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Pubbl. Ven, 24 Nov 2017

Il divieto di reformatio in peius nel giudizio di rinvio

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Alessandra Inchingolo


La Cassazione stabilisce che il divieto di reformatio in peius opera anche nel giudizio di rinvio, in diretto rapporto con la sentenza annullata, quando l´annullamento riguarda motivi di carattere non processuale.


La Sesta Sezione penale della Suprema Corte con sentenza n. 49717 del 30 ottobre 2017 (allegata all'articolo) ha stabilito che il trattamento sanzionatorio da comminare in sede di rinvio deve essere rapportato alla pena meno gravosa irrogata dalla Corte d’Appello con sentenza di rinvio.

La Corte di Cassazione infatti, alle prese con un procedimento che vedeva imputato un boss della ‘ndrangheta, ha statuito che laddove la sentenza d’appello sia stata annullata per ragioni diverse da quelle di tipo esclusivamente processuale, il divieto di reformatio in peius, che opera anche nel giudizio di rinvio, va rapportato non alla sentenza di primo grado ma a quella di secondo grado annullata.

Orbene, già il Codice del 1913, al 2° comma dell’art. 480 stabiliva che il divieto si concretava nella previsione secondo cui la sentenza non poteva essere riformata, a danno dell’imputato soltanto nella qualità e misura della pena , estendendosi poi nel codice del 1930 nell’art. 515 all’applicazione di misure di sicurezza nuove o più gravi di quelle contenute nella sentenza appellata e al proscioglimento dell’imputato per una causa meno favorevole rispetto alla precedente decisione.

Non poche le questioni inerenti tale divieto, tuttavia qual è la ratio che sottende a tale divieto?

Senza tralasciare la circostanza che esso è in primis esplicazione del principio del favor rei, diretta conseguenza della presunzione di innocenza sancita dalla Carta costituzionale, ma anche espressione del diritto  di difesa altrettanto importante dogma costituzionale, il divieto di reformatio in peius è previsto e disciplinato dal 3° comma dell’art. 597 c.p.p. secondo cui il giudice «non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici.

In prima battuta, si era posto il problema se il divieto di reformatio in peius investisse anche i singoli elementi che compongono la pena complessiva e riguardasse quindi non solo il risultato finale di essa, ma tutti gli elementi del calcolo relativo.

Principalmente due gli orientamenti che emergevano dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Il primo, prevedeva  che il divieto riguardasse solo il risultato finale dell’operazione di computo della pena e non anche i criteri di determinazione della medesima ed i relativi calcoli.

Il secondo e maggioritario orientamento, invece, prevedeva che il divieto di reformatio in peius laddove non vi fosse stata impugnazione del pubblico ministero, doveva investire non solo il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena, e ciò di conseguenza determinava  l’impossibilità non solo di elevare la pena complessiva, ma anche di elevare l’entità dei singoli addendi oggetto del calcolo della pena.

Va puntualizzato però che il consolidato principio in base al quale il divieto di reformatio in peius trova applicazione anche al giudizio di rinvio, se la sentenza di secondo grado è stata annullata per ragioni esclusivamente processuali. Infatti, il parametro cui bisogna fare riferimento è costituito dalle decisioni contenute nella pronuncia del giudice di primo grado. In questa ipotesi, così come sottolinea la Cassazione, non c'è stato il consolidamento di posizioni di carattere sostanziale in capo all'imputato e, pertanto, il divieto di peggioramento deve essere riferito a quanto deciso nell'ambito della sentenza di primo grado.

Il caso sottoposto ai Giudici della Suprema Corte conteneva una serie di atti non contestabili sul piano della forma, poiché il vizio che ha condotto all'annullamento della pronuncia di appello  è di natura sostanziale, dal momento che non ha permesso di ricostruire l’iter attraverso il quale il giudice è arrivato alla decisione, andando pertanto  ad influire sui motivi della deliberazione stessa.

Dunque, viene così accolto uno dei motivi di ricorso presentati dalla difesa di uno dei boss della 'ndrangheta in Lombardia, il quale andrà a scontare 12 anni e non 14, cioè quanto stabilito in sede di giudizio di secondo grado dalla Corte d'appello e non la pena decisa dal Tribunale in primo grado. La Corte di Cassazione, tra l'altro, in una delle prime applicazioni della riforma del processo penale dell'agosto scorso procede direttamente alla rideterminazione della pena sulla base del nuovo articolo 620 lettera l) del Codice di procedura penale.

Ancora una volta viene pertanto riconfermato il principio per cui nell’ambito del processo penale il divieto di reformatio in peius, introdotto dall’articolo 597, co. 3, c.p.p., rappresenta un limite al sindacato del giudice d’appello, precisando però che anche se il legislatore lo preveda solo con riferimento al giudizio di appello, in quanto non espressamente richiamato dall’art. 627 c.p.p., è però acclarato che tale divieto di reformatio in peius vada applicato anche al giudizio di rinvio. In ossequio dunque ai principi di tutela del diritto alla difesa e del devolutum, essendo inconcepibile che in tale fase si producano effetti più nocivi per l’imputato.