Pubbl. Gio, 2 Nov 2017
L´intervento nel processo civile
Peculiarità dell´intervento nell´ambito del processo civile
Sommario: 1. Premessa: il litisconsorzio e l’intervento; 2. Introduzione: l’intervento volontario; 2.1. L’intervento principale; 2.2. Parentesi: la connessione oggettiva; 2.3. L’intervento adesivo autonomo (o litisconsortile) e l’intervento adesivo dipendente (o ad adiuvandum); 3. L’intervento coatto: intervento su istanza di parte e intervento iussu iudicis.
1. Premessa: il litisconsorzio e l’intervento
Quando nel processo si hanno più parti, cioè più attori, più convenuti o contemporaneamente più attori e più convenuti, si parla di litisconsorzio (1).
Il litisconsorzio può essere:
- necessario, quando il processo deve svolgersi necessariamente fra più parti perché la decisione spiegherà i suoi effetti nei confronti di ognuna di esse (art. 102 c.p.c.);
- facoltativo, quando più parti possono, e non debbono, agire o essere convenute nello stesso processo (art. 103 c.p.c.); (2)
- originario, quando sin dall’instaurazione del processo sono presenti più parti;
- successivo, quando la pluralità di parti si realizza nel corso dello svolgimento del processo.
Quando parliamo di intervento nel processo civile, ci riferiamo ad uno strumento attraverso il quale si realizza un litisconsorzio successivo.
L’intervento può essere volontario o coatto e si propone con comparsa di costituzione (comparsa d’intervento) ai sensi degli artt. 267 e 167 c.p.c., finché non siano state precisate le conclusioni (art. 268, 1 c.p.c.). Il terzo interventore assume la qualità di parte a tutti gli effetti ma gli sono preclusi gli atti che al momento dell’intervento non siano più consentiti alle altre parti (art. 268, 2 c.p.c.). Rispetto a quest’ultimo punto, la Cassazione ha limitato il raggio d’azione del termine “atti”, riferendolo alle mere attività istruttorie e non anche alle domande nuove autonome. (3)
La formulazione di nuove domande da parte dell’interventore è “funzionale ad un utilizzo più efficiente ed economico del processo, ove volta a prevenire l’introduzione ex novo di un giudizio autonomo e variamente interferente con quello già radicato; – tale possibilità non è comunque indiscriminata; non solo perché l’intervento è precluso nella fase decisoria del processo, ma anche perché essa trova adeguato contemperamento antidilatorio nella intangibilità delle preclusioni istruttorie eventualmente già verificatesi.” (4)
2. Introduzione: l’intervento volontario
L’intervento volontario è disciplinato dall’art. 105, co. 1 c.p.c. ai sensi del quale: “Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo”.
L’intervento volontario può essere:
- principale (o ad excludendum);
- adesivo autonomo (o litisconsortile);
- adesivo dipendente (o ad adiuvandum).
2.1. L’intervento principale
Nell’ambito dell’intervento principale, il terzo interviene nei confronti di tutte le parti del processo e ha in comune con le parti il titolo o l’oggetto della causa. L’art. 105, co. 1 specifica che il terzo fa valere un proprio diritto e quindi intervenire equivale, in tal senso, a proporre una domanda. Il diritto vantato dal terzo, però, deve essere incompatibile con quello vantato dalle altre parti già presenti in giudizio. Deve esservi, altresì, una connessione oggettiva tra la domanda dell’interventore e quelle delle altre parti.
2.2. Parentesi: la connessione oggettiva
L’art. 103, co. 1 c.p.c. dispone: “Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni”.
Le ragioni di connessione oggettiva, davanti al quale ci pone il comma 1 dell’art. 103 c.p.c. sono due: l’identità dell’oggetto (connessione per l’oggetto) e la dipendenza dal titolo.
In generale, potremmo dire che la connessione per l’oggetto impone di guardare al petitum, ragion per cui, quando il petitum è lo stesso, dovrebbe esserci connessione per l’oggetto. Quest’ultima affermazione è parzialmente vera in quanto può essere validamente riferita ai rapporti tra le domande autodeterminate, mentre non può essere riferita alle domande eterodeterminate, perché l’oggetto delle domande eterodeterminate non è dato solamente dal petitum, bensì anche dalla causa petendi. Dunque, è chiaro che la connessione per l’oggetto implica l’esame dell’oggetto della domanda globalmente inteso, ergo la chiave di lettura sarà custodita nel petitum in relazione alla causa petendi.
Invece, due cause sono connesse per dipendenza dal titolo (o per pregiudizialità-dipendenza) quando sono tra di loro in rapporto di pregiudizialità tecnica o di pregiudizialità logica.
Si ha pregiudizialità tecnica quando l’esistenza e l’efficacia del diritto che è oggetto di una delle due cause dipende dalla esistenza e dalla validità di un rapporto giuridico differente.
La pregiudizialità logica, invece, si verifica quando il rapporto giuridico è uno soltanto e l’esistenza, la validità, l’efficacia di un diritto dipende dall’esistenza, dalla validità e dall’efficacia di un elemento che sta dentro quel medesimo rapporto giuridico di cui si parla in giudizio.
2.3. L’intervento adesivo autonomo (o litisconsortile) e l’intervento adesivo dipendente (o ad adiuvandum)
Con l’intervento adesivo autonomo il terzo fa valere nei confronti di una (o alcune) delle parti un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo (art. 105, co.1 c.p.c.). Il diritto vantato dal terzo è un diritto identico a quello già vantato da una parte (ad es. il socio che impugna una delibera già impugnata da un altro socio).
L’intervento adesivo dipendente, invece, si ha quando il terzo interviene per sostenere le ragioni di una parte. Infatti, l’art. 105, co. 2 c.p.c. dispone che un terzo: “può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse”.
Qui, a differenza di ciò che si verifica ai sensi dell’art. 105, co. 1 c.p.c., il terzo non fa valere un diritto bensì un interesse. Si evince che il terzo in questo caso non vantando un diritto non va a formulare una domanda giudiziale e conseguentemente può solo sostenere le ragioni di una delle parti.
Intervenire ai sensi dell’art. 105, co. 2 comporta delle conseguenze: in primis, la condanna al pagamento delle spese di giudizio. Infatti, se la parte le cui ragioni sostiene il terzo viene condannata al pagamento delle spese, anche l’interventore è tenuto al pagamento delle spese. In secondo luogo, nel momento in cui il terzo interviene, diventa una parte a tutti gli effetti e quindi gli effetti del giudicato si riverberano anche nei suoi confronti.
L’interesse di cui stiamo discorrendo, deve essere, però, un interesse specifico, cioè deve tendere a scongiurare il rischio di un pregiudizio. Questo vuol dire che il terzo può subire un pregiudizio indiretto dalla pronuncia resa inter alios. Il pregiudizio può essere giuridico (ad esempio, quello che si ha quando la sentenza attacca direttamente il contratto tra il conduttore e il proprietario dell’immobile) o di fatto (si pensi alle conseguenze per colui che si trova nell’immobile in caso di sentenza di sfratto).
Tra l’interventore ex art. 105, co.1 c.p.c. e l’interventore ex art. 105, co.2 c.p.c. ci sono indubbiamente delle differenze. Innanzitutto, l’interventore di cui al primo comma assume la causa nello stato in cui si trova e non può esercitare in quella causa poteri processuali che nel momento in cui interviene sono già preclusi alle altre parti del giudizio.
L’interventore di cui al secondo comma non propone una domanda, ergo non può svolgere tutto quel coacervo di attività processuali che invece può svolgere chi propone domanda; non può svolgere alcun potere processuale: ha solo la possibilità di argomentare, di fare delle deduzioni giuridiche.
Altra differenza molto rilevante è data dalla possibilità di impugnare la sentenza. Mi spiego. Se la domanda viene rigettata, l’interventore di cui al primo comma diventerà soccombente a tutti gli effetti, quindi potrà impugnare la sentenza. Invero, è molto difficile ipotizzare che l’interventore di cui al secondo comma possa impugnare la sentenza. L’idea è che l’interventore del secondo comma non proponendo domanda non acquista lo status di soccombente; ragion per cui non può impugnare perché non ha interesse ad impugnare.(5)
Se la giurisprudenza prevalente abbraccia quest’ultima linea di pensiero, c’è, però, chi paventa una possibilità di impugnazione nel caso in cui si dimostri che da quella sentenza si subisce un pregiudizio concreto, pratico. Il pregiudizio in tal senso finirebbe col legittimare l’impugnazione perché l’impugnazione resta limitata alle questioni specificatamente attinenti alla qualificazione dell’intervento. (6)
3. L’intervento coatto: intervento su istanza di parte e intervento iussu iudicis
L’intervento coatto è il mezzo con il quale un terzo interviene nel giudizio a seguito della richiesta fatta da una parte o per ordine del giudice.
L’intervento su istanza di parte è disciplinato dall’art. 106 c.p.c. ma va letto in combinato disposto con gli artt. 269 e 270 c.p.c.
Ai sensi dell’art. 106 c.p.c.: “Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita”.
Dalla lettera della norma si evince che una delle parti può chiedere al giudice l’autorizzazione a citare in giudizio altri soggetti.
In prima battuta è doveroso premettere una considerazione. La posizione del terzo interventore dell’art. 105, co.1 c.p.c. è differente rispetto alla posizione del terzo chiamato ex art. 106 c.p.c. Infatti, nell’ipotesi dell’art. 105 c.p.c. vi è un terzo che si presenta spontaneamente nel processo e formula una domanda. Questo terzo, seppur limitato perché assume il processo nello stato in cui si trova nel momento in cui interviene, assume a tutti gli effetti lo status processuale di attore.
Nell’ipotesi dell’art. 106 c.p.c., invece, il terzo chiamato non è un attore ma un convenuto e può svolgere tutte le attività difensive che normalmente si riconoscono al convenuto. Quanto appena detto, è razionalizzato nell’art. 269 c.p.c. e più precisamente nella norma vertente sulla chiamata del terzo in causa.
L’art. 269 c.p.c. dispone che se un terzo viene chiamato in giudizio, bisogna fissare un’udienza di trattazione “appositamente per il terzo” e concedergli un termine di 20 giorni (precedenti quest’udienza) per svolgere tutte le attività che a pena di decadenza può svolgere il convenuto ai sensi dell’art. 167 c.p.c.
La ratio della norma si basa sul fatto che se il chiamato in causa è un convenuto, deve poter svolgere domanda riconvenzionale, eccezioni in senso stretto e a sua volta istanza di chiamata di terzo in causa.
L’art. 167 c.p.c. infatti dispone che 20 giorni prima dell’udienza il convenuto deve dichiarare di voler chiamare un terzo in causa, a pena di decadenza. Quindi normalmente la chiamata del terzo avviene quando il convenuto nella comparsa di risposta depositata almeno 20 giorni prima dell’udienza dichiara di voler chiamare un terzo in causa.
Oggi si ritiene che la dichiarazione del convenuto di chiamare in causa un terzo debba essere filtrata dal giudice. Quindi, quando il convenuto dichiara di voler chiamare in causa un terzo nella comparsa di risposta deve dire in maniera molto chiara perché intende chiamare in causa un terzo, quale domanda intende far valere nei confronti del terzo e qual è la ragione di connessione tra quelle previste nell’art. 106 c.p.c. che giustificano la chiamata del terzo. Se il giudice autorizza il convenuto a chiamare in causa il terzo, la chiamata in causa del terzo non è il risultato di un evento automatico. Deve essere poi il convenuto che ha chiesto di chiamare in causa il terzo, una volta ricevuta l’autorizzazione del giudice, a chiamarlo. L’atto di citazione sarà notificato dal convenuto, che indicherà nella citazione come vocatio quell’udienza che il giudice ha fissato appositamente per il terzo.
Il terzo chiamato, ricevendo la notifica della citazione, diventa a tutti gli effetti un convenuto e nei 20 giorni prima dell’udienza potrà formulare domanda riconvenzionale, eccezioni in senso stretto e chiedere a sua volta la chiamata in causa di un terzo.
Molto singolare risulta, invece, l’art. 107 c.p.c. (letto in combinato disposto con l’art. 270 c.p.c.) vertente sull’intervento per ordine del giudice. Potremmo definirla come una norma fuori dal sistema, perché a chiamare in causa un terzo è il giudice d’ufficio. Si potrebbe paventare anche una illegittimità costituzionale della norma in questione, in relazione all’art. 24 Cost. (ciascun titolare del diritto può chiedere tutela dei diritti) ma il problema non è poi così pressante in quanto la norma gode di scarsissima applicazione.
Invero, la legittimità costituzionale sarebbe facilmente reperibile nella circostanza che il potere del giudice deve essere circoscritto ad una necessità emergente dagli atti di causa; infatti, l’art. 107 c.p.c. recita: ”Il giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l'intervento”.
Far emergere la comunanza della causa vuol dire che il giudice compie in realtà quella funzione che l’art. 106 c.p.c. rimette alle parti allorché chiedano al giudice di essere autorizzati a chiamare in causa un terzo, al quale ritengono la causa comune; con la differenza, rispetto a quanto previsto dagli artt. 106 e 169 c.p.c. che, mentre l’istanza di chiamata di un terzo in causa ad istanza di parte può essere contenuta soltanto nella comparsa di risposta tempestivamente depositata (se l’istanza la fa il convenuto) oppure nella prima udienza di trattazione (se l’istanza la fa l’attore come conseguenza della difesa svolta dal convenuto), nel caso di chiamata per ordine del giudice l’art. 270 c.p.c. la rende possibile in ogni momento. Infatti, la preclusione è aspetto intrasmissibile alla figura del giudice ma tipica zavorra delle parti.
Anche in questo caso il terzo chiamato in causa dal giudice riveste la qualità di convenuto.
Fondamentale risulta il comma 2 dell’art. 270 per il quale se il giudice emana l’ordine di chiamata in causa del terzo, però nessuna delle parti adempie, la causa viene cancellata dal ruolo.
In merito alla conseguenza della cancellazione derivante dal mancato rispetto dell’ordine da parte del giudice di chiamata in causa di un terzo, potrebbe essere interessante porre in essere un parallelo con altre norme. In primis, in caso di mancato rispetto dell’ordine del contraddittorio dato dal giudice in presenza di un litisconsorzio necessario (artt. 102 e 307 c.p.c.) il processo si estingue; in caso di mancata chiamata in causa di un terzo ad istanza di parte autorizzata dal giudice non si hanno conseguenze giuridiche (a parte il pagamento delle spese per aver fatto fissare un’udienza al giudice).
In tal senso, la sanzione della cancellazione della causa dal ruolo sembra essere molto gravosa, considerato che consiste in una vera e propria “anticamera” dell’estinzione: infatti, la parti sono tenute a riassumerla entro 3 mesi e chiamare il terzo in causa.
Note
- Cfr: G. Arieta, F. De Santis, L. Montesano, Corso Base di Diritto Processuale civile, Padova, 2013, pag. 253.
- Cfr: : G. Arieta, F. De Santis, L. Montesano, Corso Base di Diritto Processuale civile, Padova, 2013, pag. 258.
- Cfr: Cass. n. 25264 del 16/10/08; Cass. n. 3186 del 14/02/2006.
- Corte di Cass 26/05/2014 n. 11681;
Cfr: http://iusletter.com/il-regime-delle-preclusioni-nellintervento-del-terzo/ - Cfr: Cass., Sez. Un., 9 novembre 2011, n. 23299; conforme Cass. 23 ottobre 2001, n. 13000.
- Cfr: Cass. 10 marzo 2011, n. 5744.
Bibliografia e sitografia
- Lezioni del Corso di Diritto Processuale Civile, tenute dal prof. Francesco De Santis presso l’Università degli Studi di Salerno, anno accademico 2014-2015;
- G. Arieta, F. De Santis, L. Montesano, Corso Base di Diritto Processuale civile, Padova, 2013;
- http://iusletter.com/il-regime-delle-preclusioni-nellintervento-del-terzo/
Giurisprudenza
- Cass. n. 25264 del 16/10/08;
- Cass. n. 3186 del 14/02/2006;
- Cass 26/05/2014 n. 11681;
- Cass., Sez. Un., 9 novembre 2011, n. 23299;
- Cass. 23 ottobre 2001, n. 13000;
- Cass. 10 marzo 2011, n. 5744.