dall’articolo 1 del Codice, il quale modificato così recita ai primi due commi: 1)“Le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo” 2) “La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione”.
In realtà, lo scopo ultimo di tale novella, ma in generale delle ultime politiche relative alle pari opportunità, è stato quello di dar vita ad un insieme di iniziative tendenti al superamento di tutte le condizioni sfavorevoli alla realizzazione di un’effettiva parità uomo-donna in ambito lavorativo, terra felix della maggioranza delle discriminazioni di genere. Infatti, il principio che sta alla base di tale assunto è la necessità di dare alle donne, da sempre “declassate” riguardo lavoro e retribuzione, la possibilità di compiere delle scelte professionali, relazionate alla propria vita privata, senza che esse diventino oggetto di discriminazione.
Attraverso tali modifiche al Dlg 198/2006, dunque, si è cercato di ampliare e rafforzare l’ambito di operatività del suddetto Codice, il quale ha incorporato così una tutela sempre più vasta, ricomprendendo in modo più pregnante anche il settore giuslavoristico.
Le novità più significative hanno riguardato:
a) L’aggiunta del comma 2 bis all’art. 25[7], ossia “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti”. Tale novella ha introdotto il principio generale della tutela delle pari opportunità nel lavoro in caso di maternità o paternità. Pertanto, attraverso tale aggiunta, il Legislatore è andato oltre la mera tutela della discriminazione diretta[8] ed indiretta[9], ricomprendendo così anche tutte quelle situazioni di discriminazione dipese dallo status di genitorialità dei lavoratori. Così facendo, il Legislatore è riuscito a superare una doppia discriminazione, ossia sia quella riguardante la donna lavoratrice, spesso “ghettizzata” e non assunta a seguito della “possibile maternità”, e sia quella esistente tra uomo e donna, sessi non parificati spesso nel loro ruolo genitoriale.
In particolare, riguardo questa seconda forma di discriminazione, è opinio comune, nonché fatto notorio, la circostanza per la quale uomo e donna non siano mai stati realmente parificati in ambito familiare, nel senso che è sempre stato attribuito alla donna, e mai all’uomo, il ruolo prettamente genitoriale, tenendo conto dello status di maternità e gravidanza alla quale essa è soggetta. Tale novella legislativa, pertanto, ha cercato di superare anche questa presunzione, dando sia all’uomo che alla donna pari dignità genitoriale, prevendo dunque una tutela discriminatoria per ambedue.
b) Il nuovo comma 1 dell’art 28, ossia: “É vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale é attribuito un valore uguale”. L’aspetto sottolineato da codesta novella è quello relativo alla retribuzione, spesso materia di ampia discriminazione tra uomo e donna. Attraverso tale disciplina il Legislatore si è adoperato al fine della rimozione della discriminazione retributiva esistente tra i due sessi.
Infatti, la parità retributiva è il problema di gran lunga più dibattuto e che da più tempo svolge il ruolo di principale protagonista nel panorama della riflessione dottrinale e giurisprudenziale in materia di lavoro femminile[10]. A trattarne specificatamente è anche l’articolo 37 comma 1 della Costituzione, il quale così recita “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Con tale aggiunta, pertanto, il Legislatore ha dato la giusta vox ad un principio già Costituzionalizzato, ma mai rispettato nella prassi.
c) Modifica del comma 1 dell’art. 30, ossia: “Le lavoratrici in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia hanno diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali”. Orbene, se l’articolo precedente enunciava il divieto di discriminazione inerente alla retribuzione, codesto articolo estende tale divieto all’accesso alle prestazioni previdenziali, oramai nettamente parificate, sia nel contenuto che nella procedura, per i due sessi. Infatti, ad entrambi, viene oramai riconosciuto il diritto di richiedere, al raggiungimento dell’età pensionistica, la prosecuzione del rapporto di lavoro, traslando così nel tempo l’accesso al trattamento pensionistico. Ed inoltre, il modus procedendi per la richiesta risulta il medesimo per ambedue i sessi. Ciò non è scontato, considerando che illo tempore vi era un diverso regime procedurale per le donne lavoratrici, le quali avevano l’onere di richiedere tale diritto almeno tre mesi prima.
Infatti, alla modifica del primo comma dell’articolo 30, ha fatto seguito l’abrogazione del secondo comma il quale, nel disciplinare il divieto di discriminazioni dell’accesso alle prestazioni professionali, poneva alle lavoratrici che intendessero proseguire l’attività lavorativa oltre l’età per il pensionamento di vecchiaia (60 anni), l’obbligo di comunicarlo al datore di lavoro almeno tre mesi prima della maturazione del diritto[11]. Ad oggi, non essendovi più tale comma 2, le lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia hanno il diritto di proseguire il rapporto di lavoro, senza alcuna comunicazione al datore di lavoro, fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini (65 anni).
d) Modifica dell’art. 37 in relazione al comma 5, che recita: “L'inottemperanza alla sentenza di cui al comma 3, al decreto di cui al comma 4 o alla sentenza pronunciata nel relativo giudizio di opposizione è punita con l'ammenda fino a 50.000 euro o l'arresto fino a sei mesi, e comporta altresì il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento da versarsi al Fondo di cui all'art. 18 e la revoca dei benefici di cui all'art. 41, comma 1”. In tale articolo, dunque, ad essere disciplinata è la tutela giudiziaria, la quale diviene più rigorosa rispetto al regime precedentemente esistente. Infatti, in caso di condanna per comportamenti discriminatori, l’inottemperanza alla pronuncia del giudice del lavoro non è più punita, in base all’articolo 650 del Codice penale, per “inosservanza del provvedimento dell’autorità”, bensì con l’ammenda fino a 50mila euro o con l’arresto fino a sei mesi. Inoltre, ha previsto anche il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di inadempimento, intensificando nettamente la tutela a favore del lavoratore leso. Pertanto, attraverso l’inasprimento del regime sanzionatorio, il Legislatore ha voluto dar ancor più efficacia ai provvedimenti dell’Autorità giudiziaria debellanti una qualsiasi patologia discriminatoria.
e) L’introduzione dell’articolo 41 bis, ossia “La tutela giurisdizionale di cui al presente capo si applica, altresì, avverso ogni comportamento pregiudizievole posto in essere, nei confronti della persona lesa da una discriminazione o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne”. La nuova norma offre tutela giurisdizionale alla così detta “vittimizzazione”, vale a dire a tutti quei comportamenti messi in atto contro una persona che si è attivata per ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento fra uomini e donne. Tale normativa tende ad avallare, sic et simpliciter, ogni tipologia di azione finalizzata a combattere tali forme di discriminazione.
3. Seconda modifica al Codice delle pari opportunità: L. 205/2017 art 1, c. 218
Con la nuova legge di bilancio n. 205/2017 è stata approvata l’ultima modifica al Codice delle pari opportunità, il quale ha così avuto modo di intensificare la tutela relativa alle molestie ricevute da ambo i sessi sul luogo di lavoro. Infatti l’articolo oggetto di rivisitazione è stato, appunto, il numero 26 del Dlg 198/2006, rubricato “Molestie e molestie sessuali”. Così facendo, il Legislatore ha voluto dare una tutela più ampia alle lavoratrici ed ai lavoratori che denunciano discriminazioni per molestia o molestia sessuale, ampliandone così la portata. Orbene, al fine di captare al meglio la portata della novella legislativa, è necessario partire proprio dal testo della legge di bilancio che ha modificato il Codice delle pari opportunità, ossia dal comma 218 dell’articolo 1 della legge n. 275/2017, che così recita:
“All'articolo 26 del codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, sono apportate le seguenti modificazioni:
-a) al comma 3, primo periodo, le parole: «commi 1 e 2» sono sostituite dalle seguenti: «commi 1, 2 e 2-bis»"
In primis, la legge di bilancio ha esteso la tutela prevista dal comma 3 dell’articolo 26 del Codice non solo ai casi espressamente previsti nei commi 1 e 2, bensì anche a quelli ricompresi nel comma 2 bis, garantendo così una maggiore azione a tutela dei soggetti declassati.
Per completezza di discorso, ricordiamo che il comma 1 dell’art. 26 del suddetto codice fornisce una puntuale definizione di discriminazioni consistenti in molestie, definiti come “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Successivamente, il comma 2 dell’articolo 26 ricomprende nell’alveo della tutela anche le così dette molestie sessuali, “ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Inoltre, il comma 2 bis, introdotto dalla riforma precedente del 2010 al Codice delle pari opportunità, statuisce che “sono altresì considerati come discriminazione i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di avere rifiutato i comportamenti di cui ai due commi precedentemente citati”. Dunque, da questi tre commi emerge che i comportamenti sanzionati dal nuovo Codice, già dal 2010 in verità, sono non solo quelli direttamente preordinati alla discriminazione del lavoratore, bensì anche quelli conseguenziali, ossia scaturenti da un diniego del lavoratore o lavoratrice a determinati soprusi. Trattasi, in quest’ultimo caso, di tutte quelle ripercussioni indirette al quale il lavoratore o la lavoratrice non potevano sottrarsi attraverso apposita tutela, in quanto non ricompresa nella predisposizione prevista nel primo periodo del comma 3. La novella del 2017, pertanto, ha voluto proprio dar voce anche a queste ultime posizioni, definendo così una tutela eterogenea, ossia ampliata ad ogni fattispecie patologia di molestia presentatasi sul posto di lavoro.
Infatti, il comma 3 dell’articolo 26 prevede una forma di tutela che, sic et simpliciter, tende ad arginare ogni fenomeno di molestia. Lo stesso, infatti, così recita: “Gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti sopra declinati sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti menzionati”. Pertanto, qualora il datore di lavoro adottasse qualunque tipologia di atto, patto o provvedimento come mera conseguenza dei comportamenti descritti, riferendosi così a tutti e tre i commi su citati (ossia, ai commi I, II e II-bis), questo sarebbe da classificarsi come nullo, in quanto inficiato ab origine nella natura stessa, considerata come discriminante, e dunque da sanzionare.
-b) dopo il comma 3 sono aggiunti i seguenti: “3-bis. La lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per molestia o molestia sessuale poste in essere in violazione dei divieti di cui al presente capo non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto denunciante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante. Le tutele di cui al presente comma non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero l'infondatezza della denuncia”.
Attraverso tale dictum normativo il Legislatore ha voluto ampliare, sul piano civilistico, la tutela delle vittime di molestie sul luogo di lavoro, prevedendo garanzie nel giudizio di merito da loro promosso. La tutela ricopre sia il rapporto di lavoro in sé, e sia le condizioni del lavoratore, il quale sono spesso soggette a peggioramento a seguito di denuncia. Infatti, a seguito delle doglianze del lavoratore alla competente Autorità Giudiziaria, viene prima di tutto garantito un espresso divieto per il datore di lavoro di applicare qualunque misura declassante le condizioni generali del rapporto sottostante. Ed inoltre, viene altresì introdotta la sanzione della nullità del licenziamento, o del mutamento di mansione, o di altra misura ritorsiva o discriminatoria, applicate al lavoratore a seguito di denuncia per molestia subita. È palesemente ovvio, pertanto, come tale novella sia da percepire non solo come scudo per i lavoratori denuncianti, i quali hanno maggiore protezione, ma anche come valido incentivo alla denuncia stessa, in quanto denunciando l’accaduto pervengono alla risoluzione del problema senza conseguenze sul rapporto di lavoro. Infatti, la ratio di tale addenda normativa sta proprio nel fatto che troppo spesso accadeva che le vittime fossero costrette ad abbandonare il posto di lavoro, o addirittura a convivere con molestie, ricatti o discriminazioni proprio per la carenza di norme specifiche a loro tutela.
Inoltre, è stato aggiunto il comma
3-ter. “I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell'articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l'integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su princìpi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.
Quasi come norma di “chiusura” all’intera materia, il comma 3 ter dell’articolo 26 del Codice agisce come monito nei confronti dei datori di lavoro, al fine di garantire un ambiente lavorativo neutrale ad ogni forma di molestia, sessuale e non. Infatti il suddetto comma invita i datori di lavoro a garantire “l’integrità fisica e morale” nonché “la dignità dei lavoratori” in ambito lavorativo. È interessante, a tal proposito, osservare il binomio di integrità al quale il Legislatore si riferisce, ossia definito fisico-morale: ciò indica, infatti, che il Legislatore ha voluto ben enucleare i beni lesi durante la violenza, circoscrivendoli non solo alla fisicità, ma anche alla moralità, dando così al datore di lavoro un duplice onere di tutela della figura del lavoratore. Inoltre, alla tutela dell’integrità vi è da associare quella della dignità, da intendersi come immagine personale del lavoratore, che non deve in alcun modo esser lesa.
Il comma 3 ter dell’articolo 26 tende, dunque, a dare al datore di lavoro la figura di vero e proprio “garante” del lavoratore: egli deve garantire che il suo dipendente sia tutelato in toto da ogni forma di pregiudizio nascente sul luogo di lavoro. E pertanto egli, in tale ottica, deve porre in essere qualsiasi azione preventiva atta a realizzare una piena tutela dei suoi dipendenti, con lo scopo ultimo di educare gli stessi al rispetto dei propri colleghi, in ottemperanza ai principi di uguaglianza e di correttezza.
Note e riferimenti bibliografici
[1] L’articolo 3 così recita: co1: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”
Co2: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
[2] DE MARZO GIUSEPPE, Codice delle pari opportunità, Giuffrè ed., 2007, Milano.
[3] “è chiaro come in fasi avanzate di democrazia non può bastare l’uguaglianza formale, poiché il compito delle società più progredite è, si può dire, un’opera di giustizia” cit. di Durkheim 1982.
[4] PATTI SALVATORE, CUBEDDU MARIA GIOVANNA, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Giuffrè ed., 2008, Milano.
[5] Trattasi del Dlg del 25 gennaio del 2010 n.5, in vigore dal 20 febbraio 2010.
[6] GU n.29 del 5 febbraio 2010.
[7] Per completezza, si ricordano i primi due commi del suddetto articolo 25, ossia: comma 1: “Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”; comma 2: “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo. che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
[8] La discriminazione diretta è la situazione nella quale una persona è trattata, in base al sesso, meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Un esempio classico di discriminazione diretta è la mancata assunzione di una lavoratrice perché incinta. oppure, la mancata promozione di una lavoratrice perché donna.
[9] La discriminazione indiretta è la situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a persone dell’altro, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima, ed i mezzi impiegati per il conseguimento della finalità stessa siano appropriati e necessari. Un esempio è la previsione di una particolare indennità solo per dipendenti che abbiano sempre optato per il “full-time”: le donne che più spesso richiedono il “part-time” per ragioni di conciliazione fra casa e lavoro, ne sarebbero indirettamente escluse.
[10] DE MARZO GIUSEPPE, Il Codice delle parì opportunità, Giuffrè ed., 2007, Milano.
[11] In realtà, già la Corte Costituzionale con la sentenza n. 275 del 29 ottobre 2009 dichiarava illegittima la norma nella parte in cui imponeva alla lavoratrice l’onere di comunicare al datore di lavoro la propria intenzione di continuare l’attività lavorativa tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto al pensionamento. La questione, comunque, è stata superata per effetto della modifica introdotta dal Dlgs n. 5 del 2010, il quale ha tradotto in norma la volontà degli Ermellini.